N° 2 - Marzo 2003 – Lavori in corso – Contributi
LO SPAZIO DELLA MEDIAZIONE
Università di Sassari
Sommario: 1. Premessa. – 2. Sui limiti del diritto come mezzo di pacificazione sociale.
– 3. Sulla vera natura del conflitto sociale. – 4. L’inflazione processuale e i metodi ADR.
– 5. Alcuni vantaggi dell’ADR. – 6. Conciliazione come mediazione. – 7. Patologicità del tecnico. – 8. Sulla struttura della mediazione. – 9. Diverse concezioni della mediazione. –
10. Il posto della mediazione.
Giustizia sostanzialista e
giustizia formalista: la prima è ‘antica’, la seconda ‘moderna’.
In una società tradizionale, ancora
priva della separazione tra diritto e morale, l’ethos violato richiede di essere rapidamente ripristinato. Che ciò
avvenga per mezzo di una ritorsione privata o tramite un ‘giudizio’,
l’importante è disporre di un capro espiatorio da sacrificare sull’altare
dell’Ordine del gruppo. Non vi è problema di prove e cautele procedurali,
perché la sentenza e la pena sono note fin dall’inizio: esse sono in qualche
modo consustanziali alla violazione stessa. Lo si può vedere ancora oggi nei
regimi politici in senso lato integralisti, dove esiste una contaminazione
sistematica tra diritto e morale sociale ‘ufficiale’: nei luoghi dove una sola
cosa può essere detta, l’esibizione di facciata della razionalità procedurale
serve soltanto ad avallare giuridicamente ciò che è già stato deciso
politicamente.
Noi moderni da tempo cerchiamo (almeno
pubblicamente) di ripudiare questa concezione di giustizia. Non volendo (o non
potendo) sapere cosa sia ‘giusto’ in senso sostanziale, abbiamo escogitato
complesse metodiche procedurali-formali volte a produrre la cosiddetta ‘verità
processuale’; pallido riflesso – ma l’unico umanamente accessibile – dell’idea
di giustizia. In altri termini, mentre ci teniamo a distanza dall’oggetto
pericoloso e desiderato, tentiamo tuttavia nostalgicamente di comportarci come se fosse ancora raggiungibile; sia
pure per altre vie.
Situazione spesso spiacevole e
problematica, almeno sul piano psicologico. Se infatti dal punto di vista
istituzionale e ordinamentale il passaggio dalla prima alla seconda nozione di
giustizia appare come un’evoluzione improbabilmente reversibile, a livello
psicologico individuale i due modelli spesso convivono ancora conflittualmente:
si pensi al dilemma tra ‘cosa è giusto fare’ e ‘cosa ho il diritto di fare’. La
nozione sostanzialista di giustizia tenta ancora di far valere i propri diritti
contro quella formalista; il sottofondo istintuale dell’esperienza giuridica
cerca di rompere gli argini di razionalità – tutto sommato piuttosto recenti –
entro cui è stato imbrigliato[1].
Anche la nostra cultura appartiene da
tempo al gruppo di quelle che hanno deciso di delegare la gestione dei
conflitti sociali al diritto e ai suoi strumenti formali di decisione delle
controversie. Non importa se di civil
o di common law, se ‘accusatori’ o
‘inquisitori’, i nostri sistemi giuridici ci sembrano i soli capaci di
garantire la pace e l’ordine, scongiurando al tempo stesso la necessità di
ricorrere a interventi di controllo eccessivamente repressivi, o addirittura
totalitari.
Tuttavia è proprio dall’interno della
più proceduralista tra le culture giuridiche moderne, quella americana, che si
sono sviluppate le reazioni alternative più significative alla razionalità
procedurale-formale. Sono ormai più di trent'anni che i metodi informali di
risoluzione delle controversie – in particolare quelli basati sul modello della
mediation conflittuale - trovano
ampia applicazione negli ordinamenti anglosassoni, e specialmente in quello
statunitense[2].
L'interesse, sia teorico che pratico, per questi strumenti sta crescendo in
numerosi paesi europei, il nostro compreso. Diversi fattori hanno congiurato,
sul finire degli anni '60, nel favorire il fenomeno; ma, almeno per quanto
riguarda gli Stati Uniti, esso s'inquadra in un più vasto movimento di critica
de-legalizzante e de-istituzionalizzante al proceduralismo formalista[3],
le cui origini si collocano agli inizi del ‘900. Una delle prime e più
importanti voci che all’epoca si levarono contro le distorsioni e gli eccessi
del sistema adversary americano, fu
quella di Roscoe Pound con il suo attacco alla cosiddetta "sporting theory
of justice". La sua tesi era che il formalismo giuridico incoraggiava un
uso strumentale del diritto, poiché
era incapace di favorire l'accordo basato su un consenso intorno ai valori
realmente in gioco nel conflitto: «L'effetto della nostra procedura
esageratamente contenziosa non è soltanto di eccitare le parti, i testimoni e i
giurati, ma anche di diffondere nella comunità un falso concetto delle intenzioni
e degli scopi del diritto [...]. Se la legge è solo un gioco, né i giocatori
che vi prendono parte né il pubblico che vi assiste possono essere spinti a
sottomettersi al suo spirito, quando vedono che i loro interessi sono meglio
serviti eludendolo [...]. Così i tribunali, istituiti per amministrare la
giustizia secondo la legge, si trasformano in agenti o in complici
dell'illegalità»[4].
Molti decenni più tardi, sarà
praticamente con gli stessi argomenti che si tenterà di dimostrare come gli
ideali di eguaglianza, giustizia e libertà invocati a sostegno della 'legalità'
in una democrazia liberale, entrino di fatto in conflitto proprio con le
procedure formali di risoluzione delle controversie che, applicandoli
sostanzialmente, dovrebbero legalizzarli[5]:
in altri termini, gli strumenti di aggiudicazione che, provvedendo
all'applicazione della 'giustizia', costituiscono il principale riferimento per
la legittimazione di un ordinamento eminentemente proceduralista come quello
americano, spesso fallirebbero nel loro scopo proprio per eccesso di
formalismo. La 'delegalizzazione' propugnata dal movimento riformista
consisterebbe conseguentemente in un ridimensionamento del formalismo
procedurale in nome del recupero di una razionalità sostanziale incentrata più
sulla tutela di interessi che non
sull’accertamento di diritti.
Soprattutto l'antropologia si è fatta
carico di produrre un'ampia letteratura dedicata a evidenziare comparativamente
l'esistenza di una vasta diffusione transculturale di metodi di 'soft justice' radicalmente alternativi
ai 'valori' di riferimento della razionalità procedurale moderna. L'antropologia giuridica e le indagini sugli
ordinamenti in senso lato 'tradizionali', hanno sicuramente ridimensionato la
centralità dei modelli di legalità e di giudizio dominanti nelle moderne
società tecnologicamente avanzate, mostrando come le procedure informali di
risoluzione delle controversie - in particolare quelle basate sulla mediazione
e la negoziazione - siano state largamente impiegate nel corso della storia da
un gran numero di culture. Hanno insomma 'scoperto' che non esisterebbe
affatto, né sostanzialmente né proceduralmente, un concetto univoco di
'legalità', dal momento che in tutte le società la 'legge' opererebbe da sempre
in ambiti e con strumenti molto differenziati[6].
Soltanto il pregiudizio etnocentrico e una buona dose di presunzione culturale,
uniti talvolta al retaggio della venerata tradizione romanistica, farebbero
ritenere agli abitanti della parte nord-occidentale, 'ricca e stabile' del
pianeta, di vivere nella migliore possibile, se non nell'unica vera civiltà
giuridica.
«Abbiamo conservato le tracce di almeno
diecimila sistemi di diritto»[7]:
il nostro sarebbe in realtà soltanto uno
tra questi. E forse nemmeno il migliore, almeno dal punto di vista della qualità della pace sociale che riesce a
garantire.
Ambigua è la funzione del diritto: per
comprenderla, una buona metafora potrebbe essere quella del confine. Tra gli stati e le nazioni, il confine è spesso una sorta
di ‘luogo geometrico’ (cioè immateriale e convenzionale) che esiste soltanto
nelle carte geografiche e nella mente di chi lo deve oltrepassare. Tuttavia,
garantendo ai popoli che separa
l'esclusiva di uno spazio vitale, esso fornisce sicurezza e conferisce
identità, con perfetta simmetria. Ovviamente esistono confini ‘buoni’ e aperti
e confini ‘cattivi’ e chiusi: confini attraverso i quali i popoli fanno
serenamente transitare i loro scambi commerciali, e confini attraverso i quali
le nazioni muovono eserciti per affermare con la forza la loro identità
inflazionata. Confini simili alla bassa siepe tra i giardini di due vicini
premurosi, e confini che ricordano le mura paranoiche di una fortezza assediata.
Come il confine tra i popoli, così il
diritto tra gli individui, insieme unisce
e divide: disegna intorno a
ognuno quella sfera di diritti e doveri che ne rappresenta l'identità civile; e
stabilisce i modi e le forme in cui le diverse sfere possono o devono entrare
in contatto tra loro. Quindi, al pari del confine, conferisce identità e
fornisce sicurezza[8].
