N° 2 - Marzo 2003 –
Lavori in corso – Contributi
Università di Sassari
Sommario: 1. Premessa. – 2. Profilo storico. – 3. Profilo
costituzionale. – 4. Criteri di imputazione. –
5. «Modelli organizzativi». 6. Tipologia delle sanzioni – Bibliografia: Fonti. – Profili storico teorici. – Profili penali e costituzionali. – Disciplina della «responsabilità
amministrativa» degli «enti» (D.lg. 8.6.2001, n. 231).
La complessità del tema ed i profili di
disciplina, contenuti nel d.lg. n. 231/2001, richiedono una preliminare, quanto
doverosa, puntualizzazione: anzitutto, rispetto ad una pretesa completezza di
contenuti, è possibile in questa sede soffermarsi unicamente sugli aspetti più
significativi ed innovativi introdotti all’interno del sistema; rispetto ai
riflessi applicativi della disciplina, ci si dovrà necessariamente limitare a
tracciare le linee, che sul piano sanzionatorio maggiore incidenza acquistano
sulla vita dell’“ente collettivo”. Lo stesso titolo del Convegno, con lungimiranza
riterrei, evidenzia già sul piano terminologico, un binomio opportunamente
delineato, oserei dire, nella sua essenzialità: “responsabilità” degli enti
collettivi, da un lato, e «reato», dall’altro. La sintesi è densa di
significato: l’illecito penale al suo verificarsi, in conformità alle
previsioni contenute nel d.lg. 231/2001, diviene «fonte di addebito» per gli
«enti forniti di personalità giuridica» (id.
enti a soggettività privata ma anche enti pubblici economici) – pur se non
mancano ipotesi problematiche, incluse dallo stesso Relatore in una «zona
d’ombra» – ma fonte di addebito anche per «società e associazioni», prive di
personalità giuridica (art. 1). Si può a questo punto provare a tratteggiare
sul tema un duplice approccio: in
retrospettiva, nella sua prima fase, ed in
prospettiva in una seconda. Emerge, infatti, già dalla Relazione
illustrativa del decreto il richiamo a teorizzazioni e principi, le cui radici
penetrano sia la storia del diritto, come storia dei popoli e dei loro
ordinamenti, sia, ed ancor più, la storia di una «democrazia», la nostra, che
prende vita in una Costituzione che ne ispira o dovrebbe ispirarne le scelte.
Brevissimo vuol essere lo sguardo
retrospettivo, ma non eludibile, posto il costante richiamo, in dottrina e
giurisprudenza, al noto brocardo «Societas delinquere non potest»,
diversamente tradotto oggi da autorevoli esponenti della dottrina nella
formulazione opposta: «Societas delinquere et puniri potest». È la
prima, in estrema sintesi, la formulazione con cui, in modo incontrovertibile
fino a qualche tempo fa, si escludeva dall’ordinamento una “responsabilità
penale” in capo alle persone giuridiche. Una tradizione antica, ma non costante
lungo i secoli, vede emergere dal diritto romano, attraverso le sue fonti,
l’uso del termine persona riferito
esclusivamente all’uomo singolo. Ma anche quando si delinea un concetto di
“persona giuridica”, ad indicare una capacità
di diritto privato riconosciuta ad
enti non persone fisiche – così nella costituzione dei municipia – si
esclude pur sempre un’azione di responsabilità sotto il profilo penalistico: «quid
enim municipes dolo facere possunt?» (D. 4.3.15.1; Ulp. 11 ad ed.).
È quanto si evince in un frammento di Ulpiano riportato nel quarto libro del
Digesto, terzo titolo De dolo malo. Sarà tuttavia l’influenza dei popoli
germanici, che conoscevano l’esistenza di libere associazioni, peraltro non
distinte dai propri membri (Genossenschaften, Gilden), a dar vita, anche
in materia penale, alla “responsabilità collettiva”, conseguenza
dell’identificazione operata tra associazioni e membri persone fisiche.
Permarrà ancora, in epoca medievale, e al di là dei tentativi di sistemazione
teorica operati dai Glossatori, il rilievo negli enti associativi della
componente collettivistica, cui si fa
conseguire la capacità dell’universitas
di commettere delitti: «universitas delinquere potest», quindi punibile.
