Cap. III della monografia: Antonello Mattone - Piero Sanna, Settecento sardo e
cultura europea. Lumi, società, istituzioni nella crisi
dell’Antico Regime, Milano, Franco Angeli, 2007, pp. 380. Indice
Sommario
*****
Quest’organica
raccolta di saggi sulla Sardegna del secondo Settecento coglie da
un’inedita e innovativa angolatura storiografica i nessi profondi che
legano le specifiche vicende della società isolana alle esperienze
dell’assolutismo riformatore e alla crisi dell’antico regime in
Europa. L’arco cronologico abbraccia il lungo cinquantennio che
dall’avvio della politica riformatrice del ministro Bogino (1749-1773)
giunge all’età napoleonica e alla precoce restaurazione
assolutistica sabauda durante l’esilio della casa sabauda.
Le tematiche
indagate si possono riassumere in cinque punti: 1) la ricognizione delle
risorse naturali e lo studio delle potenzialità economiche e sociali del
nuovo Regno; 2) le riforme scolastiche e universitarie e il progetto di
formazione di un ceto dirigente sardo capace di amministrare il Regno
d’intesa col ministero torinese; 3) l’incubazione
dell’identità “patria” attraverso un processo
culturalmente ibrido, partecipe del clima politico e ideale del tardo
Settecento europeo; 4) l’originalità (e insieme la
paradigmaticità) della “sarda rivoluzione” del 1793-96 come
tardiva “rivoluzione patriottica” di antico regime; 5) le
esperienze degli esuli sardi a confronto con i modelli politico-istituzionali
della Francia napoleonica.
Università
di Sassari
La «crisi politica» del Regno di Sardegna.
Dalla rivoluzione patriottica ai moti antifeudali (1793-1796)
Sommario:
1. Le
peculiarità di una rivoluzione in controtempo. – 2. Una nuova
identità di tipo patriottico. – 3. La
contrapposizione tra «realisti» e «patrioti».
– 4. Il «partito patriottico» al potere.
– 5. La rivendicazione
antifeudale e il ruolo delle comunità rurali. – 6. Verso la sconfitta del
movimento angioiano. – 7. Per una nuova lettura della
«sarda rivoluzione».
La
«sarda rivoluzione» ha avuto uno strano destino: collocata in uno spazio
cronologico intermedio tra la fase montante della Rivoluzione francese e
l’esperienza delle repubbliche italiane del triennio 1796-99, è
stata a lungo sottovalutata dalla storiografia sull’Europa
tardosettecentesca, mentre ha subìto il peso di ipoteche interpretative
che hanno finito per offuscarne i tratti essenziali di rivoluzione patriottica
di Antico Regime, ora riducendola ad un caso autoctono e singolare, ora
appiattendola su categorie proprie degli eventi francesi.
La
cosiddetta crisi politica sarda[1]
iniziò a profilarsi nell’inverno 1792-93, quando la giovane
Repubblica francese, all’indomani della conquista di Nizza e della
Savoia, tentò di esportare nell’isola le conquiste della
Rivoluzione, e giunse al suo epilogo nella tarda primavera del 1796, quando le
armate napoleoniche dilagavano nell’Italia settentrionale e Vittorio
Amedeo III era costretto a firmare l’armistizio di Cherasco. In sostanza
il triennio rivoluzionario sardo si chiudeva alla vigilia della nuova stagione
patriottica e repubblicana che stava per aprirsi nella penisola: mentre nel
Piemonte occupato da Bonaparte l’effimera avventura della Repubblica di
Alba (aprile-maggio 1796) preannunciava la contraddittoria parabola del
giacobinismo italiano, in Sardegna una precoce restaurazione, imposta dal
governo viceregio attraverso un ribaltamento di alleanze e una convergenza tra
moderati ed esponenti della feudalità, spazzava via le ultime e
più significative aspirazioni del movimento patriottico e antifeudale.
