Cap. II della monografia: Gian Paolo Demuro, Dolo. I. Svolgimento storico del concetto, Pubblicazioni del Dipartimento di Scienze Giuridiche della
Università di Sassari, Giuffré Editore, Milano 2007, XVIII-283
pp.
Università di Sassari
Il
dolo nel diritto comune.
Dal
versari in re illicita al dolus indirectus.
Sommario: Premessa. – 1. Il
diritto penale barbarico. Dal principio “Die Tat tötet den
Mann” alle presunzioni di dolo. – 2.1. La rinnovata rilevanza dell’elemento soggettivo nel
diritto canonico. – 2.2. La
teoria del versari in re illicita.
– 3. Il
dolo in un diritto penale a dimensione processuale. – 4. Dal
versari in re illicita
all’ampliamento dei confini del dolo e alle presunzioni processuali.
– 5. Il
superamento del dolus malus
romanistico: la scuola dei commentatori. – 5.1. La semplificazione
nell’accertamento processuale: le presunzioni di dolo. – 5.2. Forme
di estensione del concetto di dolo: a) il dolus
generalis, b) la doctrina Bartoli
e c) la voluntas indirecta.
– 5.3. Deriva oggettivistica versus
dolo romanistico: un caso emblematico, il processo contro Johannes ab Aggere. – 6. Dal metodo casistico alla elaborazione
di concetti astratti: la concezione del dolo in Tiberio Deciani. – 7. La
teoria del dolus indirectus di Carpzov.
Una distinzione in precisi periodi degli svolgimenti del concetto di dolo non è proponibile, dato che dipende da fattori che sfuggono a una precisa indicazione temporale, quali la riscoperta del diritto romano e della filosofia aristotelica, l’influsso del diritto canonico e la rinascita della scienza giuridica con i glossatori e soprattutto con i commentatori. Dopo una breve descrizione del dolo nel diritto penale barbarico, illustreremo tutti questi fattori di sviluppo, iniziando dal contributo del diritto canonico ai concetti di responsabilità penale e di dolo.
Caduto l’impero romano, la considerazione dell’elemento soggettivo segue una parabola storica assai simile a quella delle origini greche e romane[1].
Vi è una prima fase in cui domina la considerazione oggettiva del fatto, o meglio del danno, la pena ha per scopo (è) il risarcimento del danno, giudice è lo stesso danneggiato, che così sfoga la propria vendetta. Rilevano indifferentemente sia il fatto volontario, che involontario o addirittura dovuto al caso: domina infatti una “considerazione puramente materiale dell’essenza del maleficio”[2], ben espressa nella formula “Die Tat tötet den Mann”[3]. Questa situazione, che fa ricadere il mondo del diritto penale alle primissime fasi delle civiltà, dura comunque poco. La distinzione tra fatti volontari e fatti involontari inizia a manifestarsi per singoli delitti, come l’incendio e l’omicidio[4]. Ciò è dovuto all’influsso del diritto romano, se non sotto un profilo di fonti, che rimarranno a lungo sconosciute, perlomeno come costume sociale tralatizio. L’attenzione all’elemento morale o soggettivo è poi certamente di derivazione canonica.
Il concetto di dolo nel diritto penale barbarico è del tutto vago: le espressioni usate, di derivazione romana, riassumono il concetto della “deliberata volontà di commettere il male”[5], formula che effettivamente esprime la labilità del concetto e la commistione con il profilo religioso[6]. Nessuna precisazione del concetto deriva dalla considerazione dei casi in cui la volontarietà viene esclusa. Le formule utilizzate richiamano indistintamente l’errore di fatto e di diritto, la colpa, la legittima difesa, lo stato di necessità, l’avere compiuto il fatto nel corso di una rissa.
Anziché l’analisi dei caratteri dell’elemento soggettivo, domina la fase dell’accertamento e si prendono in considerazione le circostanze di fatto dalle quali è dato presumere la presenza del dolo: l’avere occultato il reato, l’averlo preparato, le modalità con le quali il fatto è stato commesso. Sono, queste, prove (regole) formali che possono essere poste nel nulla solo dal giuramento contrario dell’accusato[7]. Il giuramento consente di dare rilievo all’errore sul fatto: così nel diritto longobardo con il giuramento non asto animo si poteva difendere dall’accusa di furto chi per errore aveva preso un cavallo altrui credendolo il proprio. La preminenza comunque dell’elemento oggettivo del danno è dimostrata anche dal trattamento del reato preterintenzionale. Avveratosi il danno, il reato è infatti ritenuto sempre presente. Non rileva che la volontà investa o meno l’evento più grave: la verificazione di esso è comunque sufficiente perché l’omicidio preterintenzionale sia represso come omicidio volontario. Così in termini netti la Legge visigota (VI,5,6): « Si dum quis calce vel pugno aut quacumque percussione iniuriam conatur inferre, homicidio extiterit occasio, pro homicidio puniatur »[8].
La Chiesa basa la sua pretesa giurisdizionale sulla propria concezione integrale della vita umana: pur distinguendo tra i fatti umani quelli temporali e quelli spirituali, non si disinteressa dei primi, in quanto anche essi sono tesi, ai suoi occhi, verso il bene supremo rappresentato dal raggiungimento del regno di Dio. La Chiesa dunque abbraccia tutte le possibili norme dirette a regolare i rapporti umani, e tende a comporle in un sistema ispirandosi ai fondamentali principi della sua concezione della vita e dei suoi fini[9].
Alle fonti di origine divina immediata o mediata (Vecchio e Nuovo Testamento e la traditio) fa riscontro il ius humanae constitutionis, la cui fonte sono i canones. I canones sono le norme di vita conformi ai precetti di Gesù. Questo termine generico subisce una specificazione tecnica in rapporto alle fonti che queste norme ponevano: quelle poste dal Papa si dicono, con termini mutuati dal diritto romano, constitutiones, edicta, rescripta, decreta, decretales (il termine più comune); il termine canones si restringe a indicare gli statuta conciliorum, le norme cioè approvate dai concilii. Del diritto divino e di quello umano si vanno formando le fonti di cognizione. Tra questi testi, di contenuto e carattere assai diverso[10], i più importanti dal punto di vista giuridico sono i cosiddetti Libri poenitentiales, che contengono l’elenco dei peccati con le relative penitenze, secondo le deliberazioni conciliari e le disposizioni pontificie[11]. In essi, data l’idea fondamentale che domina, del delitto come peccato e della pena come penitenza, è contenuto il primo nucleo del diritto penale canonico: tale concezione, che inciderà anche sul magistero punitivo laico, segnerà profondamente la storia del diritto penale[12]. Il dibattito culturale e religioso su di essi rappresenta – si osserva in dottrina – un elemento centrale della civiltà medievale, giacchè tocca e coinvolge non solo gli aspetti della salvezza e della perdizione eterna dell’anima, ma anche i momenti tipicamente terreni, umani e sociali, dell’azione individuale che può sconvolgere una pacifica convivenza[13]: proprio i fatti dei quali si occupa il diritto penale.
I principi del diritto penale canonico (non solo sostanziali ma anche procedurali) si diffondono lentamente anche nella pratica secolare[14]. Questi principi, insieme a quelli del diritto penale romano sui quali si basano, vengono a costituire quel diritto comune sul quale gli antichi penalisti fondano e appoggiano le loro opinioni: nel secolo XIII gli scritti giuridici si riferiscono al diritto romano e al diritto canonico; nel secolo XIV tale fusione si va sempre più accentuando, tanto che agli storici appare quasi impossibile tracciare una storia letteraria autonoma per ciascuna di queste branche. La fusione del diritto canonico con quello secolare è infine evidente nelle opere dei più celebri penalisti del secolo XVI, Claro e Farinacio[15].
Primo merito del diritto penale canonico è quello di affermare il carattere giuridico pubblico del delitto: solo in un contesto di repressione pubblica può assumere infatti importanza la diversa intensità dell’elemento soggettivo del reato. La Chiesa infatti non condanna solo i fatti che turbano l’ordine morale e religioso, come la bestemmia, l’eresia, il suicidio, ma considera reati anche fatti lesivi di altri soggetti o della società, perché anche in essi ravvisa una violazione dei doveri morali[16]. Ogni delitto nel contempo è peccato ed è punito (inizialmente) con le sanzioni penitenziali con le quali vengono puniti i peccati[17]. Dice Pessina: «se il Diritto romano ci porge il principio sociale e il Diritto germanico il principio individuale come fondamento della punizione, nel Diritto canonico, per l’efficacia del Cristianesimo, troviamo consacrato il principio sintetico o superiore dell’ordine morale, in cui si armonizzano gli interessi della società e quelli dell’individuo»[18].
Altro merito del diritto penale canonico è quello di riaffermare, dopo il diritto romano e insieme con esso, la rilevanza dell’elemento soggettivo[19]. Il diritto canonico riparte da quanto il diritto romano aveva posto in tema di dolo. Sono stati necessari secoli per ritornare ai punti fermi posti dal Digesto, che peraltro è un testo allora poco conosciuto perché di difficile comprensione[20]. A distanza di più di un millennio dalla sua emanazione, riprende a far da guida la Lex Cornelia de sicariis et veneficis.
Il diritto penale canonico aggiunge però qualcosa di suo: lega cioè la rilevanza dell’elemento soggettivo al libero apprezzamento nella commisurazione della pena. Mentre infatti il diritto romano in vario modo afferma l’elemento soggettivo ma non vi accompagna un sistema processuale nel quale possa emergere nei suoi livelli di intensità, il diritto canonico consente di commisurare la pena al diverso grado di colpevolezza, attribuendo rilevanza inoltre a circostanze aggravanti e attenuanti. La considerazione dell’elemento soggettivo è resa necessaria dalle finalità della pena. Infatti la pena ha certamente una finalità di prevenzione generale, ma con riferimento al colpevole essa mira a riconciliare il peccatore con la divinità offesa e a destare nell’animo dei colpevoli il pentimento[21]. E’ richiesta dunque una sorta di “capacità alla pena” perché questo pentimento e questa riconciliazione possano avvenire. Ecco spiegate allora l’esigenza che il soggetto attivo sia imputabile (capace cioè di intendere e di volere) e la presenza delle numerose disposizioni che riguardano l’età e gli stati mentali.
Ma inoltre, dato che la pena, tra gli altri suoi scopi, deve avere quello di riconciliare il colpevole con la divinità, la giustizia esercitata in nome di questa considera tutte le circostanze che sono in grado di influire sulla gravità del delitto. Questa considerazione complessiva, che già appartiene ai giudizi del “foro interno”, viene applicata anche nel “foro esterno”, per i fatti cioè che costituiscono sia peccato che delitto. Nel proporzionare la pena si deve tenere conto non soltanto della natura materiale del fatto criminoso (qualitas et quantitas delicti) e della condizione personale dell’autore (età, grado di istruzione, sesso e condizione sociale) ma anche del diverso grado di colpevolezza[22].
Dalle enunciazioni dei primi libri penitenziali e dei primi decretali emerge il ruolo decisivo della volontà nella affermazione della “responsabilità” (irregularitas). Le successive fonti ecclesiastiche fanno riferimento alla volontà per esprimere in generale il concetto di dolo, ma utilizzano anche – così come accadeva per il diritto romano – altre espressioni: dunque in diversi canoni troviamo non solo le parole voluntas (o voluntarie) ma anche le espressioni dolus, sciens, scienter, sponte, industria, studium, malum studium, deliberatio, malitia, animus laedendi, animus occidendi.
Il senso che questi termini esprimono è innanzitutto che il fatto illecito deve essere effetto della libera determinazione del volere. Questo elemento soggettivo deve necessariamente essere presente nel delitto, giacchè è principio generale del diritto penale canonico che tanto il peccato quanto il delitto sono fenomeni della volontà: l’unica differenza è che nel delitto questa volontà si manifesta esteriormente[23]. Le espressioni utilizzate (per esempio sciens) mostrano poi che l’idea del dolo è collegata alla rappresentazione del male da commettere. Questa rappresentazione può poi raggiungere l’intensità della premeditazione. Non vi è peraltro coscienza nel diritto penale canonico della distinzione dei due momenti, intellettivo e volitivo: dove è presente la rappresentazione del fatto non ci si pone il dubbio che a essa possa non accompagnarsi la volizione (del fatto).
Il dolo riprende i caratteri che erano propri del diritto romano. Dalle parole usate, ma soprattutto dalla natura che il delitto riveste per il diritto penale canonico, deriva poi che alla nozione di dolo si associa l’idea di malvagità (del fatto ma soprattutto dell’autore)[24]. Ad attribuire infine il senso di delitto a un fatto oggettivamente illecito contribuisce l’animus (laedendi, occidendi) con il quale l’azione viene compiuta. Peraltro nel caso dell’omicidio e delle lesioni le parole animus e voluntas erano talora usate indifferentemente. Tale animus esprimeva poi nel caso del furto il fine particolare che animava l’agente e rendeva lo stesso fatto punibile, cioè il dolo specifico di oggi: animus lucri faciendi.
Dal principio che il delitto è un fenomeno della volontà consegue che la responsabilità penale è esclusa quando il fatto si verifica indipendentemente dalla volontà umana: qui l’evento si considera infelicitas fati. Il concetto è espresso chiaramente in questo canone: «Crimen enim contrahitur, si et voluntas nocendi intercedat. Ceterum ea, que ex improviso casu potius quam fraude accidunt, fato plerumque non noxae imputantur»[25]. Così come accadeva nel diritto romano (e forse anche proprio per questo, dati i nessi del diritto penale canonico con il diritto penale romano) non appaiono chiaramente distinte le nozioni di caso fortuito e di colpa (negligenza, imprudenza, imperizia): nelle espressioni che contrappongono alla volontà il caso, quest’ultimo è da intendere pertanto come indicativo anche della colpa; la stessa dottrina canonistica per molto tempo comprende nell’homicidium casuale sia l’homicidium culposum che quello derivante da caso fortuito o forza maggiore[26].
Così come il diritto romano da un lato porta come eredità il concetto di dolo intenzionale, ma dall’altro lascia come base normativa una legge di ordine pubblico (la lex Cornelia de sicariis et veneficis) che già contiene gli strumenti per il suo superamento, nello stesso modo il diritto penale canonico pone le fondamenta per due fenomeni opposti: da un lato – come detto – recupera il senso originario romanistico della colpevolezza dolosa, ma dall’altro, attraverso la teoria del “versari in re illicita”, fornisce la base delle dottrine che snaturano l’essenza originaria del dolo.
La teoria del “versari in re illicita”, derivante dal diritto canonico disciplinare e penale[27], sorge per la valutazione dei fatti di omicidio e trova la sua più chiara espressione tra il dodicesimo e il tredicesimo secolo[28]. Secondo questa teoria il giudizio di colpevolezza deve essere formulato nel modo seguente. Innanzitutto si accerta se la morte sia conseguenza di una condotta non consentita: se si risponde affermativamente (dat operam rei illicitae) il soggetto agente dovrebbe risponderne; se si risponde negativamente (dat operam rei licitae) si dovrebbe adeguatamente provare se l’autore nel compiere un atto consentito abbia usato o no la necessaria cura[29].
Dall’inizio del tredicesimo secolo, accanto al dolo e alla colpa, a costituire la base dell’imputazione del fatto è dunque necessaria, ma anche sufficiente, solamente una condotta non consentita. Tutte le conseguenze gravano sull’accusato, anche quando l’evento mortale si verifica per caso:
“Versanti in re illicita (operam danti rei illicitae) imputantur omnia quae sequuntur ex delicto”[30].
Con la teoria del versari in re illicita il diritto penale ecclesiastico dispone di una regola di imputazione di facile e immediata applicazione, anche se forse non generale[31]. Le fonti riportano una serie di decisioni basate su tale regola; e quando invece si giunge a una assoluzione ciò avviene perché il soggetto «non dedit operam rei illicitae»[32], formula che peraltro può essere intesa in vari modi, tutti coerenti con la dottrina del ‘versari’: cioè o perché pur avendo tenuto una condotta illecita l’evento non ne è conseguenza, o perché l’imputato ha cagionato l’evento tramite un fatto lecito, o infine perché egli è estraneo (cioè non ha concorso) al fatto-base illecito o proprio non lo ha commesso. La dottrina del ‘versari’ diviene patrimonio della dottrina canonistica e si trasferisce comunemente anche nel terreno del diritto penale laico[33], influenzando in modo decisivo le successive figure della doctrina Bartoli, del dolus generalis e del dolus indirectus.
Alla sua nascita la teoria rappresenta la mediazione di un contrasto. Da un lato, l’opinione pubblica del tempo non è incline a esonerare da responsabilità chi abbia cagionato, anche solo casualmente ma in seguito a una condotta illecita, un fatto grave quale un omicidio; dall’altro lato, il diritto romano (determinante per la Chiesa) e la morale cristiana in virtù dei loro principi si concentrano sull’aspetto interiore del fatto. In questo conflitto, una artificiale mediazione è costituita da una dilatazione, invero la maggiore possibile, del concetto di colpevolezza, quale finisce per apparire la teoria del versari in re illicita[34]. Va comunque ricordato, quanto alla sua sfera applicativa, che già gli osservatori più antichi e quindi canonisti come Covarruvias e non canonisti come Raphael Cumanus, Bartolomeo Cipolla e Ippolito Marsili affermano che questa teoria non è mai assurta nel diritto penale canonico al rango di generale criterio di imputazione, ma trova applicazione solo in casi di omicidio[35]. Tutto ciò dimostra che non è tanto un problema di eredità del diritto penale canonico ma piuttosto di esigenze politico-criminali che si presentavano e si presentano in ogni epoca e che assegnano alla responsabilità oggettiva una sfera più o meno ampia di operatività.
Löffler (alla fine dell’Ottocento) giudica la dottrina del versari in re illecita ormai lontanissima dalla sensibilità di un moderno giurista. L’autore riconosce però il curioso destino di questa teoria: essa infatti si trova ancora a quel tempo conservata nelle legislazioni dei popoli più civilizzati[36].