Che gli enti collettivi potessero
commettere reati ed essere puniti era «principio dominante» nella pratica
medievale, anche in riferimento al diritto canonico: la responsabilità penale
era ascritta non solo alle corporazioni, ma a capitoli e congregazioni. Fu la
dottrina elaborata da Sinibaldo dei Fieschi (Papa Innocenzo IV, 1243-1254), in
margine alla natura delle corporazioni, ad introdurre il concetto di “persona
ficta”, “persona repraesentata”: dalla teoria della “fictio” in tema di persone giuridiche
traeva origine una diversa considerazione della responsabilità penale in capo
agli enti collettivi: «impossibile est
quod universitas delinquat». Non scomparve tuttavia, pur nell’accoglimento
del concetto di «finzione», la convinzione che anche la persona giuridica
potesse delinquere, tanto da rendere presente nel diritto comune il principio
del “delitto corporativo”. L’attenzione all’uomo che, nei secoli successivi
(dalla fine del XVI sec.), fu collocato al centro di nuove indagini anche sotto
il profilo giuridico, spense il confronto sulla natura degli enti collettivi,
ma nel contempo segnò ancor più, per differenza ontologica, le successive ed
autorevoli analisi in tema di “persona giuridica”. La “teoria della finzione”,
ripresa dal Savigny, trova nella sua autorevole analisi giuridica risvolti
anche penalistici, per affermare che i
fatti considerati da taluno come delitti delle persone giuridiche non sono che
delitti delle persone che le governano, ossia individui singoli, persone
naturali. Punire per un reato la persona giuridica «sarebbe un andar contro
a un principio fondamentale del diritto penale, quello dell’identità tra
condannato e delinquente».
Se, come si afferma, la storia è maestra di
vita, si può comprendere come autorevoli esponenti della dottrina abbiano
voluto ricercare una teoria fondante la categoria della persona giuridica, così
che oggi, anche lo stesso Relatore al decreto legislativo n. 231/2001 richiama,
e colloca alla base di una precisa scelta normativa, un’altra fondamentale
teoria sviluppata nell’ambito della dottrina tedesca), la «teoria organica».
Evidenti i riflessi penalistici: se le persone giuridiche danno vita a «veri
organismi naturali», dotati di «volontà propria» come le persone fisiche, diventa
possibile in vista di un «rapporto di immedesimazione organica» imputare
all’ente non solo gli atti leciti, posti in essere a suo nome da rappresentanti
e/o amministratori, ma anche gli atti illeciti. In quest’ottica, già negli anni
’70, si affermava: «Societas delinquere potest» (Pecorella).
Limitarsi tuttavia ad un richiamo alle teorie
elaborate all’interno della dottrina civilistica significherebbe perdere quella
“prospettiva”, di cui si diceva, che colloca, in una seconda fase, il
problema della responsabilità delle persone giuridiche in ambito penale in un
contesto, che non è più solo quello del codice penale del 1930, ma il sistema
più generale che dalla Costituzione prende vita.
Se dovessimo del resto soffermarci unicamente
sul dettato del codice penale, l’art. 197, quale novellato successivamente
dall’art.
In realtà, lo stesso Relatore avverte di talune
distinzioni rispetto al settore noto come «amministrativo-punitivo», per sé
delineato nei suoi principi generali dalla legge n. 689/81. Occorre tuttavia
dar conto di quei criteri che oggi inducono a definire la responsabilità in
capo agli enti non solo «punitiva» (Alessandri),
o «sanzionatoria», ma «sostanzialmente penale» (da ultimo, Grosso-Neppi Modona-Violante) per la
sede prettamente penalistica nella quale nasce: dipende dalla commissione di un
reato (lo stesso fungerebbe da presupposto); l’accertamento avviene in sede
processuale penale e con le garanzie del processo penale; ad opera dello stesso
giudice competente a conoscere il reato. Non si rinuncia da ultimo a
sottolineare, come si dirà, il carattere afflittivo del sistema sanzionatorio
conseguente.
Nel testo normativo rimane, peraltro, il dato
formale di una disciplina che attiene, ai sensi dell’art. 1, co. 1° d.lg. n.