In
questo contesto il concetto di «insorgenza» utilizzato per definire
i moti popolari antirepubblicani nell’Italia rivoluzionaria e napoleonica
appare di difficile applicazione in una realtà come quella sarda, che
non ebbe alcuna esperienza di governo repubblicano o filofrancese. Al di
là delle specifiche motivazioni che tra il 1797 ed il 1799 animarono le
rivolte popolari nelle valli bergamasche e bresciane, nel Ferrarese e nelle
campagne piemontesi, le insurrezioni dei «Viva Maria» liguri e
toscani, le armate sanfediste nel Mezzogiorno e i «lazzari»
napoletani, ciò che accomunava le «insorgenze» era il loro
confuso ed ambiguo contrapporsi al nuovo ordine sociale e istituzionale
repubblicano e filofrancese. Anna Maria Rao ha messo in evidenza la sostanziale
novità del quadro in cui esplodono le «insorgenze»: con la
scomparsa della «mediazione sociale e politica» che nell’Antico
Regime si era dispiegata soprattutto sul piano giurisdizionale i conflitti
assumono le «forme violente dello scontro fisico tra le parti senza
riuscire a diventare confronto politico»[2].
Anche in questo l’esperienza sarda, ancora sostanzialmente inscritta nel
contesto dell’Antico Regime, si mostra profondamente diversa persino
nella fase più acuta e radicale, che prefigurava un grande contenzioso
collettivo fondato sul riscatto oneroso dei feudi ma ancora incanalato nei
binari del riformismo settecentesco.
In
effetti, al di là del tentativo di occupazione francese del 1792-93, il
rapporto tra
Fin
dal secolo scorso, peraltro, le contrapposte letture storiografiche di Giuseppe
Manno e di Francesco Sulis, conservatrice e filosabauda la prima e
liberalrisorgimentale la seconda, erano accomunate, al di là della
condanna o dell’esaltazione del moto patriottico,
dall’interpretazione delle vicende del 1793-96 come proiezione sarda
delle rivoluzionarie idee di Francia[4].
Nel dibattito storiografico lo schema di fondo di queste due linee
interpretative si è riprodotto in modo persistente per larga parte di
questo secolo[5].
Soltanto in tempi più recenti, a partire dal saggio di Girolamo Sotgiu
sull’insurrezione cagliaritana del 28 aprile 1794, la ricerca
storiografica ha puntato a mettere in luce le peculiarità delle vicende
sarde, spostando il fulcro dell’attenzione dall’ultima e più
radicale fase, segnata dall’emergere del movimento antifeudale, alle
prime, determinanti tappe della rivoluzione patriottica, scandite invece dalla
mobilitazione antifrancese, dall’autoconvocazione dei corpi
stamentari dell’antico Parlamento sardo e dalla sollevazione antipiemontese[6].
In questo contesto è maturata l’esigenza di risalire alle origini
e alle cause delle rivendicazioni patriottiche che provocarono la crisi dei
rapporti tra il Regno e la Dominante, estendendo l’indagine alle profonde
tensioni economiche, sociali e culturali determinate dal dispiegarsi del
riformismo assolutistico nella seconda metà del secolo[7].
«Erano i Popoli Sardi già da un pezzo trattati a guisa di abitanti
di qualche colonia malgrado la loro Costituzione politica fondamentale –
avrebbe scritto nel 1800 Matteo Luigi Simon riflettendo sulla «Storia
delle Sarde Rivoluzioni» –, [...] allorquando invasa la Savoia e il
Contado di Nizza, si disposero i Repubblicani Francesi ad invadere pure colle
lor flotte quest’Isola nei princìpi del 1793, credendola forse
un’agevole impresa e sperando che le discordie tra i Sardi e i Piemontesi
fatto avrebbero nascere a quell’epoca qualche intestina rivoluzione, e
quindi avrebbero essi pescato nel torbido»[8].
La
sollevazione cagliaritana del 28 aprile del 1794, provocata dalle deludenti
risposte date dalla Dominante alle richieste del Regno, culminò nel
«vespro contro tutti i piemontesi» e nell’instaurazione di un
regime di «autogoverno» guidato dalla Reale Udienza e dagli Stamenti,
primo momento emblematico di aperta radicalizzazione del conflitto. Le convulse
giornate che portarono alla deposizione del viceré e
all’espulsione dei piemontesi dall’isola erano espressione di una
rinnovata mobilitazione che, promossa dalle élites della capitale
e dal movimento stamentario, coinvolgeva la nobiltà tradizionale, i
magistrati e i funzionari governativi sardi, il ceto forense, i mercanti, gli
artigiani e ampi strati popolari reclutati attraverso le milizie
«nazionali». È in questo contesto che prende corpo quel
vasto «partito patriottico» che guiderà dal 1794 al 1796 la
«sarda rivoluzione».