Rispetto al periodo in cui scriveva l’autore tedesco, a distanza cioè di più di un secolo, la situazione non è mutata. Ancora oggi è presente nel nostro codice penale (all’articolo 42) un parametro di imputazione che va tradizionalmente sotto il nome di «responsabilità oggettiva», una forma di responsabilità in virtù della quale, cioè, un determinato evento viene posto a carico dell’autore in base al solo rapporto di causalità materiale, senza che si richieda dunque né che l’evento costituisca oggetto di una volontà colpevole (dolo), né che sia conseguenza di una condotta contraria a regole di diligenza (colpa). E la continuità col passato emerge chiaramente nella Relazione al Re: «Colui che coscientemente e volontariamente intraprende un’azione criminosa … deve rispondere di tutte le eventualità e di tutte le conseguenze della sua azione»[37]. In realtà si va oltre la genesi storica: mentre la teoria del versari in re illicita nasce per l’imputazione dell’evento (unico o ulteriore), oggi accanto alle ipotesi più numerose riguardanti appunto l’addebito di eventi, tale forma di responsabilità può porsi anche in relazione a qualsiasi elemento essenziale o accidentale del reato[38].
Le ipotesi riconducibili al versari in re illicita permangono nei moderni ordinamenti in ragione della permeabilità della responsabilità oggettiva al mutare (o al ripetersi) nel tempo delle esigenze politico-criminali[39]. La responsabilità oggettiva è anche oggi usata come risposta a esigenze di prevenzione generale e di semplificazione probatoria[40]: le stesse esigenze che contrassegnano la sua nascita, che motivano storicamente l’ampliamento del concetto di dolo e la presunzione di esso in sede processuale e che gli consentono di superare indenne l’epoca innovatrice dell’illuminismo giuridico.
Nel diritto vigente, e vivente, la questione della responsabilità oggettiva è dunque tuttora aperta, e meno residuale di quanto potrebbe sembrare[41]. La necessità della presenza di un coefficiente psicologico o comunque soggettivo in relazione a tutti gli elementi del fatto è l’argomento critico mosso ieri al versari in re illicita e oggi alla responsabilità oggettiva. E a questa forma di responsabilità la dottrina penalistica di oggi[42] rivolge critiche simili a quelle che dal punto di vista dello stesso diritto penale canonico, rivolgeva secoli fa Covarruvias[43]:
«Etenim aut haec irregularitas oritur ex illa culpa, quam quis habet in eo, quod operam dat rei illecitae; aut ex illa quae contingit negligentia non praecavendi, quae homicidio casuali poterant causam dare. Non oritur ex posteriori, ut omnes fatentur; quia ibidem constituitur irregularitas, etiamsi qui dabat operam rei illicitae adhibuerit diligentiam quam debet, praecavendo, quae nocere potuissent, et quae praecavere potuit ac tenebitur. Igitur irregularitas oritur ex priori culpa. Quod si ex priori culpa oritur, id mirum est, cum ea culpa nullo pacto ad homicidium pertineat»[44].
Covarruvias affermava dunque la necessità di un collegamento tra colpevolezza ed evento. La irregularitas nasce solo se vi è culpa: e questa colpevolezza sussiste non solo quando l’evento mortale è direttamente originato dalla colpa dell’autore materiale ma anche se tale evento deriva dalla sua negligenza nel non prevenire (“praecavere”) le circostanze che potevano dargli causa. La colpa si inserisce in un versari in re illicita. La conclusione, che pare oggi incontestabile, che la colpa possa configurarsi anche nello svolgimento di attività illecite e non soltanto nell’ambito di attività in sé lecite[45], era pertanto già propria delle prime critiche alla responsabilità oggettiva.
Prima di analizzare l’ampliamento del concetto di dolo rispetto alla sua base intenzionale romanistica, è necessario analizzare il contesto processuale in cui ciò avviene. Non si tratta di una premessa ma di una integrazione reciproca. Le forme successive al dolo intenzionale nascono in una dimensione processuale del diritto penale sostanziale.
In tutte le epoche, la storia del “penale” può essere pensata come la storia di una lunga fuoriuscita dalla vendetta. La prospettiva della fuoriuscita dalla vendetta (degli individui, delle società, degli Stati) si ritiene sia quella che meglio spieghi anche il processo di incivilimento nel medioevo[46]. Così nella prima fase dell’esperienza cittadina medievale, tra XI e XIII secolo, quando si tratta di crimini di un qualche rilievo la vendetta è un diritto, un mezzo ordinario di giustizia, con risalenti origini germaniche e radicato nella mentalità e nel costume. A differenza della faida, che ritualizza e circoscrive l’uso della violenza, la vendetta è una pratica non priva di inconvenienti per la vita associata, giacchè per sua natura induce disordini, misconosce norme, elude poteri, svaluta autorità. Essa dunque entra ben presto in crisi come pratica ordinaria di giustizia: i poteri pubblici la contrastano con dissuasioni e divieti, orientando i cittadini a forme di negoziazione. L’idea installata nella cultura delle prime comunità cittadine è che il delitto rappresenta in primo luogo un’offesa, che importa riparare più che punire, e che la riparazione consiste nella soddisfazione, passante per una trattativa. É una ‘giustizia negoziata’, riposante sul consenso, prima e più che sulla certezza[47].
Tra il XII e il XIV secolo il sistema cittadino italiano è investito da una trasmutazione radicale, che lo porta da una fase ‘comunitaria’, in cui i poteri pubblici orientano i cittadini a forme di negoziazione, a una ‘autoritaria’ dominata da partiti e assemblee, che sfocerà in regimi signorili e poi in Stati territoriali strutturati, attenti a garantirsi forme efficaci di giurisdizione. Come sempre, i mutamenti costituzionali si riflettono immancabilmente sul diritto penale, perché esso tende a conformarsi naturalmente alle logiche costituzionali dei poteri che lo esprimono. Questa trasmutazione imprime al penale un forte carattere di pubblicizzazione, dato che i governi cittadini avvertono che la giustizia penale rappresenta un decisivo mezzo di governo[48]. Si impone il principio per cui chi commette un delitto non solo danneggia la sua vittima ma offende anche la respublica, la quale ha diritto di soddisfarsi infliggendo una pena. Il sistema per dare seguito a tale principio è accordare al giudice poteri assai penetranti: ne nasce un processo di tipo inquisitorio destinato a connotare l’idea stessa di giustizia per un tempo lunghissimo, che arriva praticamente fino a noi[49].
E’ una giustizia penale “autoritativa”, che si giova (o meglio ne deriva) delle trasformazioni degli assetti istituzionali degli Stati della prima età moderna: è una giustizia diretta in primo luogo alla repressione (si impone l’idea che non c’è giustizia senza la punizione del colpevole), fondata sulla sudditanza, regolata da norme legislative e dottrinali, amministrata da apparati sempre più articolati e diffusi, progressivamente formalizzata, in un ambito in cui domina la scrittura. Questa giustizia viene composta dai giuristi nelle practicae, un intricato ma ingegnoso sistema, utile per i giudici e produttivo, nel tempo, di un diritto penale nuovo. Il sistema è ispirato alle seguenti linee metodologiche: «centralità del processo e del giudice, diritto penale misurato sulla tela giudiziaria, fattispecie costruite intorno ai modi di provarle, categorie penali (imputabilità, responsabilità penale, rapporto di causalità, colpevolezza, circostanze, tentativo, concorso, ecc.) elaborate a partire dalla commisurazione delle pene»[50]. Oggi i reati ‘a formazione giudiziaria’, definiti «tristi simulacri della legalità trasmigranti dall’antica congerie dei nomina delicti e cioè reati sprovvisti di un corpus e rimessi ad un incontrollabile apprezzamento giudiziario»[51], sono indicati come il segno tangibile della crisi che investe il dogma della strumentalità del processo rispetto al diritto sostanziale[52]. Fattispecie sostanziali concepite in vista del procedimento per accertarle, delle prove, delle facoltà del giudice erano invece i cardini del diritto penale ‘a dimensione processuale’ tra il XIII e il XVI secolo[53].
Le practicae criminales servono a legittimare la procedura e dettano al giudice la decisione davanti alla infinita varietà di casi che gli si presentano. L’utilità della pratica è bene espressa nelle parole di Ippolito Marsili: «Parum prodest habere theoricam ipsarum causarum criminalium sine practica». Il giurista fonde allora scienza ed esperienza in un’opera sola, destinata agli artifices iustitiae: il modello diviene per tutti il Tractatus de maleficiis di Alberto da Gandino. Ne deriva quella che Sbriccoli definisce “una sorta di ordito”, composto da prassi processuali e percorsi giudiziari, sul quale ordito si dispone una trama di figure delittuose intricate a esso con una fittissima rete di casi, fattispecie, circostanze; di definizioni, principi giuridici, massime e opinioni comuni, quaestiones et dubia; di tipologie indiziarie, modi e gradi di prova, tecniche di escussione, modelli e formule di procedimenti, di interrogatori, di sentenze. Il tutto con lo scopo di misurare su ogni singola figura l’an, il quomodo e il quantum della pena da applicare[54]. E’ un diritto penale ‘casistico’, che segue un modello logico-giuridico di derivazione scolastica perfettamente aderente alle caratteristiche di un’esperienza giuridica per nulla abituata a ragionare secondo schemi astratti: spesso le singole circostanze di realizzazione dell’illecito erano criteri di identificazione di un delitto. Obbiettivo principale, se non unico, delle practicae era quello di fornire esempi, offrendo soluzioni per le future controversie[55].
Le practicae sono sì orientate al processo, “pensate per i giudici”, ma contengono soprattutto principi e dogmi di diritto penale sostanziale[56]. Il diritto penale che emerge nelle practicae rappresenta la base di avvio per prassi ulteriori, costruendo un diritto penale sostanziale che mostri la regula recti a un potere di punire naturalmente tentato dall’abuso. La scienza penalistica, legata alle fonti romanistiche e statutarie, fedele al metodo analitico, mancava della capacità di sintesi e soprattutto non sentiva la necessità di riunire i singoli elementi in un sistema chiaro, deduttivo, basato su criteri generali e astratti applicabili in tutti i casi[57].
Quelle che appaiono come forme di allargamento del concetto di dolo nascono dunque in un sistema casistico, si pongono cioè come criteri di accertamento e solo il loro consolidarsi nella pratica gli attribuisce alla fine natura sostanziale. Struttura e accertamento del dolo diventano (sono) realtà interdipendenti, quando non la stessa cosa[58].
Progressivamente le nozioni vengono sottoposte a un crescente razionalizzazione, maturano elementi, categorie e istituti propri esclusivamente del diritto penale. Comincia ad affacciarsi, nella riflessione di qualche penalista (in particolare Tiberio Deciani) un principio di sistematicità. E’ questo il momento in cui per la prima volta nella storia si prende coscienza della necessità di dare autonomia al diritto penale, facendo della norma sostanziale un prius rispetto all’accertamento processuale della sua violazione. Nella nostra prospettiva di moderni, il processo penale è subordinato alle norme del diritto penale materiale, secondo la logica di una concezione imperativistica del diritto. Nella concezione assolutistica di “antico regime”, la giustizia che “preesisteva” era quella emanata dal Potere, non la legge come negli Stati liberali di diritto. Questa giustizia, attuata in modo “pragmatico”, induceva una concezione sui generis delle norme sostanziali: non prioritarie, non presupposte, ma rimesse al giudice che interpretava gli atti dei “giustiziabili” valutandone, principalmente, la pravitas, la nocività e il grado di disobbedienza che esprimono[59].
Abbiamo visto come sia stato merito del diritto penale canonico la riaffermazione, dopo il diritto romano e insieme con esso, dell’elemento soggettivo, e abbiamo inoltre segnalato l’instaurarsi di un collegamento tra la considerazione di questo essenziale elemento e il libero apprezzamento nella commisurazione della pena. Abbiamo altresì osservato come, attraverso la dottrina del versari in re illicita, il diritto penale canonico abbia ampliato, dal suo punto di vista, la sfera della colpevolezza.
A questi fattori, alla riscoperta delle fonti romanistiche e della filosofia aristotelica, si accompagna storicamente un fenomeno che segnerà lo sviluppo del concetto di dolo: la constatazione cioè dell’inidoneità del concetto romanistico di dolus malus, centrato sull’intenzione, a dare risposta alle esigenze di punizione che si manifestavano nella prassi e nei diversi contesti sociali e culturali. In particolare era essenziale trovare una risposta ai casi di divergenza tra il voluto e il realizzato, e in particolare a quelle evenienze in cui si verificava un evento diverso e più grave di quello che si proponeva l’agente (delinquit in plus incidendo in aliam speciem delicti)[60].
La risposta di ieri non è diversa da quella di oggi. Le vie sono (state) tre. La prima è quella del versari in re illicita, vale a dire oggi responsabilità oggettiva. La seconda è quella dell’allargamento del concetto di dolo. La terza risposta è quella delle presunzioni processuali. La prima risposta alle esigenze di punizione, il versari in re illicita, rappresenta una forma di allargamento della responsabilità penale e non una estensione dei confini del dolo. Una vera e propria estensione dei confini del dolo costituiscono invece le diverse forme di esso che vengono proposte nel medioevo. Infine, la presunzione del dolo si inseriva nel medioevo in un sistema processuale formale, di prove oggettive, mentre oggi che vige il principio del libero convincimento del giudice, semplificazioni probatorie e talora vere e proprie presunzioni del dolo, emergono solo nella prassi processuale.
Nel medioevo è indubitabile – come detto più volte – che il concetto di dolo sia quello tratto dalle fonti romane: e i Romani «… consideravano come dolosi solo i delitti commessi con dolo diretto, quelli cioè nei quali l’attività dell’agente è intenzionalmente indirizzata a produrre l’evento consumativo del reato»[61]. Così, con riferimento all’omicidio (assunto anche in questa epoca come ‘idealtipo’ del delictum, per l’immediata percezione della sua antigiuridicità, del disvalore del fatto e del bene leso[62]), si ritiene agisca con dolo chi ha animus occidendi, cioè chi agisce con intenzione di uccidere[63].
A questo riconoscimento non si arriva immediatamente. E’ infatti necessario fare chiarezza sul concetto romanistico di dolus, che reca con sé anche il significato di “artificio fraudolento”[64]. La maggior parte dei giuristi si accontenta delle parole di Labeone: dolus è “calliditas, fallacia, machinatio ad circumveniendum, fallendum, decipiendum”. Questa definizione di Labeone, come quella di Servio (“simulatio dissimulatio”), vale però solo a indicare una forma di manifestazione del dolo, quella direttamente derivante dal significato originario della parola. Già dalla lingua viva era emerso però un significato alquanto accresciuto, che racchiudeva nel termine “dolus” gli atti volontari consapevolmente antigiuridici, dall’esito mirato o almeno previsto[65]. Pone ordine Baldo degli Ubaldi, che distingue due forme di manifestazione del dolo: secondo Baldo “Duplex est dolus”, in quanto a un “Dolus velatus, qui committitur sine vi simulando et dissimulando”, si aggiunge un “Dolus apertus, qui committitur cum vi”. Questa è per lui l’intera portata del dolus malus romano: la volontà cattiva si manifesta e cerca di affermarsi o attraverso inganno e malizia (sine vi) o intaccando apertamente il diritto (cum vi). Baldo allarga dunque la definizione: “dolus est malitia in alterius damnum prorumpens”[66].
Questo passo in avanti non è ancora sufficiente. Teoria e prassi non rimangono ferme a questo concetto di dolo basato sull’intenzionalità del comportamento: sempre basandosi sulle fonti romane, ma spesso forzandone il senso, ne ampliano il concetto e forniscono alcune presunzioni di esso per esigenze meramente pratiche[67]. Risulta infatti decisiva la difficoltà – aumentata considerevolmente in quel tempo a causa del formalistico diritto probatorio – di provare nel caso concreto l’animus occidendi[68], a fronte della necessità di dare risposta alle aspettative di giustizia[69]. A maggior ragione quando si vogliono provare come dolo intenzionale casi non strettamente rientranti in esso.
Non è infatti solo una questione probatoria, di adeguamento al sistema processuale del tempo. Punire solo il dolo intenzionale così come derivante dalla tradizione romanistica significa non soddisfare le esigenze preventive e repressive della società del tempo. L’esigenza di rigore espressa nel “ne crimina maneant impunita”, quando si trova a fare i conti con la “camicia di forza” delle prove legali, conduce a sfigurare, progressivamente, il concetto romanistico del dolus, presumendolo, svuotandolo di contenuto, addirittura assimilandolo alla colpa[70]. Tali istanze politico-criminali ispirano l’imporsi nella scienza penalistica, allora agli albori, dell’idea, oggi comune, che nel fuoco della volontà non rientrano solamente i risultati avuti di mira, ma anche tutti quegli altri che sono previsti accanto a essi come certi o come (seriamente) possibili; detto altrimenti, che Absicht (animus) e Vorsatz (dolus) non possono essere lo stesso concetto, perché si danno casi al di là dell’intenzione, che non appartengono alla colpa, ma per la loro struttura psichica sono di regola analoghi all’intenzione, e dunque dolo, dal punto di vista della rimproverabilità penale[71]. Questi casi, nei quali l’evento è previsto come possibile, ma non è direttamente voluto, si pongono all’attenzione dei giuristi: tuttavia la loro considerazione non è agevole né dal punto di vista del concetto di dolo tramandato dalle fonti romane né dal punto di vista della allora affiorante idea di colpa[72]. Sul piano teoretico la soluzione potrebbe essere l’affermazione di una terza forma di colpevolezza a cavallo tra dolo e colpa[73]; ciò però presupporrebbe da parte dei giuristi medievali italiani una autonomia dalle fonti romane impensabile a quei tempi. Non rimane allora che far leva sulle due forme di colpevolezza esistenti (dolo e colpa); e la scelta è proprio quella di allargare il concetto di responsabilità per dolo anche ai casi in cui è da ritenere certa la previsione della realizzazione dell’evento, pur mancando la prova che esso sia anche (direttamente) voluto[74]. La previsione dell’evento e dunque il dolo vengono sempre affermati quando il fatto è in sé idoneo a far conseguire l’evento; la prova del dolo diviene pertanto in molti casi inutile e molti fatti colposi finiscono per essere ricompresi nel dolo[75]. Questo accento sul momento rappresentativo non richiede dunque l’effettivo riscontro nella psiche del reo, ma consiste tutto in un giudizio probabilistico di tipo oggettivo.