231/2001, alla «responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi
dipendenti da reato», responsabilità successivamente definita all’art. 2
«amministrativa». Anzitutto, è da rilevare che le categorie del «reato-presupposto»
ai fini di un addebito di responsabilità in capo agli enti collettivi non
coincidono oggi nel decreto legislativo con quelle previste nella legge delega
n. 300/2000, ma attengono, per stralcio, alle ipotesi di malversazione a danno
dello Stato, indebita percezione di erogazioni pubbliche, truffa e frode ex
artt. 640 bis e ter c.p., se il delitto è commesso in danno dello
Stato o altro ente pubblico (art. 24), corruzione e concussione (art. 25), e, a
seguito dell’introduzione degli artt. 25 bis e ter,
rispettivamente, alla falsità in monete e carte di pubblico credito e reati
societari (d.lg. n. 61/2002).
Quanto all’imputazione ed ai “criteri”, con cui
tale responsabilità opera, si deve riflettere su un dato precedentemente emerso
nella giurisprudenza: il rischio di una trasposizione dal piano dell’«essere»,
ovvero dell’effettiva rappresentazione
dell’evento penalmente rilevante, nella forma limite dell’accettazione del rischio del suo verificarsi – quale ambito proprio
del dolo – al piano del «dover
essere» (in termini di adempimento ovvero inadempimento dei doveri prescritti),
piano su cui diversamente si pone l’addebito per colpa. In proposito, è la stessa dottrina a sottolineare
ulteriormente come «il modello del “rischio” si infiltra deformandoli, in istituti
tradizionali come la colpa e la causalità» (Alessandri).
Ma dall’assiduo impegno, emergente nella prassi giurisprudenziale, volto a
«punire nel singolo l’espressione della politica
d’impresa», veicolo di illeciti penali, si è pervenuti, passando per un
ampliamento della «cerchia dei soggetti» responsabili – ampliamento talora
operato su base presuntiva – ad ascrivere in via «autonoma» all’ente o società
(art. 8) una responsabilità «per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio»,
così l’art. 5, d.lg. n. 231/2001.
A questo primo elemento, fondante il criterio
d’imputazione sul piano oggettivo, «espressione normativa – spiega il Relatore
– del …. rapporto d’immedesimazione organica» tra soggetto autore del reato ed
ente, si affianca la categoria delle persone fisiche, che, proprio in quanto
soggetti attivi del fatto di reato, «impegnano sul piano sanzionatorio
penale-amministrativo la responsabilità della societas». Si tratta di: a) persone che rivestono funzioni
di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua
unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale, nonché
persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso. Quest’ultima previsione, cumulativa
e non alternativa, parrebbe escludere i sindaci dalla categoria in esame.
Ancora, possono essere: b) persone sottoposte alla direzione o vigilanza
di uno dei predetti soggetti.
Oltre ai criteri
oggettivi, per il collegamento tra fatto-reato e persona giuridica o ente,
nel cui interesse o vantaggio è commesso il reato stesso, si delineano criteri soggettivi, in considerazione
del tipo di rapporto funzionale, che lega l’autore del reato all’ente, rapporto
determinante per la configurabilità della stessa responsabilità dell’ente.
Sul punto, è
Emerge, dunque, quasi una struttura dualistica
del sistema di responsabilità: per reati commessi da soggetti in posizione
apicale, si delinea una colpa organizzativa che risulta desumibile, dal
contesto normativo, in forma presuntiva; e di «presunzione
(empiricamente fondata)» parla lo stesso Relatore. Del resto, tale responsabilità
è costruita dall’art. 6 negativamente, ovvero, per il tramite di un’«esimente»
per alcuni, o nella previsione di una «scusante» per altri. Si stabilisce
infatti, al 1° comma, che l’ente non risponde se prova che: a) sono
stati introdotti ed efficacemente attuati, prima della commissione del reato,
modelli di organizzazione e gestione con efficacia preventiva; b) è stato predisposto, con il compito di
vigilare sul funzionamento e sull’osservanza dei modelli, anche al fine del
loro aggiornamento, «un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di
iniziativa e di controllo»; c) l’autore del reato ha eluso fraudolentemente i
modelli e «non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza» da parte
dell’organismo di controllo a ciò preposto.