In questo senso, il diritto può essere visto costituire il minimo comun
denominatore dell'umano ‘di base’ nel contesto sociale: regolamentando gli egoismi
e ponendo un freno alle reciproche invasioni, è condizione necessaria allo sviluppo delle potenzialità individuali, al
manifestarsi dell'umano ‘di vertice’. Ma non è sufficiente. Perché se il principio originario del diritto consiste
essenzialmente in una radicale alternativa di metodo alla violenza, tuttavia niente impedisce - se non il
riconoscimento, necessariamente meta-giuridico, della presenza nell'’altro’ di
un identico rango ontologico - che col diritto si continuino a perseguire gli
stessi scopi di prevaricante
affermazione dell'esserci, tipici
della violenza. Se la presenza del diritto è la discriminante forse
fondamentale per rendere possibile un'umana esistenza, un'esistenza che voglia
dirsi veramente umana non potrà mai passare esclusivamente attraverso di esso.
Il diritto possiede dunque dei limiti
ontologici. Questi limiti emergono soprattutto in relazione alla sua capacità
di essere o meno un efficace strumento di pacificazione
nei rapporti sociali.
Come vera ‘salute’ non è soltanto assenza
di malattia, così vera ‘pace’ non è soltanto assenza di guerra: esistono
numerosi stati, o livelli, di pace diversi; e altrettanti modi di risoluzione
dei conflitti ad essi corrispondenti. Il livello più basso di pacificazione è
sicuramente quello dell'armistizio: i
contendenti depongono le armi e sospendono le ostilità, ma non per fare la pace; semplicemente, si lasciano in pace, perché sono venute
momentaneamente meno le risorse materiali o le spinte motivazionali necessarie
al conflitto; le ingiustizie perpetrate e subite rimangono intatte sul terreno
della contesa. La pace come armistizio presuppone che il parametro di normalità
nelle relazioni sia rappresentato dallo stato di guerra.
Diversa appare, almeno nelle intenzioni,
la pace perseguita attraverso il diritto. E' la ricerca, o il ripristino, di un
ordine basato sulla certezza dei rapporti: sulla nitida
individuazione e separazione della pretesa dall'obbligo, della ragione dal
torto, dell'innocenza dalla colpevolezza. Tale la natura della pace che discende
dalla sentenza o dal lodo arbitrale[9].
La legge si sostituisce alla violenza, certificando erga omnes le posizioni reciproche, rendendole esigibili e
coercibili. L'ordine e la sicurezza non dipendono perciò tanto dalla validità
della soluzione adottata o dal consenso delle parti, quanto dalla forza
dell'ordinamento e dall'efficacia del suo apparato di coercizione. I
contendenti potranno anche non essere soddisfatti; le radici del conflitto non
essere estirpate: la ‘pace’ del diritto funzionerà comunque, riposando sulla
sua capacità impositiva. Come certi medicinali, il diritto sembra dunque capace
di trattare soprattutto i sintomi, e non le cause, di un malessere.
La pace assicurata dal diritto,
rimanendo alla ‘superficie’ degli eventi, si dimostra spesso carente sia sul
piano etico generale, sia su quello pratico dell'effettiva risoluzione del
conflitto: sul piano etico, non solo non spinge i contendenti alla
consapevolezza delle proprie reali motivazioni, ma non va oltre la mera
tolleranza, senza pervenire a un vero riconoscimento
dell'altro; sul piano pratico, confonde quasi sempre la verità con la vittoria,
lasciando lo sconfitto solo col suo rancore e il suo desiderio di rivalsa. Ciò
perché essa segue a una procedura che di fatto tende ad assimilare i
contendenti più alla figura del nemico che
non a quella dell’avversario.
L’avversario è colui senza il quale, nel conflitto, io non esisto: solo dove
lui è, anch’io posso veramente essere. Con lui ci si confronta. L’avversario mi permette infatti non solo di misurarmi
con lui, ma anche con me stesso: mi fa scoprire i miei limiti e le mie
possibilità. L’avversario è come me:
ha i miei stessi timori e le mie stesse speranze; imparando a conoscerlo,
scoprendo la sua forza e le sue ragioni, i suoi punti deboli e le sue
incongruenze, imparo a conoscere anche i miei. Perciò gli devo rispetto. Il nemico è invece colui che
m’impedisce di esistere: dove lui è, io non posso essere. Con lui si combatte; fino alla resa, o all’annientamento.
Tale è in realtà l’esito di ogni vittoria,
anche processuale.
La pacificazione giuridica non farebbe
del resto che riflettere, nei metodi utilizzati e nei risultati perseguiti, il
modo tipicamente competitivo d'intendere le relazioni sociali diffuso nelle
moderne società tecnologicamente avanzate: non esistono altri esiti possibili
di una disputa, oltre la vittoria/sconfitta e il compromesso. E il conflitto
diventa contesa soprattutto perché il
bisogno percepito come fondamentale è quello di avere ragione, non quello di trovare
una soluzione: «L'ego di ciascun soggetto s'identifica ben presto con la
posizione presa; l'oggetto della controversia viene accantonato per lasciare
spazio allo scontro tra le persone, tra le rispettive (incompatibili) volontà
di vittoria. Così facendo il conflitto perde la sua oggettività e 'si
personalizza', non è più uno scontro 'su' qualcosa, ma 'fra' qualcuno. [...]
Gli effetti svantaggiosi di questa situazione sono evidenti: la creazione di
una crisi di comunicazione, l'inasprimento o la rottura delle relazioni
interpersonali, l'incapacità a ricercare la migliore soluzione possibile date
le circostanze»[10].
Gli ordinamenti procedurali-formali non
ignorano del tutto gli strumenti informali di soluzione delle controversie;
tuttavia riescono quasi sempre a snaturarne la funzione. Ad esempio, il nostro
codice di procedura civile conosce da sempre l’istituto del tentativo di conciliazione che dovrebbe
essere effettuato dal magistrato con la presenza diretta delle parti. Questo
però nella realtà quasi mai viene seriamente perseguito: il più delle volte è
vissuto anzi come un intralcio, come un corpo estraneo a una procedura che, una
volta avviata, è rivolta a ben altri risultati. E comunque, quando viene
tentato, rimane quasi inevitabilmente segnato dalla mentalità decisionale di chi lo opera: il giudice.
è insomma una conciliazione molto
‘guidata’ e influenzata dall’incombenza del giudizio. Soprattutto, è una
conciliazione operata da soggetti che quasi mai sono specificamente preparati a
utilizzarla in quanto efficace e autonomo strumento di soluzione della
controversia.
Il modo in cui è stata trattata finora
la conciliazione nell’ambito delle nostre istituzioni non è altro che una
conseguenza dell’atteggiamento culturale con cui, nelle nostre società, ci si
accosta normalmente al conflitto[11].
Lo si considera senz’altro un evento patologico, un problema da risolvere in
via esclusivamente tecnica da parte di soggetti professionalmente addestrati a
farlo nell’ambito di una struttura formalizzata: il processo-giudizio. Tutte le
società tecnologicamente avanzate manifestano in varia misura questa tendenza:
c’è, per così dire, una diffusa ‘mancanza di fantasia’ che porta a ritenere il
giudizio, la decisione imposta da un potere esterno, come il principale, se non
l’unico, metodo praticabile di soluzione conflittuale. Ad esempio, in molti
rapporti commerciali si oscilla spesso da un eccesso d’informalismo (promesse
verbali, fiducia personale assoluta …) finché le cose ‘vanno bene’, a un
improvviso eccesso di formalismo (la lite, il processo) quando sorgono dei
problemi. Nel mezzo c’è invece tutto uno spazio intermedio, spesso inesplorato,
dove possono venire utilmente applicati i metodi in senso lato riconducibili al
modello della conciliazione.
Un primo passo per cominciare a
comprendere dove inserire utilmente gli strumenti informali di soluzione delle
controversie potrebbe essere proprio quello di considerare il conflitto non come
un evento sociale patologico, un male da curare o da rimuovere, ma come un
fenomeno fisiologico; talvolta
addirittura positivo. Se spogliato dalla considerazione pregiudiziale negativa,
un conflitto non è dopotutto altro che una disputa tra tesi e opinioni diverse
intorno a un problema. Può essere visto e vissuto come un’occasione di
confronto, certo anche di contrasto, ma non necessariamente di dissidio insanabile che escluda a priori
la possibilità della comunicazione e implichi la trasformazione dell’avversario
in un nemico da sconfiggere (secondo la logica vittoria\sconfitta tipica del
processo). Del resto, anche una banale considerazione del conflitto in termini
di ‘darwinismo sociale’, fa comprendere come esso sia indispensabile allo
stesso progresso: una società senza conflitti è inevitabilmente statica; non
solo, c’è da diffidare delle società che apparentemente non manifestano
conflitti. Quello che conta, non è che ci
siano conflitti, ma come questi
vengono gestiti.
è ovvio che una società può essere minata
profondamente da una cattiva gestione dei conflitti. Ma ‘cattiva’ è appunto se
mai la gestione, non il conflitto in quanto tale. Il conflitto di per sé è un fatto, un evento, un fenomeno neutrale:
sono le nostre valutazioni che lo qualificano come ‘utile’ o ‘inutile’,
‘positivo’ o ‘negativo’, e simili. Dipende quindi da noi come considerarlo. Per
ora ci siamo limitati a un solo tipo di scelta, credendo che fosse l’unica
possibile. Di più: in una società dove i soggetti hanno spesso in comune soltanto
il conflitto che contingentemente li oppone, questo potrebbe essere inteso
anche come un’occasione di comunicazione che, se adeguatamente sfruttata, è
talvolta in grado di generare insospettate, nuove opportunità per entrambe le
parti.
I metodi alternativi e ‘informali’ di
risoluzione delle controversie (Alternative
Dispute Resolutions - A.D.R.),
con un ritardo di decenni rispetto ai paesi di common law e anche di alcuni europei, si stanno affacciando come
realtà autonoma anche nel nostro ordinamento[12].