Il
termine «partito» è qui adoperato nell’accezione
utilizzata da Franco Venturi a proposito della rivoluzione delle Province Unite
del 1782 per definire quel composito schieramento di rappresentanze
tradizionali, club, corporazioni, milizie volontarie cementato dalla difesa
delle antiche libertà provinciali[9].
Anche il «partito patriottico» cagliaritano si presenta, nella
primavera-estate del 1794, come un ampio schieramento che trova la sua coesione
nella piattaforma delle «cinque domande» e il suo terreno di
aggregazione nelle assemblee stamentarie: un «partito» che si
articola intorno ai membri più autorevoli degli Stamenti ramificandosi
attraverso le clientele, le milizie locali, le corporazioni artigiane, i
circoli, i club.
Le
origini delle nuove forme di mobilitazione civile che caratterizzarono il
movimento patriottico sardo dalla sollevazione antipiemontese (aprile 1794)
alla sconfitta del moto antifeudale (giugno 1796), risalgono a quella fase di
profonda inquietudine che si era aperta nell’estate del 1793, dopo la
partenza della Deputazione stamentaria per la capitale subalpina, con i
provvedimenti governativi che scioglievano le «adunanze» dei corpi
parlamentari lasciando già intravedere l’ostilità del
ministero torinese alle richieste del Regno. Non si capisce infatti la
tempestività della reazione popolare agli arresti degli avvocati
Vincenzo Cabras e Bernardo Pintor senza risalire a quella complessa rete di
complicità politiche che aveva tenuto uniti, in una dimensione
semiclandestina, tanto i protagonisti della mobilitazione militare antifrancese
quanto gli elementi più attivi delle milizie «nazionali»,
gli esponenti più determinati dello schieramento stamentario, alcuni
magistrati e impiegati sardi dell’amministrazione viceregia, e, seppure a
distanza, gli stessi membri della Deputazione inviata a Torino[10].
È in questo articolato sistema di relazioni che va riconosciuto
l’embrione del «partito patriottico» che assunse
l’iniziativa della sollevazione antipiemontese: nell’arco di poche
ore la capitale del Regno passò nelle mani degli insorti.
Le
vicende della primavera-estate del 1794 (espulsione dei piemontesi, assunzione
dei poteri viceregi da parte della Reale Udienza, apertura di un lungo braccio
di ferro con il ministero torinese, nuovo ruolo delle assemblee stamentarie,
prime tensioni con le componenti più sensibili al richiamo del governo
sabaudo e della grande feudalità) aprirono una nuova fase della «rivoluzione
sarda».
Chiamato
a cimentarsi con il governo del Regno, lo schieramento patriottico assume
un’autonoma dimensione di movimento organizzato, precisa i contenuti
politici e istituzionali della sua piattaforma programmatica, estende le sue
basi sociali a nuovi strati popolari urbani, realizza un primo, significativo
riassetto dei suoi gruppi dirigenti, ricorre per la prima volta ad una
sistematica azione di propaganda che rompe di fatto il ristretto ambito del milieu stamentario per rivolgersi
direttamente ad un’embrionale «opinione pubblica» locale e
alle «Nazioni amiche della Sardegna»[11].
Basti pensare che l’opuscolo del Manifesto
giustificativo nel quale si spiegavano le ragioni della sollevazione
antipiemontese venne stampato nell’eccezionale tiratura di 2.000 copie.
Come
si è accennato, la formazione di un ceto dirigente interamente sardo che
prende coscienza delle proprie ragioni e della propria forza e irrompe nella
scena politica del Regno affonda le sue radici nella temperie culturale degli
anni sessanta-ottanta del Settecento: con la mobilitazione antifrancese la
lenta maturazione di una specifica identità «patriottica» si
trasforma in consapevolezza politica collettiva e sfocia nella formulazione
delle «cinque domande», imboccando in tal modo la via del conflitto
aperto con la Dominante piemontese.
Così
la Sardegna partecipa, a suo modo, della congiuntura europea del tardo
assolutismo, che rivela il suo punto debole proprio nel rapporto tra centro e
periferia. L’attivismo autocratico che dal 1789 caratterizzò la Segreteria
degli interni guidata dal ministro Pietro Graneri, lungi dal favorire
l’integrazione delle élites locali esasperò le
tensioni tra il Regno e la Dominante[12].
