Cap. I della monografia: Paolo Ferretti, In rerum natura esse / in rebus humanis nondum esse. L’identità del concepito nel pensiero giurisprudenziale classico,
Pubblicazioni della Facoltà di Giurisprudenza della
Università di Trieste, Giuffrè Editore, Milano 2008, XIV-222 pp.
Università di Trieste
L’identità
del concepito:
la
‘contraddizione’ del pensiero
giurisprudenziale
classico
nelle
diverse letture della dottrina
Sommario: 1. L’identità
del concepito: l’asserita ‘contraddizione’ del pensiero
giurisprudenziale classico. — 2. La
‘contraddizione’ del pensiero giurisprudenziale classico e le diverse
letture emerse in dottrina: il concepito quale parte della madre e speranza di
uomo. — 3. (segue). Il concepito quale parte della
madre e titolare di aspettative giuridiche. — 4. (segue). Il concepito dal punto di vista fisiologico e dal punto di
vista giuridico. — 5. (segue). Il concepito oggetto di diritti
e soggetto di diritti. — 6. (segue). Il concepito prima del quarantesimo giorno e dopo il
quarantesimo giorno. — 7. (segue). Il concepito secondo i muciani e secondo i serviani.
— 8. (segue). Il concepito quale autonoma
individualità, salvo eccezioni.
Sull’identità giuridica del concepito gli studiosi sono divisi. La ragione è senza dubbio da ricercarsi nelle fonti che, a detta della maggior parte della dottrina([1]), sembrerebbero contraddittorie. Una esemplificativa lettura è sufficiente a darne conto.
Iniziamo dai frammenti che solitamente sono richiamati a sostegno dell’assunto secondo cui il nascituro non era ritenuto un essere dotato di autonoma rilevanza, bensì una parte del corpo materno:
Gai. 2,203: Ea quoque res
quae in rerum natura non est, si modo futura est, per damnationem legari
potest, uelut fructus qui in illo fundo
nati erunt, aut quod ex illa
ancilla natum erit.
D. 35,2,9,1 (Pap. 19 quaest.): Circa ventrem ancillae nulla
temporis admissa distinctio est nec immerito, quia partus nondum editus homo
non recte fuisse dicitur.
D. 7,7,1 (Paul. 2 ad
edict.): Opera in actu consistit
nec ante in rerum natura est, quam si dies venit, quo praestanda est,
quemadmodum cum stipulamur ‘quod ex Arethusa natum erit’.
D. 25,4,1,1 (Ulp. 24 ad edict.): Ex hoc rescripto
evidentissime apparet senatus consulta de liberis agnoscendis locum non
habuisse, si mulier dissimularet se praegnatem vel etiam negaret, nec immerito:
partus enim antequam edatur, mulieris portio est vel viscerum...
D. 37,9,1 pr. (Ulp. 41 ad edict.): Sicuti liberorum eorum, qui iam in
rebus humanis sunt, curam praetor habuit, ita etiam eos, qui nondum nati sint,
propter spem nascendi non neglexit…
D. 38,16,1,8 (Ulp. 12 ad
Sab.): … nam dicendum erit
suos posse succedere, si modo mortis testatoris tempore vel in rebus humanis
vel saltem concepti fuerint: idque et Iuliano et Marcello placet.
Ma nel dibattito in discorso
si evidenziano altre testimonianze, dalle quali sembrerebbe che il concepito
fosse considerato non una parte della madre, bensì una esistenza da
quella indipendente:
D. 1,5,26 (Iul. 69 dig.): Qui in utero sunt, in toto paene iure
civili intelleguntur in rerum natura esse. nam et legitimae hereditates his
restituuntur…
D. 38,16,7 (Cels. 28 dig.): vel si vivo eo conceptus est, quia conceptus
quodammodo in rerum natura esse existimatur.
Gai. 1,147: Cum tamen in conpluribus aliis causis postumi pro iam natis
habeantur, et in hac causa placuit non minus postumis quam iam natis testamento
tutores dari posse, si modo in ea causa sint, ut si vivis nobis nascantur, in
potestate nostra fiant...
D. 1,5,7 (Paul. l. s. de port., quae lib. damn. conc.):
Qui in utero est, perinde ac si in rebus humanis esset custoditur, quotiens de
commodis ipsius partus quaeritur: quamquam alii antequam nascatur nequaquam
prosit.
Dunque, ci troveremmo di
fronte ad una possibile contraddizione: a testi che presentano il concepito in
rerum natura non esse / in rebus humanis non esse, vale a dire come
mera parte di un corpo altrui, sprovvisto di una propria individualità,
si affiancano altri che, all’opposto, sembrano mostrare il medesimo
concepito in rerum natura esse / in rebus humanis esse, ossia come
esistenza dotata di autonoma rilevanza, indipendente e distinta da quella della
madre.
È nostra intenzione unirci a quanti si sono
confrontati con questa ‘contraddizione’, cercando non solo di
risalire alla verosimile soluzione adottata dalla giurisprudenza classica, ma
altresì di mettere in luce il percorso interpretativo dalla stessa
seguito. Prima di farlo, tuttavia, è opportuno dare brevemente conto
delle diverse opinioni, privilegiando, alla nostra, la voce degli studiosi che
le hanno avanzate. In questa esposizione non seguiremo un criterio di ordine
temporale, ma tematico.
Il primo indirizzo che
prendiamo in considerazione ha radici antiche. Infatti, già Alciato([2]) e Cuiacio([3])
credono che l’interessamento dei giuristi nei confronti del nascituro,
unanimemente considerato una parte della madre, si debba collegare al fatto che
i medesimi giuristi attribuissero rilevanza all’intrinseca speranza che
il concepito portava in sé, ossia la “spes hominis”([4]),
la speranza di divenire uomo.
Questa linea di pensiero
è stata ripresa da molti studiosi. Savigny rileva innanzitutto
l’antinomia delle fonti:
«Mehrere
Stellen des Römischen Rechts sagen ganz bestimmt, in diesem Zustand sei
das Kind noch nicht Mensch, es habe kein Dasein für sich, sondern sei nur
als Theil des mütterlichen Leibes zu betrachten. Andere Stellen dagegen
setzen ein solches Kind dem schon geborenen gleich»([5]).