La minimizzazione del rischio-reato, quale
obiettivo perseguito, e la funzione preventiva ascritta alle disposizioni in
esame, emergono in particolare al 2° co. dell’art. 6, che delinea i caratteri
essenziali del “modello”, atto a prevenire il rischio-reato: a) occorrerà
individuare le sfere di attività, nel cui ambito sussista il rischio-reati; b)
si dovranno prevedere «specifici protocolli diretti a programmare la formazione
e l’attuazione delle decisioni», ai fini della prevenzione del rischio; c) si
tratterà di determinare le «modalità di gestione delle risorse finanziarie
idonee ad impedire la commissione dei reati»;
d) occorrerà altresì assicurare le informazioni all’organismo di
controllo e, nel contempo, dotare di effettività il modello, predisponendo un
sistema disciplinare.
Nel prevedere l’adozione di compliance
programs il legislatore ha espressamente disposto che i modelli
organizzativi vengano adottati sulla base di “codici di comportamento”, redatti
dalle associazioni rappresentative degli enti e comunicati al Ministero di
giustizia. Si delineano in tal senso veri e propri codici etici, definiti «protocolli
organizzativi di categoria», che codificano regole cautelari, la cui violazione
costituirà il parametro «colposo» della responsabilità dell’ente (De Simone).
Per i sottoposti, invece, quali autori
di reato, dispone, l’art. 7 co. 1°, una responsabilità dell’ente, per
inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza, così posti a fondamento
di una colpa non tipizzata. Tale responsabilità potrà peraltro essere esclusa –
questa volta in via indiretta – a fronte dell’adozione del modello di
organizzazione, gestione e controllo, idoneo a prevenire reati della specie di
quello verificatosi. Tale modello, «efficacemente attuato», porterà ad
escludere «l’inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza», inosservanza
come tale posta a fondamento della responsabilità. Si è definita l’ipotesi in
esame, per la sua tipologia, una colpevolezza «ipernormativa e oggettivata»,
equivalente ad una «rimproverabilità della persona giuridica per un deficit di
organizzazione o di attività» (De Simone).
Significativo in tal senso il disposto di cui
al 2° co. (art. 7): «In ogni caso, è esclusa l’inosservanza degli obblighi di
direzione o vigilanza se l’ente, prima della commissione del reato, ha adottato
ed efficacemente attuato un modello di organizzazione»: ne conseguirebbe che di
per sé la commissione del reato non è prova dell’inefficienza del modello.
Ultimo profilo, sempre in riferimento alla
categoria dei sottoposti alla direzione o alla vigilanza delle persone
incaricate della rappresentanza o della amministrazione dell’ente, è quello che
attiene ai collaboratori esterni (figura peraltro ripetutamente
richiamata anche nell’ambito delle Linee guida elaborate dalla Confindustria,
circa la predisposizione dei modelli organizzativi): da un lato, si tratterà di
puntualizzare, ove esistesse, il tipo di prestazione corrisposta all’ente da
parte del collaboratore, in ragione dei poteri allo stesso conferiti;
dall’altro, risulta evidente l’esigenza di evitare che l’ente sfugga a
responsabilità, delegando a collaboratori esterni attività che potrebbero
integrare gli estremi di un reato. Di recente peraltro, si è sul punto
rilevato, in sede di analisi normativa, pur riferita ai reati societari, che
un’interpretazione restrittiva risulterebbe «imposta dal richiamo ad una vigilanza
conforme agli “obblighi inerenti alla... carica”», così che non si potrà
assumere una «carica societaria» in riferimento ai lavoratori autonomi che non
svolgano attività professionale (Conti).
Dalle linee fin qui tracciate, la responsabilità,
ai sensi del d.lg. n. 231/2001, risulta evidentemente in sé svincolata dai
contenuti “noti” di una responsabilità penale personale, per essere ancorata a standard
organizzativi, propri, come tali, di una condotta sostanzialmente
antecedente alla commissione del fatto di reato e, per sé, di sapore
squisitamente preventivo. Gli stessi parrebbero forse evocare una remota
punibilità – in capo alla persona giuridica o ente – ritagliata piuttosto sul
“modo d’essere dell’autore”, se – come si legge nella Relazione – il requisito
soggettivo di responsabilità dell’ente si intende soddisfatto, in ipotesi di
reato commesso da soggetti apicali, in quanto «il vertice esprime e rappresenta
la politica dell’ente».