E’ dunque un’idea di dolo fondata non sulla reale previsione ma sulla prevedibilità. Essa non è però accolta così genericamente. La responsabilità sussiste infatti solo quando l’evento prevedibile sia in relazione con un’azione illecita precedente, che sia, almeno questa, effettivamente voluta. Rimane comunque la contraddizione tra una responsabilità (a titolo di dolo) fondata sulla semplice prevedibilità dell’evento e la nozione di dolo derivante dalle fonti, che richiede invece la volontà dell’evento tipico. Questo contrasto viene, di fatto, risolto agendo su due versanti: in primo luogo – come già segnalato[76] – forzando il senso di alcuni passi del Digesto, che eccezionalmente riconoscevano una responsabilità per un evento ulteriore in un contesto di base illecito (in casi cioè di reati aggravati dall’evento), e in tal modo apparentemente salvando la fedeltà alle fonti; in secondo luogo attingendo direttamente al principio canonistico del versari in re illicita.
Ai dottori medievali si pongono immediatamente le due questioni da sempre fondamentali in tema di dolo: primo, cosa sia questo fatto psichico, e secondo, come vada diagnosticato[77]. Ma dai dottori medievali, nell’ottica del loro diritto penale “a dimensione processuale”, questo ordine logico viene invertito. Più che sul “vago alone semantico” del concetto di dolus, ci si concentra sul tema dell’accertamento[78]. L’allargamento del concetto ne scaturisce quasi di fatto[79].
Il metodo più radicale di semplificazione probatoria è l’adozione di una presunzione generale di dolo. Così si legge tra gli altri in Alberto da Gandino (sec. XIII), nella rubrica De homicidiariis et eorum poena del De maleficiis: «Ex quo constat aliquem alium vulnerasse vel occidisse, vel alia homicidium commississe, semper contra eum praesumitur, quod dolo et malo animo hoc commiserit … unde ei incumbit onus probandi, quod non dolo hoc fecerit»[80]. E’ una presunzione che risulta “ex ipso facto et rei evidentia”, aggiungerà Antonius Gomesius. Ferimenti e uccisioni si presumono sempre commessi con dolo, salvo prova contraria da parte dell’autore.
Un secondo modo per superare i problemi probatori che pone l’impiego del dolus malus è la teoria del “dolus praesumptus”[81]. Anche questa teoria sostiene che la presenza del dolo sia da supporre fino a prova contraria. Il giudizio, tuttavia, deve fondarsi su indizi concreti e determinati, non esiste cioè alcuna presunzione generale di dolo. La casistica degli indizi sufficienti per la presunzione di dolo è vastissima: ad esempio per la presunzione dell’animus occidendi, assume un ruolo fondamentale la qualità delle armi e il modo in cui sono state usate dall’autore[82]. Al dolus praesumptus si ricorre quando non vi è il dolus verus/manifestus, il dolo cioè pienamente provato. La differenza pratica tra queste due forme di dolo risiede nella sanzione, che per il fatto commesso con dolus praesumptus è solo una pena straordinaria (lasciata cioè alla discrezione del giudice e perciò attenuata rispetto a quella capitale prevista per l’omicidio)[83]. Tutto sta nella Beweiskraft (forza di prova) dei sintomi[84]. Gli indizi insufficienti, che non basterebbero alla condanna in un sistema in cui l’onere della prova spetta all’accusa, nel “perverso” sistema inquisitorio del medioevo servono invece a forgiare l’equazione semiprova = condanna minore; quando invece siano risultati indizi irresistibili, l’imputato subisce una pena intera. La condanna a pena mitigata è segno della nascita dell’istituto, ritenuto “molto congeniale all’ordigno inquisitorio”, della “Verdachtsstrafe” (pena di sospetto). «Se alla ‘plena probatio’ corrisponde una pena ordinaria, le ‘semiplene’ motivano pene diminuite; e così viene punito anche chi sarebbe assolto se la cultura del sospetto non snaturasse i quadri induttivi»[85].
L’accertamento dell’elemento oggettivo e dell’elemento soggettivo, e il conseguente “meccanismo decisorio”, risente (allora come oggi) della differenza dei rispettivi temi: mentre un fatto fisico può essere accertato direttamente dal giudice o attraverso testimoni, l’interno psichico è solo inferibile da sintomi, ove manchi la confessione dell’imputato. «Rispetto al dolo, dunque, bastano alla condanna piena degli indizi il cui equivalente su condotta-evento motiva soltanto una sub-pena»[86].
In estrema sintesi, il dolus praesumptus realizza una commistione di processo e pena: si punisce con pena ridotta ove non ci sia prova piena della colpevolezza[87].
Accanto al dolus praesumptus la scienza giuridica e
la prassi si concentrano presto sull’ampliamento sostanziale del concetto
di dolo.
Alla base di ciò sta ancora e sempre, insieme alla difficoltà processuale di provare l’intenzionalità, la necessità di punire a titolo di dolo fatti che la coscienza sociale avverte quali meritevoli di pena ‘grave’ (cioè quella ordinaria del dolus verus e non solo quella attenuata del dolus praesumptus)[88]. Vengono dunque elaborate una serie di teorie sul dolo che si risolvono tutte, rispetto al dolus malus romanistico, in un rilevante ampliamento della responsabilità dolosa. Esse lasciano sullo sfondo la “volontà intenzionale” che caratterizza il dolus malus e tendono piuttosto a una oggettivizzazione del concetto di dolo[89]. Le teorie mirano sia ad allargare l’imputazione dolosa nei casi di evento singolo (idealtipo è il rapporto tra dolo di lesioni e dolo di omicidio) sia a dare risposta all’esigenza – che la prassi più spesso prospetta – dell’imputazione dell’evento aggravante (con riferimento in particolare in tema di concorso di persone alle responsabilità del mandante e dell’esecutore). Almeno formalmente, i commentatori cercano di trovare legittimazione nelle fonti romane, basandosi su frammenti del Digesto che – come già accennato e come ancora vedremo – vengono (più o meno volutamente) fraintesi.
L’estensione concettuale segue tre differenti vie: a) il dolus generalis, b) la doctrina Bartoli e c) la voluntas indirecta[90].
A) Il dolus generalis, ha la sua immediata origine nel principio del diritto canonico versanti in re illicita imputantur omnia, quae sequuntur ex delicto[91].
Da questo principio il canonista Giovanni d’Andrea (1270-1348) desume che risponda per adulterio anche colui il quale convive con una donna sposata, senza sapere che è sposata. Infatti la condotta è comunque ‘illecita’: rappresentando peccato, adulterio o no, la convivenza fuori del rapporto matrimoniale. Il limite a questa affermazione di responsabilità è costituito dall’impossibilità per l’autore di conoscere che la convivente sia sposata. Il fondamento per tale responsabilità sarebbe “et licet non in ea specie fuit, tamen dolosus in genere videretur”, cioè vi è egualmente dolo anche quando l’agente non si sia proposto di commettere il più grave delitto di adulterio. Questo esempio mostrerebbe l’essenza del dolus generalis: non si richiede più il riferimento della volontà a un determinato particolare evento, ma è sufficiente che l’autore in re illicita abbia agito con dolo “in genere”, rilevando a titolo di dolo il fatto diretto a un evento non consentito, diverso da quello verificatosi[92]. In breve, Giovanni d’Andrea riconduce l’evento più grave al dolo quando: 1) la condotta effettivamente voluta è non consentita; 2) l’agente non abbia agito nel singolo caso con la convinzione della impossibilità dell’evento diverso. Solo tale convinzione è utile per escludere il dolo: per esempio, nel caso dell’adulterio, “sciebat eam reputari solutam et talem esse credebat”[93].
La forte estensione del campo della responsabilità dolosa, che questa teoria reca, si spiega anche con la concezione canonistica della colpevolezza come peccato: chi ha commesso peccato ha comunque una maggiore responsabilità, perché si è arreso alla forza del male e ai suoi effetti. Da giuristi formatisi sul pensiero romanistico un tale ampliamento della responsabilità, soprattutto così motivato, non può essere accettato. Non si precisa infatti in alcun modo se tale proposta rappresenti una forma particolare di manifestazione del dolo del fatto-base, o se implichi il riferimento del dolo a un oggetto generalizzato, o a una fattispecie delittuosa ampliata[94]. La conseguenza è che l’influsso canonistico costituito dal dolus in genere serve a favorire la strada oggettivistica imboccata dalla dottrina italiana con la doctrina Bartoli[95].
B) La doctrina Bartoli, che deve il nome a Bartolo di Sassoferrato (1314-1357)[96], pur essendo ritenuta a lui precedente, è la teoria del dolo dominante, almeno fino al sedicesimo secolo, nella dottrina e nella giurisprudenza italiane.
Cino da Pistoia (1270-1336), predecessore e maestro di Bartolo, sostiene che quando l’agente cade «in aliam speciem delicti, in quam … non proposuit, tunc non tenetur»; e cita come fondamento per la esclusione della responsabilità il frammento D. 47.2.54pr., dove a chi ha scardinato una porta “iniuriae causa” non è attribuibile il furto successivamente commesso da altri, giacchè «nam maleficia voluntas et propositum delinquentis distinguit»[97]. Se in questo modo Cino limita la responsabilità oggettiva, d’altro canto cerca di fornire una base teorica all’imputazione dell’evento aggravante nei delitti qualificati dall’evento e ne trova l’intima ragione nella natura stessa del fatto delittuoso. Infatti «quia violentia est crimen ordinatum ad illud et alia facinora», essendo cioè fisiologiche nell’atto violento anche conseguenze ulteriori, di queste ultime rispondono tanto gli assalitori quanto il mandante: se la ragione della più grave responsabilità è insita nella natura stessa del fatto, perché non dovrebbe risponderne anche il mandante[98]?
L’imputazione dell’evento aggravante proposta da Cino non è l’unica disponibile. Oldrado da Ponte nello stesso periodo afferma: «Licet ex principali proposito et intentione intenderet solum possessionem rei suae habere, incidenter tamen et homicidium cogitavit, si resistentiam inveniret, et ideo secum armatos duxit». Secondo Oldrado dunque la responsabilità per l’ulteriore evento mortale non è da affermare sempre, ma solo quando chi vuole recuperare il possesso di una cosa sua abbia messo in conto l’eventualità dell’omicidio ove si opponga resistenza, e considerato ciò abbia portato con sé degli uomini armati. Si può vedere in ciò, «benissimo definita, la categoria del “dolo eventuale”: non basta un atto consapevolmente pericoloso; bisogna che l’autore, calcolati i rischi, se li assuma, risoluto ad agire qualunque cosa capiti; se nel calcolo prognostico avesse escluso l’evento più grave, saremmo di fronte a una colpa cosciente»[99].
Tra le versioni dell’imputazione dell’evento aggravante proposte da Cino e Oldrado, entrambi suoi maestri, Bartolo da Sassoferrato sceglie quella di Cino[100]. Fondamentalmente – viene da pensare – perché rispondente appieno alle esigenze di semplificazione probatoria. Non si dimentichi che quello di allora era un diritto penale casistico: necessitavano risposte chiare ed immediate.
Bartolo formula così la sua teoria (che poi dominerà almeno fino al sedicesimo secolo, nella dottrina e nella giurisprudenza italiane):
«Si delinquit in plus incidendo in aliam speciem delicti hoc adverte: si quidem delictum, quod principaliter facere proposuerat, tendit ad illum finem, qui secutus est, et tunc inspicimus eventum. Si vero ad hoc non tendebat delictum, quod principaliter facere proposuerat, tunc non tenetur».
Si richiede cioè che la condotta illecita iniziale rechi in sé la tendenza all’ulteriore evento: ciò che accade sempre nei casi nei quali solitamente i giudici attribuiscono la responsabilità dolosa secondo la doctrina Bartoli, cioè atti di violenza che sfociano in conseguenze più gravi (lesioni o morte). Con ciò, comunque, è posta (perlomeno) una importante limitazione all’imputazione indifferenziata degli eventi ulteriori secondo la teoria del versari in re illicita[101].
Sulla traccia di Cino, e generalizzandone l’applicazione, Bartolo afferma la responsabilità dell’autore della violenza per le conseguenze ‘naturali’ di essa: «violentia punitur secundum eventum, quia verisimiliter illud delictum tendit ad verbera et homicidia». La base normativa assunta dai postglossatori per giustificare questa teoria è fondamentalmente il passo del Codex (9,12,6[102]) nel quale all’autore di uno spossessamento violento vengono accollate tutte le conseguenze di questa vicenda, ivi comprese la morte o il ferimento delle persone coinvolte. Dato che il frammento inizia con l’assunto “Quondam multa facinora sub uno violentiae nomine continentur”, cioè “Poiché molti misfatti sono compresi sotto l’unico nome di violenza”, questo caso di eccezione (per motivi di ordine pubblico) rispetto alla regola del dolus malus romanistico viene assunto dai Commentatori quasi come espressione di una regola. L’autore dello spossessamento violento viene cioè punito non per un omicidio doloso ma per una violentia qualificata da più gravi conseguenze come ferimenti o uccisioni. Tutto ciò senza tentare di giustificare questa estensione di responsabilità mediante la prova di un dolo riferito alle conseguenze ulteriori. Il fondamento politico-criminale di questa estensione di responsabilità è così espresso nella Glossa: “quare durius puniri pro homicidio debet”; e questa necessità di rigore è giudicata sufficiente per fare eccezione al principio romanistico “voluntas et propositum distinguunt maleficia”[103].
L’essenza della teoria è che, data la palese tendenza oggettiva dell’azione a realizzare l’evento, l’autore deve (non può non) esserne conscio: quindi egli agisce con dolo[104]. Una base oggettiva utilizzata come presunzione processuale diventa cioè elemento concettuale. Il “praevideri posse” distingue la colpevolezza dalla non colpevolezza[105]. Tuttavia questo concetto per Bartolo non porta al riconoscimento di una responsabilità per colpa, ma è assunto come base per affermare direttamente il dolo. Così si attribuisce la responsabilità a titolo di dolo in casi come quelli di chi volendo ferire cagiona invece la morte, di chi facendo assumere pozioni (abortive o amatorie) pericolose provoca la morte, dell’incendiario per la morte delle persone nel rogo, del mandante per l’eccesso da parte dell’esecutore materiale[106].
Insomma, il nesso di causalità adeguata è sufficiente sia per l’imputazione oggettiva che per quella soggettiva (dolosa).
L’autore dunque risponde di ogni evento che (a un osservatore esterno) si delinea con una certa probabilità al momento dell’azione[107]. La doctrina Bartoli si caratterizza proprio per tale giudizio oggettivo, che facilita enormemente la prova, e che ne spiega dunque il successo[108]: essa dominerà almeno fino al sedicesimo secolo, nella dottrina e nella giurisprudenza italiane.
In fondo tale teoria consiste non in un ampliamento del concetto di dolo quanto piuttosto in una estensione – secondo i dettami del versari in re illicita – dei confini della responsabilità, al fine di potere applicare la pena ordinaria anche nei casi sopra citati. Infatti ciò che distingue la doctrina Bartoli dalle dottrine del dolus indirectus e del dolus generalis è che con la doctrina Bartoli non si cerca di stabilire un qualche rapporto di volontà tra l’animus dell’autore e l’evento non intenzionale, ma si rinuncia direttamente a questa relazione volitiva. Alla dottrina italiana importa solo il risultato pratico: la possibilità di applicare la pena ordinaria anche in quei casi nei quali in genere non è dimostrabile che l’evento sia stato preso di mira. Il reo dovrebbe rispondere “ac si habuisset animus occidendi”. Viene allargato non il concetto di dolo, ma l’applicabilità della poena ordinaria[109].
Che la doctrina Bartoli non ridisegni il dolo ma ne rappresenti piuttosto un sistema di semplificazione processuale è chiaro già a Bartolomeo Saliceto (1363-1412): “dolum esse” significa “dolo equiparari”.
Il passaggio dal punto di vista dell’osservatore a quello dell’autore, da una relazione oggettiva di pericolo a un dolo di pericolo, viene compiuto nelle successive riflessioni dallo stesso Bartolomeo Saliceto e da Baldo degli Ubaldi (1327-1400, il più filosofo dei giuristi): essi affermano la necessità che l’autore sia anche effettivamente consapevole delle possibili ulteriori conseguenze del fatto che si propone di compiere: dunque per loro il criterio di imputazione è il dolo di ‘messa in pericolo’ (Gefährdungsvorsatz), che comprende tutte le conseguenze del fatto rappresentate come possibili[110]. Il dolo diretto all’evento base (es. ferimento), assistito cioè da dolo intenzionale, rende probabili anche eventi tipici ulteriori, e dunque racchiude in sé anche questa probabilità, o comunque si rimprovera all’autore di non avere tenuto in conto l’ulteriore (probabile) sviluppo degli avvenimenti. Ci si accontenta così di un dolo di pericolo, che racchiude in sé, e non ne fa distinzione, dolo eventuale e colpa cosciente riguardo all’evento finale[111].
C) L’idea fondamentale della voluntas indirecta è che “im Wollen der Ursache mittelbar das Wollen der Wirkung liegt”, cioè “nella volontà della causa risiede indirettamente la volontà dell’effetto”. Ma solo la volontà dell’effetto che è solito seguire la causa. Il pericolo ha rilevanza solo come indizio[112]. Si tratta di una inferenza oggettiva: una sorta di “presunzione logica” (ma juris tantum).
Invero, la teoria della voluntas indirecta è solo apparentemente prossima al versari in re illicita: se ne distingue perché nella voluntas indirecta dalla volontà dell’azione viene inferita la volontà dell’evento, mentre nel versari in re illicita domina la supposizione di una volontà cattiva che si manifesta nella violazione del divieto e che fa sì che ogni conseguenza venga considerata colpevole. E’ un punto di vista, quello del versari, ecclesiastico-pedagogico prima che giuridico[113].