Ma a questo punto,
l’illustre studioso non esita a propendere per il non esistere (con
rilevanza autonoma) del nascituro:
«Die
erste Regel drückt eigentlich das wahre Verhältnis der Gegenwart aus;
die zweite enthält eine bloße Fiktion, und diese ist nur in ganz
einzelnen, beschränkten Rechtsbeziehungen anwendbar... Die Fiktion dagegen
bezieht sich vorsorgend auf das bevorstehende wirkliche Leben des Kindes, und
zwar auf zweierlei Weise: theils durch Anstalten, wodurch dieses Leben schon
gegenwärtig vor der Vernichtung geschützt werde; teils durch
Anweisung von Rechten, in welche das Kind gleich bei seiner Geburt eintreten
könne»([6]).
Secondo Savigny, i
giuristi romani da un lato avrebbero considerato il concepito quale vita
dipendente da quella della madre e con essa intimamente connessa, ma
dall’altro, per tutelare «das bevorstehende wirkliche Leben des
Kindes»([7]),
se ne sarebbero occupati.
Soltanto
l’apparenza di una contraddizione, dunque. La lettura proposta da
Savigny, volta a sottolineare come la giurisprudenza romana, pur schierata
compatta a favore dell’idea del concepito quale non autonoma
individualità, abbia dato riconoscimento attraverso il ricorso alla
finzione — fingere il concepito già nato — alla
‘imminente vita reale dell’infante’ è seguita da
numerosi studiosi([8]).
Tra questi, ad esempio,
Fadda, dopo aver rilevato che in argomento «le fonti si pronunciano in
guisa differente»([9]),
pensa di conciliarle ricorrendo al concetto del nascituro quale “spes
hominis”, quale “speranza di una persona”: «…
il feto non è attualmente un essere capace di diritto, ma è un
possibile destinatario di diritti e, come tale, la legge ne tutela gli interessi.
Non nasce: e cadono tutti i provvedimenti interinali. Nasce: e diventano
definitivi tutti i rapporti provvisorii. Tutto questo lavorìo della
legge e della interpretazione mira a tutelare la possibilità di una
persona: tutto cade appena questa possibilità viene a mancare»([10]).
Di «persona
eventuale, in fieri» scrive anche Bonfante il quale, dopo aver
riportato alcuni frammenti giurisprudenziali([11])
dai quali sembrerebbe emergere l’interessamento del diritto per il
concepito in quanto tale, scrive: «Ma queste massime hanno bisogno
(…) d’essere intese con cautela e ammesse con le debite
restrizioni: prese alla lettera sono false e in contraddizione con altre
enunciate dai Romani stessi, le quali negano la personalità del
nascituro. Il vero principio è il seguente. Il concepito non è
attualmente persona: essendo peraltro pur sempre una persona eventuale, in
fieri, gli si riservano e si tutelano quei diritti che dal momento della
nascita gli sarebbero devoluti ed inoltre la capacità giuridica, in
quanto ciò gli giovi, si calcola dal momento della concezione, non da
quello della nascita»([12]).
Alle stesse conclusioni
perviene Nardi il quale, commentando un frammento papinianeo([13])
in cui si legge che partus nondum editus
homo non recte fuisse dicitur, scrive
che l’enunciato suddetto «si armonizza perfettamente col meccanismo
di riserva fino alla nascita dei diritti e vantaggi per il nascituro in
funzione della ‘spes’
ch’esso rappresenta (…): tale ‘spes’, invero, induce, nei limiti e con gli effetti indicati,
a ‘far conto’ che il nascituro esista, ossia a
‘considerarlo’ come esistente; ma, fuor del raggio di quella
opportunità, resta vero e si afferma che prima della nascita un uomo
ancor non esiste, perché sul piano e biologico e giuridico un semplice
feto od embrione non è tale”»([14]).
E nel prosieguo ribadisce: «per diritto classico romano il nato (vivo)
è uomo, il nascituro non lo è (…): è soltanto una
‘portio viscerum mulieris’ (…), di cui ‘si
spera’ che, col nascer viva, lo diventi»([15]).
Infine, Y. Thomas parla,
a proposito del concepito, di “pure
abstraction”, di «embryon
étranger au droit». Ciononostante, per
«l’espoir d’un être vivant», dal diritto «une
nature est fabriquée»
attraverso «la fiction d’un venter
sujet de droit»([16]).
Rispetto
all’indirizzo appena esposto, ci sembra di cogliere una sfumatura diversa
in un’altra interpretazione([17])
la quale, pur concordando sul fatto che il concepito fosse ritenuto una parte
della madre, avanza l’ipotesi che i giuristi, soltanto a partire da una
certa epoca([18])
e limitatamente a circoscritti settori del diritto, abbiano iniziato ad
occuparsi del nascituro in quanto tale([19]),
e non per l’intrinseca speranza di ‘divenire uomo’. In altri termini,
una volta stabilita la regola, i giuristi vi avrebbero derogato in determinati
casi. Da qui l’illusoria contraddizione delle fonti.
Tra i numerosi studiosi
che hanno sostenuto l’opinione testè accennata, è opportuno
richiamare Archi il quale individua due momenti nel rapporto tra giurisprudenza
e concepito:
«Il non essere il
concepito in rebus humanis secondo i giuristi romani non toglie
però che di esso non se ne debba occupare il diritto, in particolare il ius
civile, data l’organizzazione che secondo questo ordinamento ha la
famiglia. Fondata sulle iustae nuptiae; retta dal principio della patria
potestas; destinata socialmente a continuare con le successive generazioni;
la famiglia, infatti, stando alle fonti, sembra essere stata l’istituto,
nel cui àmbito il fatto fisiologico del concepimento si è
imposto. Questa considerazione spiega una particolarità, alla quale non
si è dato abbastanza peso, e cioè che a proposito delle norme del
ius civile relative al concepito le fonti mettono l’accento non
sull’interesse del nascituro, quanto su quello del pater familias»([20]).