Si comprende a questo punto, la rilevanza
determinante dell’emanazione di codici di comportamento e la tipizzazione
interna ai modelli di organizzazione e gestione, idonei a prevenire i reati
della specie di quelli verificatisi. In argomento, una notazione sia
consentita. Il Progetto Grosso di riforma del codice penale, che immediatamente
precede il decreto legislativo n. 231/2001, colloca significativamente il tema
della «responsabilità» delle «persone giuridiche» – per sé non qualificata –
nella tematica concernente la «responsabilità per omissione». Nel delineare la
garanzia dovuta dal «soggetto al “vertice”» (tale colui che «per legge o per
statuto, abbia il potere di direzione dell’organizzazione»), la cui «posizione»
è volta ad assicurare l’«osservanza dei precetti legali» connessi, si legge
nella Relazione: «È qui che la disciplina delle posizioni di garanzia
entro l’organizzazione si salda con quella della responsabilità dell’organizzazione,
là dove costituita in forma di persona giuridica. La garanzia è dovuta
innanzitutto dall’organizzazione, e dalle persone fisiche in quanto agenti per
essa. La garanzia dovuta dal vertice è di assicurare che il sistema funzioni,
secondo un modello organizzativo idoneo alla salvaguardia degli interessi
penalmente protetti». Tuttavia si puntualizza: pur essendo il soggetto “al
vertice” tenuto ad assicurare l’adozione e l’attuazione del modello, «non potrà
essere reso responsabile di ogni e qualsiasi insufficienza del modello stesso,
e men che meno di difetti nella sua attuazione, essendo in ogni caso decisiva,
ai fini della responsabilità penale, la questione della colpevolezza
soggettiva».
L’affermazione evoca, dunque, in quanto indefettibile,
quel requisito in altra sede autorevolmente richiamato per ogni fattispecie,
che investa forme associative (Conso):
l’«effettività», che deve connotare ogni accertamento di responsabilità in
materia penale. Ciò varrebbe ad evitare ipotesi, già in precedenza richiamate
con preoccupazione da autorevole dottrina, che finirebbero per evocare
«responsabilità di posizione». L’addebito all’ente collettivo si salda,
pertanto, a seguito del reato commesso a vantaggio o nell’interesse dell’ente
medesimo dai soggetti in posizione apicale, con l’adozione ed efficace
attuazione di modelli di organizzazione, specie per gli enti a struttura
organizzativa complessa.
Tali modelli assurgono ad indici idonei a
fondare, «normativamente», la categoria della responsabilità; «di fatto», a
fornire alla «societas» l’elemento di prova atto a dimostrare la sua
estraneità rispetto al reato commesso dai “vertici”. Se è vero, come si evince
sulla base della previsione di cui al 3° comma dell’art. 6 del d.lg. n.
231/2001, che linee guida per i modelli possono essere elaborate «dalle
associazioni rappresentative degli enti», si comprende come si intraveda nelle
stesse un utile parametro per il giudice nella valutazione del modello.
Basta scorrere le Linee guida elaborate dalla
Confindustria (in una prima stesura in data 7 marzo 2002 e successivamente
aggiornate nel documento del 3 ottobre
Ma un’ulteriore formula dubitativa circa una
possibile “penalizzazione” che – per così dire – potrebbe gravare sugli enti di
piccole dimensioni è sottolineata anche nell’articolato documento predisposto
dalla Confindustria: le minori risorse, di cui tali enti dispongono, da
«dedicare alla predisposizione di un modello organizzativo ed ai relativi
controlli», fanno sì che l’onere derivante dalla istituzione di un organismo di
vigilanza ad hoc «potrebbe non essere economicamente sostenibile». Da
ciò trarrebbe giustificazione l’indicazione data dal legislatore e la
conseguente puntualizzazione contenuta nel documento ora richiamato: le
molteplici responsabilità ed attività su cui quotidianamente l’organo dirigente
deve applicarsi, rendono «auspicabile» la collaborazione di professionisti
esterni, la cui presenza non potrà tuttavia valere ad esonerare l’organo
dirigente dalle responsabilità ad esso conferite dalla legge.