Diego de Covarrubias (1512-1577)[114], fondatore della teoria[115], distingue tra volontà indirizzata all’evento “directe” o “indirecte”[116].
«Directe enim fertur voluntas in homicidium, quando quis animum habet occidendi: et haec est perfecta propriaque homicidi malitia. Indirecte autem et per accidens fertur voluntas in homicidium, quoties fertur in id, ex quo immediate et per se, non per accidens homicidium sequitur. Nam in id, quod per accidens sequitur, nullo modo fertur voluntas nec directe, nec indirecte»[117].
Volontà diretta si ha quando l’autore dell’omicidio ha l’animus occidendi: e questa situazione psichica rappresenta la riproduzione del dolo (intenzionale) romanistico[118]; volontà indiretta si ritrova in quei casi in cui la morte consegue “immediate et per se”; invece nessun tipo di volontà (e dunque di dolo) esiste nelle ipotesi in cui la morte rappresenti un caso fortuito (per accidens). Chi, per esempio, intende ferire una persona e cagiona per un colpo più forte la morte, è “homicida voluntarius” perché la sua volontà si dirige direttamente al ferimento e indirettamente a tutte le conseguenze naturali che derivano da esso. Secondo Covarruvias questo concetto si riconnette all’insegnamento di San Tommaso, secondo cui il peccato diventa più grave quando da un’azione deriva necessariamente o solitamente un evento più grave[119].
L’homicidium voluntarium commesso con voluntate indirecta viene sanzionato con pena diminuita rispetto a quello commesso con verus animus occidendi: e ciò perché “quasi minuatur peccatum pro ratione indirectae voluntatis et ob imperfectionem voluntarii”. Covarruvias non ricorre ad alcuna presunzione nell’accertamento, ma afferma che il grado di colpevolezza deve essere desunto dalle circostanze del fatto, come per esempio dalla qualità degli strumenti adoperati e dal modo del loro utilizzo[120].
In breve. Covarruvias distingue:
a) l’homicidium voluntarium voluntate directa commissum (il vero e proprio omicidio doloso);
b) l’homicidium voluntarium voluntate indirecta commissum (che comprende i casi oggi qualificati di dolo eventuale e di colpa con previsione);
c) l’homicidium casuale (figura nella quale rientrano anche i casi di colpa incosciente).
Delitto, per lui, è solo quello volontario, ma sia direttamente che indirettamente. Avvalendosi del fatto che il concetto di voluntas indirecta è dimostrabile attraverso la consapevolezza della possibilità dell’evento, egli fa rientrare la colpa con previsione (ma solo questa) nella nozione di volontario e dunque di delitto. Da questa nozione rimane esclusa la colpa incosciente, che Covarruvias chiama casus.
A Covarruvias viene attribuito il merito di avere aperto la strada della rinuncia alla considerazione del dolo intenzionale come unica forma di dolo. Egli, contraddicendo apertamente l’insegnamento delle fonti, ravvisa l’essenza del dolo nella volontà e non più nell’intenzione: ed essendo il concetto di volontà più ampio di quello di intenzione, accanto al dolo derivante dalle fonti romanistiche trova spazio un’altra specie di dolo, quello indiretto (o di previsione), indistinto dalla colpa cosciente[121].
Sul piano dell’ambito di imputazione la dottrina della voluntas indirecta non si differenzia dalla doctrina Bartoli: essa comporta infatti l’imputazione di tutte le conseguenze prevedibili dell’azione dolosa, anche quando esse non sono direttamente volute, sconfinando dunque dal campo del dolo a quello della colpa in senso stretto[122]. Le differenze tra le due teorie sono invece sia di tipo concettuale che sanzionatorio. Mentre i seguaci della doctrina Bartoli abbandonano l’assunto che la volontà dell’offesa è la sola causa di imputazione, la dottrina della voluntas indirecta cerca di conciliare il risultato con il principio che solo l’offesa voluta è da imputare[123]. Quanto al profilo sanzionatorio, mentre per la dottrina italiana la responsabilità sulla base della doctrina Bartoli richiede l’applicazione della pena ordinaria, secondo Covarruvias, coerentemente e finalmente, la volontà indiretta fonda un grado minore di colpevolezza e di conseguenza può comportare solo una pena straordinaria [124].
Se quindi la grande maggioranza dei giuristi di quel tempo va oltre il punto di partenza della dottrina del dolo, cioè il dolo intenzionale, tuttavia non mancano voci tra gli italiani che disapprovano tale sviluppo (o meglio, per essi, snaturamento). Il dissenso si manifesta in un processo divenuto famoso, in cui si contrappongono chi, in tema di accertamento del dolo, propugna una soluzione basata sulla dimensione oggettiva del pericolo (sulla prevedibilità) e chi invece difende la necessità di provare un’effettiva partecipazione psichica del soggetto agente.
La vicenda (un leading case di quei tempi) è la seguente. Johannes ab Aggere incarica un suo servo, Ambrogio, di “dare una lezione” a un suo nemico, Bartolomeo. Il mandato ricevuto da Ambrogio consiste nel «signare seu vulnerare», cioè nel lasciare un segno (percuotere) o ferire, e dall’incarico viene escluso l’omicidio: «nullo modo occidere». Nell’eseguire l’ordine Ambrogio ferisce con la spada Bartolomeo così gravemente da ucciderlo. Che dell’evento mortale debba in qualche modo rispondere anche il mandante sono tutti d’accordo: l’oggetto della discussione è però proprio il titolo della responsabilità, dolo secondo l’accusa, colpa secondo i difensori.
Nel suo consilium contra reum[126], Bartolomeo Cipolla sostiene la responsabilità dolosa, avendo agito il mandante almeno con dolo di pericolo. Egli propone due argomenti.
Il primo argomento vagheggia il dolo eventuale[127]: «in casu nostro habuit animum occidendi tacite, quo mandavit illud, ex quo verisimiliter mors poterat evenire». L’effetto mortale di una ferita è “vicinum ipsius vulneris”, perché da ogni ferimento con un’arma pericolosa può scaturire la morte: dunque è plausibile sostenere che nell’ordine di ferire non sia possibile escludere la considerazione dell’eventuale esito letale. Inoltre, configurando il ferire una «proxima et sufficiens causa mortis», il divieto di uccidere sarebbe incompleto se non includesse anche quello di ferire. Giacché dunque il mandante deve avere messo in conto la possibilità dell’uccisione, egli può dirsi averla anche voluta, e deve dunque essere giudicato come se avesse davvero dato l’ordine di uccidere: «quia debuit cogitare mortem evenire posse, et videtur velle, ... perinde sit, ac si simpliciter mandasset eum occidere».
Il secondo argomento di Cipolla è il seguente: pur se manchi la previsione con annessa (implicita) volizione, la responsabilità dolosa sarebbe comunque da affermare sulla base della doctrina Bartoli: «licet mandans non habuisset animum occidendi, tamen, quia culpa tendit ad mortem, debet teneri de morte» perché «inspicitur eventus, quando quis delinquit in plus quam cogitavit, et delictum, quod facere proposuerat, ad hoc tendit». In questa logica risulta irrilevante il limite che il mandante aveva posto all’esecutore, non essendo in potere di quest’ultimo graduare l’effetto: «vulnera non datur ad mensuram». Poiché l’azione, cioè il ferimento con un’arma, porta con sé – aggiungeva Cipolla – il palese pericolo dell’uccisione, anche l’evento più grave deve essere imputato al mandante; cita poi un altro commentatore, Antonio da Budrio (1338-1408), secondo il quale “punitur delictum ad limites delicti et non ad limites intenti”.
Mentre con il primo argomento si svaluta di fatto la rilevanza dell’animus occidendi, accontentandosi di un dolo “eventuale”, con il secondo argomento ci si accontenta semplicemente di una “tendenza” puramente oggettiva, senza riflessi, neppure presunti, di ordine soggettivo. Con il primo argomento Cipolla cerca di dimostrare un effettivo dolo (eventuale) di omicidio, un’effettiva volontà dell’evento. Con il secondo si limita a presumere la consapevolezza da parte del mandante di mettere in pericolo la vita del suo nemico, sufficiente – una volta sopraggiunto l’evento (presunto come) previsto – per imputargli il fatto a titolo di dolo[128]. «Nella consapevolezza del pericolo egli vede il dolo di mettere in pericolo, ed equipara dolo di pericolo e dolo di offesa. Così trasforma il delitto (di danno) colposo in delitto (di pericolo) doloso»[129]. Si può notare qui la stretta vicinanza di significato tra dolo eventuale e dolo di pericolo.
I difensori non contestano il riferimento alle fonti ma affermano che sono state male interpretate, dato cioè che esse non sono «ita supine intelligendae, sed cum grano salis moderandae». Così, andrebbe distinta la situazione in cui un atto delittuoso colpisce anche persone diverse da quelle a cui l’autore mira, dalla situazione in cui l’agente tende a un determinato delitto e ne sia invece scaturito un altro (cioè come oggi va distinta l’aberratio ictus dall’aberratio delicti e dal delitto preterintenzionale). I difensori fanno notare che nelle fonti si ritrova che il dolo va affermato solo quando il mandante, presente sul posto, di fronte alla resistenza opposta agli esecutori dalla vittima, abbia insistito sul piano offensivo; quando invece il mandante abbia escluso espressamente dall’incarico i colpi mortali, non è pensabile una responsabilità dolosa rispetto a un evento non voluto[130]. Uno dei difensori contesta poi l’interpretazione spesso fornita dai giudici secondo cui se da un’azione dolosa deriva un evento più grave di quello voluto esso sarebbe sempre da ricondurre al dolo: infatti quando Bartolo afferma “in poenis statutariis non inspicitur animus sed factum”, egli vuole solo dire, naturalmente, che “solus animus [cioè la pura cogitatio] non punitur, nisi sequatur etiam effectus”. Un altro difensore conclude che Johannes ab Aggere deve rispondere della morte “quia spectatur eventus et non animus: sed non punitur de homicidio doloso, sed culposo”; e colposo in quanto “poterat praemeditari, quod ex vulnere mors sequeretur vel sequi posse”.
I difensori contestano così che si abbia dolo anche quando l’autore, data la natura della sua azione, dovrebbe riconoscere la possibilità dell’evento e dunque si possa ritenere consapevole del pericolo. Il dolo richiederebbe – secondo loro – l’intenzione diretta all’evento, l’animus occidendi. Essi criticano l’interpretazione corrente secondo cui Bartolo ricondurrebbe l’evento ulteriore e diverso al dolo, e sostengono invece che il riferimento di Bartolo è alla colpevolezza (e dunque eventualmente anche alla colpa). In definitiva quando l’autore avrebbe dovuto riconoscere che la morte è conseguenza possibile della lesione, l’addebito di responsabilità può essere solo di tipo colposo, e quindi punibile – e questo è ciò che conta agli effetti pratici – extra ordinem (con pena attenuata)[131].
Dopo la loro pubblicazione, i pareri dei difensori conquistano fama immediata e per lungo tempo, anche nella letteratura tedesca del diritto comune, tutti i più importanti autori tengono conto delle loro argomentazioni.
In un caso analogo, mezzo secolo dopo, la doctrina Bartoli viene ancora più nettamente smentita. Franciscus ha dato incarico di ferire Iohannes, vietando però espressamente di ucciderlo. Anche qui è sopravvenuta la morte. Stando a Bartolo il mandante dovrebbe rispondere di omicidio doloso: come dice Baldo degli Ubaldi, «ac si mandasset homicidium fieri». Filippo Decio (1454-1535), altro grande giurista, ribatte: «quantum ad homicidium secutum, fuit in culpa e non in dolo». Mancava infatti l’«animus committendi homicidium, quia limitata fuit voluntas in vulneribus»; che poi l’atto di ferire possa sfociare nella morte, è circostanza utile per diagnosticare la colpa non il dolo. Cipolla confonde dunque il dolo con la colpa. Sempre Cipolla pone una distinzione tra i casi in cui il contesto iniziale è lecito e quelli dall’origine illeciti: secondo invece Filippo Decio, questa distinzione è priva di senso. Non importa infatti che l’atto sia in origine contrassegnato dal dolo (e sia illecito): rispetto all’evento non voluto, un fatto per sua natura colposo resta tale sia che la condotta base sia lecita che illecita[132]. Una massima – questa formulata da Filippo Decio – oggi codificata negli artt. 83 e 586 c.p.[133]; e, secondo l’interpretazione conforme al principio di colpevolezza, contenuta anche nell’art. 584 c.p. e nei delitti aggravati dall’evento[134].
Le prime critiche alla doctrina Bartoli – comunque dominante – non sono solo di Filippo Decio. Nello stesso periodo, Ippolito Marsili, altro influente autore, pone l’accento sulla voluntas e sul propositum quali elementi necessari per la responsabilità dolosa; e dunque quando alcune persone aggrediscono taluno senza “animus occidendi” ma “animo et intentione bastonandi”, e l’aggredito muore, “isti interfectores de occiso non tenetur, sed aliter mitius puniuntur, cum ultra propositum delinquerint”. Dunque la pena ordinaria è da limitare ai fatti commessi con il corrispondente animus; una pena più mite è da infliggere per i fatti commessi ultra propositum[135].
Solo qui e ora, attraverso questa distinzione sanzionatoria rispetto all’omicidio doloso, può dirsi emergere davvero la figura del delitto preterintenzionale (ultra propositum).
Il modello tardo medievale, di tipo casistico, segnato dal sodalizio (se non dall’identità) tra iudex e doctor iuris nell’amministrazione della civitas, entra definitivamente in crisi nel XVI secolo, quando le pretese assolutistiche ed espansionistiche, con la conseguente centralizzazione dell’apparato giudiziario repressivo voluto dalle nuove entità politiche che rivendicano assoluta sovranità (Principati, Signorie, prime forme di Stato), si scontrano con l’organizzazione della giustizia statutaria[136]. L’avanzare della nuova idea di Stato (o comunque di potere accentrato) comporta un’inversione di tendenza: regole imposte dall’alto, uniformità interpretativa e chiarezza definitoria. La legge assume i compiti prima lasciati a giurisprudenza e dottrina e controlla la giustizia tramite strumenti tecnici e strategie processuali[137].
Nella seconda metà del Cinquecento affiorano dunque i primi segnali di un approccio nuovo al diritto penale[138]. Abbiamo visto come fin qui non ci si sia concentrati sull’aspetto definitorio del dolo ma si siano dettate piuttosto regole di ascrizione di esso in sede processuale. Ora la scienza penalistica inizia a concentrarsi sul diritto penale sostanziale, analizzando istituti, elementi e delitti in modo separato e autonomo dal loro ruolo processuale. Accanto all’esigenza politica di superare lo stile casistico, la dottrina segnala, quali ragioni di questo cambiamento, le influenze metodologiche della scuola umanistica, i nuovi stili della didattica e la conseguente comparsa di una letteratura penalistica che, commentando passi giustinianei, focalizza l’attenzione sui temi sostanziali[139]. Si creano così presupposti e condizioni per la separazione del diritto penale materiale da quello processuale, prospettando la strumentalità del secondo rispetto al primo. L’autorità pubblica, per consolidarsi, ha bisogno del diritto penale: legislatore e scienza giuridica scoprono e sfruttano l’efficacia generalpreventiva del diritto penale sostanziale, le sue potenzialità d’ordine e di indirizzo dei comportamenti sociali. Esigenze di razionalizzazione e semplificazione dell’assetto espositivo si incontrano con l’interesse preferenziale del Princeps per il diritto penale sostanziale, «capace di tradurre direttamente in precetti coercitivi le sue volontà imperative e velleità dominative»[140].
Il più alto livello di razionalizzazione e chiarezza si ritiene venga raggiunto da Tiberio Deciani nel suo Tractatus criminalis (1590), opera basata su due pilastri fondamentali: la separazione del diritto penale sostanziale da quello processuale e l’elaborazione di una parte dedicata ai generalia del delitto, ai principi e alle regole del reato come concetto astratto[141]. L’opera di Tiberio Deciani è particolarmente importante per la nostra analisi perché essa, pur dall’interno della riflessione tradizionale, si pone come la fine di un percorso: porta a compimento un lento itinerario di maturazione dommatica e segna nel contempo l’inizio di un discorso destinato a continuare nel tempo[142].
Nella sua diffinitio del dolo penale compare il tentativo di conciliare l’aspetto sostanziale con quello processuale e probatorio. Innanzitutto Deciani riafferma nettamente la distinzione ontologica tra dolo e colpa: «Dolus voluntatis sit vitium, culpa intellectus et memoriae»[143]. Non solo: «Si culpa tantum intercedat, non erit vere maleficium, sed quasi maleficium». La voluntas è l’essenza del dolo e dunque del delictum: senza di essa e in presenza invece di imprudenza o negligenza si può avere solo un quasi delitto da sanzionare con pena più mite. La culpa lata non può essere equiparata al dolo proprio perché è culpa e non dolus: essa è infatti contrassegnata da imprudenza e negligenza e non da voluntas[144].
Dopo aver posto l’accento sul carattere volontario del dolo, Deciani risolve la confusione tra il concetto di dolo afferente (soprattutto) al diritto civile e quello invece prettamente penalistico.
La definizione romanistica del dolo quale «machinationem quandam alteris decipiendi causa, cum aliud simulatur et aliud agitur» (D. 4,3,1,2), basata cioè sull’inganno e sulla simulazione, non è quella avente validità generale ma vale solo a contrassegnare una particolare species delicti, il crimen doli (chiamato anche crimen stellionatus, l’attuale truffa), una fattispecie aperta, per sua natura non definibile a priori, la cui individuazione nel caso concreto e la cui correlativa sanzione sono rimesse alla discrezionalità del giudice[145]. Questa situazione rappresenta ancora un residuo della dimensione casistica e processuale del diritto penale sostanziale: infatti, solo nella fase giudiziale di inflizione della pena emerge il profilo individuale-sostanziale di questa fattispecie di reato.