Sotto questo profilo il caso sardo sembra riproporre la dinamica che
caratterizza la lunga serie di resistenze, opposizioni e rivolte, che dalla
Boemia all’Ungheria, dalla Stiria alla Transilvania e al Belgio,
attraversano l’impero asburgico di fronte al dispiegarsi del dispotismo
di Giuseppe II. In particolare il lungo braccio di ferro che oppone gli insorti
fiamminghi al governo di Vienna presenta una singolare affinità col caso
sardo, nella profonda ambivalenza, ideologica e sociale, del ricorso agli
antichi privilegi ormai concepiti, anche alla luce della vittoriosa rivoluzione
delle colonie americane, come strumenti di nuove libertà[13].
Negli
anni ottanta-novanta anche negli Stati sabaudi il conflitto tra centro e
periferia entra in una fase nuova, in cui la difesa dei particolarismi regionali
si intreccia con molteplici istanze di più diretta partecipazione dei
«nazionali» alla vita pubblica. In Savoia, ad esempio,
l’insofferenza verso
Di
lì a poco, nella primavera del 1791, il successore di Curti, Giuseppe
Sautier di Monthoux, sospettato di simpatie per le idee di Francia, veniva
rimosso ed inviato in Sardegna, dove avrebbe ricoperto l’importante
carica di reggente la Reale Cancelleria. Nello stesso anno iniziò a
circolare clandestinamente in Savoia un battagliero libello intitolato Le premier cri de la Savoye vers la
liberté, carico di astio nei confronti dei piemontesi
(«ennemis nés de la Savoye par orgueil et prévention
national»), accusati di monopolizzare tutte le cariche e gli impieghi
principali del Ducato[15].
Appare significativo che una copia manoscritta del testo, di cui era autore
Nicolas-Antoine Castella, un friburghese trasferitosi a Chambéry nei
primi anni ottanta, fosse conservata tra le carte dell’avvocato
cagliaritano Lodovico Baille, impiegato presso l’ambasciata di Spagna a
Torino, autore di un’argomentata memoria, composta alla fine del 1793,
per sostenere la legittimità delle rivendicazioni del Regno sardo[16].
Ma,
al di là dei comuni motivi di malumore e recriminazione verso il
«dispotismo» del governo torinese, la situazione savoiarda era
assai diversa da quella sarda. In Savoia, dove la monarchia sabauda aveva da
tempo smantellato le antiche autonomie locali e dove si erano largamente diffusi
i principi della Rivoluzione, il movimento patriottico appariva in piena
sintonia con le vicende parigine e già prospettava la costituzione di un
Consiglio generale rappresentativo composto da deputati liberamente eletti dal
popolo in tutti i cantoni. Si spiegano così le favorevoli accoglienze
che i savoiardi riservarono nel settembre del 1792 alle truppe della Repubblica
francese.
In
Sardegna, invece, il movimento patriottico che prese la guida della
«sarda rivoluzione» maturò nel clima di una accesa
propaganda antifrancese[17].
Tuttavia il malessere del Regno e la crescente avversione delle élites
locali alla Dominante erano già chiaramente percepiti fin dai primi anni
novanta negli ambienti di corte e nelle Segreterie di Stato torinesi.
«Sparsero qui universalmente che la Sardegna si era rivoltata e ne
annunziavano persino le circostanze»: così scriveva al padre,
nella primavera del 1790, il giovane abate algherese Gian Francesco Simon, da
pochi mesi residente nella capitale sabauda, dove si era rapidamente integrato,
ben presto conquistandosi la benevola protezione degli ambienti di corte e del
cardinale Vittorio Costa d’Arignano. «Ma i Sardi – osservava
Simon – non sono mai stati rivoltosi,
né empi per sistema, né
refrattari alla Chiesa e al Principato. Non v’è di
ciò esempio nella storia. Eppure niuno più de’ Sardi
è stato tiranneggiato ed oppresso, come si vede nelle istorie...».