Dunque, inizialmente
sarebbe stato l’interesse del pater familias o più in
generale quello della familia a veicolare l’attenzione dei
giuristi verso il concepito, ritenuto in questa prima fase una esistenza non
ancora indipendente da quella della madre. Tuttavia, in epoca classica,
continua Archi, si assiste ad “un mutamento dei motivi ispiratori”
che porta ad attribuire rilevanza al nascituro in quanto tale:
«… mutamento
per il quale si considera ormai che è nei confronti e in favore del
nascituro che sotto certi aspetti alcuni diritti vengono riservati al concepito
ex iustis nuptiis… Il nuovo punto di vista, e cioè quello
di considerare il fatto del concepimento soprattutto in funzione del nascituro,
doveva portare nel periodo susseguente a un fecondo sviluppo…»([21]).
Sullo stesso piano,
Albanese ritiene che il nascituro fosse reputato dai giuristi «parte
della madre», ma «non per ciò il conceptus fu
considerato un nulla giuridico… sotto alcuni riguardi, esso è
considerato come titolare di aspettative giuridiche degne di tutela, tanto che
si giunse ad affermare che il nascituro, talvolta, deve essere trattato perinde
ac si in rebus humanis esset; e tanto che in parecchi casi la
personalità giuridica potenziale, per così dire, del nascituro
venne in specifico rilievo»([22]).
Pugliese ribadisce il
concetto: «il concepito non è di regola ritenuto dai giuristi
romani, d’accordo con la filosofia stoica, un’entità
distinta dal corpo materno, si nota nondimeno che in taluni casi il
concepimento ha per se stesso rilevanza giuridica»([23]).
Infine, Gaudemet il
quale, dopo aver rilevato che «le cas du foetus (…)
déjà embarassait les juristes romains»([24]),
ammette da un lato che «la personne implique la vie et normalement une
vie ‘indépendante’», ma dall’altro riconosce che
il diritto romano «tient compte de l’enfant déjà
conçu»([25]).
A questi indirizzi
può forse avvicinarsi la lettura, che ha finito con l’influenzare
la maggior parte degli studi successivi([26]),
di Albertario il quale risolve l’apparente contraddizione individuando
nelle fonti due distinte condizioni del nascituro:
«Vi ha un gruppo di testi, nei quali il
nascituro è considerato non in rerum natura, non in rebus
humanis… Sono, come ognun vede, testi nei quali è con le
stesse parole, dappertutto ricorrenti, espressa la condizione fisiologica del
concepito([27]).
Ma, accanto a questi ve ne sono altri — e sono i più interessanti
— nei quali con formulazioni generiche è fissata la sua condizione
giuridica([28]).
I due gruppi di testi a un superficiale osservatore potrà sembrare che
si contraddicano: in realtà si illuminano a vicenda. I testi del secondo
gruppo non pongono l’affermativa assoluta, in antitesi all’assoluta
negativa, che abbiamo sorpresa nei testi del primo gruppo. Non dicono, insomma,
che il concepito est in rerum natura, est in rebus humanis.
Sottintendono la nozione fisiologica, ma pongono la nozione giuridica
affermando che, per quanto sotto l’aspetto fisiologico il concepito non
è in rerum natura o in rebus humanis,
nell’ordinamento giuridico ciò non ostante è considerato
come se esistesse, come se fosse in rerum
natura o in rebus humanis»([29]).
Secondo Albertario nelle fonti si possono rinvenire
due gruppi di testi: l’uno esprimente la “condizione
fisiologica” del concepito, l’altro la “condizione
giuridica” del medesimo. Dal punto di vista fisiologico il nascituro era
reputato non esistere in maniera autonoma, mentre dal punto di vista giuridico
lo stesso nascituro era considerato “come se esistesse”.
Numerosi, come accennato,
sono gli studiosi che hanno seguito l’interpretazione avanzata da
Albertario, la maggior parte dei quali, discostandosi in ciò
dall’insigne studioso([30]),
parla di finzione. Tra questi, ad esempio, Todescan, riprendendo i due insiemi
di testi, così li concilia: «pur presupponendo il dato della
“realtà naturale”, affermano nettamente quanto vale per la
“realtà giuridica”, sostenendo che, quantunque sotto il
profilo fisiologico il nascituro non sia “in rerum natura, in
rebus humanis”, viceversa per l’ordinamento giuridico esso
viene considerato “come se” fosse “in rerum natura”.
Tra l’orizzonte ideologico
degli scopi perseguiti (in termini tecnici il commodum del concepito) e
l’ordine espresso dalla “natura dei fatti” si apre una
frattura: e la “realtà giuridica” viene costruita saldando
questa frattura attraverso l’ormai consueto ricorso alla fictio»([31]).
Anche Balestri ritiene
«sulla falsariga dell’Albertario, che la mancata ricomprensione del
concepito nella categoria delle res humanae esprima soltanto il suo
stato fisiologico, secondo le convinzioni del tempo, avvalorate da quanto asserivano
i più accreditati cultori della filosofia stoica»([32]).
Lo stesso concetto
è ribadito da Lamberti la quale lega la rilevanza giuridica del concepito, fisiologicamente res o
portio viscerum, ad un non facile lavorìo giurisprudenziale
— «la finzione raffinata dell’in rerum natura intellegi»([33])
— attraverso il quale si riuscì a rimediare al fatto che il
nascituro fosse reputato in rerum natura non esse([34]).
La distinzione
tra il dato fisiologico e quello giuridico si ritrova infine in Baud, secondo
cui, pur iniziando la persona ad esistere soltanto dopo la nascita, era
possibile per il diritto farla «nascere prima del corpo»: «se
era in gioco l’interesse del neonato, il diritto permetteva di far
risalire l’apparizione della sua persona al momento del suo concepimento.
La distinzione fondamentale tra “l’essere giuridico e
l’essere fisico” di una persona, consentì dunque al giurista
romano, “manipolatore della vita”, di decidere, in funzione degli
interessi da difendere, il momento in cui considerarla esistente sulla scena
del diritto» ([35]).