Ma più che come species delicti, con il relativo sistema di individuazione (quasi creazione) processuale invece che sostanziale, il dolo – nell’opera di Tiberio Deciani – vale soprattutto come qualitas in singulis delictis[146], qualità essenziale che connota il vitium voluntatis, che porta il soggetto a compiere un atto o per se o immediate causa del delitto. Il dolo è qui elemento costitutivo essenziale dei delitti ed esso sussiste sia quando il soggetto vuole direttamente (per se) commettere il delitto sia quando l’autore vuole e compie un atto che è causa immediata (immediate) del reato. In questa struttura del dolo appare netto l’influsso di Covarruvias, secondo il quale chi intende ferire una persona e cagiona per un colpo più forte la morte, è “homicida voluntarius” perché la sua volontà si dirige al ferimento e a tutte le conseguenze naturali che derivano da esso. Così come per Covarruvias, anche per Deciani questa consequenzialità deve comunque essere provata dalle circostanze del fatto e non vale in questa situazione alcuna presunzione generale di connaturalità[147]: vero dolo è solo quello che ex proposito intercedit e non va confuso con il dolus in re ipsa avente valenza solo civilistica, per la nullità di un atto, e invece inammissibile quando si tratta de poenis delictorum[148]. Tiberio Deciani compie anzi lo sforzo di distinguere, nel tema delle qualitates delicti, tra profilo probatorio dell’animus del reo e dimensione sostanziale della colpevolezza come ubi consistam del delitto, «tra funzione descrittiva e valutativa della voluntas nella particolarità dei casi e categoria strutturante del modello unitario e astratto di illecito penale»[149]: distinguendo dunque anche a proposito del dolo il profilo processuale e probatorio da quello sostanziale.
Il problema della distinzione tra diritto penale sostanziale e diritto penale processuale emerge poi quando Deciani analizza la differenza, dibattuta e imprecisa, tra dolus verus e dolus praesumptus. Questa divisione veniva utilizzata prima di Deciani sia in campo processuale che sostanziale.
In campo processuale aveva importanti riflessi probatori, dato che si parlava di dolus verus per indicare i casi in cui l’animus delinquendi risultava in modo evidentemente innegabile e di dolus praesumptus quando invece era necessario ricorrere a congetture e indizi.
In campo sostanziale l’espressione dolus verus indicava la forma di colpevolezza necessaria nei delitti il cui grado di partecipazione psicologica era variabile e dunque da provare caso per caso, come per esempio l’omicidio; per dolus praesumptus si intendeva invece la forma di colpevolezza propria dei delitti tipicamente e per definizione dolosi (adulterio, spergiuro, furto, falso), in cui cioè il versari in illicitis implicava che l’animus doloso non dovesse essere allegato e provato poiché «dolus et scientia praesumitur»[150]: una sorta di fattispecie soggettivamente pregnanti, diremmo oggi.
Anche all’interno di quello che è dolus verus, le distinzioni dei criminalisti (prima di Deciani) facevano dunque dipendere i diversi gradi di responsabilità dolosa dai differenti livelli probatori, graduando la sanzione sulla forza degli indizi e combinando e confondendo dunque profili processuali con elementi e presupposti sostanziali.
Tiberio Deciani pensa in modo parzialmente diverso[151]. Il dolus verus consiste in ciò:
«verus dolus est illus, qui non
nisi in malam partem interpretari potest, nullaque ratione aut praetextu
tergiversari potest reus aut se excusare, quin dolose id admiserit».
Il dolus praesumptus risponde a questa seconda definizione:
«praesumptus autem dolus est, cum eius quidem coniecturae extant, sed
non tam vehementes, quae iudicem in certam credulitatem inducant, ut non possit
in bonam etiam partem interpretari».
Questa distinzione ha uno scopo preciso: «haec autem divisio tendit, ut sciamus dolum verum magis gravius puniri, quam praesumptum». Fin qui nulla di nuovo: anche in Tiberio Deciani, l’intensità del dolo si misura in base al grado di accertabilità processuale: più è semplice la prova del dolo maggiore è la responsabilità e dunque la pena. La novità sta invece nella coscienza che l’accertamento di ogni ipotesi di dolo, anche di quello vero, trattandosi dell’indagine su uno stato interiore, non può che basarsi su congetture legate alla particolarità del caso concreto: «non nisi coniecturis licet evidentioribus probari possit»[152] e ancora «dolus non praesumitur nisi probatur»[153]. La differenza dunque tra le due forme del dolus verus e del dolus praesumptus si riduce a una semplificazione probatoria del primo rispetto al secondo[154]. Ma tutti e due, anche il dolus verus, devono essere provati: in primo luogo perché il dolo è elemento essenziale del reato, come traspare sia trattando in generale dei naturalia del reato, sia in particolare descrivendo il grado di colpevolezza nelle singole fattispecie; in secondo luogo perché, essendo un atteggiamento interno alla psiche del reo, non può che essere inferito dalle circostanze in cui si manifesta.
Nel diritto
germanico
La teoria del dolo è qui a lungo (per circa duecento anni) dominata dalla dottrina del dolus indirectus di Benedikt Carpzov (1595-1666)[158].
Egli afferma, nel 1635, nella sua Practica nova imperialis Saxonica rerum criminalium, (quaestio I, n. 31):
«Voluntarie
quoque occidere videtur non solum is, qui animus habet occidendi, sed et qui vulnerando
causam mortis praebeat: Fertur enim voluntas quandoque in actum homicidii
directe et per se, quandoque indirecte et per accidens: Directe fertur voluntas
in homicidium, quando quis animum habet occidendi, et haec est perfecta,
propriaque homicidii malitia. Indirecte autem et per accidens fertur voluntas
in homicidium, quoties fertur in id, ex quo immediate et per se, non per
accidens homicidium sequitur : Nam in id, quod per accidens sequitur,
nullo modo fertur voluntas, nec directe nec indirecte».
Per fondare la sua dottrina Carpzov fa proprie le determinazioni di Covarruvias sulla voluntas indirecta[159]. Dunque “duplicem esse voluntatem committendi homicidii, directam et indirectam”: pertanto agisce con dolo diretto “qui occidendi animo aliquem aggreditur”, mentre con dolo indiretto “qui vulnus infligit ex quo immediate sequitur homicidium”[160].
Il dolus directus rappresenta la forma di voluntas perfecta e si ha quando vi è animus occidendi, l’intenzione (Absicht) cioè di conseguire l’evento (antigiuridico): Carpzov, in omaggio alla tradizione, richiama espressamente la Lex Cornelia de sicariis et veneficis.
Il dolus indirectus è anch’esso voluntas ma ora indirecta. Essa copre le conseguenze che derivano abitualmente da una determinata azione. In questo modo la teoria del dolus indirectus equipara al dolo di omicidio il dolo di lesioni, sulla base della considerazione che la ferita potrebbe portare immediate et per se (per potenzialità intrinseca) alla morte[161]. Carpzov formula la teoria del dolus indirectus per impedire al reo di potere eccepire, dopo l’avvenuta morte, che egli aveva voluto solo ferire la vittima[162]: infatti «verisimiliter aut cogitavit vel cogitare potuit, aut saltem (almeno) cogitare debebat»[163]. Devono quindi essere ritenuti abbracciati (indirettamente) dal dolo non solo gli effetti considerati, ma anche, trattandosi di un fatto illecito, quelli non considerati ma che avrebbero potuto o (almeno) dovuto essere presi in considerazione[164]: si tratta di un potere-dovere di conoscenza derivante da generali regole di esperienza, che non può essere annullato da vaghe speranze o desideri, da opinioni o credenze irriflessive[165]. In ciò la dottrina tedesca ravvisa il tentativo di normativizzare il concetto di dolo, e più precisamente la volontà come Erscheinungsform di imputazione penale[166], giacchè non si tiene conto in alcun modo – non è ammessa prova contraria – dell’effettiva realtà psicologica (conoscitiva e volitiva) dell’agente. Proprio la circostanza che non sia ammessa prova in contrario porta già Löffler a considerare il dolus indirectus non una regola probatoria quanto piuttosto un concetto di diritto penale sostanziale (rein materiell-rechtlicher Begriff)[167].
Infine gli eventi che si verificano per caso non hanno a che vedere con la volontà e dunque non sono in alcun modo abbracciati dal dolo[168].
Carpzov cita spesso alla lettera Covarruvias e i suoi esempi, ma se ne discosta, seguendo invece la doctrina Bartoli, in un punto essenziale, quanto cioè alla sanzione, che egli ritiene la poena ordinaria anche nel dolus indirectus. Proprio questo viene ritenuto lo scopo pratico della sua teoria: infliggere a chi ferisca dolosamente taluno che poi muoia in seguito a quella ferita l’ordinaria pena dell’omicidio[169]. Decisivo è per Carpzov e i suoi successori il risultato concreto: con il dolus indirectus tutte le difficoltà probatorie possono essere superate[170]. E per ottenere ciò “Vorsatzbegriff und Vorsatzbeweis” si fondono l’uno nell’altro[171].
Che la teoria del dolus indirectus di Carpzov rappresenti un mero relitto storico è oggi negato da settori della dottrina tedesca. Non solo tale teoria viene richiamata da chi oggettivizza il momento volitivo nel c.d. pericolo del dolo (Vorsatzgefahr), creato dall’autore nei confronti del bene giuridico[172], ma inoltre una rivalutazione appare in una recente rimodulazione della Gleichgültigkeitstheorie, teoria originariamente risalente a Engisch. Si sostiene che sarebbe affrettato ricondurre il dolus indirectus al versari in re illicita[173], dato che è necessario pur sempre agire “mit böser Absicht”, cioè compiere un fatto base illecito doloso[174]. Nella dottrina del dolus indirectus vi sarebbe un passaggio apprezzabile: nei casi citati da Carpzov l’agente aggredisce in modo pesante il corpo della vittima e ciò dimostrerebbe drasticamente la sua “indifferenza” per l’integrità fisica di quella. Sarebbe allora plausibile sostenere che egli mostri “indifferenza” anche per la vita della vittima e dunque il dolus indirectus non rappresenterebbe una prosecuzione della logica del versari in re illicita ma piuttosto un tentativo di accedere al concetto di “indifferenza per il fatto concreto” (Tatsachengleichgültigkeit), in particolare per l’evento più grave[175].
Si sostiene poi che lo spirito del vecchio dolus indirectus oggi alberghi, nonostante il nome contrario, persino nell’attuale dolo diretto, dove si normativizza la necessaria proiezione nella mente del soggetto dell’evento non intenzionalmente perseguito ma il cui verificarsi è certo o altamente probabile[176]. Un altro ambito nel quale si ritiene ben possibile che sopravvivano occulti gli argomenti del dolus indirectus è quello delle massime di esperienza, utilizzate per la “determinazione” processuale del dolo[177].
Comunque la si intenda, alla teoria del dolus indirectus di Carpzov possono essere mosse le stesse critiche che oggi si rivolgono alla tecnica odierna di accertamento del dolo, riecheggiante la doctrina Bartoli, della quale rappresenta una ripetizione: ritenere provata l’effettiva previsione da parte dell’agente sulla base della rappresentazione potenziale, cioè di quanto è normalmente prevedibile, significa distruggere lo spartiacque tra dolo e colpa e accettare una oggettivizzazione del concetto di dolo[178].
[1]
CALISSE, Svolgimento storico del diritto
penale in Italia dalle invasioni barbariche alle riforme del secolo XVIII,
in Enciclopedia del Diritto Penale
Italiano, a cura di E. Pessina, II, Milano 1906, p. 243. Non ci
soffermeremo sul diritto germanico al di fuori dell’Italia: innanzitutto
perché non reca apporti concettuali alla nozione di dolo e poi
perchè segue comunque una evoluzione storica del tutto simile a quello
delle popolazioni germaniche in Italia. Il principale fattore storico di
evoluzione è anche nel diritto germanico fuori dell’Italia – come appare dalle pagine di
LÖFFLER, Die Schuldformen des
Strafrechts. In vergleichend-historischer und dogmatische
Darstellung, Leipzig
1895, pp. 121 ss. – l’influsso del diritto romano.
[2] CALISSE, Svolgimento storico del diritto penale, cit, p. 243. Tutto ciò si spiega – secondo gli storici del diritto – innanzitutto con lo stato della civiltà dei popoli germanici, civiltà ancora non educata ad astrarre e idealizzare, e dunque a riconnettere effetti giuridici a un elemento interiore e nascosto quale la volontà (CALASSO, Medio evo del diritto I. Le fonti, Milano 1954, p. 132; BELLOMO, Società e istituzioni in Italia dal medioevo agli inizi dell’età moderna, 3ª ed., Catania 1982, pp. 164-165); inoltre questa “considerazione puramente materiale” rappresenta un criterio, sia pure rudimentale ed empirico, di politica legislativa, avente finalità di prevenzione, repressione e semplificazione giudiziaria: i diritti barbarici avrebbero dunque realizzato già per tempo, pur senza enunciarlo, quel principio ne delicta remaneant impunita che resta alla base della dottrina criminalistica anche nel periodo di più larga affermazione del diritto comune (MARONGIU, voce Dolo penale (dir. interm.), in Enc. dir., XIII, Milano 1964, pp. 731-732, il quale segnala alcune limitate e poco significative eccezioni al principio).
[3] Sull’antico diritto germanico, Eb.
SCHMIDT, Einführung in die
Geschichte der deutschen Strafrechtspflege, 4. Aufl., Göttingen 1965,
pp. 21 ss. (e in particolare sulla Erfolgshaftung,
pp. 31-33); SCHÜNEMANN, Die
Objektivierung von Vorsatz und Schuld im Strafrecht, in Chengchi Law Review (50), 1994, pp. 261
ss.
[4] Tra queste leggi, quella che maggiormente si affranca dal predominio dell’elemento oggettivo è – secondo DEL GIUDICE, Diritto penale germanico rispetto all’Italia, in Enciclopedia del Diritto Penale Italiano, a cura di E. Pessina, I, Milano 1905, pp. 468-469 – quella visigota, che considera espressamente la volontà come essenza del crimine: «crimen videri non potest, quod non est ex voluntate commissum». Questa legge esclude la responsabilità di chi abbia commesso il reato per comando altrui e di colui che fortuitamente danneggi una siepe. Parimenti resta impunito chi commette un omicidio nesciens.
[6] Secondo PERTILE, Storia del diritto italiano. Dalla caduta dell’impero romano alla codificazione, 2ª ed., vol. V: Storia del diritto penale, rist. anast. Bologna 1966, p. 65 e ivi nota 32, l’espressione che gli editti dei re longobardi usano per designare il dolo è asto o asto animo (nell’Editto di Rotari si legge asto animo, id est volontarie); dolose richiamerebbe invece l’idea di malizia e frode; nel senso di dolosamente verrebbero usate anche le formule in peccatis e istigante diabolo.
[7] Conseguenza questa che CALISSE, Svolgimento storico del diritto penale, cit., p. 246, ritiene legata all’importanza che il giuramento rivestiva nel diritto canonico.
[8]
DEL GIUDICE, Diritto
penale germanico rispetto all’Italia, cit., pp. 470-471. Quanto al
tentativo, vi è chi sostiene (DEL GIUDICE, Diritto penale germanico rispetto all’Italia, cit., p. 471)
che la presenza di atti preparatori o esecutivi, e dunque la manifestazione
dell’intenzione malvagia, non sia sufficiente per la punizione, dato che
manca l’elemento al quale il diritto germanico collega il concetto di
reato: il danno. Vi è invece chi ritiene (PERTILE, Storia del diritto penale, cit., pp. 72 ss.) che nelle leggi
barbariche il tentativo sia punito. Più precisamente, vi sarebbero casi
in cui è punito (con la morte e la confisca) chi coltivi il pensiero di
attentare alla vita del re, purché tale pensiero si manifesti
esternamente, anche solo con parole. In altri casi la responsabilità
penale richiederebbe un maggiore avanzamento dell’iter criminis, la presenza cioè di atti esecutivi. In
generale – si afferma però – non viene punito il tentativo
in sé, ma sono previste singole ipotesi di tentativo autonomamente
sanzionate: solo eccezionalmente (nelle leggi salica e longobarda)
nell’ambito di un medesimo reato vengono previste diverse gradazioni di
sviluppo – dagli atti preparatori a quelli esecutivi – diversamente
sanzionate.
[9]
CALASSO, Medio evo del diritto, cit.,
p. 177. Sul come e sul perchè
[10]
Tra questi testi,
[11] PERTILE, Storia del diritto penale, cit., p. 35, ravvisa in essi «i primi esempi dei codici penali dell’età nostra».
[14] SCHIAPPOLI, Diritto penale canonico, in Enciclopedia del Diritto Penale Italiano, a cura di Pessina, I, Milano 1905, pp. 614-615.
[15] Per un approccio storico alla categoria della colpevolezza, MEREU, Nullum crimen sine culpa, semantica della colpevolezza nella dogmatica penale del ‘500, Bologna 1970; VASSALLI, voce Colpevolezza, in Enc. giur. Treccani, VI, Roma 1988.
[16] SCHIAPPOLI, Diritto penale canonico, cit., p. 617. Sul punto anche PERTILE, Storia del diritto penale, cit., pp. 32-33 e 429.
[17] PERTILE, Storia del diritto penale, cit., p. 34. Nel decretale di Graziano (c. 1, § 1, dist. 81) citato da Pertile si trova scritto: «Crimen est peccatum grave, accusatione et damnatione dignissimum».
[18]
PESSINA, Elementi di diritto penale,
I, Napoli 1882, p. 43.
[21] PERTILE, Storia del diritto penale, cit., p. 33; SCHIAPPOLI, Diritto penale canonico, cit., pp. 617-618. Aggiunge Schiappoli che le finalità indicate non devono far pensare che la pena fosse un beneficio per il colpevole: «essa è sempre una vindicta, l’esercizio di una vendetta divina o pubblica, la reazione contro la violazione dell’ordine giuridico, che ha per fine il pentimento del reo, l’emenda, l’esempio, l’intimidazione, l’espiazione del torto commesso dovuta a Dio e agli uomini: onde si trovano come in germe le varie teorie messe avanti per giustificare il fondamento del diritto di punire e lo scopo della pena».