L’origine della diffusione moderna di questi strumenti, come abbiamo accennato,
va ricercata negli Stati Uniti dei primi anni ‘70 e, soprattutto all’inizio, fu
determinata da motivi prevalentemente utilitaristici legati al fenomeno della
cosiddetta ‘litigation explosion’.
Tra il 1970 e il 1985 il numero delle
cause civili iscritte presso le corti federali americane era più che
quadruplicato. Si trattava soprattutto di cause complesse, che implicavano
tempi lunghi ed elevati costi di gestione: viene stimato che nel giro di un
decennio le spese vive sopportate dal sistema della giustizia civile americano
siano quasi raddoppiate, giungendo a sfiorare l’equivalente di 60.000 miliardi
di lire dell’epoca. Costi che, soprattutto in un sistema di mercato
assolutamente liberista come quello americano, venivano a minare la
competitività globale dei soggetti produttori coinvolti, che si vedevano
inevitabilmente costretti a scaricarli sul consumatore finale[13].
Diverse erano le cause di questa
degenerazione patologica del sistema di gestione della patologia sociale. In
primo luogo il grande incremento della legificazione statale in materie
tradizionalmente lasciate all’autodeterminazione contrattuale delle parti: a
riprova che c’è una relazione diretta, e non inversa, tra quantità di norme di
un ordinamento e quantità di controversie. Poi l’imprevedibilità dei verdetti
delle giurie popolari: il ‘trial by jury’, caposaldo dei diritti di libertà
americani teoricamente accessibile a tutti, presenta forti rischi di
manipolazione della cosiddetta ‘verità processuale’, oltre a propendere spesso
per indennizzi decisamente esagerati. Infine la crescita esponenziale del
numero dei professionisti legali, ormai divenuti un vero e proprio problema
sociale: gli avvocati americani sono attualmente oltre un milione; possono
farsi pubblicità; lavorano normalmente in base al patto di quota lite (il
‘contingent fee’)[14];
con quali conseguenze è facile immaginare. Il risultato è stata la paralisi,
tendenziale se non attuale, di numerosi settori della giustizia civile. Le
differenze con la situazione italiana odierna sono ‘di scala’, non di qualità o
quantità[15].
Motivi in senso lato di ordine
ideologico e culturale hanno congiurato a favore della diffusione dei metodi
ADR. è però evidente che già sul
piano semplicemente pratico-utilitaristico vi erano ragioni più che sufficienti
per tentare l’esperimento.
Molti e diversi sono gli strumenti di
soluzione delle controversie riconducibili all’ambito dell’ADR: tutti però
condividono la caratteristica di voler fornire una gestione privata del conflitto, nel senso che le
parti si accordano per tentare di risolverlo con dei mezzi diversi da quelli
del processo-giudizio pubblico. Gli strumenti dell’ADR sono molteplici ma, a
ben vedere, costituiscono essenzialmente delle ‘variazioni sul tema’ di due
modelli base: l’arbitrato e la mediazione. In termini generalissimi, il
primo è una forma di giudizio privatizzato; la seconda una negoziazione
assistita.
L’arbitrato è una procedura secondo cui
le parti si accordano per sottomettere la loro controversia alla valutazione di
un terzo (singolo o collegio) arbitro imparziale. Il risultato della procedura
è di solito una decisione (lodo) variamente vincolante.
Lo schema di massima è quello del
processo-giudizio ufficiale. Rispetto a questo, l’arbitrato diminuisce il
formalismo della procedura (le parti possono accordarsi preventivamente sulle
regole da seguire per produrre documenti, testimonianze, ecc.); aumenta la
competenza del terzo decisore, che viene di solito designato in quanto esperto
nella materia oggetto del contendere (mentre il giudice pubblico è
‘precostituito per legge’); accorcia drasticamente i tempi di decisione.
Dell’arbitrato si servono soprattutto soggetti imprenditoriali e commerciali.
Può avere dei costi elevati, ma questi vengono comunque in genere ripagati dai
risparmi di tempo e dalla competenza della decisione. Dato l'informalismo della
procedura, l’arbitrato può aprirsi abbastanza agevolmente agli altri strumenti
alternativi di soluzione delle controversie; in particolare alla conciliazione.
La mediazione è una procedura in cui un
terzo neutrale, il mediatore, assiste le parti nel ricercare una soluzione al
loro conflitto accettabile per entrambi. A differenza dell’arbitro, il
mediatore non ha il potere di prendere decisioni vincolanti.
La mediazione può funzionare anche
quando le parti non sono state capaci di raggiungere un accordo in sede
negoziale, perché il mediatore, grazie alle sue tecniche di comunicazione e
alla sua competenza in materia, può assisterle nell’esplorare alternative che
esse, da sole, non erano state capaci di prendere in considerazione. Alcuni dei
principali vantaggi della mediazione:
-
le
parti sono coinvolte direttamente nella negoziazione dell’accordo;
-
il
mediatore, in quanto terzo neutrale, possiede una visione ‘esterna’ e oggettiva
del conflitto; proprio per questo può aiutare le parti nella ricerca di
alternative insospettate;
-
la
procedura è rapida e meno costosa non solo rispetto al giudizio, ma anche
all’arbitrato;
-
i
mediatori sono professionisti dotati di formazione specifica e di competenza
tecnica;
-
è
la procedura che maggiormente tutela la conservazione dei rapporti tra le
parti;
-
è
aperta a soluzioni creative che rispecchino i reali interessi delle parti;
-
le
informazioni assunte nel corso della mediazione sono normalmente riservate e
non possono venire utilizzate nell’ambito di altre procedure, formali o
informali[16].
Secondo le statistiche,
il 95% dei procedimenti giudiziari americani si concludono con un accordo di
tipo transattivo o compromissorio; spesso appena prima di andare in aula per il
dibattimento. Il ricorso a metodi ADR, anche nell’ambito di processi già pendenti
davanti a un tribunale, può portare a un’equa soluzione mesi, o addirittura
anni, prima della procedura standard.
In molti casi le normali procedure
giudiziarie risultano troppo lente e complesse per produrre dei risultati che
valgano la pena dei costi sostenuti, specie tenuto conto del fatto che
l’accertamento giudiziario dei fatti non si basa sul principio di ottenere il
massimo numero possibile d’informazioni a un costo ragionevole, ma di ricercare
ogni informazione che sia comunque rilevante
come prova. Non sono rari negli Stati Uniti i verbali di processi da cui
risulta che il costo della raccolta di tutte le informazioni rilevanti per la
causa supera di gran lunga l’importo di ogni possibile risarcimento[17].
In poche parole, più tardi ci si accorda (se ci si accorda) più alto è il
costo. La soluzione tramite un metodo ADR, ove praticabile, elimina o comunque
riduce drasticamente le spese per le indagini di accertamento: l’esperienza
americana mostra che l’80% delle informazioni rilevanti possono essere ottenute
al 20% del costo necessario per una procedura giudiziaria standard.
Infine, il controllo delle parti sui
risultati della procedura. I metodi ADR si sono dimostrati capaci di risolvere
conflitti complessi e apparentemente insolubili, in cui erano coinvolti
emozioni e interessi che difficilmente avrebbero potuto trovare piena udienza
nell’ambito di una procedura di giudizio formale. Spesso le parti si sono
risolte a ricorrere alla giustizia ‘alternativa’ quando hanno realizzato che
con quella ‘normale’ avrebbero perso ogni controllo sul prodotto finale della
decisione. Come conseguenza indiretta, specie su certe materie i metodi ADR
svolgono poi un’azione di cura del rapporto tra la parti e di prevenzione
conflittuale, come vedremo meglio più oltre.
La società americana, forse la più
giudiziariamente litigiosa del pianeta, si è insomma accorta che i tribunali
non possono più essere sempre i luoghi dove cominciano le soluzioni delle dispute,
ma i luoghi dove le dispute vanno eventualmente a finire dopo che sono stati
sperimentati altri sistemi di soluzione. Gli operatori giuridici americani si
stanno sempre più orientando verso una prospettiva in cui metodi ADR e metodi
‘tradizionali’ convivono senza soluzione di continuità. In cui la “A” di ADR
non significa più ‘alternativo’, ma semplicemente ‘adeguato’ alla circostanza e
al tipo di conflitto da risolvere.
La mediazione appartiene dunque all'ambito
degli istituti conciliativi di
giustizia informale che si propongono come alternativa non solo al processo, ma
anche al giudizio, in quanto
strumenti efficaci, economici, e soprattutto 'etici', di soluzione conflittuale
(i processualisti avrebbero forse da ridire, perché tecnicamente solo
l’arbitrato e il giudizio risolvono
il conflitto: la negoziazione\transazione e la conciliazione\mediazione lo estinguono). Per essere più precisi,
abbiamo visto come la mediazione sia il metodo, lo schema procedurale che
caratterizza una gran parte di questi
istituti; e in particolare la conciliazione. Potenzialmente, i suoi ambiti di
applicazione sono i più diversi: dal civile al penale, dal contenzioso
amministrativo alle controversie di lavoro. E anche le figure dei mediatori
possono differire notevolmente, sia dal punto di vista della loro formazione
tecnica e del reclutamento, sia da quello dell'appartenenza a istituzioni
pubbliche oppure a strutture private. Un elemento comune di metodo permane però
costante, e consiste soprattutto nel tentativo di prevenire la degenerazione
del conflitto in dissidio; e di giungere, se possibile, alla soluzione della
controversia attraverso il componimento pacifico e volontariamente concordato
delle parti, alla presenza di un terzo, 'maieuta' imparziale. La mediazione si
propone dunque come un approccio alla gestione dei conflitti alternativo e in
vario modo autonomo rispetto alle procedure legali tradizionali basate sul
sistema contraddittorio-accusatorio.