Il tentativo di
individuare due gruppi di testi, al fine di risolvere la
‘contraddizione’ delle fonti in tema di concepito, si incontra anche
in altri studiosi. Maschi, pur sulla base di un non esaustivo esame delle
fonti([36]),
distingue tra passi nei quali il concepito viene riguardato quale
“oggetto di diritti” e passi nei quali viene viceversa riguardato
quale “soggetto di diritti”([37]):
«Ammesso quindi,
come mi sembra necessario ammettere, che questi testi([38])
affermano che il concepito non è giuridicamente esistente, come si
conciliano con i seguenti([39])
in cui si dice che il concepito esiste o è come se esistesse? … A
mio avviso la conciliazione tra i due gruppi di testi si ha tenendo presente
che due principî essenzialmente diversi sorreggono tali frammenti. Nei
testi del primo gruppo il concepito è preso in considerazione quale
oggetto di diritti e in questo senso è equiparato alla cosa… Logico
quindi considerare tale oggetto di diritti come non ancora esistente,
nell’epoca anteriore alla nascita, e il relativo negozio si considera
come avente per oggetto cosa futura… Al contrario, nel secondo gruppo di
testi viene preso in considerazione lo status di figli liberi come
soggetti di diritto, e ciò a fini ben determinati, di carattere
prevalentemente non patrimoniale (…), che si ricollegano precisamente a
quel principio conceptus pro iam nato habetur…»([40]).
Secondo Maschi, dunque, i
giuristi avrebbero fatto dipendere l’identità del concepito dalla
particolarità della fattispecie giuridica: se oggetto di diritti, il
nascituro non sarebbe stato reputato una autonoma individualità, mentre
se soggetto di diritti, il medesimo nascituro sarebbe stato considerato
esistere e in maniera indipendente rispetto alla madre.
Una originale
riflessione, a nostro avviso tuttavia sfornita di una concreta base testuale([41]),
si rinviene negli studi di alcuni antichi interpreti. Ci sembra opportuno darne
conto, perché anche tale lettura, seppure non ancora utilizzata in
questa direzione, individua un criterio attraverso cui risolvere la
‘contraddizione’ delle fonti in materia di concepito.
Nella Glossa si
distinguono, a proposito dei frammenti del Digesto in tema di procurato aborto([42]),
due stadi di vita del nascituro: uno stadio nel quale il nascituro non è
ancora uomo ed uno stadio in cui, viceversa, il nascituro è divenuto
uomo.
Si veda anzitutto il
passo del Digesto e poi
D. 47,11,4 (Marc.
1 reg.):
Divus Severus et Antoninus rescripserunt eam, quae data opera abegit, a
praeside in temporale exilium dandam: indignum enim videri potest impune eam
maritum liberis fraudasse.
Glossa Exilium, ad. l.
Divus, 4 ff. de extraordinariis
criminibus (D. 47,11,4): Ante quadraginta dies: quia ante non erat
homo: postea de homicidio tenetur secundum legem Moysi, vel legem Pompeiam de
parricidiis…
A commento della sanzione
dell’esilio comminata nei confronti della donna che avesse
volontariamente fatto violenza alle proprie viscere così da espellere il
parto([43]),
si legge che la sanzione medesima trovava giustificazione nel fatto che
l’aborto fosse avvenuto entro il quarantesimo giorno dal concepimento,
vale a dire in un momento in cui il nascituro «non erat homo». Se
invece il procurato aborto fosse avvenuto dopo il quarantesimo giorno,
divenendo il nascituro ‘uomo’, si sarebbe trattato di omicidio e,
come tale, sarebbe stato punito([44]).
La distinzione che si
legge nella Glossa è ripresa da altri studiosi. Per fare solo qualche
esempio, Bartolo differenzia tra il momento «antequam partus esset
animatus» e il momento «postquam partus animatus»([45]).
Lo stesso si legge in Covarruvias: «necessarium est, quod foetus tempore
abortionis sit iam in utero animatus; alioqui non est proprie
homicidium»([46]).
Ancora, Dionisio Gotofredo scrive, per giustificare la pena capitale nei
confronti della donna che abbia abortito, di un «partus jam formatus et
animatus»([47]).
Infine Matthaeus, in merito alla pena di
morte comminata a coloro i quali avessero dato un farmaco abortivo e
determinato la morte di mulier aut homo([48]),
ribadisce la distinzione, pur senza specificare: «… homo autem intelligitur,
qui formatus est: informis foetus spes magis hominis, quam homo»([49]).
Due distinti gruppi di
testi sono individuati anche da Arnò. Tuttavia, l’autore in
questione, diversamente dalle opinioni fin qui esaminate, intravvede una
controversia tra opposte correnti giurisprudenziali([50]),
quella dei muciani([51])
e quella dei serviani([52]):
«Tale concetto di
non reputare uomo chi non fosse nato, considerando il feto già concepito
come parte del ventre materno, costituì sempre la dottrina tradizionale
e invariabilmente ammessa dai giuristi di corrente muciana…
Senonché non tardò nella corrente — che venne a formarsi
per opera di Servio e che prese un indirizzo tutto suo proprio di fronte a
quello dei seguaci di Mucio — a manifestarsi un concetto che, a dire il
vero, contrastava siffattamente con il principio: nasciturus non pro nato
habetur, ovvero: conceptus in rerum natura esse non existimatur, che
quasi quasi, in base a questa nuova tendenza, sorta con Servio e i suoi
seguaci, si sarebbe potuto proclamare un principio opposto, principio che, in
base a tale tendenza, fu poi in tempo lontano espresso dagli interpreti con
quel noto adagio che suona: conceptus pro iam nato habetur, ovvero: conceptus
intelligitur, existimatur in rerum natura… qualunque concepito
si ha come se già fosse nato, di guisa che la personalità fisica
è da retrotrarsi sempre sino al momento del concepimento… il
concepito (…) ha una personalità a sé, è un nuovo
essere che ha vita a sé con personalità autonoma e
distinta»([53]).
Secondo Arnò nelle
fonti sarebbe documentata una reale controversia: da un lato i muciani che
reputavano il concepito quale “parte del ventre materno”,
dall’altro i serviani che all’opposto ritenevano lo stesso
concepito quale “nuovo essere che ha vita a sé con
personalità autonoma e distinta”.
Tuttavia, entrambi gli
indirizzi giurisprudenziali ammisero alcune deroghe: i muciani perché
iniziarono a riconoscere rilevanza alla “speranza di uomo” che ogni
concepito portava in sé([54]); i serviani perché
introdussero il criterio del commodum e a questo vincolarono
l’esistere (in maniera indipendente rispetto alla madre) del nascituro([55]).
Da ultimo, è
opportuno dare conto di quell’indirizzo secondo cui il nascituro non
sarebbe stato considerato una parte della madre, bensì una esistenza da
quella distinta. Già
Il concetto, secondo cui
il nascituro era ritenuto una individualità autonoma, viene approfondito
da Waldstein il quale giunge ad individuare nel concepito «eine neue
Person»([57]).