I sentimenti di ammirazione che nutriva per il mondo subalpino potevano rafforzare
le sue profonde convinzioni sull’incrollabile fedeltà dei sardi,
ma non spegnevano il suo ardente amor patrio: «mi compiacqui quindi
– riferiva al padre – che in una rispettabile adunanza,
com’era quella, in cui vi erano oltre al cardinale, quattro ministri e
ambasciatori esteri [...], abbia avuto occasione di farmi prudente pittore
della Sardegna»[18].
Com’era
già accaduto per i coloni americani che, dopo aver determinato la
vittoria sui francesi nella Guerra dei Sette Anni (1756-63), consapevoli della
propria forza e della propria individualità di popolo, erano diventati
insofferenti alla tracotanza degli ufficiali della madrepatria britannica,
così nella Sardegna del 1793 la mobilitazione antifrancese fu il
detonatore delle contraddizioni tra la «sarda nazione» e la
Dominante sabauda.
Il
nuovo ceto dirigente che assurge al potere nel 1794 è infatti il frutto
di quella sorta di crisi della coscienza dei sardi che, maturata
nell’alveo dell’Antico Regime (in particolare nell’apertura
culturale all’Europa dovuta alla riforma delle Università di
Cagliari e di Sassari), era ormai sfociata nell’affermazione di una nuova
identità collettiva di tipo patriottico. L’idea della patria sarda
si era nutrita a molte e diverse fonti: la grande lezione muratoriana, le
dottrine economiche di Genovesi e della scuola fisiocratica, l’Encyclopédie e le idee politiche
e istituzionali dei philosophes, il Rifiorimento della Sardegna di Francesco
Gemelli (e il suo corso di storia sarda tenuto a Sassari nel 1772-73), gli
studi naturalistici dell’ex gesuita Francesco Cetti (docente
dell’Ateneo sassarese), l’instancabile attività di
divulgazione del censore generale Giuseppe Cossu, i lavori sul Ripulimento della lingua sarda e sulle
tradizioni popolari di Matteo Madao, le poesie (anche in lingua sarda) ispirate
ai modelli arcadici italiani, le indagini storiche dei fratelli Domenico e Gian
Francesco Simon, la riscoperta del «diritto patrio» da parte dei
giuristi sardi. Dalle ricerche storiografiche di questi ultimi anni esce
rafforzata, ci pare, l’esigenza di concepire il periodo 1759-96 come un
ciclo relativamente unitario che si apre all’insegna di un coerente
progetto riformatore e si chiude, nella crisi dell’Antico Regime, con una
rivoluzione patriottica – e successivamente anche antifeudale – che
mobilita l’intera società isolana[19].
Riprendendo
una bella espressione di Federico Chabod, si potrebbe dunque dire che tra il
1793 e il 1796 la «nazione» sarda, fino ad allora semplicemente
«sentita», divenne «voluta»[20].
Che cos’è in fondo la piattaforma delle «cinque
domande» (il documento con le cinque fondamentali richieste del Regno
solennemente approvate dagli ordini stamentari e trasmesse al sovrano) se non
la manifestazione di questa volontà? Non a caso questa piattaforma
costituì l’asse portante del movimento patriottico per l’intero
triennio rivoluzionario sardo. Essa esprimeva l’esigenza di un profondo
riequilibrio, anche sul piano istituzionale, di quei rapporti tra la Sardegna e
il Piemonte che il dispiegarsi del «dispotismo ministeriale» aveva
nettamente sbilanciato a favore della Dominante: richiamandosi all’antico
contrattualismo catalano-aragonese, alla tradizione giusnaturalistica
sei-settecentesca e alle clausole dell’atto di cessione del 1720, gli
Stamenti, in rappresentanza di tutto il Regno, rivendicavano la riconvocazione
delle Corti generali, il rispetto dei privilegi e delle Leggi fondamentali,
l’attribuzione esclusiva ai «nazionali» sardi degli impieghi
e delle più importanti cariche civili ed ecclesiastiche, una nuova
articolazione amministrativa e giudiziaria del governo dell’isola fondata
sull’istituzione di un Consiglio di Stato a Cagliari e di un apposito
ministero per la Sardegna a Torino[21].
Con l’invio della Deputazione stamentaria nella capitale sabauda (una
sorta di ambasceria eletta dagli ordini del Regno) si aggiungeva, inoltre,
l’implicita affermazione del diritto della «Sarda Nazione» ad
accedere direttamente al sovrano, senza l’intermediazione del
viceré e del ministero torinese[22].