Alcune descrizioni:
«Un processo, quasi sempre informale,
attraverso il quale una terza persona neutrale tenta, tramite l'organizzazione
di scambi tra le parti, di consentire a queste di confrontare i loro punti di
vista e di cercare, con il suo aiuto, una soluzione al conflitto che le oppone»[18].
«L'intervento nell'ambito di una disputa
tra due contendenti di una terza persona imparziale e neutrale, gradita a
entrambi, che non riveste autorità decisionale, ma li aiuta affinché essi
pervengano a una soluzione della vertenza che risulti di reciproca
soddisfazione soggettiva e di comune vantaggio oggettivo»[19].
La mediazione è insomma una procedura
consensuale nella quale le parti in conflitto presentano i loro punti di vista
a una terza parte neutrale, mantenendo tuttavia il controllo del processo e del
risultato. Non si garantisce un accordo finale, e il mediatore non ha il potere
di prendere una decisione vincolante per le parti in conflitto. è notevole la differenza con l’arbitrato, dove invece i partecipanti
convengono di permettere a un terzo neutrale di decidere, in maniera spesso
vincolante per le parti, anche il risultato. Mediazione e conciliazione sono
infatti strumenti di risoluzione delle controversie che appartengono all’ambito
dell’ordine negoziato; l’arbitrato,
almeno per alcuni aspetti, a quello dell’ordine
imposto.
Sono questi i due grandi insiemi dei metodi di soluzione dei
conflitti. Nell’insieme dell’ordine negoziato, le parti mantengono dall’inizio
alla fine il controllo sulla procedura e il suo eventuale risultato. La
procedura è autonoma, nel senso che volta per volta segue tutte e sole le
regole che le parti abbiano stabilito; e informale, nel senso che non segue
(almeno apparentemente) prescrizioni e modelli. Nell’insieme dell’ordine
imposto, le parti hanno un controllo limitato (o nullo) sulla procedura e il
suo esito. Le regole procedurali sono in varia misura poste dall’esterno e in
generale non sono disponibili. La procedura è (in varia misura) formale,
soprattutto nel senso che non ha interesse per le intenzioni delle parti, ma
solo per gli atti di queste formalmente corretti. Le nostre società praticano,
spesso dilettantescamente e inconsapevolmente, i metodi dell’ordine negoziato.
Mantengono come modello di riferimento culturale soprattutto quelli dell’ordine
imposto.
Gli strumenti di mediazione sono
pre-giuridici nel duplice senso che esplicano il loro intervento possibilmente prima del ricorso alla giustizia
'ufficiale' (anche se a questa sono variamente collegati, quanto a
legittimazione e a conseguenze), e che utilizzano mezzi e perseguono fini
notevolmente diversi da quelli delle classiche procedure di aggiudicazione.
Come si diceva, non hanno molto in comune con le varie forme di arbitrato,
attraverso le quali i privati ricercano dopotutto soltanto quella speditezza
giurisdizionale che l'amministrazione pubblica della giustizia spesso non è in
grado di offrire. E ben pochi punti di contatto hanno anche con la transazione negoziale, nella misura in
cui questa è soltanto la ricerca di un compromesso intorno a posizioni rigide;
una contrattazione che verte sulle rispettive pretese, piuttosto che sui reali
motivi e interessi sottostanti a ciascuna di esse[20].
A questo punto dovrebbe
cominciare a essere chiaro che gli strumenti di mediazione\conciliazione – se correttamente
intesi e utilizzati - si presentano come alternativi, anche culturalmente, ai
modi e alle forme con cui il diritto viene correntemente inteso e utilizzato
nel contesto delle società tecnologicamente avanzate. Per poterne perciò
cogliere il significato, bisogna soffermarsi un poco sulle caratteristiche di
quest’ultimo; sulle sue possibilità, e sui suoi limiti, in quanto strumento di
soluzione dei conflitti.
Nella società civile, il modo stesso in
cui sorge la lite manifesta quasi sempre la tendenza a esaltare, piuttosto che
a sedare, gli aspetti patologici del contrasto.
Vi è intanto un immediato azzeramento
della comunicazione interpersonale diretta: l'uno toglie all'altro la parola e,
per ritualizzare subito il passaggio alla violenza che potrebbe essere
imminente, la trasferisce a esperti capaci di confrontarsi in base a regole
formalizzate; questo in sostanza significa «le mando l'avvocato», «farò ricorso
al mio legale». Date le premesse, neppure gli avvocati però si parleranno, ma
si rivolgeranno a un terzo, arbitro della contesa rituale (il giudice) e si
nomineranno l'un l'altro in terza persona. Il loro linguaggio, anch'esso
contagiato dalla patologia, non potrà essere onto-centrico e quindi capace di rigenerare
una reale comunicazione, ma sarà necessariamente ego-centrico: non si rivolgerà
al destinatario diretto per convincerlo e trasformarlo al fine di trovare
insieme una soluzione, ma lo presumerà, e lo descriverà, fino a prova contraria
bloccato nella volontà di perseguire con ogni mezzo esclusivamente il proprio
interesse di parte.
Sembra difficile in effetti contestare
che la funzione assegnata agli avvocati nel conflitto tra le parti non sia
tanto diretta a salvare un rapporto intersoggettivo fallito - e quindi a
riparare con strumenti giuridici delle più o meno gravi lacerazioni del tessuto
civile - quanto a trarre fino in fondo le conseguenze del fallimento; è in
questo senso che l'intervento del professionista patologo si trasforma esso
stesso in fenomeno patologico.
E forse possibile comprendere meglio le
cause della degenerazione in senso patologico del ruolo del professionista
legale, confrontando tra loro tre semplici forme di gestione conflittuale.
In un primo caso, immaginiamo di
trovarci di fronte a una situazione ‘normale’ di negoziazione: le parti
mantengono aperta la comunicazione e gestiscono il loro conflitto in modo
autonomo e informale; esse hanno il completo controllo della procedura e dei
suoi risultati. Ovviamente, il successo non è garantito.
Si può immaginare poi una situazione più
complessa. Così tante incomprensioni e ritorsioni, a volte anche violenze,
hanno segnato la storia dei rapporti tra le parti, che una comunicazione
diretta non è attualmente possibile. Tuttavia le parti devono negoziare, in molti casi perché costrette dalle circostanze:
è una situazione tipica, ad esempio, di molte delicate dispute internazionali.
Le parti allora si rivolgono a un mediatore, gradito a entrambe, che faccia da
portavoce delle rispettive richieste nel tentativo di riaprire un canale di
comunicazione.
Infine vi è la tipica conformazione di
un conflitto gestito tramite avvocati. La situazione è ancora più complessa: la
parte A parla al suo avvocato, il quale parla (o meglio, scrive) all’avvocato
della parte B, il quale parla a B; e viceversa. Questa tecnica di gestione dei
conflitti è lenta, costosa e spesso sproporzionata rispetto al valore della
materia oggetto del contenzioso. Non solo, ma una comunicazione che coinvolge
quattro bocche e quattro paia di orecchie, ognuna con la propria parziale
interpretazione e percezione del problema, aumenta sicuramente il ‘rumore di
fondo’ e diminuisce le possibilità di una reale comprensione. Quest’ultima
forma di gestione dei conflitti presenta perciò un’alta probabilità di
evolversi nella struttura decisionale ‘standard’, tipica delle nostre società:
il processo.
Nel processo-giudizio le parti (o
meglio, i loro rappresentanti) prendono atto della rottura comunicativa e si rivolgono
a un terzo neutrale: il giudice. Questi è un altro patologo, dotato di potere
decisionale. Il suo ‘prodotto’ normale è una sentenza che definisce un
vincitore e uno sconfitto. In questa fase finale del conflitto la presenza
delle parti è divenuta ormai quasi superflua: si procede in loro assenza; si
giudica in contumacia. Il ruolo fondamentale è giocato dai patologi, gli
avvocati e il giudice, che dibattono il problema in termini tecnici. La
procedura è formale ed eteronoma; la sentenza sfugge al controllo delle parti.
Bisogna dire in
proposito che le società contemporanee tendono di fatto a esprimere dei valori
diffusamente atti a favorire l'evoluzione del patologo della struttura, in
fenomeno a sua volta patologico: esse infatti non compensano adeguatamente, né
in termini finanziari né di prestigio, i ‘generici’ della prevenzione (si pensi
agli insegnanti), mentre remunerano invece, talvolta lautamente, gli
specialisti della patologia; ciò anche perché intervenire su di una crisi ormai
in atto è di solito più costoso che prevenirla, oltre a necessitare di
competenze tecniche spesso altamente qualificate e differenziate. Si viene cioè
a generare un contesto caratterizzato dal netto prevalere degli aspetti di
‘terapia’ su quelli di ‘prevenzione’, e in cui la patologicità della
situazione, la specializzazione tecnica e professionale dell'intervento e il
compenso pagato dalla società per l'intervento stesso, si amplificano
simultaneamente e reciprocamente. Specialmente nel caso della patologia giuridica,
la stessa terapia tende poi a spostarsi - soprattutto nell'ottica del giudice -
dalla cura del reale contrasto originario, per concentrarsi sugli aspetti
formali della violazione dell’ordinamento, allontanando ulteriormente gli
operatori dall'oggetto primario del loro intervento.