Secondo l’insigne studioso, i vantaggi giuridici concessi al nascituro
sarebbero il riflesso di una sua capacità giuridica e proprio questa
capacità giuridica, ancorché limitata, impedirebbe di
qualificarlo soltanto come parte di un corpo altrui([58]).
E altrove ribadisce, in aperto contrasto con Kaser([59]),
che «das Kind selbst existiert vielmehr bereits als selbständiges
Rechtssubjekt im Uterus»([60]).
Queste posizioni sono poi
riprese da Catalano:
«Secondo i Digesta
di Giustiniano, la parità del concepito e del nato è principio di
carattere generale, salve le eccezioni di alcune ‘parti del
diritto’ (…). Il principio di carattere generale è
chiaramente affermato nel I libro, titolo V (De statu hominum) e trova
rispondenza terminologica nell’ultimo libro, titolo XVI (De verborum
significatione)… È opportuno chiarire che il principio della
parità non è conseguenza di una finzione, cioè di una
costruzione imperativa, bensì della constatazione di una realtà
da parte dell’interprete…»([61]).
Catalano, respingendo
l’ipotesi avanzata da Albertario([62]),
pensa che il principio adottato dalla giurisprudenza fosse quello della
parità tra nascituro e nato, principio fondato non sulla finzione, ma
sulla «constatazione di una realtà da parte
dell’interprete»([63]).
In questa prospettiva,
quanto si legge in un passo di Papiniano([64]) (il concepito nondum editus homo non recte fuisse dicitur) e in uno di Ulpiano([65])
(il concepito quale mulieris portio
vel viscerum) altro non sarebbe che eccezione al principio generale:
«Si deve osservare,
piuttosto, che Papiniano trattava della lex Falcidia ed Ulpiano, a
proposito dell’Editto pretorio, dei senatusconsulta de liberis
agnoscendis; e inoltre che i titoli dei Digesta in cui sono
collocati i due passi (Ad legem Falcidiam e De inspiciendo ventre
custodiendoque partu) indicano chiaramente che le precisazioni dei due
giuristi severiani non sono da considerare altro che eccezioni,
convenientemente motivate, rispetto ai principi fissati nel primo e
nell’ultimo libro dei Digesta»([66]).
A sostegno
dell’interpretazione avanzata, l’insigne autore pone poi
l’accento sulla concreta terminologia che risulta impiegata nelle fonti: qui
in utero est e partus,
quest’ultimo utilizzato per esprimere la continuità tra il
nascituro e il nato attraverso l’atto del partorire([67]).
La posizione di Catalano ci sembra sostanzialmente seguita, tra gli altri([68]), da Baccari([69]), da Sanna([70]) e da Madeira([71]).
([1]) Cfr., tra gli altri, F.K. Savigny, System, cit., II, 12; B. Windscheid, Diritto delle Pandette, cit., I, 153 note 2 e 3; E. Albertario, Studi, cit., I, 1 ss.; C.A. Maschi, La concezione naturalistica del diritto, cit., 66 ss.; G.G. Archi, s. v. Concepimento, cit., 356; W. Waldstein, Entscheidungsgrundlagen der klassischen römischen Juristen, cit., 34 n. 113; G. Gandolfi, s. v. Nascituro, cit., 532; M. Balestri Fumagalli, ‘Spes vitae’, cit., 341 s.; J. Gaudemet, Membrum, persona, cit., 3 n. 4; Á. Gómez–Iglesias Casal, Nasciturus, cit., 282 s.
([4]) A. Alciatus, De verborum significatione, cit., 390, ad D. 50,16,231. Di “spes animalis” scrive J. Cujacius, Commentarius… Ad L. IX ad leg. Falcid., cit., IV, 1399. Occorre tuttavia sottolineare che l’espressione spes hominis non è documentata nelle fonti giuridiche, nelle quali viceversa appare l’espressione spes nascendi. Su quest’ultima, si veda, tra gli altri, M. Bartošek, La spes en droit romain, in RIDA 2 (1949), 19 ss., in particolare 31, che la definisce come «raison de tous les avantages de la condition juridique du conceptus»; F. Lanfranchi, s. v. Nascituri (diritto romano), in NNDI XI (1965), 13; Á. Gómez-Iglesias Casal, Nasciturus, cit., 288 ss.
([5]) F.K. Savigny, System, cit., II,
12 e note a e b, il quale richiama a sostegno del non esistere
(con rilevanza autonoma) del concepito i seguenti testi: D. 35,2,9,1 (Pap. 19 quaest.), D. 25,4,1,1 (Ulp. 24 ad edict.). A sostegno, invece,
dell’esistere (con rilevanza autonoma) del nascituro, cita: D. 1,5,26 (Iul. 69 dig.),
D. 50,16,231 (Paul. l. s. ad sc. Tert.).
([8]) Cfr., tra gli altri, C. Fadda, Diritto delle persone e della famiglia, Napoli 1910, 22; P. Bonfante, Istituzioni di diritto romano, rist. X edizione, Torino 1951, 38; E. Nardi, Procurato aborto, cit., 397; Y. Thomas, Le «ventre». Corps maternel, droit paternel, in Le genre humain 14 (1986), 211 ss.; J. Plescia, The Development of the Doctrine of Boni Mores in Roman Law, in RIDA 34 (1987), 292 s. Sul fatto che l’esistenza umana iniziasse soltanto con la nascita, si veda anche B. Windscheid, Diritto delle Pandette, cit., I, 153 s., secondo cui i diritti attribuiti al bambino rimanevano, fino al momento del parto, diritti privi di soggetto.
([10]) C. Fadda, Diritto delle persone, cit., 24 s. Di “spes hominis”, Fadda aveva già scritto in Concetti fondamentali del diritto ereditario romano (lezioni dettate nella Università di Napoli 1899-1900), I, Napoli 1900, 140. Di “speranza di una vita” scrive A. Sacchi, s. v. Curator ventri datus, in DI VIII, parte IV (1899–1903), 912.
([11]) D. 1,5,26 (Iul. 69 dig.); D. 1,5,7 (Paul. l. s. de port., quae lib. damn. conc.); D. 50,16,231 (Paul. l. s. ad sc. Tert.).