Dal complesso normativo emergono, nel merito,
almeno due profili: l’uno, che in ragione di una legalità in chiave di prevenzione
della commissione di reati nello svolgimento dell’attività dell’ente vede
nell’adozione dei modelli preventivi di organizzazione non già un obbligo, ma
una scelta rimessa all’ente; dalla scelta, peraltro, dipenderà
sostanzialmente l’esonero da responsabilità. L’altro profilo acquista invece
rilevanza rispetto al fenomeno associativo come tale: tutelato in via generale,
in conformità alle prescrizioni dell’ordinamento dagli artt. 2 e 18 Cost., lo
stesso potrebbe trovare proprio nelle società di persone ed associazioni non
riconosciute un soggetto per così dire “debole”, per il quale non potrà certo
valere il principio «summum ius summa iniuria» (Cic., De officiis,
I, 10, 33).
Apparentemente più lineare l’imputazione
all’ente per reato commesso da «sottoposti», ovvero dipendenti dell’ente
medesimo, imputazione fondata – come detto – sul «mancato adempimento degli
obblighi di direzione o vigilanza», quale obbligo generico posto a base della
colpa, e la cui inosservanza abbia reso possibile il reato; diversamente, sarà
ancora una volta l’adozione del modello, in relazione alle dimensioni e alla natura
dell’organizzazione dell’ente, ad escludere l’inosservanza dell’obbligo
prescritto. Resta fermo comunque che ogni responsabilità dell’ente è
evidentemente esclusa (art. 5, co. 2°), allorché i soggetti autori del reato
operino «nell’interesse esclusivo proprio o di terzi».
Ultime, ma non certo per importanza, le
questioni inerenti al sistema sanzionatorio, con cui si intende colpire l’ente
collettivo nella sua capacità patrimoniale e in ragione delle condizioni
economiche. La sanzione pecuniaria, quale sanzione amministrativa, principale e
obbligatoria, è stata prevista a suo tempo nella delega con un margine da
cinquanta milioni a tre miliardi di (vecchie) lire; ma lo stesso Relatore
sottolinea come l’entità del minimo edittale nella «somma prevista» sia indicativo
di «un eccessivo rigore specie se lo si riferisce alla fitta rete di piccole imprese»
operanti in Italia. La scelta dell’organo delegato, nell’art. 10 del decreto, è
stata dunque, per diverse ragioni, quella di una commisurazione per «quote», il
cui importo per unità di riferimento va da un minimo di 500.000 (€ 258) a un
massimo di 3.000.000 di lire (€ 1549) per un fattore moltiplicativo dato da un
numero di quote non inferiore a cento e non superiore a mille. La disciplina si
completa con il successivo art. 11, che dispone la determinazione del numero
delle quote, in considerazione della «gravità del fatto», «grado della
responsabilità dell’ente», e attività volta ad eliminare o attenuare le
conseguenze del reato. Il quantum della quota terrà conto invece delle
condizioni economiche e patrimoniali dell’ente. Significativo tuttavia – (cfr.
art. 12 «Casi di riduzione della sanzione pecuniaria» e art. 17 «Riparazione
delle conseguenze del reato») – il rilievo ascritto alla attività
riparatoria o risarcitoria tenuta dall’ente prima della dichiarazione di
apertura del dibattimento; rilievo, vuoi in termini di riduzione della sanzione
pecuniaria, vuoi ai fini della evitabilità delle sanzioni interdittive. Queste
ultime, sotto il profilo sistematico, differiscono nell’an e nel quomodo
dalle sanzioni principali. Esclusa dalle stesse, diversamente dalla legge
delega, la chiusura dello stabilimento o sede commerciale, se ne limita
comunque la loro applicabilità agli illeciti più gravi e le si prevede, di
regola, in via temporanea. Parametro di scelta per il giudice diventa il tipo
di attività svolta dall’ente, mentre i criteri di commisurazione saranno quelli
oggetto dell’art.
Dovendo necessariamente omettere alcune
previsioni, che significativamente completano il sistema sanzionatorio per
“illecito amministrativo” conseguente alla commissione di un reato, come dianzi
detto, una notazione conclusiva diventa doverosa in tema di confisca, adottata
quale sanzione obbligatoria principale. L’art. 19, infatti, prevede che con la
sentenza di condanna sia sempre disposta la confisca del prezzo o del profitto
del reato, ovvero, qualora non sia possibile, la confisca «può avere ad oggetto
somme di denaro, beni o altre utilità di valore equivalente al prezzo o al
profitto del reato». Dalla confisca, «misura di sicurezza» nella previsione del
codice penale (art. 240), si perviene alla confisca-sanzione riprodotta nel
decreto anche nella forma per «equivalente», la cui applicazione è
ulteriormente estesa secondo il disposto dell’ultimo comma dell’art. 6, norma
dianzi citata. Sotto tale profilo parrebbe fondato, pur in una più ampia
prospettiva, (al di là della mancata previsione, peraltro oggetto della delega,
del diritto di recesso per il socio o associato in caso di accertata
responsabilità amministrativa dell’ente) il dubbio di un’esposizione o denegata
tutela ai soci estranei al fatto vuoi in termini di condotta, vuoi come
impossibilità per gli stessi di impedire la realizzazione dell’illecito, se è
vero, come è vero, che, in base all’art. 27, d.lg. n. 231/2001: soltanto l’ente
risponde «con il suo patrimonio o con il fondo comune» per il pagamento della sanzione
pecuniaria.