Consideriamo invece la
seconda situazione che abbiamo prima descritto, quella della negoziazione con
intermediario. Se l’intermediario ha successo nel ripristinare la comunicazione
tra le parti essa può evolversi nella struttura fondamentale, tipica della
mediazione: una negoziazione ‘assistita’, in cui il mediatore assume
essenzialmente il ruolo di guardiano della comunicazione tra le parti; il suo
compito principale è quello di tenere attiva la circolazione comunicativa. Se
il mediatore svolge bene il suo ruolo, le parti percepiranno l’eventuale
accordo raggiunto come frutto esclusivo delle loro volontà; saranno perciò
fortemente indotte a rispettarlo e a conservare in futuro le loro relazioni. Il
mediatore è insomma il ‘regista occulto’ dell’accordo: non lo impone, ma lo
agevola.
è possibile fare in modo che i conflitti giuridicamente trattabili
non si trasformino senz'altro in contese da affrontare per mezzo di
processi-giudizi? è possibile
immaginare un'opera in tal senso anche da parte del giurista? Porsi questi
interrogativi significa inoltrarsi in un territorio veramente ‘estremo’ per la
nostra esperienza giuridica: un territorio dove il diritto e i suoi operatori
diverrebbero inevitabilmente molto diversi da come li abbiamo conosciuti
finora.
è difficile riuscire a definire in
positivo cosa sia ‘mediazione’ e chi sia ‘mediatore’: Eligio Resta, ad esempio,
ritiene che “mediatore sia colui che ha fatto la mediazione”. Con questo intendendo
significare che ogni tentativo di costringere questo strumento di soluzione
conflittuale, e i suoi operatori, in una troppo stretta rete di regole
ufficiali, comporterebbe il suo quasi certo annientamento.
La natura della mediazione e dei suoi
operatori si comprende meglio per negazione e per contrasto. Non è una
transazione negoziale, nella misura in cui questa è soltanto la ricerca di un
compromesso intorno a posizioni rigide: una contrattazione che verte sulle
rispettive pretese, piuttosto che sui reali motivi e interessi sottostanti a
ciascuna di esse. Tanto meno è un giudizio, in cui un potere esterno definisce
la vittoria di una parte sull’altra; o un arbitrato, attraverso il quale i
privati ricercano dopotutto soltanto quella speditezza giurisdizionale che
l'amministrazione pubblica della giustizia spesso non è in grado di offrire. E’
un metodo di risoluzione conflittuale di tipo non ego- ma onto-centrico, basato
sulla logica del con-vincere e del riconoscimento; il suo scopo non è quello di
recepire un ordine imposto, ma di costruire un ordine negoziale che faccia
emergere le vere cause del conflitto, senza fermarsi ai ‘sintomi’ di esso che
si manifestano nei rapporti di diritto, o di forza, tra le parti. L’artefice
dell’eventuale successo della procedura è il mediatore, terzo neutrale alla
disputa che svolge la funzione di catalizzatore della comunicazione tra i
soggetti in conflitto[21].
Ai fini del raggiungimento dell’accordo, egli è assolutamente privo di potere,
che è tutto nelle mani delle parti. Ma non di autorità. Anzi, la sua autorità
dipende proprio dalla sua mancanza di potere: consiste in un saper-fare
accrescitore di potenzialità e ideatore di opportunità, messo al servizio degli
interessi delle parti.
In generale, per riuscire a comprendere
la natura e gli scopi del fenomeno-mediazione, bisogna smettere di chiedersi
«Qual’ è la regola?», e cominciare piuttosto a domandarsi: «Con quale problema
ci stiamo confrontando e come possiamo scegliere tra le diverse procedure di
soluzione ad esso applicabili?».
Secondo L. Fuller[22],
gli elementi di base che caratterizzano
la struttura della mediazione sono essenzialmente tre:
1.
Le
parti coinvolte sono 2 (formate da singoli o da gruppi).
2.
Si
trovano in uno stretto rapporto di dipendenza reciproca, che in qualche misura
le ‘forza’ all’accordo.
3.
L’accordo
contiene spesso degli elementi di scambio economico; ma è soprattutto una
‘costituzione’ che regolerà i rapporti futuri delle parti.
Riguardo al primo
punto, sembra che il conflitto tra due parti nitidamente individuate sia al
tempo stesso quello che ha più bisogno di mediazione e quello dove la
mediazione ha più probabilità di successo. Classificando i gruppi in base al
numero dei loro componenti, non è difficile notare come il gruppo di 2, la
diade, si trovi particolarmente in difficoltà nel gestire i propri conflitti e
nel risolvere i problemi di ordine interno. Una triade, ad esempio, può già
affrontare le proprie difficoltà ricorrendo apertamente o meno al sistema della
maggioranza; oppure un suo membro può offrirsi come mediatore tra gli altri
due, proponendosi in posizione neutrale.
è la relazione diadica
che ha tipicamente bisogno della mediazione per risolvere i suoi problemi
interni. Ci si potrebbe in generale chiedere se la mediazione riesca a gestire
i conflitti in gruppi composti da più di due elementi. Di fronte ad A, B e C in
contrasto, il mediatore X può avere difficoltà a interpretare il suo ruolo
senza farsi coinvolgere nelle manovre interne dei contendenti: se X chiede a A
la disponibilità a una soluzione proposta, A può replicare che darà il suo
consenso se X si impegnerà a dissuadere B da impegnarsi per una concessione che
questi intende fare a C. X diventa così uno strumento nelle mani di coloro che
credeva di aiutare. Può trovarsi così di fronte all’alternativa tra conservare
il vuoto titolo di mediatore e divenire a pieno titolo il quarto partecipante
ai giochi del gruppo. In quest’ultimo caso le possibilità di raggiungere un
ordine funzionante vengono ulteriormente ridotte, perché si forma la
possibilità di due blocchi di due contro due: la triade si trasforma in una
diade e viene anche a perdere l’eventualità di risolvere il suo problema con un
voto a maggioranza.
Qualsiasi mediazione
multilaterale è estremamente difficile da gestire. Si può immaginare di
‘spezzarla’ in una serie di mediazioni bilaterali, ma i rischi di
fraintendimento e di coinvolgimento crescono per il mediatore in maniera
esponenziale rispetto al numero delle parti in conflitto.
Riguardo al secondo
punto, la mediazione si trova tipicamente a operare in un contesto dove la
forte interdipendenza tra le parti insieme genera il conflitto e lo pone in
un’ottica particolare: rapporti di lavoro, familiari, di vicinato … . I
conflitti tra soggetti culturalmente, economicamente, socialmente distanti, le
cui relazioni non sono segnate da interessi preesistenti, sono più facilmente
trattabili con sistemi di soluzione delle controversie diversi dalla
mediazione. La mediazione presuppone un contesto di relazioni segnato da forti spinte
alla coesione: ciò soprattutto quando essa è diretta alla formazione,
modificazione o dissoluzione di questo tipo di relazioni.
Coloro che sono
interessati più alla struttura dell’autorità che all’analisi dei processi
sociali, tendono in genere a domandare non «cosa fa?» il mediatore, ma «da dove
deriva la sua capacità o autorità di curarsi dei rapporti altrui?». In
quest’ottica si ricerca il fondamento del suo potere: se in un tacito accordo
tra le parti, se derivi da qualche qualità carismatica posseduta dal mediatore
stesso, in qualche ruolo che gli viene attribuito dalla tradizione o da
un’autorità più elevata. Indagine certo non priva di significato, ma che può
far dimenticare il fatto che il ‘potere’ del mediatore deriva spesso
semplicemente dal suo ‘essere lì’ in quel momento e in quella circostanza: «I
passanti che di fronte a un ingorgo inestricabile entrano in mezzo all’incrocio
e si mettono a dirigere il traffico, si vedono attribuito il ‘potere’ di
selezionare quali macchine sia opportuno fare passare per prime in modo da
migliorare l’efficienza della situazione; la loro autorità è solo quella di un
suggerimento, e tuttavia viene accettata nella circostanza»[23].
Uno studio
serio sulla mediazione serve a superare la tendenza moderna a ritenere che ogni
ordine sociale debba essere imposto da qualche forma di ‘autorità’. Quando
vediamo come un mediatore, privo di ‘autorità’, può aiutare le parti a dare
ordine e coerenza ai loro rapporti, ci accorgiamo di come queste possano fare a
meno dell’ordine imposto, e che l’ordine sociale può talvolta scaturire
direttamente dalle interazioni che esso sembra governare e dirigere.
L’ultima caratteristica della mediazione consiste nell’aspetto
‘costituzionale’ dell’accordo che eventualmente la conclude. L’accordo deve
servire di fatto alla creazione di un governo in miniatura che regoli i
rapporti futuri tra le parti: si assegnano funzioni, si stabiliscono i metodi
per la presentazione di richieste; si possono costituire gli strumenti per
risolvere le eventuali dispute future.
Scrivere un simile
documento significa non solo usare un linguaggio accurato e non ambiguo, ma
anche riuscire a fondare accordi istituzionali. S’intuisce come la figura di un
professionista della prevenzione e della ‘costruzione’, cui prima si accennava,
possa al riguardo risultare determinante.
Il mediatore è un
professionista che sa come mediare,
ma che sa anche cosa sta mediando. Durante
il processo di mediazione, la sua cura è rivolta a far emergere i reali
interessi delle parti in funzione del raggiungimento di un accordo gradito a
entrambi e capace di tutelare utilmente le loro relazioni future. Riguardo
quest’ultimo aspetto, se le parti lo richiedono, entra in gioco la sua
competenza tecnica specifica: conclusa con successo la mediazione, il
professionista si mette al servizio dell’accordo in veste di ‘esperto in
struttura’ che stila il trattato che regolerà le relazioni tra le parti.