[22] PERTILE, Storia del diritto penale, cit., p. 36. Nei casi citati da Pertile (p. 36 nt. 25, 26, 27, 28) e contenuti in libri penitenziali e in decretali, la quantità di pena viene fatta dipendere – tra l’altro – dalla volontarietà del fatto (“Qui voluntarie homicidium fecerit”) contrapposta alla assenza di volontà (“Si quis homicidium casu fecerit, i.e. non voluntate”), dal fatto che sia stato prestato apporto morale (“Si quis ad homicidium facendum consenserit et factum fuerit”), dalla coazione morale esercitata sull’autore (“Si quis liber, subente domino suo, servum occiderit”), dalla circostanza che l’uccisione sia avvenuta in guerra (“Si quis hominem in bello publico occiderit”), dalla sussistenza di particolari situazioni di inesigibilità psicologica (“Si quis per necessitatem furaberit cibaria, aut vestes, aut quadrupedia, propter famem vel nuditatem” o anche “necessitate vel voluntate”). Così SCHIAPPOLI, Diritto penale canonico, cit., p. 619: «Il delitto era così ricondotto al suo morale e genuino elemento, cioè al soggetto: onde si trovano distinte e definite le diverse gradazioni della punibilità (così nell’omicidio)».
[23] In un canone riferito da SCHIAPPOLI, Diritto penale canonico, cit., p. 691 si trova scritto, a proposito del peccato, «non datur peccatum nisi voluntarium», e riguardo al delitto, «voluntaria tantum commissa sequitur delictorum invidia».
[27] KOLLMANN, Die Lehre vom versari in re illecita im Rahmen des corpus juris canonici, in ZStW (35), 1914, pp. 46 ss. Sul tema, oltre Kollmann, - e con differenti opinioni sull’origine specificamente canonistica o (vagamente) romanistica - GLASER, Handbuch des Strafprozesses, Bd. 1, Leipzig 1883, p. 77; ENGELMANN, Die Schuldlehre der Postglossatoren und ihre Fortentwiklung. Eine historisch-dogmatische Darstellung der kriminellen Schuldlehre der italianischen Juristen des Mittelalters seit Accursius, 2. verbesserte Aufl., Aalen 1965 (1. Aufl. Leipzig 1895), pp. 75 e 211; LÖFFLER, Schuldformen, cit., pp. 139 ss.; KLEE, Der dolus indirectus als Grundform der vorsätzlichen Schuld, Berlin 1906, pp. 7 ss.; BOLDT, Pflichtwidrige Gefährdung im Strafrecht. Zugleich ein Beitrag zur Lehre von der Fahrlassigkeit im kommenden Recht, in ZStW (55), 1936, p. 46; MÄRKER, Vorsatz und Fahrlässigkeit bei jugendlichen Straftätern, Frankfurt 1995, pp. 78-79; BONDI, I reati aggravati dall’evento tra ieri e domani, Napoli 1999, pp. 243 ss. Esattamente osserva BASILE, La colpa in attività illecita. Un’indagine di diritto comparato sul superamento della responsabilità oggettiva, Milano 2005, p. 358 (nt. 3), sulla base delle fonti citate, che originariamente la regola del versari in re illicita aveva una finalità di garanzia, in quanto limitava l’imputazione delle conseguenze non volute purchè fossero derivanti da un fatto-base illecito. Sul fondamento di tale regola – continua Basile – il presbitero che avesse cagionato per mero fortuito un omicidio, veniva escluso dalla possibilità di assumere cariche ecclesiastiche non in ogni caso ma solo qualora avesse cagionato la morte altrui attraverso un’attività di per sé già illecita: «la regola del versari apponeva, dunque, un limite alla responsabilità per il mero caso, imperante in quei secoli in cui la tradizione romanistica non era stata ancora appieno recuperata».
[28]
LÖFFLER, Schuldformen, cit., p.
139, cita al proposito
Peraltro, nella dottrina canonistica, l’origine del principio si fa risalire a san Basilio, nell’ambito della patristica greca del IV secolo. Per i casi e per i richiami dottrinali, VENTRELLA MANCINI, L’elemento intenzionale nella teoria canonistica del reato, Torino 2002, pp. 66 ss.
[29] KOLLMANN, Die Lehre vom versari in re illecita, cit., pp. 75 ss. Vedi anche
BOLDT, Johann Samuel Friedrich von
Böhmer und die gemeinrechtliche Strafrechtswissenschaft,
Berlin-Leipzig 1936, p. 192.
[30] LÖFFLER, Schuldformen, cit., p. 139. Secondo DAHM, Strafrecht Italiens, cit., pp. 259-260, la differenza della teoria del versari in re illicita rispetto al paradigma della actio libera in causa sta proprio nel fatto che non era strettamente necessario che la böse Wille che caratterizzava la prima infrazione fosse causale anche per il successivo decorso degli avvenimenti; la categoria della actio libera in causa fu elaborata invece dalla teologia morale per inquadrare le ipotesi in cui, pur mancando la libera volontà al momento dell’atto esteriore, il peccato sussiste egualmente in quanto può essere riportato causalmente a un precedente libero atto del volere.
[31] VEST, Vorsatzbeweis und materielles Strafrecht,
Bern 1986, p. 20. Che questo principio
fosse patrimonio comune nel diritto penale canonico non è infatti da
tutti condiviso. Già un eminente studioso quale HINSCHIUS (Das Kirchenrecht, vol. V, p. 927, citato
da SCHIAPPOLI, Diritto penale canonico,
cit., pp. 693-694 nt. 4) contrappone per esempio al canone 39 D.L., che afferma
«Et sic propter unum delictum
imputantur omnia quae sequuntur ex illo», altri canoni, che si
muovono in senso esattamente opposto a questo e in base ai quali non sono
sanzionabili le conseguenze più gravi derivanti direttamente
dall’azione propostasi dall’agente, ma che hanno sorpassato lo
scopo che egli si proponeva nel commettere l’azione delittuosa. Ne
risulta dunque tutt’altro che certa l’assolutezza
dell’imputazione oggettiva dell’evento. Così nel Decreto di
Graziano si fa il caso del chierico che, mentre gioca, e dunque versa in
un’attività che essendo superflua è considerata illecita,
provoca la morte di un uomo: ebbene il versari
in re illicita non basta per imputargli l’evento, se questo non
è conseguenza di una condotta negligente. Per questa e altre consimili
ipotesi, VENTRELLA MANCINI, L’elemento
intenzionale nella teoria canonistica del reato, cit., pp. 67-68.
Esattamente dunque l’effettivo “peso” pratico del criterio
era già stato svalutato nella dottrina penalistica da DAHM, Strafrecht Italiens, cit., p. 261, il
quale osserva che una volta che si passi dalla regola alle esemplificazioni
contenute nel diritto canonico si assiste in realtà alla proposizione di
casi nei quali la condotta indicata come opus
illecitum ha come conseguenza, secondo l’esperienza di vita, un
ulteriore evento dannoso che può ritenersi tipicamente compreso nella
volontà o comunque rappresentato come possibile. Opera illicita sono cioè attività oggettivamente
pericolose, come lo svolgimento di tornei o l’esercizio
dell’attività chirurgica da parte dei chierici. In definitiva
– conclude Dahm – l’offesa ulteriore viene imputata
all’autore perché egli poteva preventivare l’ulteriore corso
degli avvenimenti e presumibilmente si ritiene lo abbia fatto. Più
recentemente nello stesso senso G.A. DE FRANCESCO, La colpa nel codice Zanardelli in rapporto alla successiva evoluzione
dommatica, in I codici preunitari e
il codice Zanardelli, a cura di Vinciguerra, Padova 1999, p. 491: secondo
l’Autore, facendo attenzione alle fonti, ci si rende conto che, almeno in
molte ipotesi, il ricorso alla categoria del versari non presuppone necessariamente un’estensione
dell’area della responsabilità oltre i confini propri di una colpa
in senso stretto. Sotto lo schermo della c.d. res illicita si cela spesso in realtà il riferimento a una
condotta tale da superare, come si direbbe oggi, la soglia minima del
«rischio consentito». Con una imputazione però –
possiamo aggiungere – del tutto oggettiva del rischio e con la punizione
allo stesso titolo dei fatti dolosi.
[34] LÖFFLER, Schuldformen, cit., p. 139. MÄRKER, Vorsatz und Fahrlässigkeit, cit., pp. 78-79 interpreta la dottrina del versari in re illicita come un ampliamento del concetto di dolo romanistico spiegabile solo partendo dalla concezione canonistica di peccato e colpa.
[35] LÖFFLER, Schuldformen, cit., p. 142 e poi KOLLMANN, Die Lehre vom versari in re illecita, cit., pp. 35 e 46 ss.
[36] LÖFFLER, Schuldformen, cit., p. 141. Anche a un giovane studente – dice l’Autore – apparirebbe infatti palese la distanza che corre da una parte tra il proprio wissen e wollen e dall’altra la verificazione casuale di un evento dalla propria azione.
[38] MARINUCCI - DOLCINI, Manuale di Diritto Penale. Parte Generale, 3ª ed., Milano 2006, pp. 281 ss., distinguono tre tipi di ipotesi di responsabilità oggettiva: a) responsabilità oggettiva in relazione all’evento; b) responsabilità oggettiva in relazione a elementi del fatto diversi dall’evento; c) responsabilità oggettiva in relazione all’intero fatto di reato.
[40]
La consapevolezza, da parte del potenziale autore, che l’ordinamento gli
addossa tutte le conseguenze materialmente connesse alla sua azione illecita,
dovrebbe costituire un fattore capace di inibire la spinta criminosa. Le
funzioni politico-criminali della responsabilità oggettiva emergerebbero
poi anche a livello processuale: il ricorso a essa può servire a
eliminare difficoltà probatorie in quei casi nei quali risulta
particolarmente complesso l’accertamento giudiziale del dolo o della
colpa. Sulla funzione di semplificazione probatoria della categoria dei delitti
qualificati dall’evento, VEST, Vorsatzbeweis,
cit., pp. 160 ss. Per l’inquadramento storico, OEHLER, Das erfolgsqualifizierte Delikt als
Gefährdungsdelikt, in ZStW (69),
1957, pp. 504 ss.; SCHUBART, Das Problem der erfolgsqualifizierten Delikte, in ZStW
(85), 1973, pp. 757 ss.; DOLCINI, L’imputazione dell’evento aggravante. Un contributo di
diritto comparato, in Riv. it. dir.
proc. pen., 1979, pp. 761 ss.; TAGLIARINI, I delitti aggravati dall’evento (profili storici e prospettive di
riforma), Padova 1979, pp. 63 ss.; BONDI, I reati aggravati dall’evento, cit., pp. 217 ss. con ampi
riferimenti anche al diritto romano. Cfr. anche HASSEMER, Einführung
in die Grundlagen des Strafrechts, 2. Aufl., München 1990, p. 190.
[42] Sul tema, recentemente, DOLCINI, Responsabilità oggettiva e principio di colpevolezza. Qualche indicazione per l’interprete in attesa di un nuovo codice penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2000, pp. 863 ss.
[44] A questa di Covarruvias, LÖFFLER, Schuldformen, p. 142, aggiunge altre citazioni riferibili però alla più tarda figura del dolus indirectus, figura concettuale che rappresenta una derivazione del versari in re illicita.
[45] Per una ulteriore conferma di questo assunto dopo la sentenza della Corte costituzionale 1085/88, che ha riferito il requisito della colpa anche ad attività illecite, quali la sottrazione e l’impossessamento di una cosa mobile altrui al fine di farne un uso momentaneo (secondo la previsione dell’art. 626 comma 1 n. 1 c.p.), DOLCINI, Responsabilità oggettiva e principio di colpevolezza, cit., pp. 869-871. Più in generale BASILE, La colpa in attività illecita, cit., pp. 219 ss.
[46] SBRICCOLI, Giustizia criminale, in Lo Stato moderno in Europa. Istituzioni e diritto, a cura di M. Fioravanti, Roma-Bari 2002, p. 164, il quale aggiunge che allo stesso modo la storia del processo penale può essere letta come «la troppo lunga storia del faticoso avvento, ogni volta ostacolato nei fatti, di un apparato di protezioni e garanzie disposte intorno all’accusato e ai suoi diritti».
[51] PADOVANI, Il crepuscolo della legalità nel processo penale. Riflessioni antistoriche sulle dimensioni processuali della legalità penale, in Indice pen., 1999, p. 535.
[52] Su tale crisi, tra gli altri, NOBILI, Principio di legalità, processo, diritto sostanziale, in ID., Scenari e trasformazioni del processo penale, Padova 1998, pp. 195 ss.; PADOVANI, La disintegrazione attuale del sistema sanzionatorio e le prospettive di riforma: il problema della comminatoria edittale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992, pp. 431 ss. e ID., Il crepuscolo della legalità nel processo penale, cit., pp. 527 ss.
[53] PIFFERI, Generalia delictorum. Il Tractatus criminalis di Tiberio Deciani e la “parte generale“ di diritto penale, Milano 2006, p. 147.
[56] Dal punto di vista processuale le practicae sono – afferma SBRICCOLI, Giustizia criminale, cit., p. 176 – in realtà, e paradossalmente, povere. Poco curandosi dei diritti degli accusati, i giuristi autori delle practicae costruiscono una dottrina processuale ridotta, quasi interamente assorbita nella questione dei limiti da porre al giudice («iudex debet, potest, an debet, an possit, non debet, nequit», cioè “il giudice deve, può, ci si chiede se debba, ci si domanda se possa, non deve, non può”).
[57] PIFFERI, Generalia delictorum, cit., p. 97. Sulla incapacità dei postglossatori di riunire in sistema singoli elementi concettuali, come per esempio il dolo, già SCHAFFSTEIN, Die Allgemeinen Lehren vom Verbrechen. In ihrer Entwicklung durch die Wissenschaft des gemeinen Strafrechts – Beiträge zur Strafrechtsentwicklung von der Carolina zur Carpzov, Darmstadt 1973, Neudruck der Ausgaben 1930-1932, p. 27. Cfr. anche PIANO MORTARI, voce Codice (storia), in Enc. dir., VII, Milano 1960, pp. 229 ss.
[58] Del resto, anche oggi molte tesi, che sembrano (o vogliono) avere un contenuto definitorio del dolo, rappresentano in realtà criteri di accertamento: si pensi in tema di dolo eventuale alla teoria della operosa volontà di evitare, dove la predisposizione o meno di misure volte a ostacolare l’evento può fungere da orientamento in sede di accertamento, e soprattutto alle c.d. formule di Frank (FRANK, Das Strafgesetzbuch für das deutsche Reich, 18 Aufl.,Tübingen 1931, p. 190).
[61] DELITALA, Dolo eventuale e colpa cosciente, in Annuario dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, 1932, ora in Diritto penale. Raccolta degli scritti, I, Milano 1976, p. 434.
[63] SCHAFFSTEIN, Allgemeinen Lehren, cit., p. 108. Sul concetto di dolo nel
medioevo, fondamentale ENGELMANN, Schuldlehre
der Postglossatoren, cit., pp. 36 ss., con la sua distinzione tra dolus come rechtlich-kausaler Wille e tatsächlich-kausaler
Wille. Sia voluntas che animus si
identificano – secondo Engelmann – nella nozione di Absicht, cioè «der auf Verwirklichung des Erfolges als Ziel
gerichtete Wille».
[65] ENGELMANN, Schuldlehre der Postglossatoren, cit., pp. 39 ss. Alla consapevolezza dell’antigiuridicità, spesso contenuta nelle definizioni del dolo fornite dalla dottrina tedesca (supra, cap. I, nt. 102; vedi anche DAHM, Strafrecht Italiens, cit., pp. 258 ss., secondo cui per il concetto di dolo romanistico, cui i giuristi italiani rimasero, almeno formalmente, fedeli, „nötig war ein unmittelbares Wollen der Rechtswidrigkeit“) non va dato troppo peso. La rilevanza dell’error iuris dipendeva infatti dalla qualità della norma, “aut civilis aut naturalis aut quasi naturalis”, e nel secondo e terzo caso l’errore non scusava. Ora, ove si pensi che i fatti discussi dai Commentatori per la loro dottrina del dolo investivano sempre beni come la vita e l’integrità fisica, erano cioè “delitti naturali”, dove la percezione dell’antigiuridicità è immediata, appare chiara la scarsa rilevanza di questo momento nel dolo. Alla nozione di dolus malus ineriva non necessariamente la coscienza dell’antigiuridicità (dell’illiceità penale) ma piuttosto la consapevolezza e la volontà di fare del ‘male’ ad altri (= la moderna coscienza della dannosità). Nella dottrina tedesca il riferire la volontà alla “Rechtswidrigkeit” è già di Mommsen e si fonda sia sul rilevante valore che egli attribuisce alla legge come fondante il reato (“il reato è la violazione della legge penale” si legge nel Römisches Strafrecht, p. 4) sia sull’esigenza di giustificare la punizione di fatti moralmente indifferenti.
[67] L’eredità del diritto penale romano è tutt’altro che sufficiente. Sempre CORDERO, Criminalia, cit., p. 205, afferma che «se dalle sonde calate nel thesaurus romanistico non viene su un diritto penale perfettamente fruibile, bisogna che gli utenti se lo fabbrichino», a maggior ragione perché mentre «persone, successioni, diritti reali, obbligazioni, compongono una galassia quasi immobile … gli istituti penali, invece, legati a culture e interessi meno lentamente mutevoli, esigono apporti inventivi». Cfr. l’analisi sul dolo di BONDI, I delitti aggravati dall’evento, cit., pp. 267 ss.
[68] LÖFFLER, Schuldformen, cit., p. 147 e SCHAFFSTEIN, Allgemeinen Lehren, cit., p. 108. Così anche DOLCINI, L’imputazione dell’evento aggravante, cit., pp. 761-762. Durante il lungo periodo storico di vigenza in Europa del Diritto comune predomina l’idea che - essendo proibita la prova per indizi - unica prova valida per l’accertamento, in generale del fatto e specificamente del dolo, sia la confessione dell’accusato, estorta per lo più con la tortura.