La
parabola complessiva della rivoluzione sarda può essere schematicamente
suddivisa in quattro fasi principali. La prima, una fase di gestazione, va
dall’elaborazione delle «cinque domande»
(primavera-estate del 1793) alla delusione per le negative risposte del
sovrano. La seconda, apertasi con la sollevazione antipiemontese del 28 aprile
1794, fu caratterizzata dal serrato conflitto tra «patrioti» e
«realisti» e culminò nella vittoria dei primi durante i
tumulti popolari di Cagliari del luglio 1795. La terza, segnata dall’emergere
delle rivendicazioni antifeudali, fu caratterizzata da un’obbligata
coesione del «partito patriottico», costretto a misurarsi in un
difficile confronto col governo di Torino e a far fronte alla secessione
baronale animata dalla Governazione del Capo di Sassari. La quarta,
contraddistinta dall’acuirsi dei contrasti all’interno del
«partito patriottico» e dall’esplodere delle agitazioni
contro i baroni nei villaggi del Capo settentrionale dell’isola, si
aprì all’indomani della riconquista di Sassari al governo della
capitale e si concluse con la sconfitta del movimento antifeudale.
Nel
corso del triennio la fisionomia del «partito patriottico» si
modificò sensibilmente, riflettendo la nuova dislocazione delle forze
sociali, l’alterno andamento dello scontro con la Dominante, lo sviluppo
di un intenso dibattito politico e istituzionale, la progressiva penetrazione
delle idee francesi, il prepotente emergere della questione feudale. La prima,
sensibile incrinatura dello schieramento stamentario si verificò
all’indomani della sollevazione antipiemontese quando, nel maggio 1794,
Girolamo Pitzolo, uno dei membri più influenti della Deputazione inviata
al sovrano, acclamato al suo rientro a Cagliari come «padre della
patria», sconcertò i suoi compatrioti disapprovando
l’«emozione» del 28 aprile, condannando il disarmo delle
truppe regie e chiedendo che le milizie «nazionali» sarde fossero
drasticamente ridotte.
Non
è facile comprendere i motivi che spinsero Pitzolo ad assumere posizioni
così nette e insieme così impopolari. Che cosa poté
convincere l’autorevole portavoce dello schieramento che aveva sostenuto
le richieste del Regno, l’estensore del Ragionamento giustificativo delle cinque domande – uno dei
documenti più importanti dell’elaborazione politico-giuridica del
patriottismo sardo –, a scegliere una linea di così aperta
rottura?[23]
In realtà iniziavano ad emergere due diverse letture della piattaforma
stamentaria: da un lato una lettura in chiave aristocratica, fondamentalmente
moderata e filogovernativa, organica ai tradizionali privilegi cetuali;
dall’altro una lettura tipica del punto di vista della nobiltà di
servizio e dei nuovi ceti emergenti, più sensibile alla rivendicazione
dell’esclusività degli impieghi e fortemente interessata a un
nuovo equilibrio istituzionale tra il Regno e il Piemonte.
A
Cagliari Pitzolo trovava una situazione assai diversa da quella che aveva
lasciato l’anno precedente. La vita pubblica della capitale era ormai
dominata dagli esponenti più determinati del «partito patriottico»,
che ora esercitavano un’influenza decisiva nello Stamento militare e
nella Reale Udienza (la suprema magistratura del Regno, ormai composta soltanto
da giudici sardi, che in base al diritto patrio aveva assunto le funzioni
viceregie). Utilizzando il prestigio acquisito durante l’ambasciata a
Torino, Pitzolo puntava a ritagliare un preciso spazio all’iniziativa
moderata e a rincuorare la feudalità impaurita dalla mobilitazione
popolare: «Io solo, col piccolo partito della nobiltà –
avrebbe scritto pochi mesi dopo il suo ritorno a Cagliari – ero un argine
a quanto si progettava»[24].