In un certo senso, la mediazione non finisce ma comincia col
raggiungimento dell’accordo. Il mediatore può essere chiamato dalle parti a
esserne il curatore, specie di fronte alla legge. In quanto ‘terzo istruito’,
egli ha una visione oggettiva ed esterna del problema: ha il compito di sapere
non solo che cosa i termini dell’accordo significano per le parti, ma anche che
cosa questi possano venire a significare per chi all’accordo non ha
partecipato. Vedo particolarmente adatto a rivestire questo ruolo, che è quello
del giurista in senso pieno, il
professionista-avvocato.
Dovrebbe essere a questo punto
abbastanza chiaro in che rapporto stia la mediazione con gli altri sistemi
sociali di produzione e di restaurazione dell’ordine, in particolare con quelli
giuridici. Una delle caratteristiche fondamentali della mediazione è la sua
capacità di rimettere in comunicazione le parti non imponendo regole e norme
cui adeguarsi, ma aiutandole a conseguire un riconoscimento reciproco che
produca una nuova percezione del loro problema. Sembra esistere un’antitesi
essenziale tra la mediazione e le procedure legali standard di soluzione
conflittuale.
Se andiamo però a vedere il modo in cui
concretamente hanno origine le norme che verranno applicate nelle procedure
legali, ci accorgiamo che esse sono quasi sempre frutto di un compromesso tra
punti di vista contrastanti: il legislatore opera spesso da mediatore nel
tentativo di raggiungere questo compromesso. Se procedure assimilabili alla
mediazione hanno sicuramente un ruolo a livello della produzione normativa, le
cose vanno molto diversamente quando si tratta di applicare la legge. Una volta
che una legge è stata prodotta, la sua applicazione è nelle mani dei giudici e
dei tribunali; e questi sono stati istituiti non per mediare le dispute, ma per
deciderle.
In qualsiasi sistema di civil law, il sistema standard di
soluzione dei conflitti sarà sempre il giudizio, non la mediazione. Quando si
tratta di accertare se Tizio è passato col rosso, se ha pagato il suo debito o
ha dichiarato il vero nella sua denuncia dei redditi, la mediazione serve a
poco. Un uso eccessivo e improprio della mediazione può vanificare i punti di
riferimento e i confini indispensabili a orientare i comportamenti dei
consociati, generando una situazione in cui nessuno riesce più a capire con
precisione quale sia il suo posto e cosa gli sia consentito fare. Se il grigio
a volte può sembrare un accettabile compromesso tra il bianco e il nero, ci
sono circostanze in cui bisogna invece impegnarsi proprio a tenere separate le
cose bianche da quelle nere.
Più che a livello di produzione, è a
livello di applicazione della legge che sorgono i problemi tra la mediazione e
le forme di soluzione mediante decisione e aggiudicazione. Uno dei motivi
essenziali di differenza e incompatibilità può essere individuato nel fatto che
la mediazione è orientata alle persone,
il giudizio ai fatti: alla legge –
almeno a quella dotata delle caratteristiche liberal-democratiche di generalità e astrattezza – non interessa chi
ha fatto qualcosa, ma cosa è stato
fatto; anche questo significa che “la legge è uguale per tutti”. Ci sono
ovviamente delle situazioni in cui questa apparentemente nitida differenza lo
diventa nella realtà molto meno: si pensi ad esempio al problema di come
valutare l’ammissione di un criminale a un programma di alternativa alla pena;
o a quando si debba decidere a chi affidare la custodia dei figli tra dei
genitori in conflitto. Ma in generale, se si tratta di accertare la
responsabilità di un imputato o la violazione di un contratto, gli standards
legali di decisione funzionano senza doversi occupare delle qualità o delle
intenzioni individuali.
Due criteri potrebbero forse fare da
guida per comprendere il ruolo corretto della mediazione in ambito sociale: il
primo ci dice quando non dovrebbe
essere usata; il secondo quando non può.
Il primo riguarda la natura dei rapporti tra le parti; il secondo la natura del
problema.
In base al primo criterio ci si deve
domandare: i rapporti tra le parti sono tali da risultare meglio regolati per
mezzo di norme impersonali rivolte ai soli fatti? Se così, allora la mediazione
potrebbe risultare inopportuna o inadeguata allo scopo di creare o modificare
le regole tra le parti.
In base al secondo criterio ci si deve chiedere
se il problema è gestibile per mezzo della mediazione, ricordandone i limiti
essenziali: 1) che funziona bene soprattutto tra due parti nettamente
individuate; 2) che presuppone una presenza di interessi comuni alle parti
sufficiente a spingerle alla collaborazione nella mediazione.
L’ormai più che trentennale esperienza
americana intorno alla mediazione e in generale agli strumenti informali di
soluzione delle controversie, ci mostra una sequenza di atteggiamenti in cui da
un eccesso di ottimismo iniziale si è passati al pessimismo e alla sfiducia,
per poi approdare finalmente a un atteggiamento più equilibrato[24].
Come testimoniato anche da grandi associazioni internazionali di studi legali
(tipo Lex Mundi; se ne veda il sito
Internet), la tendenza è oggi quella di offrire un servizio il più possibile
‘completo’ che preveda l’intera gamma di metodi di soluzione delle
controversie, dal processo classico fino alla mediazione, ponendoli a
disposizione del cliente. Anche per questo la ‘A’ di ADR negli Stati Uniti
significa sempre meno ‘alternativo’ e sempre più ‘adeguato’: l’offerta di un
sistema adatto alla circostanza del conflitto e calibrato sui desideri della
clientela.
Nel corso delle vicende
del ‘movimento’ per la mediazione si sono confrontate visioni notevolmente
diverse circa gli scopi e le aspettative collegati all’utilizzo di questo
strumento di giustizia informale. Esse possono essere riunite in quattro
posizioni principali:
1. La soddisfazione innanzi tutto.
In base a questa
concezione, la mediazione è soprattutto un potente strumento per portare alla
luce i veri interessi delle parti in
conflitto. Con la sua flessibilità, il suo informalismo e consensualismo,
riesce a far emergere tutti gli aspetti del problema che interessa le parti.
Non essendo costretta da regole o categorie legali, riesce a ridefinire il
contenzioso nei termini di un problema comune. Grazie alle capacità del
mediatore di confrontarsi con situazioni di potere sbilanciate, la mediazione
riduce le possibilità di manovre sopraffattorie. Ne consegue che la mediazione
offre un sistema di soluzione dei problemi collaborativo che si propone come
valida alternativa alla transazione sulla base di posizioni contrastanti. Può
conseguire dei risultati creativi di ‘vittoria-vittoria’ che si spingono al di
là del semplice riconoscimento dei diritti formali, trovando soluzioni che
soddisfano le reali necessità delle parti in una data situazione. Il movimento
per la mediazione ha usato tutte queste caratteristiche per produrre uno
strumento capace di fornire soluzioni di qualità superiore per ogni tipo di
disputa.
In confronto con i sistemi formalistici
del processo accusatorio, l’informalismo collaborativo della mediazione riduce
i costi sia economici che emotivi dell’accordo. Il ricorso alla mediazione può
dunque produrre un notevole risparmio per i contendenti; inoltre, evitando il
ricorso ai tribunali, la mediazione produce anche un risparmio sulla spesa
pubblica. In conclusione, l’uso della mediazione ha portato a un’utilizzazione
più efficiente delle risorse sia private che pubbliche nel campo della
soluzione dei conflitti, con soddisfazione generalizzata degli utenti del
sistema-giustizia.
Ciò si è verificato in tutte le
situazioni in cui si è applicata la mediazione. Nella custodia dei figli a
seguito di divorzio ha prodotto situazioni migliori di qualsiasi decisione
contenziosa. Nelle liti di piccola entità, ha dato soddisfazione alle parti a
livello sia di procedura e di risultato, sia del rispetto degli accordi
raggiunti. In campo ambientale e amministrativo in generale ha prodotto
soluzioni creative e di alto profilo, che hanno risparmiato gli anni di attesa
e le enormi spese tipiche del processo in tribunale. Indirettamente la mediazione
ha dunque ridotto il carico per la giustizia ordinaria, agevolandone
l’efficienza per quei casi che non possono essere risolti senza il suo
intervento[25].
2. La mediazione come strumento di
giustizia sociale.
Secondo questa visione, la mediazione
offre una reale possibilità di organizzare gli individui intorno a interessi
comuni e, a partire di qui, di costruire vincoli e strutture sociali più
solide. Questo è importante soprattutto perché gli individui isolati e privi di
protezione sono particolarmente esposti nelle nostre società allo sfruttamento
e all’oppressione. La mediazione può favorire l’organizzazione comunitaria in
molti modi. Con le sue capacità di ridefinizione delle richieste e di
concentrazione sugli interessi comuni, può aiutare gli individui che si credono
avversari a percepire un contesto più vasto in cui essi si trovano insieme a
fronteggiare un nemico comune. Di conseguenza la mediazione può rafforzare i
deboli aiutandoli a formare alleanze.