Avviati i primi procedimenti presso
Gai Institutiones:
Gai 1.9
Gai 3.148 e 154
Corpus iuris civilis
Digesta:
D.1.8.6.1
D.3.4.1 pr.
D.3.4.2
D.3.4.7.1-2
D.4.3.15.1
D.46.1.22
Decretales Gregori noni, Venetiis, MDLXVI
Innocentii Quarti (Sinibaldo Fieschi), Super libros
quinque decretalium, Francofurti, MDLXX, in c. 14, X, II, 1, nr. 2; in c.
57, X, II, 20, nr. 5; in c. 30, X, V, 3; in c. 52, X, V, 39, nr. 1-2; in c. 64,
X, V, 39, nr. 3.
Bartoli A Saxoferrato, Tractatus super
constitutione Ad reprimendum, in Consilia Quaestiones, et Tractatus,
Lugduni,
Francisci Duareni, Opera omnia,
Lugduni, MDLXXIX, Lib. IV Digest. seu Pandectarum, Tit. III, 2 (71).
Francisci Duareni, Opera omnia,
Tomus primus, Lugduni, MDLXXXI, Lib. XLVI Digest. seu Pandectarum, Tit. XXII
(1549).
Francisci Duareni, in Lib. IV cod. et
III partem Digest. Commentariorum, Tomus alter, Lugduni, MDLXXXI, Tit.
XXXVIII. Lib. IV cod. et. Tit. II. Lib. XVII. Pandectarum, 1 (230); 2 (232).
Prosperi Farinacii, Praxis, et theoricae
criminalis, Partis primae, tomus primus, Lugduni, MDCXIII, Quaest. XXIV, n.
107-111 e n. 115.
Regolamento di polizia punitiva pel Granducato di Toscana, 1853, P.
I, Tit. unico, Capo V, art. 17.
Progetto del codice penale per il regno
d’Italia – Relazione Zanardelli, Roma 1888, 176 s.
Codice penale per il Regno d’Italia, Roma, 1889, art. 60.
G. Crivellari, Il codice penale
per il Regno d’Italia, Torino, 1892, vol. III, sub art. 60, 730 ss.
Progetto Preliminare di un nuovo codice penale, Ottobre 1927,
(artt. 197 e 198).
Relazione Appiani, in Lav. prep. cod. pen. e cod. proc. pen.,
vol. IV, Atti della Commissione Ministeriale incaricata di dare parere sul
Progetto preliminare di un nuovo codice penale, P. Ia, Roma, 1929, 154 s.
Libro I del Progetto – Verbale della Commissione n. 39 (13.5.1928),
in Lav. prep. cod. pen. e cod. proc. pen., vol. IV, Atti della
Commissione Ministeriale, P. IIa, Roma, 1929, sub art. 197, 541 ss.
U. Conti, Il
codice penale illustrato articolo per articolo, vol. I, Milano, 1934, sub
artt. 196-197, 824 ss.
Falzone-Palermo-Cosentino, La costituzione
della Repubblica italiana illustrata con i lavori preparatori, 2a ed.,
Roma, 1954, sub art. 27, 84 ss.
C. Saltelli, E. Romano – Di Falco, Commento
teorico-pratico del codice penale, vol. II, 3a ed., Roma, 1956, sub
artt. 196-197, 428 ss.
Raccomandazione N.R. (88) 18 del Comitato dei Ministri del Consiglio
d’Europa.
Progetto preliminare di riforma del codice penale, Parte generale, Relazione (12.9.2000)
e Relazione sulle modificazioni al progetto preliminare di riforma della parte
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