Un
importante sostegno alla prospettiva caldeggiata da Pitzolo venne dal governo
di Torino che nel giugno del 1794, dopo aver nominato il nuovo viceré,
Filippo Vivalda, in attesa che si creassero le condizioni per il ritorno del
rappresentante del sovrano a Cagliari decise di attribuire a quattro
«fidati nazionali» sardi le più importanti cariche rimaste
vacanti nel Regno: quella di reggente la Reale Cancelleria attribuita al giudice
Gavino Cocco, di intendente generale allo stesso Pitzolo, di generale delle
armi a Gavino Paliaccio, marchese della Planargia, e di governatore del Capo di
Sassari e di Logudoro ad Antioco Santuccio. Era la prima volta, da quando i
piemontesi avevano preso possesso dell’isola, che dei sardi (seppur
estranei o addirittura avversi al «partito patriottico») venivano
chiamati a ricoprire cariche così importanti. Alcune nomine denotavano
però la chiara intenzione di collocare nei posti-chiave del Regno uomini
decisi a restaurare l’ordine. Si comprende perciò la viva reazione
dei «patrioti» cagliaritani che contestarono la violazione del
diritto patrio e della tradizionale prassi della designazione per terne, che
competeva alla Reale Udienza. «Nacque allora – avrebbe scritto sei
anni dopo Matteo Luigi Simon – il pomo della discordia tra sardi e
sardi»[25].
Per
circa un anno, dall’estate del
Finora
la storiografia non ha prestato sufficiente attenzione ai diversi punti di
vista con cui i ministri e la corte sabauda guardavano alla situazione sarda.
Le ipotesi di risoluzione della crisi oscillavano infatti tra una prudente
linea di dialogo, suggerita dallo stesso viceré Vivalda, insediatosi a
Cagliari nel settembre del 1794, e un atteggiamento più intransigente
che intendeva risolvere la vertenza con gli Stamenti con un atto di forza[28].
Una svolta significativa si determinò nella primavera del 1795, quando
il conte Pier Gaetano Galli, succeduto al conte Filippo Avogadro nella
direzione degli affari di Sardegna, puntò su un diretto ed energico
sostegno dei «realisti» per mettere definitivamente alle corde il
«partito patriottico». Dopo aver sospeso il provvedimento di
convocazione delle Corti, fece nominare tre nuovi giudici della Reale Udienza
di orientamento conservatore, anche stavolta senza rispettare la prassi delle
terne.
Nuove
nubi si accumulavano dunque su una situazione resa ancora più grave dai
tumulti annonari dei sobborghi cagliaritani e dai fermenti sociali delle
campagne. L’intendente e il generale presentavano a Torino una
realtà ormai ingovernabile. Il timore di un possibile attacco francese
li induceva a vedere in ogni manifestazione di malcontento l’opera dei
«giacobini» e, come scriveva il marchese della Planargia, il frutto
del «maligno germe» rivoluzionario[29].
Da tempo circolavano a Cagliari sonetti «sediziosi» e canzoni
d’ispirazione rivoluzionaria: «Del dispotico potere / ite al fuoco
iniqui editti / son del Sardo i primi dritti / uguaglianza e libertà
[...]. / Solo il Popolo è sovrano / egli solo ha scettro e brando /
Nascer dee dal Suo Comando / ogni giusta autorità...»[30],
si legge in una canzone nata in altri contesti italiani e diffusa in Sardegna,
con gli adattamenti del caso, nella primavera del 1795. Nella capitale del
Regno filtravano le idee francesi, venivano letti opuscoli e gazzette
provenienti dalla terraferma e si diffondeva nei club e nei circoli più
avanzati l’aspirazione ad un mutamento profondo, anche se tutta
l’elaborazione della piattaforma rivendicativa degli Stamenti e dei
memoriali «giustificativi» inviati al governo di Torino rimase
sempre all’interno del quadro politico-istituzionale di Antico Regime.
In
questo quadro i «realisti», dopo aver invocato l’invio di
nuove truppe dagli stati sabaudi, preparavano la repressione e già
trasmettevano a Torino le liste di proscrizione dei membri del «partito
patriottico». Si profilava ormai un vero e proprio colpo di Stato, il cui
obiettivo era una piena restaurazione dispotico-assolutistica di marca
piemontese. Non c’è da stupirsi quindi se il clima politico della
capitale si faceva sempre più rovente man mano che lo scontro si
estendeva al vasto ambito sociale dei seguaci dei due «partiti», ai
ceti popolari e alle organizzazioni artigiane, i cosiddetti gremi. In entrambi
gli schieramenti si moltiplicavano le iniziative tese a prevenire le mosse
degli avversari attraverso un crescente ricorso alla mobilitazione sociale. Lo
«stato d’agitazione» della capitale era il tema ricorrente
della propaganda «realista». Con vivo allarme una petizione di
alcune corporazioni artigiane denunciava «le voci di ammutinamento che si
spargono con la furia di libelli, che quasi ogni giorno si trovano affissi, non
meno che con discorsi sediziosi co’ quali cercano d’eccitare il
basso popolo a tumulto»[31].