[69] Anche con riferimento alla realtà odierna, HASSEMER, Kennzeichen des Vorsatzes (in Armin Kaufmann – GS, 1989), trad. it. di S. Canestrari, in Indice pen., 1991, p. 485, afferma che le domande sul dolo «non si possono discutere ontologicamente, bensì soltanto su un piano deontologico: essendo aperte alle aspettative di giustizia che storicamente sono in continuo mutamento».
[71] SCHAFFSTEIN, Allgemeinen Lehren, cit., p. 108. Secondo CORDERO, Criminalia, cit., pp. 268 ss., l’acquisizione concettuale che dolus ormai qualificava gli atti volontari consapevolmente illeciti, dall’esito mirato o almeno previsto, portò i commentatori a lunghi discorsi sui casi nei quali l’accaduto differisce da quanto l’agente sapeva e voleva. L’Autore indica tre ipotesi cliniche. La prima: x aveva in mente l’atto qual è risultato, su quell’oggetto, ma ignorava uno o alcuni dati influenti sulla pena; per esempio ha rubato un vaso d’oro convinto che fosse di bronzo, o “verberavit clericum” ignaro del suo stato. L’opinione dominante negava ogni rilievo a simili lacune psichiche, almeno fintantoché la qualità influisca solo sulla pena e non sui nomina delicti. Seconda ipotesi: l’atto delittuoso colpisce una persona diversa (aberratio ictus). L’opinione dominante (Bartolo per primo) distingueva secondo che l’accaduto fosse o no prevedibile. Nel primo caso “inspicitur eventus”, cioè responsabilità piena; nel secondo, quando cioè l’evento non fosse “verisimiliter” calcolabile, il delinquente viene punito meno severamente proprio “quia non fuit in dolo”. Terza ipotesi: l’esito non voluto integra una figura legale diversa. Questa è l’ipotesi più controversa e su di essa si sviluppano le teorie medievali sui confini della responsabilità e sui contorni del dolo.
[72]
I commentatori non riservano alla colpa un approfondimento (scientificamente)
paragonabile a quello del dolo. Ciò anche perché non possono
giovarsi del contributo delle fonti romane. Nel diritto romano la culpa è criterio di attribuzione
della responsabilità solo nei delicta
privata, mentre nei crimina pubblica rileva
solo l’agire doloso. Nel medioevo la punibilità criminale della
colpa è contestata dalla dottrina e invece invalsa nella prassi. Ma la
sua punizione è sempre extra
ordinem, rimessa alla discrezionalità del giudicante e attenuata
rispetto alla responsabilità dolosa (LÖFFLER, Schuldformen, cit., p. 147). Questo vale anche con riferimento alla
culpa lata nei delitti più
gravi previsti nella lex Cornelia
giacchè domina la considerazione che in questa legge “culpa lata dolo non aequiparatur”.
La culpa lata dei romani diventa la culpa dolo proxima del medioevo. Ma
l’incertezza della figura romanistica si riflette sulla figura medievale.
Infatti questa culpa dolo proxima viene ritenuta ora come specie di colpa
(così
[73] Non diversamente da quanto si propone ancora oggi sulla scia della figura anglosassone della recklessness. Su questa figura, recentemente, CURI, Tertium datur. Dal Common Law al Civil Law. Per una scomposizione tripartita dell’elemento soggettivo del reato, Milano 2003.
[80] LÖFFLER, Schuldformen, cit., p. 155. Sulla rilevanza di Alberto Gandino, recentemente QUAGLIONI, Alberto Gandino e le origini della trattatistica penale, in Materiali per una storia della cultura giuridica, anno XXIX, n. 1, giugno 1999, pp. 49 ss.
[81]
LÖFFLER, Schuldformen, cit., p.
156. Che il dolus praesumptus sia
quasi una necessità ontologica è affermato in Francia da Pierre
de Belleperche: «omnis dolus est
praesumptus, nam … consistit in animo, et ea, quae sunt in animo, est
impossibile nisi per praesumptionem [cognoscere]». Vedi HRUSCHKA, Strukturen
der Zurechnung, Berlin – New York, 1976, pp. 25-26.
[82] ENGELMANN, Schuldlehre der Postglossatoren, cit., pp. 50 ss.; SCHAFFSTEIN, Allgemeinen Lehren, cit., p. 108. Per le fonti romanistiche assunte da Alberto da Gandino, CORDERO, Criminalia, cit., p. 226 (nota 48).
[83] ENGELMANN, Schuldlehre der Postglossatoren, cit., pp. 135 ss.; VEST, Vorsatzbeweis, cit., p. 20. E’ utile precisare che i crimina si distinguono (così nel Tractatus di Alberto Gandino) in publica et ordinaria, per i quali la sanzione è determinata nella previsione legislativa e in privata et extraordinaria, per i quali l’entità della pena è lasciata alla discrezione del giudice.
[85] CORDERO, Criminalia, cit., pp. 266-267. Dunque secondo ENGELMANN, Schuldlehre der Postglossatoren, cit., p. 50, la semplificazione probatoria attraverso le presunzioni di dolo comporta il rischio non remoto che anche situazioni dove il dolo non c’è vengano trattate come se ci sia.
[87] Si noti peraltro che i maggiori commentatori non chiamano mai espressamente dolus praesumptus il dolo diagnosticato da un quadro indiziario incompleto (CORDERO, Criminalia, cit., p. 267, nt. 60). E in definitiva, la difficoltà nell’accertamento dell’elemento interiore e la correlativa necessità di semplificazioni probatorie rappresenta un pensiero latente più che espresso. Almeno fino a Tiberio Deciani.
[88] SCHUBART, Das Problem der erfolgsqualifizierten Delikte, cit., p. 757. Secondo EUSEBI, Appunti sul confine tra dolo e colpa nella teoria del reato, in Riv. it. dir. proc. pen., 2000, p. 1086, l’odierno orientamento dottrinale e giurisprudenziale a individuare, nonostante l’assenza di ancoramenti normativi, un ambito di condotte antidoverose ma non intenzionali suscettibili di determinare pur sempre una responsabilità dolosa, è da inquadrarsi in un’ottica evidente di politica criminale giudiziaria.
[90]
ENGELMANN, Schuldlehre der
Postglossatoren, cit., pp. 53 ss., 71 ss. e 104 ss., il quale ritiene che
tutte queste dottrine, mosse dalla stessa esigenza di semplificazione
processuale che era propria della figura del dolus praesumtus, si distinguevano da questo semplicemente per il
fatto che elevavano la base di presunzione a elemento concettuale. Su queste teorie, LÖFFLER, Schuldformen, cit., pp. 149 ss.; SCHAFFSTEIN,
Allgemeinen Lehren, cit., pp. 108
ss.; BOLDT, Johann Samuel Friedrich von
Böhmer und die gemeinrechtliche Strafrechtswissenschaft,
Berlin-Leipzig 1936, pp. 192 ss.
[91] Osserva SCHAFFSTEIN, Allgemeinen Lehren, cit., p. 110, che in Italia il dolus generalis non ha avuto una grande importanza e di conseguenza non ha conosciuto un dettagliato sviluppo: ben diverso il peso assunto dalla teoria nella dottrina tedesca a partire da Carpzov.
[92] Così SCHAFFSTEIN, Allgemeinen Lehren, cit., p. 110, seguendo ENGELMANN, Schuldlehre der Postglossatoren, cit., pp. 74 e 103-104. Che davvero questa sia la ricostruzione storica della nascita del dolus generalis non è condiviso da tutti. Pone dubbi sull’interpretazione delle fonti CORDERO, Criminalia, cit., pp. 274-275 (in nota) che osserva come in una di queste fonti compaia fra gli elementi del fatto anche l’habitus matrimonialis della donna, un elemento cioè che costituiva un indizio importante da cui appare diagnosticabile – secondo l’Autore – un dolo almeno eventuale del convivente.
[94] ENGELMANN, Schuldlehre der Postglossatoren, cit., p. 75. L’Autore osserva (p. 103) che la formula “dolus in genere“ non ha nella dottrina italiana un contenuto uniforme e molto spesso si trova l’espressione “sufficit dolus in genere” senza ulteriori specificazioni sul fondamento della responsabilità.
[96] Bartolo da Sassoferrato viene definito da BELLOMO, Società e istituzioni, cit., p. 458, «un personaggio mitico in un’età d’oro». Il senso dell’assoluta ammirazione veniva espresso in aforisma corrente: “nullus bonus iurista, nisi sit bartolista”. CORDERO, in diversi passi del suo Criminalia (es. p. 245), descrive la considerazione di cui godeva in quei tempi Bartolo epitetandolo come “l’oracolo“.
[97] Così testualmente il frammento D. 47.2.54pr. (Paulus libro trigesimo nono ad edictum): Qui iniuriae causa ianuam effregit, quamvis inde per alios res amotae sint, non tenetur furti: nam maleficia voluntas et propositum delinquentis distinguit («Chi ha abbattuto una porta per recare offesa, anche se di là da altri siano stati portati via i beni, non risponde per furto: infatti la volontà e il proposito del reo connota i delitti»).
[98] DELITALA, Dolo eventuale, cit., p. 435. Riassume così CORDERO, Criminalia, cit., p. 276: «Insomma, chi agisce pericolosamente, sapendolo, è ‘in dolo’ quanto alle conseguenze».
[99] CORDERO, Criminalia, cit., p. 276, sulla scia di ENGELMANN, Schuldlehre der Postglossatoren, cit., p. 78: «Oldradus bezeichnet hier klar den dolus eventualis», giacchè non la semplice consapevolezza del pericolo porta a riconoscere il dolo, quanto piuttosto «den Willen eventuell den Erfolg zu bewirken». Engelmann cita anche un altro esempio tratto da Alberico da Rosate: nel caso di aborto in seguito a un calcio sarebbe da accertare se la donna apparisse o no praegnans; in caso affermativo può darsi che “ex qualitate percussionis” emerga un dolo eventuale.
[100] Sul “mancato successo“ della tesi di Oldrado da Ponte, così CORDERO, Criminalia, cit., p. 276: «Ma come avviene spesso nel concerto dottorale, l’idea intelligente passa inosservata».
[101] DAHM, Strafrecht Italiens, cit., pp. 261-262. Tutto ciò in realtà sulla base della visione tradizionale del versari: abbiamo già notato come le fonti riportino che anche in questa teoria l’imputazione dell’evento ulteriore fosse legata alla potenzialità offensiva della condotta-base.
[103] Secondo ENGELMANN, Schuldlehre der Postglossatoren, cit., pp. 76-77, Bartolo sembra non sorvolare del tutto sulla questione della colpevolezza, tanto che solo l’autore della violenza risponde di questa sorta di “violenza aggravata” mentre gli “homines coadunati ad hoc” solo per violentia simplex, perché “non debet puniri quis ultra quam habuerit propositum delinquendi”.
[106] Per la storia del consolidarsi della teoria, attraverso i contributi di altri Commentatori, ENGELMANN, Schuldlehre der Postglossatoren,, cit., pp. 80 ss. Tra questi autori successivi va citato Bartolomeo Cipolla (1420-1475), che così espresse la regola: «Ubi committens delictum minus voluit delinquere et plus delinquit: si verisimiliter potuit cogitare, quod ex minori delicto, quod intendebat, verisimiliter poterat sequi majus, tenetur de majori delicto, quod est secutum, et non de minori, quod ipse intendebat». Nell’avverbio verisimiliter sta l’essenza della teoria. Caepola fu l’autore che maggiormente approfondì i precedenti di questo tipo di attribuzione di responsabilità, trovandoli in alcuni frammenti del Digesto tra cui fondamentale D. 48,19,38,5, che diceva: “Qui abortionis aut amatorium poculum dant, etsi dolo non faciant, tamen, quia mali exempli res est, humiliores in metallum, honestiores in insulam amissa parte bonorum relegantur; quodsi mulier, aut homo ferierit, sommo supplicio adficiuntur”, cioè «Coloro che danno pozioni abortive o amatorie, anche se non lo facciano con dolo, tuttavia, poiché la cosa è di cattivo esempio, se di umile condizione vengono condannati alla miniera, e se di condizione elevata vengono relegati in un’isola, con la perdita di una parte dei beni. Se poi la donna o l’uomo morì, essi vengono puniti con sommo supplizio». L’analisi di questo frammento è importante per rilevare lo stravolgimento delle fonti talora operato dai Commentatori: viene assunto come base per affermare la responsabilità dolosa un frammento in cui la presenza del dolo è anzi espressamente esclusa e la punizione è motivata quia mali exempli res est.
[107] ENGELMANN, Schuldlehre der Postglossatoren, cit., pp. 79-80; LÖFFLER, Schuldformen, cit., p. 149; BOLDT, von Böhmer, cit., p. 193. SCHAFFSTEIN, Allgemeinen Lehren, cit., p. 109 attribuisce a questa teoria il senso di ricondurre al dolo dell’autore tutte le conseguenze del fatto da lui progettato, che appaiono secondo un giudizio oggettivo necessarie o probabili. Engelmann osservava che da alcuni postglossatori veniva richiesta non la probabilità ma la mera possibilità dell’avverarsi dell’evento.
[109] ENGELMANN, Schuldlehre der Postglossatoren, cit., pp. 71, 89 e 104; SCHAFFSTEIN, Allgemeinen Lehren, cit., p. 110. Contra DELITALA, Dolo eventuale, cit., p. 436, per il quale invece la dottrina di Bartolo comporta un superamento della nozione romanistica del dolo e non solo un’estensione della responsabilità. Secondo Delitala la sufficienza, per la sussistenza del dolo, della semplice prevedibilità della conseguenza lesiva era una conseguenza obbligata del sistema processuale: infatti un giudizio sulla sussistenza effettiva della previsione da parte del colpevole era inammissibile, perché avrebbe presupposto il principio del libero convincimento del giudice in un’epoca invece dominata dal principio delle presunzioni e delle prove oggettive. La genesi logica della dottrina riposerebbe – per Delitala – sul concetto di previsione, come dimostrerebbe il fatto che, pur importando identica pena, previsione e prevedibilità sono concettualmente distinte dalla maggior parte degli autori (aut ipse scivit, aut scire debuit). Secondo questa impostazione dunque la prevedibilità, in fondo, rappresenta la prova, o, meglio, la presunzione della previsione effettiva, dato che le conseguenze generalmente prevedibili sono generalmente previste: i due concetti finiscono così per apparire – conclude Delitala – come due termini perfettamente fungibili in un sistema dominato dal principio delle prove oggettive.
[111] DAHM, Strafrecht Italiens, cit., p. 261. Cfr. KLEE, Der dolus indirectus, cit., p. 11, che pare invece non distinguere.
[115] Covarruvias non parlò mai espressamente di dolus indirectus, terminologia peraltro comunemente invalsa e riferentesi più specificamente a Carpzov.
[116] In ossequio alle fonti romanistiche, Covarruvias identifica il precedente storico della sua tesi della voluntas indirecta nel frammento D. 48,19,38,5, Paulus libro quinto sententiarum: “Qui abortionis aut amatorium poculum dant, etsi dolo non faciant, tamen, quia mali exempli res est, humiliores in metallum, honestiores in insulam amissa parte bonorum relegantur; quodsi mulier, aut homo ferierit, sommo supplicio adficiuntur” («Coloro che danno pozioni abortive o amatorie, anche se non lo facciano con dolo, tuttavia, poiché la cosa è di cattivo esempio, se di umile condizione vengono condannati alla miniera, e se di condizione elevata vengono relegati in un’isola, con la perdita di una parte dei beni. Se poi la donna o l’uomo morì, essi vengono puniti con sommo supplizio»). Curiosamente si tratta dello stesso frammento che il giurista veronese del XV secolo Bartolomeo Cipolla assume come appoggio alla doctrina Bartoli: ciò che si spiega con l’identità - come vedremo - sul piano applicativo della doctrina Bartoli e del dolus indirectus. Di questo frammento in realtà sia la dottrina romanistica sia la moderna dottrina penalistica danno tutt’altra interpretazione. Infatti la presenza del dolo (e dunque della voluntas) è espressamente esclusa e la punizione deriva eccezionalmente dalla necessità di punire in modo esemplare pratiche assai diffuse e pericolose. Prima LÖFFLER, Schuldformen, cit., p. 88 e poi DELITALA, Dolo eventuale, cit., p. 434 ne trarranno conferma che al dolus malus romanistico inerisce solo la diretta intenzione dell’evento.
[118] LÖFFLER, Schuldformen, cit., p. 161. Vedi anche FINZI, Il „delitto preterintenzionale“, Torino 1925, pp. 54-55.
[119] Così testualmente Covarruvias (ENGELMANN, Schuldlehre der Postglossatoren, cit., nota 8): «Id manifeste sensit S. Thomas, qui docet, peccata aggravari ex eventibus, qui postea succedunt, non solum quando illi sunt praecogitati, sed etiam quando praeter intentionem successerunt, si illi eventus per se et necessario sequuntur ex priori opere, aut saltem ut pluribus ita illa eveniunt». San Tommaso distingue a seconda che l’omicidio si sia verificato in contesto lecito o illecito (Summa theologiae, II-II, q. 64, art. 8: “Si aliquis det operam rei licitae, debitam diligentiam adhibens, et ex hoc homicidium sequatur, non incurrit homicidii reatus: si vero det operam rei illicitae, vel etiam det operam rei licitae non adhibens diligentiam debitam, non evadit homicidii reatus si ex eius opere mors hominis consequatur”). Ma la logica del versari vale con riferimento all’atto intrinsecamente pericolo (“si per se sequitur ex tali actu, et ut in pluribus”), perché solo esso denota la voluntas indirecta; non invece quando l’evento segue accidentalmente o in casi sporadici (“per accidens, et ut paucioribus”): qui l’evento nulla aggiunge alla malizia o alla bontà dell’atto (Summa theologiae, I-II, q. 20, art. 5). Sul punto VENTRELLA MANCINI, L’elemento intenzionale nella teoria canonistica del reato, cit., nt. 89 pp. 71-72. In generale sul pensiero di San Tommaso nella scienza giuridica, LÖFFLER, Schuldformen, cit., pp. 159 ss.