Inoltre, aiutando le parti a risolvere
da sole i problemi, riduce la dipendenza da poteri distanti e incoraggia
l’autonomia, inclusa la formazione di spontanee strutture comunitarie. La
mediazione poi considera le norme legali come soltanto uno dei modi possibili
di organizzare richieste e risolvere dispute; può dare ai gruppi più mezzi per
argomentare i loro interessi di quanto possa darne il processo legale. Il
movimento per la mediazione ha usato queste capacità dello strumento per
aiutare l’organizzazione di soggetti relativamente deboli in comunità di
interessi. Come risultato, gli interessi comuni sono stati meglio perseguiti,
aiutando il realizzarsi di una migliore giustizia sociale, e gli individui che
hanno partecipato hanno raggiunto un più alto livello di consapevolezza e di
coinvolgimento nella vita associata.
Questo quadro si applica in tutti i
campi dove viene usata la mediazione. Le mediazioni interpersonali di vicinato
hanno ad esempio aiutato i residenti a individuare i loro veri avversari, come
i proprietari delle residenze o le agenzie di affari, e a intraprendere azioni
comuni per la tutela dei loro veri interessi. La mediazione ambientale ha
favorito l’affermarsi di nuove ( e non strettamente legali) pretese di gruppi
che hanno avuto successo nell’equilibrare dei poteri eccessivamente sbilanciati
a favore degli imprenditori. Nei rapporti tra produttori e consumatori, la
mediazione ha aiutato questi ultimi a prendere fiducia nella propria capacità
di far valere interessi, e li ha portati ad altre forme di organizzazione
autonoma e a un aumento deciso di potere. In breve, la mediazione ha aiutato
gli individui a organizzarsi in comunità di interessi nei più diversi contesti[26].
3. La mediazione come strumento di
oppressione sociale.
Secondo questa concezione, anche se il
movimento cominciò con le migliori intenzioni, la mediazione si è trasformata
in un pericoloso strumento per aumentare il potere del più forte a danno del
più debole. A causa dell'informalismo e del consensualismo della procedura, e
al tempo stesso per l’assenza di regole sia sostanziali che procedurali, la
mediazione può amplificare lo squilibrio dei poteri e aprire la porta alla
coercizione e alla manipolazione da parte del più forte nel conflitto. Al tempo
stesso, la posizione di neutralità solleva il mediatore dal prevenire tutto
ciò. Rispetto alle procedure formali-legali, la mediazione ha prodotto
risultati ingiusti in quanto sproporzionatamente e ingiustificatamente
favorevoli alle parti più forti. Inoltre, date la sua riservatezza e
informalità, essa dà ai mediatori ampi poteri strategici sul controllo della
discussione, aprendo la strada all’affermarsi dei loro pregiudizi. Questi
possono alterare la selezione e la forma dei problemi, il modo di strutturare e
di valutare le opzioni, e molti altri elementi che influenzano la soluzione. Di
conseguenza la mediazione ha spesso prodotto dei risultati ingiusti.
Inoltre, dal momento che la mediazione
gestisce le dispute senza fare riferimento ad altri casi simili e all’interesse
pubblico, essa produce una disaggregazione e una privatizzazione dei problemi
sia di un gruppo sociale sia pubblici. La conseguenza è che la mediazione ha di
fatto aiutato i forti a ‘dividere e comandare’. Le parti più deboli vengono
rese incapaci a organizzarsi e l’interesse pubblico viene sottovalutato e
ignorato. In definitiva l’effetto complessivo del movimento per la mediazione è
stato quello di indebolire le conquista di giustizia sociale ottenute dai
movimenti per i diritti civili, delle donne, dei consumatori, per citarne
alcuni, e di aiutare a ristabilire la posizione privilegiata delle classi
sociali più forti che opprimono quelle più deboli.
Questo quadro di oppressione si ritrova
in molte situazioni. La mediazione di divorzio indebolisce garanzie ed espone
le donne ad ‘accordi’ coercitivi e manipolatori che producono ingiustizie sia
nei diritti di proprietà che in quelli di custodia. La mediazione tra
proprietario e conduttore permette al primo di sfuggire ai suoi obblighi di
provvedere al minimo di decenza abitativa per il secondo, con danni evidenti
per la qualità della vita di questi. La mediazione sulle discriminazioni in
ambiente di lavoro spinge le vittime ad accettare buonuscite e permette al
razzismo e al sessismo di rimanere indisturbato all’interno del mondo degli
affari e delle istituzioni. Anche nei conflitti tra partners commerciali, la
mediazione consente alle parti di prendere accordi a porte chiuse che possono
svantaggiare i consumatori. In ogni campo, la mediazione è stata utilizzata per
rafforzare il potere del più forte e aumentare lo sfruttamento e l’oppressione
del più debole[27].
4. Un’opportunità di trasformazione
personale.
Secondo questa visione, la vera e sola
promessa della mediazione consiste nella sua capacità di trasformare la
personalità dei soggetti in conflitto e la società in generale. Grazie al suo
informalismo e consensualismo, la mediazione permette alle parti di definire in
autonomia i loro problemi e i loro scopi, facendo risaltare l’importanza di
essi nelle loro rispettive esistenze. Inoltre la mediazione aiuta le parti a
sviluppare l’autodeterminazione nel decidere se e come porre fine a una
disputa, e le favorisce nel mobilitare le loro risorse personali a questo
scopo. Il movimento per la mediazione ha almeno in parte utilizzato queste
caratteristiche della procedura per rafforzare nelle parti le loro stesse
capacità di governare circostanze avverse di ogni tipo, attuali ma anche
future. Chi partecipa a una mediazione guadagna in genere fiducia, rispetto e
considerazione in se stesso. In questo consiste l’effetto di ‘rafforzamento’
della mediazione.
Inoltre il carattere privato e
non-giudiziario della mediazione offre alle parti un’opportunità non coattiva
di contatto e comunicazione. In questo contesto, alla presenza di mediatori
addestrati a favorire la comunicazione interpersonale, le parti spesso scoprono
che possono esprimere comprensione e riconoscimento reciproco nonostante il
conflitto che le oppone. In questa concezione la procedura di mediazione
diventa uno strumento per aiutare gli individui a rafforzare le proprie
capacità di relazionarsi intorno a problemi. Anche se le parti esordiscono come
fieri avversari, la mediazione può sortire l’effetto di produrre tra loro
riconoscimento e interesse reciproco in quanto esseri umani. In questo consiste
l’effetto di ‘riconoscimento’ della mediazione.
Gli esiti di rafforzamento e di
riconoscimento interindividuale, finora trascurati nell’ambito della
mediazione, possono avere significative influenze nel ridefinire gli assetti
delle relazioni sociali, passando dall’indifferenza o dall’ostilità alla
strutturazione di un gruppo di soggetti alleati.
Questa visione può applicarsi a tutti
campi di utilizzo della mediazione. La mediazione tra produttori e consumatori
può portare al mutuo riconoscimento dei due ruoli, e trasformare la forma
stessa dei modi correnti d’intendere le relazioni commerciali. La mediazione di
divorzio può portare al riconoscimento tra gli ex-coniugi. La mediazione in
situazioni di reati ‘a querela’, può portare al riconoscimento tra le parti,
innescando processi di compensazione sociale che l’intervento della giustizia
ufficiale non sarebbe mai in grado di realizzare pienamente[28].
Si tratta, com’è evidente, di visioni
diverse e spesso ideologizzate dello stesso oggetto. La 1. e la 4. più
‘privatistiche’; la 2. e la 3. più ‘pubblicistiche’. Ognuno può identificarsi
in esse come meglio crede. E’ comunque chiaro che una mediazione
insoddisfacente non produce alcun miglioramento nei rapporti interpersonali, e
che in prospettiva può risultare uno strumento di ‘oppressione’. All’opposto,
una mediazione riuscita può migliorare e ‘trasformare’ positivamente i soggetti
che vi hanno partecipato, e in prospettiva può risultare uno strumento di
‘emancipazione’ sociale.
La mediazione è uno degli strumenti che le società contemporanee hanno a
disposizione per cercare di risolvere i loro conflitti. Essa trova il suo posto
accanto alla legislazione, al giudizio, ai provvedimenti amministrativi, ai
negozi contrattuali, alle regole consuetudinarie (dove riconosciute). Nelle
nostre società questi strumenti sono spesso correlati tra loro in modi vari e
complessi: si pensi ad esempio alla norma prodotta dal potere legislativo che
viene applicata in un provvedimento giudiziario relativo a una controversia
intorno a un negozio tra privati. Nelle società di tipo tradizionale queste
distinzioni sfumano o risultano del tutto assenti, tanto che in questi contesti
è quasi del tutto inutile cercare di discernere ciò che per noi sono ‘legge’ e
‘diritto’ dagli altri sistemi di gestione dei conflitti.
Dal punto di vista di noi moderni, si
potrebbe tendere a pensare che la distinzione tra le varie forme di regolazione
sociale e tra gli strumenti di soluzione conflittuale sia la conseguenza di
un’approfondita discussione tra tecnici competenti circa le loro rispettive
funzioni e i modi di applicazione più appropriati. All’opposto, vediamo che
l’emergere di un metodo è dovuto al semplice eclissarsi di fatto di un altro.
Le concezioni moderne della società e
dello stato vedono da un lato la tendenza a esaltare il ruolo di quest’ultimo
come fonte esclusiva di regolazione, dall’altro a considerare la prima come
unica vera produttrice normativa: ne sono rappresentanti le contrapposte
visioni formalista-imperativista ed effettivista-realista della vigenza del
diritto. La legislazione, il giudizio, l’amministrazione non vengono percepiti
come momenti diversi, ma integrati, di uno stesso processo regolativo, bensì
come distinte emanazioni dirette del potere statale. In quest’ottica, il
contratto e il negozio giuridico non costituiscono in sé una fonte autonoma di
diritto e di regolazione sociale, ma assumono significato nella misura in cui
trovano riconoscimento in una sentenza di tribunale o in una legge dello stato.