([12]) P. Bonfante, Istituzioni di diritto romano, cit., 38. Cfr. anche M. Roberti, Svolgimento storico del diritto privato in Italia, Milano 1928, 65, secondo cui il diritto romano «ammise esistere in potenza un subietto giuridico attualmente portio matris».
([16]) Y. Thomas, Le «ventre», cit., 215 s. Del medesimo autore, si veda anche La divisione dei sessi in diritto romano, in AA. VV., Storia delle donne in occidente. L’antichità, a cura di P. Schmitt Pantel, Roma-Bari 1990, 103 ss., in cui (p. 150) afferma a proposito del concepito: «… allora il bambino si confonde con la madre: “parte delle sue viscere”, come lo definiva Ulpiano, non ha esistenza propria».
([17]) Cfr., tra gli altri, B. Biondi, Il diritto romano cristiano, II, Milano 1952, 339; G.G. Archi, s. v. Concepimento, cit., 354 ss.; F. Lanfranchi, s. v. Nascituri, cit., 13 s.; B. Biondi, Istituzioni di diritto romano, Milano 19654, 113 s.; G. Impallomeni, s. v. Persona fisica (diritto romano), in NNDI XII (1965), ora in Idem, Scritti di diritto romano e tradizione romanistica, Padova 1996, 134; B. Albanese, Le persone nel diritto privato romano, Palermo 1979, 12; Idem, s. v. Persona (diritto romano), in ED XXXIII (1983), ora in Idem, Scritti giuridici, II, Palermo 1991, 1606; G. Pugliese, Il ciclo della vita individuale, cit., 55 ss.; I. Nuñez Paz, Algunas consideraciones en torno al ‘repudium’ y al ‘divortium’, in BIDR 91 (1988), 720 n. 25; J. Gaudemet, Membrum, persona, cit., 3; I. Carrasco de Paula, Il rispetto dovuto all’embrione umano, cit., 10 s.
([18]) Collega il mutamento alla tarda giurisprudenza classica G.G. Archi, s. v. Concepimento, cit., 355.
([19]) E in questo modo l’opinione che stiamo esponendo risolve l’apparente ‘contraddizione’ delle fonti.
([22]) B. Albanese, Le persone, cit., 11 s. L’illustre studioso in s. v. Persona, cit., 1606, ammette che «esistettero profili per cui il nascituro ebbe rilevanza giuridica». Tra questi Albanese elenca, ad esempio, la concessione della missio in possessionem cautelare alla madre rispetto ai beni che il concepito avrebbe ereditato, la nomina pretoria di un curator ventris, l’attribuzione di una condizione giuridica, l’istituzione di erede, la diseredazione, la nomina di un tutore.
([26]) Cfr., tra gli altri, U. Robbe, I postumi nella successione testamentaria romana, Milano 1937, 36 n. 17; A. Torrent, Interpretacion de la “voluntas testatoris” en la jurisprudencia republicana: la “causa curiana”, in AHDE 39 (1969), 203; F. Todescan, Diritto e realtà. Storia e teoria della fictio iuris, Padova 1979, 66 ss.; M. Balestri Fumagalli, ‘Spes vitae’, cit., 342; A. Lefebvre-Teillard, Infans conceptus. Existence physique et existence juridique, in NRD 72 (1994), 499 ss.; F. Lamberti, Studi sui «postumi» nell’esperienza giuridica romana, I, Napoli 1996, 45 ss.; Eadem, Studi sui «postumi» nell’esperienza giuridica romana, 2. Profili del regime classico, Milano 2001, 50 ss.
([27]) E. Albertario, Studi, cit., I, 5 s., indica, in questo ordine: Gai. 2,203; D. 30,24 pr. (Pomp. 5 ad Sab.); D. 38,16,1,8 (Ulp. 12 ad Sab.); D. 37,9,1 pr. (Ulp. 41 ad edict.); D. 44,2,7,3 (Ulp. 75 ad edict.); D. 7,7,1 (Paul. 2 ad edict.); D. 25,4,1,1 (Ulp. 24 ad edict.); D. 35,2,9,1 (Pap. 19 quaest.).
([28]) E. Albertario, Studi, cit., I, 7, menziona, in questo ordine: D. 1,5,26 (Iul. 69 dig.); D. 38,16,7 (Cels. 28 dig.); Gai. 1,147; D. 1,5,7 (Paul. l. s. de port., quae liberis damnatorum conceduntur).
([29]) E. Albertario, Studi, cit., I, 5 ss. Sul saggio, si veda la recensione di V. Arangio-Ruiz, in AG 113 (1935), 71 ss.
([30]) E. Albertario, Studi, cit., I, 5 ss. non parla mai di finzione. Al contrario, a pagina 7 scrive di “pareggiamento” del nascituro al nato. La cosa è già stata rilevata: si veda, per tutti, E. Bianchi, Fictio iuris. Ricerche sulla finzione in diritto romano dal periodo arcaico all’epoca augustea, Padova 1997, 430 n. 613.
([33]) F. Lamberti, Studi sui «postumi», cit., I, 54. Cfr. anche Eadem, Studi sui «postumi», cit., 2, 50 ss.
([34]) Tuttavia, F. Lamberti, Studi sui «postumi», cit., I, 50, ammette, avvicinandosi in questo al primo indirizzo da noi esposto (cfr. par. 2), che presso i giuristi del terzo secolo, «pur non mutando la concezione di fondo del fetus quale res, va facendosi strada invece una considerazione che oltrepassa il dato meramente fisiologico, per attestarsi su quello del riconoscimento di svariate prerogative al concepito, ad opera dell’ordinamento, e dunque sull’implicita ammissione di una qualitas ulteriore del fetus, consistente nella sua attitudine a farsi homo…».
([35]) J.-P. Baud, Il caso della mano rubata. Una storia giuridica del corpo, trad. it., Milano 2003, 72 s.
([36]) C.A. Maschi, La concezione naturalistica del diritto, cit., 66 ss., si limita infatti a citare le seguenti fonti (in questo ordine): Gai. 2,203; D. 7,7,1 (Paul. 2 ad edict.); D. 30,24 pr. (Pomp. 5 ad Sab.); D. 1,5,26 (Iul. 69 dig.); D. 38,16,6 (Iul. 59 dig.); D. 38,16,7 (Cels. 28 dig.). L’interpretazione è dallo stesso studioso ribadita in Il concepito e il procurato aborto nell’esperienza antica, in Jus 22 (1978), 388 n. 9.