[121] DELITALA, Dolo eventuale, cit., p. 438. LÖFFLER, Schuldformen, cit., p. 162, riporta anche la tesi di Jacob Ayrer, il quale correggerà la teoria di Covarruvias considerando la volontà indiretta come colpa e non dolo. Ciò rende Ayrer – sostiene Löffler – il progenitore di tutte le teorie che si sforzano di ravvisare anche nella colpa un vizio della volontà.
[122] Così DELITALA, Dolo eventuale, cit., p. 440 e anche SCHAFFSTEIN, Allgemeinen Lehren, cit., p. 111, il quale peraltro sembra ampliare l’ambito di riferimento, parlando di conseguenze “non del tutto improbabili”.
[123] DELITALA, Dolo eventuale, cit., p. 439, definisce le due dottrine, quella di Bartolo e quella del dolo indiretto, «due diverse formulazioni del medesimo principio». Covarruvias avrebbe dunque posto, accanto alla presunzione su cui si basava Bartolo, la regola su cui quella presunzione riposava. «Bartolo diceva: le conseguenze prevedibili sono da imputarsi a titolo di dolo, sottintendendo che debbono imputarsi a titolo di dolo, perché, essendo prevedibili, devono essere state previste, e, essendo state previste, debbono essere state volute: Covarruvias dice, più semplicemente, che le circostanze prevedibili possono riportarsi anch’esse alla volontà dell’agente, perché la volontà della causa, è anche, indirettamente o mediatamente, volontà del risultato» (p. 439).
[126] CALASSO, Medio evo del diritto, cit., pp. 588 ss., ci informa che nel Medioevo è comune il fenomeno della c.d. giurisprudenza consulente. La prima forma di consilium che viene richiesta al giurista è quella che va sotto il nome di consilium sapientis, il parere cioè che negli ordinamenti comunali i giudici sono costretti a chiedere ai giuristi per la semplice ragione che molto frequentemente i giudici non sanno di diritto: la giurisdizione viene infatti esercitata dai consoli, che sono uomini politici spesso non giuristi. Accanto a questa consulenza ufficiale, provocata dall’autorità pubblica e che finisce per passare come la sentenza del giudice, i frutti più cospicui e più durevoli alla letteratura giuridica sono dati dall’attività consultiva richiesta dalle parti e svolta nell’interesse di queste. Tutti i giuristi di cattedra sono autori di consilia, e quando si inventa la stampa e si procede a farne delle raccolte, i consilia forniscono la falsariga già pronta per la valutazione dei casi che si presentano nella pratica.
[132] Filippo Decio conferma questa massima in altri consilia (ENGELMANN, Schuldlehre der Postglossatoren, cit., p. 94). Così ancora: «licet quis daret operam rei illicitae, non tamen tenetur pro homicidio, nisi precise habuit animum occidendi»; e porta come esempio un rapimento sfociato in omicidio e afferma che non necessariamente la responsabilità per la morte del rapito è dolosa giacchè “actus rapiendi est illicitum” ma “actus rapiendi penitus separatus ab homicidio et nullo modo erat ordinatus ad homicidium”. Ugualmente (stavolta in un contesto di base lecito) non risponde di omicidio doloso il proprietario che ha installato un offendiculum ad capiendum nel quale un ladro è incappato rimanendo ucciso, perché la sua intenzione era di catturare il ladro, non di ucciderlo.
[134] Secondo DOLCINI, Responsabilità oggettiva e principio di colpevolezza, cit., pp. 869-871, è ormai indubitato sia dalla Corte costituzionale che dalla Cassazione che la colpa può operare come criterio di imputazione anche nell’ambito di attività illecite. In questo senso parla poi oggi inequivocabilmente la nuova disciplina legislativa dell’imputazione delle circostanze aggravanti: il nuovo art. 59 comma 2 richiede infatti tra l’altro che le circostanze aggravanti “siano ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa”; e questa colpa si innesta su un fatto che già costituisce reato.
[135] ENGELMANN, Schuldlehre der Postglossatoren, cit., pp. 94-97. Cfr. FINZI, Il “delitto preterintenzionale”, Torino 1925, pp. 8 ss. e BONDI, I delitti aggravati dall’evento, cit., pp. 277-278.
[137] PIFFERI, Generalia delictorum, cit., pp. 100-101. Più avanti (p. 350) l’Autore osserva: «Le norme positive stabiliscono i delitti, ma costruiscono anche una completa trama della rilevanza penale che prevede e disciplina tanto gli elementi sostanziali e accidentali del crimine, quanto i modi e le forme del suo accertamento processuale. Diritto sostanziale e procedura sono i due rami della penalità, entrambi regolati dalla legge, che diviene prevalente criterio di comprensione e costruzione dell’esperienza giuridica, attraverso le sistemazioni e le categorie dei doctores».
[138] Sull’importanza di questo periodo, MEREU, Storia del diritto penale nel ‘500 – Studi e ricerche, Napoli 1964, passim.
[139] Per i meriti dell’umanesimo nella creazione di una scienza dei delitti e delle pene, CALASSO, Medio evo del diritto, cit., pp. 602-603, e in particolare su Andrea Alciato (1492-1550), che sarà considerato il fondatore della scuola umanistica del diritto, p. 600.
[141] SCHAFFSTEIN, Allgemeinen Lehren, cit., pp. 56 ss.; PIFFERI, Generalia delictorum, cit., p. 109. Quest’ultimo Autore evidenzia (p. 188) come Tiberio Deciani, appoggiandosi a un passo di Baldo degli Ubaldi, affermi di volere considerare i delitti prima che avvengano, non realiter e ricavando l’effetto o il fine non dalla loro concreta realizzazione, ma in abstracto sive imaginatione: c’è la volontà di sperimentare una via nuova, quella della speculazione teorico-filosofica applicata al diritto penale, della logica deduttiva capace di offrire fondamento e legittimazione al potere punitivo del Principe. La struttura del Tractatus decianeo presenta dunque un approccio speculativo e teorico, quello che ha spinto la storiografia a considerare Tiberio Deciani il padre del diritto penale moderno. La modernità di Deciani risalta nella sua nota definizione delictum in genere (Tractatus Criminalis, II, III De diffinitione delicti, n. 2): «Delictum est factum hominis, vel dictum aut scriptum dolo vel culpa a lege vigente sub poena prohibitum, quod nulla iusta causa excusari potest». Oggi si afferma (F. MANTOVANI, , Diritto penale, 5ª ed., Padova 2007, p. 3) che il moderno diritto penale del fatto è retto da quattro principi fondamentali: di legalità, di materialità, di offensività, di soggettività. Questo nullum crimen sine lege, actione, iniuria, culpa già traspare nelle parole di Tiberio Deciani. Sarebbe impossibile – precisa Pifferi (p. 209) – attribuire a Deciani il merito del complesso sviluppo dogmatico che ha condotto all’affermazione di questi principi tra il XIX e il XX secolo: gli rimane comunque il merito, attraverso il lavoro di sintesi e lo sforzo definitorio, di avere svelato per primo alla dottrina le risorse sistematiche e la ricchezza speculativa della teoria astratta del reato. Consiglia prudenza nel trasporre vocaboli, cautela nel vedere ‘origini’ e ‘sviluppi’ là dove vi sono fenomeni culturali e giuridici espressione di uno specifico e storicizzato contesto, SBRICCOLI, Lex delictum facit. Tiberio Deciani e la criminalistica italiana nella fase cinquecentesca del penale egemonico, in AA.VV. Tiberio Deciani (1509-1582). Alle origini del pensiero giuridico moderno, a cura di M. Cavina, Udine 2004.
[142] PIFFERI, Generalia delictorum, cit., p. 24. Sull’importanza dell’opera (il Tractatus criminalis) di Tiberio Deciani in tema di colpevolezza, già il riconoscimento di ENGELMANN, Schuldlehre der Postglossatoren, cit., p. 21.
[143] DECIANI, Tractatus criminalis, I, VI De culpa, n. 5. Vedi PIFFERI, Generalia delictorum, cit., p. 257 ss., il quale segnala come l’affermazione sia ripresa da Farinaccio. ENGELMANN, Schuldlehre der Postglossatoren, cit., p. 21, segnala l’influsso decisivo su questa impostazione volontaristica di Sant’Agostino e San Tommaso.
[144] In senso diverso la ricostruzione di ENGELMANN, Schuldlehre der Postglossatoren, cit., p. 21, che ritiene che l’impostazione proposta sia propria dell’ultima fase di pensiero di Deciani, mentre originariamente egli rimane fedele all’impostazione di San Tommaso secondo cui è la colpevolezza (e non solo il dolo) a essere “voluntaria declinatio a bono vel ex malicia, vel ex negligentia”.
[147]
Spesso nella parte speciale – osserva PIFFERI, Generalia delictorum, cit., p. 248 – vi sono espressi
riferimenti alla qualitas animi e
alla necessità che essa sia constata:
la regola nullum delictum poenam dignum
quod dolo vel culpa vacet, stabilita con fermezza nei generalia, si riflette e converge poi nella trattazione dei delitti
nominati nella necessità pratica di declinare l’intenzione
dell’agente nei particolari comportamenti offensivi, di correlare la
regola astratta al disvalore delle specifiche volontà illecite, come per
esempio attraverso il riferimento al dolose
nell’omicidio, all’animus
laedendi od offendendi a
proposito di chi porta un’arma anche difensiva o altri strumenti atti a
ferire.
[149] Così l’Autore del più recente studio sul Tractatus criminalis: PIFFERI, Generalia delictorum, cit., p. 247.
[150] PIFFERI, Generalia delictorum, cit., p. 251, il quale spiega che l’interesse della dottrina per la graduazione del dolo si spiega con le implicazioni nella irrogazione delle pene: così l’arbitrium iudicis, nel pesare le praesumptiones, le coniecturas e gli indicia poteva mitigare la durezza della pena, quasi sempre capitale, comminata per i delitti di dolus verus.
[155] Eb. SCHMIDT, Die Carolina, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte, germanische Abteilung, 1933, p. 117. La colpevolezza non era peraltro precedentemente ignorata. Essa non veniva però riconosciuta come problema psicologico, ma normativo, resa accessibile cioè da elementi esterni, legati alla perpetrazione stessa del fatto. Se qualcuno veniva ucciso dalla caduta di un albero, si riteneva così che ciò accadesse sempre per il lavoro approssimativo del tagliatore di alberi. Non ci si poneva il dubbio se ciò avvenisse per caso fortuito o addirittura per dolo (così Eb. SCHMIDT, Die Carolina, cit., pp. 32-33)
[156] Eb. SCHMIDT, Die Carolina, cit., p. 172. Prima ancora di quella di Carpzov, SCHAFFSTEIN, Allgemeinen Lehren, cit., p. 112, segnala la tesi di Gail che considera il principio canonistico del versari in re illicita come regola di prova anziché come criterio di imputazione: Gail infatti indica, accanto ad altri elementi di deduzione del dolo (p. es. il “genus armorum”), anche che “et regulariter dolus praesumitur ex illecito actu. Quando quis dat operam rei illicitae, eo ipso censetur esse in dolo”.
[157] VOLK, Dolus ex re, in Strafgerechtigkeit. Arthur Kaufmann – FS, Heidelberg 1993, pp. 614-615. L’Autore osserva come questo aspetto sia spesso obliterato. Gli indizi – prosegue Volk (anche in ID, Wahrheit und materielles Recht im Strafprozeß, Konstanz 1980, p. 19) – costituiscono nondimeno un requisito indispensabile del processo. Essi occorrono in primo luogo per poter sollevare la “pretesa” alla confessione, derivante dall’obbligo della verità, e poi, ove la si sia ottenuta, per poter verificare il corretto adempimento di quell’obbligo, ovvero per accertare l’attendibilità della confessione.
[158] In generale sull’importanza scientifica di Carpzov, Eb. SCHMIDT, Einführung, cit., pp. 153 ss. e per un giudizio critico complessivo, MOCCIA, Carpzov e Grozio. Dalla concezione teocratica alla concezione laica del diritto penale, Napoli 1979. In particolare sul dolus indirectus, già FRANK, Vorstellung und Wille in der modernen Doluslehre, in ZStW (10), 1890, p. 172 e poi SCHAFFSTEIN, Allgemeinen Lehren, cit., pp. 108 ss. e infine PUPPE, Der Vorstellungsinhalt des dolus eventualis, in ZStW 1991 (103), pp. 23 ss. Nella dottrina italiana, PECORARO ALBANI, Il dolo, Napoli 1955, p. 276.
[159] KLEE, Der dolus indirectus, cit., pp. 14 ss. Cfr. BONDI, I delitti aggravati dall’evento,
cit., pp. 282-283. Sostiene
LÖFFLER, Schuldformen, cit., pp.
167 ss., che di questa teoria egli in realtà impiega in modo non
sistematico tutti quegli argomenti in grado di sorreggere la sua opinione.
E’ dunque necessario per Carpzov attingere espressamente non solo alla voluntas indirecta di Covarruvias ma
anche alla doctrina Bartoli, al dolus generalis, al versari in re illicita, ad alcune citazioni del Digesto (in
particolare alla Lex Cornelia de sicariis
et veneficis) e dello ius divinum,
a San Tommaso.
[161] Eb. SCHMIDT, Die Carolina, cit., p. 172. Qui la derivazione da Bartolo e da Baldo degli Ubaldi è evidente: così KLEE, Der dolus indirectus, cit., p. 11.
[162] SCHAFFSTEIN, Allgemeinen Lehren, cit., p. 118. Una espressa codificazione di questo principio si ha nel Codex Juris Bavarici Criminalis del 1751. Vedi anche LESCH, Dolus directus, indirectus und eventualis, in JA, 1997, pp. 803-804.
[163] Dunque per esempio (citato da PUPPE, Der Vorstellungsinhalt des dolus eventualis, cit., p. 24), se un soggetto dà fuoco a una casa e l’incendio si estende alle case vicine, egli risponderà a titolo di dolo dell’incendio di tutte le case, dato che è a tutti evidente che il fuoco tende a estendersi naturalmente alle case confinanti.
[164] JAKOBS, Gleichgültigkeit als dolus indirectus, in ZStW (114), 2002, p. 590. Conclusione, quella del testo, a cui conseguiranno, secondo Jakobs (p. 589), formule di compromesso spesso usate dal Bundesgerischthof, come quella “wer in Kenntnis der Folgen handele, wolle sie im Rechtssinne”.
[165] KLEE, Der dolus indirectus, cit., p. 14. Si tratta delle conseguenze accessorie che, data la loro evidenza, non possono non essere state prese in considerazione, a meno che si abbia a che fare con un pazzo: RAGUÉS i VALLÈS, El dolo y su prueba en el proceso penal, Barcelona 1999, p. 56.
[166] PUPPE, in NK (Nomos Kommentar zum
Strafgesetzbuch), § 15, rn. 21; LESCH, Dolus directus, indirectus und eventualis, cit., p. 803.
[168] KLEE, Der dolus indirectus, cit., p. 16, cita questo esempio di Carpzov: se un soggetto colpisce qualcuno con il pugno chiuso è un conto, se invece lo colpisce con la mano aperta e ne consegue la morte, questa non può essere considerata investita da dolo.
[169] Eb. SCHMIDT, Die Carolina, cit., p. 173; LÖFFLER, Schuldformen, cit., p. 167; ENGELMANN, Postglossatoren, cit., p. 111. Se invece la ferita non è di per sé letale e la morte interviene invece per l’imperizia del medico, il feritore sarà punito con una poena extraordinaria (Eb. SCHMIDT, Einführung, cit., p. 168).
[170] Carpzov stesso indica come fondanti la sua dottrina le difficoltà di prova di uno stato interiore. Sul significato di semplificazione probatoria del dolus indirectus, Eb. SCHMIDT, Die Carolina, cit., p. 173; BOLDT, von Böhmer und die gemeinrechtliche Strafrechtswissenschaft, cit., p. 228; SCHAFFSTEIN, Allgemeinen Lehren, cit., p. 118. Afferma KÖHLER, Die bewußte Fahrlässigkeit, Heidelberg 1982, p. 26, che la teoria del dolus indirectus opera con un concetto di volontà fittizia, che supera le difficoltà probatorie dell’intenzione del soggetto mediante presunzioni di dolo.
[171] Così JAKOBS, Gleichgültigkeit als dolus indirectus, cit., p. 589. Cfr.
LÖFFLER, Schuldformen, cit., p.
160 e PUPPE, Der Vorstellungsinhalt des
dolus eventualis, cit., p. 23.
[172] PUPPE, Der Vorstellungsinhalt des dolus eventualis, cit., pp. 41 ss. e
ID., Vorsatz und Zurechnung,
Heidelberg 1992, pp. 32 ss. In senso critico, recentemente, ROXIN, Zur Normativierung des dolus eventualis und
zur Lehre von der Vorsatzgefahr, in Festschrift
Rudolphi, Neuwied 2004, pp. 255 ss., pp. 243 ss.
[173] Già la dottrina tedesca dei primi del novecento, GRÜNHUT, Anselm von Feuerbach und das Problem der strafrechtlichen Zurechnung, Hamburg 1922 (Nachdruck 1978), p. 134, aveva assegnato al dolus indirectus di Carpzov il senso negativo di una prosecuzione dell’idea del versari in re illicita. Cfr. invece per la precisa distinzione tra le due figure anche RAGUÉS i VALLÈS, El dolo y su prueba, cit., p. 56 e già prima PUPPE, in NK, § 15, n. 22.
[174] JAKOBS, Gleichgültigkeit als dolus indirectus, cit., pp. 590-591. Sul
punto anche PUPPE, Der Vorstellungsinhalt
des dolus eventualis, cit., p. 26.
[175] JAKOBS, Gleichgültigkeit als dolus indirectus, cit., p. 591; vedi
già BINDING, Die Normen und ihre
Übertretung. Eine Untersuchung über die rechtmäßige
Handlung und die Arten des Delikts, II, 2, 2. Aufl., Leipzig 1916,
p. 757 nt. 10, sul dolo eventuale nel diritto penale romano (supra: cap. I, sez.
II, par. 4).