La consuetudine passa ormai sotto un quasi completo silenzio, a meno che non
venga richiamata da una legge (fatti salvi gli usi e costumi…).
Soltanto la mediazione sembra resistere
a questa tendenza a ricondurre ogni forma di perseguimento di un ordine sociale
sotto le etichette del ‘potere’ o dell’ ’autorità’.
[1] Si prenda ad esempio la figura del ‘giustiziere’, tanto frequente nella
letteratura e nella cinematografia (oltre che nella realtà) americane: una
figura ambiguamente liberatoria per la società che forse più di ogni altra ha
enfatizzato gli aspetti procedurali-formali del proprio ordinamento. Il
giustiziere è coraggioso, rapido, efficiente; è insieme giudice ed esecutore;
interviene là dove la giustizia ordinaria (formalista) si è dimostrata pavida,
lenta, incapace di punire – come l’ethos
richiederebbe – l’evidente colpevole. Di fronte alle sue gesta ci sentiamo
intimamente divisi. La ‘neocorteccia’ razionale-procedurale non può non
condannarlo: con la sua azione, questa è la ‘massima’, egli si è reso uguale alla sua vittima. L’archetipo
sostanzialista invece approva, suscitando nell’immediato un più o meno
inconfessabile brivido di piacere.
[2] Soprattutto negli Stati Uniti, le prime sperimentazioni sono però
assai più risalenti: cfr. c.b.
harrington, Delegalization Reform Movements: A Historical Analysis,
in r.l. abel (ed.), The Politics of Informal Justice, New
York 1982, vol. I, pp. 35 ss.
[3] Cfr. in proposito p. nonet e p. selznick, Law and Society in Transition: Toward Responsive Law,
[4] r. pound, The Causes of Popular
Dissatisfaction with the Administration of Justice, in American Bar Association Reports 29, 1906, p. 406.
[5] «Un'istituzione formalista e legalista è mal equipaggiata per
comprendere cosa sia realmente in gioco nei conflitti che la coinvolgono.
Nell'incapacità di modificare razionalmente i propri metodi superati, è
probabile che si limiti ad adattarsi opportunisticamente [...]. L'idea di
legalità ha bisogno di essere concepita più ampiamente e di essere curata dal
formalismo» (nonet e selznick, Op.cit., pp. 77, 108.
[6] V.j.
auerbach, Justice without Law?,
[8] E' infatti per mezzo della divisione e dell'individuazione che
l'esperienza normativa tenta di liberare il con-esserci dalle sue
contraddittorie potenzialità negative: come uno stato all'interno dei suoi
confini, così l'individuo che si senta abbastanza tutelato nel suo spazio di
'sovranità' definito dalla legge, acquista sicurezza nei confronti degli altri.
Può perciò cominciare a pensare che per superare la propria indigenza sia
meglio cooperare con gli altri, anziché aggredirli; e che forse è anche
possibile durare oltre la propria morte per mezzo degli altri, vincendo così la
propria contingenza (cfr. in proposito G. COSI, Il logos del diritto, cit., soprattutto Cap.I).
[9] O anche dalla transazione,
specie se frutto di un mero compromesso intorno a posizioni rigidamente
inconciliabili. Quel particolare tipo di transazione che è il patteggiamento nel processo accusatorio,
ricorda invece di più un armistizio tra forze impari conseguente alla resa di uno dei contendenti.
[10] c. mazzucato, Il
logos della pacificazione, in l.
lombardi vallauri (ed.), Logos
dell'essere, logos della norma, Bari 1999.
[11] In proposito cfr. j. morineau, L’esprit de la médiation, Ramonville Saint-Agne 1998, pp. 31 ss.
[12] Ricordiamo in proposito la legge n. 192\1998 sul tentativo
obbligatorio di conciliazione e di arbitrato in materia di controversie nel
campo delle subforniture, e la legge n. 281\1998 che prevede la possibilità di
ricorrere alla conciliazione come strumento di tutela dei diritti dei
consumatori e degli utenti. La legge n. 580\1993 affida alle Camere di
Commercio la fornitura di questi servizi di giustizia ‘alternativa’.
[13] Questo accade ovviamente anche in Italia, ma non siamo abituati a
percepirlo con la stessa immediatezza.
[14] Si tratta del sistema, generalmente vietato in Europa, secondo cui
il compenso del professionista è in parte aleatorio e legato all’esito della
causa: in caso di sconfitta, avvocato e cliente ‘perdono’ entrambi; in caso di
vittoria, si spartiscono gli utili in una misura che può arrivare fino al 50%.
[15] Si calcola che oggi in Italia siano pendenti circa 4 milioni di
cause civili: anche ipotizzando che ognuna di queste coinvolga soltanto 2
persone, circa 1 italiano su 7 (compresi i bambini) avrebbe a che fare con la
giustizia.
[16] Arbitrato e mediazione sono i due modelli base dell’ADR. Intorno a
questi, combinandone in vario modo gli elementi fondamentali, sono fioriti
molti altri strumenti di soluzione conflittuale, talvolta difficilmente
classificabili. Vediamone sommariamente alcuni.
Mediazione\arbitrato (Med\Arb). Si tratta di una procedura in cui le parti cominciano con una
mediazione. Il loro accordo prevede però che, in mancanza di soluzione, il
conflitto venga comunque risolto da un arbitro con una decisione vincolante. Si
tratta di un ‘ibrido’ dove le parti inevitabilmente si trovano a mediare sotto
‘riserva mentale’; se è poi lo stesso mediatore a trasformarsi in arbitro, non
è difficile immaginare come la mediazione si riduca di fatto a un’istruttoria
dell’arbitrato. Personalmente vedrei se mai con maggior favore l’itinerario
inverso: un Arb\Med in cui l’arbitro,
qualora ne ravvisi la possibilità, rinvia eventualmente le parti a un mediatore
per tentare la conciliazione.
Mini-giudizio (Mini-trial). Si tratta, per così dire, della messa in scena di un
processo-giudizio al fine di favorire eventualmente una conciliazione o l’avvio
di una mediazione. Le parti stabiliscono preventivamente le caratteristiche di
questa procedura, la sua durata, le forme di esibizione delle prove. Lo scopo
di questo meccanismo è essenzialmente quello di consentire alle parti di avere
un contatto diretto con la controversia e di formarsi così un’opinione fondata
intorno alle proprie possibilità di vittoria. La ‘rappresentazione’ serve anche
a raffigurarsi realisticamente le difficoltà e i costi cui si andrà incontro
nel processo vero e proprio.
Valutazione preventiva neutrale (Early
neutral evaluation). Appartiene al gruppo degli strumenti
‘giurisdizionali’; cioè a quelli che intervengono nelle fasi iniziali del
processo (citazione in giudizio e simili) al fine di scongiurarne il
proseguimento. Ricorda un po’ il parere pro
veritate del giureconsulto di diritto comune: il consilium sapientis che il giurista dava alle parti (e anche al
giudice) sulle prospettive della contesa. Le parti vengono convocate davanti a
un terzo designato dal tribunale, tecnicamente esperto nella materia del
contendere. Studiato il caso, questi prepara il suo pronostico sull’esito del
processo e lo comunica alle parti solo dopo averle invitate alla conciliazione.
Le parti possono eventualmente recedere dal giudizio e rivolgersi allo stesso
‘valutatore’ perché faccia loro da mediatore del conflitto.
[17] Così il giudice di Corte d’Appello Federale Irving R. Kaufman: «La
regola americana che rende ogni parte nel processo responsabile per le proprie
spese legali, incoraggia un abuso strategico delle indagini preliminari […]
Nelle mani della parte economicamente più forte, queste divengono spesso
un’arma per costringere la controparte alla resa».
[20] A differenza delle soluzioni raggiunte per via di mediazione o
conciliazione, gli accordi di tipo compromissorio derivanti dalla transazione
il più delle volte riflettono soltanto quanto le parti hanno perso in relazione alle rispettive
condizioni di partenza.
[21] «La mediazione è tutta processo e niente struttura. […]
La mediazione non è
diretta a convincere le parti a uniformarsi alle norme preesistenti, ma alla
creazione delle stesse norme utili alle parti. Questo accade ogni volta che il
mediatore assiste le parti nell’elaborare i termini di un contratto che
definisce i loro rispettivi diritti e doveri. In questi casi non c’è una
struttura preesistente che guida la mediazione; è il processo mediazionale che
genera la struttura.
Si potrebbe suggerire che la mediazione è sempre diretta a
promuovere delle relazioni più armoniose tra le parti, sia questo ottenuto
attraverso un accordo esplicito, attraverso una reciproca accettazione delle
‘norme sociali’ rilevanti per il loro rapporto, o semplicemente perché le parti
sono state aiutate a sviluppare una nuova e migliore comprensione degli altrui
problemi. Il fatto che nel linguaggio ordinario ‘mediazione’ e ‘conciliazione’ siano
spesso intercambiabili, rinforza questa interpretazione»: l. fuller, Mediation – Its Forms and
Functions, in id., The Principles of Social Order, Duke
University Press 1981, p. 128.
[24] Per un approfondimento in proposito, rinviamo a G. Cosi, La responsabilità del giurista, cit., pp. 355 ss.
[26] Così ad es. p. wahrhaftig, An Overview of Community-Oriented Citizen
Dispute Resolution Program in the