([37]) Sulla possibile distinzione tra concepito “oggetto di diritti” e concepito “soggetto di diritti”, si veda la decisa critica di G.G. Archi, s. v. Concepimento, cit., 354.
([38]) C.A. Maschi, La concezione naturalistica del diritto, cit., 67, richiama, in questo ordine: Gai. 2,203; D. 7,7,1 (Paul. 2 ad edict.); D. 30,24 pr. (Pomp. 5 ad Sab.).
([39]) C.A. Maschi, La concezione naturalistica del diritto, cit., 68, cita, in questo ordine: D. 1,5,26 (Iul. 69 dig.); D. 38,16,6 (Iul. 59 dig.); D. 38,16,7 (Cels. 28 dig.).
([40]) C.A. Maschi, La concezione naturalistica del diritto, cit., 67 ss. L’Autore non approva la distinzione tra dato fisiologico e dato giuridico avanzata da Albertario. Infatti, a pag. 68, scrive a proposito del concepito oggetto di diritti: «Non ancora esistente, appunto come oggetto di diritti, quindi dal punto di vista giuridico, perché senza dubbio da un punto di vista meramente fisiologico, anche il feto è qualche cosa che esiste, se pure non indipendentemente».
([42]) I frammenti in tema di procurato aborto sono nel Digesto, oltre a D. 47,11,4 (Marcian. 1 reg.), riportato in testo, D. 48,8,8 (Ulp. 33 ad edict.) e D. 48,19,39 (Tryph. 10 disp.). Ne anticipiamo la lettura, benché il loro esame sarà condotto nel cap. II, par. 20, D. 48,8,8 (Ulp. 33 ad edict.): Si mulierem visceribus suis vim intulisse quo partum abigeret, constiterit, eam in exilium praeses provinciae exiget. D. 48,19,39 (Tryph. 10 disp.): Cicero in oratione pro Cluentio Habito scripsit Milesiam quandam mulierem, cum esset in Asia, quod ab heredibus secundis accepta pecunia partum sibi medicamentis ipsa abegisset, rei capitalis esse damnatam. sed et si qua visceribus suis post divortium, quod praegnas fuit, vim intulerit, ne iam inimico marito filium procrearet, ut temporali exilio coerceatur, ab optimis imperatoribus nostris rescriptum est.
([44]) Al riguardo, in Glossa Exilium, ad. l. Divus, 4 ff. de extraordinariis criminibus (D. 47,11,4) si leggono i richiami a D. 48,9,1 (Marcian. 14 inst.): Lege Pompeia de parricidiis cavetur, ut, si quis patrem matrem, avum aviam, fratrem sororem patruelem matruelem, patruum avunculum amitam, consobrinum consobrinam, uxorem virum generum socrum, vitricum, privignum privignam, patronum patronam occiderit cuiusve dolo malo id factum erit, ut poena ea teneatur, quae est legis Corneliae de sicariis. sed et mater, quae filum filiamve occiderit, eius legis poena adficitur, et avus, qui nepotem occiderit: et praeterea qui emit venenum, ut patri daret, quamvis non potuerit dare. C. 9,16,7 (8). Imppp. Valentinianus Valens et Gratianus AAA. ad Probum pp. Si quis necandi infantis piaculum adgressus adgressave sit, sciat se capitali supplicio esse puniendum. PP. VII id. Febr. Romae Gratiano A. III et Equitio conss. (a. 374). Su quest’ultima costituzione, rimandiamo, con altra bibliografia, ad un precedente lavoro: P. Ferretti, Cujacio, Revardo, J. Gotofredo, Noodt e C.Th. 9,14,1: attualità di un dibattito, in AUFE, Sez. Scienze Giuridiche, N.S., VIII (1994), 249 ss.; C. Lorenzi, Si quis a sanguine infantem… conparaverit. Sul commercio di figli nel tardo impero, Perugia 2003, 32.
([45]) Bartolus a Saxoferrato, Commentaria in Secundam Digesti Novi Partem, VI, Venetiis 1590, 133, ad D. 47,11,4, il quale, tuttavia, a proposito del maschio conferma i quaranta giorni dal concepimento, mentre per la femmina scrive di una animazione «post LX dies».
([46]) D. Covarruvias, De abortu, bello & homicidio, in Idem, Opera omnia, Antuerpiae 1638, 538, il quale fissa nel quarantesimo giorno dal concepimento l’animazione per il maschio e nell’ottantesimo giorno per la femmina.
([47]) D.
Gothofredus, Corpus Juris Civilis cum D. Gothofredi et Aliorum notis,
I, Lugd. Batavorum 1663, 745 n. 3 ad D. 48,19,39.
([48]) Il testo è riportato in D.
48,19,38,5 (Paul. 5 sent.): Qui abortionis aut amatorium poculum
dant, etsi dolo non faciant, tamen quia mali exempli res est, humiliores in metallum,
honestiores in insulam amissa parte bonorum relegantur. quod si eo mulier aut
homo perierit, summo supplicio adficiuntur.
([49]) A. Matthaeus, De criminibus ad Lib. XLVII. et XLVIII. Dig. Commentarius, I, Neapoli 1772, 142 s.
([50]) Sulle due scuole, si veda C. Arnò, La mia congettura sulle due scuole dei giureconsulti romani in relazione a quella del Bluhme sull’ordine tenuto dai compilatori delle Pandette, in AG 93 (1925), 212 ss.
([51]) Tra questi, l’autore individua Marcello, citato da Ulpiano in D. 41,3,10,2 (Ulp. 16 ad edict.), e Ulpiano stesso [D. 25,4,1,1 (Ulp. 24 ad edict.) D. 37,9,1 pr. (Ulp. 41 ad edict.); D. 38,16,1,8 (Ulp. 12 ad Sab.)].
([52]) Tra
i serviani, lo studioso indica Giuliano [D. 38,16,6 (Iul. 59 dig.); D.
1,5,26 (Iul. 69 dig.)], Terenzio Clemente [D. 50,16,153 (Clement. 11 ad
leg. Iul. et Pap.)], Gaio (Gai. 1,147) e Paolo [D. 5,4,3 (Paul. 17 ad
Plaut.); D. 1,5,7 (Paul. l. s. de port., quae liberis damnatorum
conceduntur); D. 50,16,231 (Paul. l. s. ad sen. cons. Tert.); D. 48,19,38,5 (Paul. 5 sent.)].
([53]) C. Arnò, Partus nondum editus, cit., 84 ss. Secondo l’autore di cui stiamo esponendo il pensiero, questi due differenti indirizzi trovarono una sintesi con Giustiniano il quale, da un lato, avrebbe adottato la concezione muciana, ma, dall’altro, avrebbe cercato di temperarla con il principio del vantaggio del nascituro.
[54] Secondo C. Arnò, Partus nondum editus, cit., 85, i muciani avrebbero attribuito rilevanza alla spes nascendi: «… vi è una fondata speranza di uomo, e tale speranza non può rimanere senza una qualche protezione, onde, se provvidenze vi furono, esse non vennero mai a scalfire il principio che nasciturus non pro nato habetur».
([55]) C. Arnò, Partus nondum editus, cit., 88, richiamando il criterio del commodum, sostiene che della corrente serviana «taluni seguaci, e seguaci tra i più fedeli, e forse a cominciare già da Giuliano, pensarono di esporre la concezione degli antecessori, recando ad essa limitazioni che ne togliessero l’assolutezza».
([56]) G.
([57]) W.
Waldstein, Das Menschenrecht zum Leben, Berlin 1982, 21. Cfr.
anche Idem, Zur Stellung des
nasciturus im römischen Recht, in A bonis bona discere, Festgabe
für János Zlinszky, Miskolc 1998, 48 ss.; Idem, Teoria generale del diritto.
Dall’antichità ad oggi, Roma 2001, 166 ss.
([59]) M.
Kaser, Das römische
Privatrecht, I, München 1971, 2a ed., 272 n. 17, secondo cui,
viceversa, «vor der Geburt ist der partus bloßer Teil des
Mutterleibs».
([61]) P. Catalano, Osservazioni sulla “persona” dei nascituri alla luce del diritto romano (da Giuliano a Teixeira de Freitas), in Rassegna di diritto civile, 1988, 1, ora in Idem, Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, I, Torino 1990, 202 s. (da ora citato come Diritto e persone). Cfr., inoltre, Idem, Il nascituro tra diritto romano e diritti statali, cit., 87 ss.; Idem, Il concepito “soggetto di diritto” secondo il sistema giuridico romano, in Procreazione assistita: problemi e prospettive. Atti del Convegno, Roma 31 gennaio 2005, Fasano 2005 (cito dalla versione gentilmente concessami dall’autore). Seguono questo indirizzo, tra gli altri, G. Fontana, Qui in utero sunt, cit., 1 ss.; M. Lubrano, Persona e homo nell’opera di Gaio. Elementi concettuali del sistema giuridico romano, Torino 2002.
([62]) P. Catalano, Diritto e persone, cit., 203 s.: «… e gli usi del verbo intellegere (…) ci fanno considerare non conforme alla giurisprudenza antica anche la contrapposizione, introdotta dall’Albertario, di ‘condizione fisiologica’ e ‘condizione giuridica’ del concepito».
([63]) P. Catalano, Diritto e persone, cit., 203 s., il quale richiama A. Teixeira de Freitas, Código Civil Esboço (7 volumi, 1860–1865), ed. Ministério da Justiça in 2 volumi, Brasilia 1983, I, 83 ss., che a proposito di un passo di Giuliano (D. 1,5,26) intende il verbo intellegere nel senso di ‘riconoscere la realtà’.
([64]) D. 35,2,9,1 (Pap. 19 quaest.): Circa ventrem ancillae nulla temporis admissa distinctio est nec immerito, quia partus nondum editus homo non recte fuisse dicitur.
([65]) D. 25,4,1,1 (Ulp. 24 ad edict.): Ex hoc rescripto evidentissime apparet senatus consulta de liberis agnoscendis locum non habuisse, si mulier dissimularet se praegnatem vel etiam negaret, nec immerito: partus enim antequam edatur, mulieris portio est vel viscerum. post editum plane partum a muliere iam potest maritus iure suo filium per interdictum desiderare aut exhiberi sibi aut ducere permitti. extra ordinem igitur princeps in causa necessaria subvenit.
([67]) P. Catalano, Il concepito “soggetto di diritto”, cit., 7. Sempre seguendo P. Catalano, Diritto e persone, cit., 205, soltanto «l’introduzione dei concetti astratti di ‘persona’, ‘personalità’, ‘soggetto di diritto’, ‘capacità giuridica’ ha comportato un capovolgimento dei principi e delle norme: si è passati dalla ‘parità ontologica’ alla eccezionale parificazione legislativa».
([68]) Cfr., ad esempio, J.M. Blanch Nougués, Der Ungeborene (nasciturus) im römischen, cit., 102 ss.; sembra aderire a questa opinione, se abbiamo rettamente inteso, anche S. Tafaro, Centralità dell’uomo (persona), in Studi Nicosia, VIII, Milano 2007, 119 ss.
([69]) M.P. Baccari, Concetti ulpianei per il “diritto di famiglia”, Torino 2000, 121 ss.; Eadem, Concepito: l’antico diritto per il nuovo millennio, cit., 1 ss.; Eadem, Sette note per la vita, in SDHI 70 (2004), 507 ss.
([70]) M.V. Sanna, Nuove ricerche in tema di postliminium e redemptio ab hostibus, Cagliari 2001, 123 ss.; Eadem, Conceptus pro iam nato habetur, cit., 250 ss., la quale tuttavia sembra avanzare l’ipotesi di un contrasto giurisprudenziale (p. 258): «… alcuni giuristi classici danno sicuramente rilevanza al momento del concepimento, considerando il feto già esistente, non solo se concepito da persone libere, ma anche da schiave e animali, ritenendo il nato furtivo se concepito presso il dominus o presso il ladro; altri tengono conto invece solo del momento della nascita, perché è in quel momento, a loro avviso, che il nato viene ad esistenza, ed è, dunque, a quel momento che si deve guardare per stabilire se possa essere acquisito da colui presso il quale nasce. Quest’ultima sembra essere la posizione di Paolo, probabilmente allievo di Scevola…».