In effetti l’appello alla mobilitazione popolare era al centro di
un’attività semicospirativa che gli esponenti dei circoli
patriottici cominciavano a svolgere, oltre che all’interno della
realtà urbana, anche nell’ampio entroterra agricolo della
capitale, dove «lettere incendiarie» denunciavano i progetti
«de’ nemici interni ed esterni» al Regno per preparare il
ritorno dei «continentali» e restaurare la «prepotenza»
e il «dispotismo»[32].
Ai
primi di luglio del 1795, di fronte ai movimenti delle truppe e ai cannoni,
puntati contro i sobborghi della capitale, i «patrioti» compresero
che era necessario passare al contrattacco. Così il 6 luglio, mentre
Con
la sollevazione del 6 luglio e con il decisivo colpo inferto ai
«realisti» il «partito patriottico» dimostrava la sua forza
e consolidava la sua influenza sulle istituzioni del Regno. Lo stesso
viceré Vivalda si affidava ai «suggerimenti» degli Stamenti,
accreditando la tesi delle macchinazioni «realiste». Si apriva
così una nuova stagione politica destinata a scandire una cesura
profonda nella storia della società sarda che per la prima volta vedeva
incrinarsi i circuiti decisionali di Antico Regime e al tempo stesso era
chiamata a sperimentare nuove forme di mobilitazione sociale e di
partecipazione politica. Questa fase si sarebbe protratta sino al dicembre del
1795: dalla crisi delle istituzioni di Antico Regime emergeva una sorta di
«governo misto» all’interno del quale, sulla scorta di una
lettura sempre più estensiva delle antiche Leggi fondamentali del Regno,
l’autorità viceregia veniva fortemente condizionata e costretta a
dividere il potere con la Reale Udienza e con gli Stamenti, che ormai si
consideravano i rappresentanti dell’intera «Sarda Nazione».
La convulsa e drammatica giornata del 6 luglio era stata guidata da un
«partito patriottico» che era giunto a quell’appuntamento
accantonando momentaneamente le differenze politiche tra gli aderenti alla
«casa» Cabras (così chiamata dai nomi dei suoi principali
esponenti, l’avvocato Vincenzo e il teologo Antonio Cabras), i
sostenitori del giudice Angioy e il circolo che si riuniva nel Collegio dei
nobili, animato dall’abate Gian Francesco Simon.
In effetti le vicende cagliaritane dell’estate del
1795, con la tumultuante partecipazione popolare alle adunanze stamentarie e
con il repentino formarsi degli assembramenti «antirealisti»
erano già espressione di un’incipiente mentalità
rivoluzionaria in cui le preoccupazioni di ordine politico andavano via via
saldandosi – come del resto nelle grandi giornate rivoluzionarie parigine
– ai tradizionali motivi di inquietudine economico-sociale dei sobborghi
urbani (a Cagliari pochi mesi prima, il 31 marzo, una protesta per le
difficoltà annonarie era stata bonariamente sedata sul nascere dal
viceré). Così la psicosi del complotto «realista»,
alimentata dal dispiegamento delle truppe e dagli insistenti appelli alla
vigilanza patriottica, non tardò ad esplodere in violenti sussulti
popolari quando le carte sequestrate nelle abitazioni dell’intendente e
del generale delle armi fornirono le prove delle macchinazioni governative e
del grave rischio a cui era stata esposta la collettività[33].
Nell’estate-autunno
del 1795 il «partito patriottico» dovette fatalmente misurarsi con
una serie di nodi cruciali che si riproponevano simultaneamente con particolare
drammaticità. Al contenzioso ancora aperto con Torino si era aggiunto il
grave episodio dell’uccisione del marchese della Planargia, indicato come
il principale promotore delle trame «realiste» e del piano repressivo,
trucidato a furor di popolo il 22 luglio. La radicalizzazione dello scontro
politico nella capitale e le voci di una possibile intesa tra i patrioti
cagliaritani e la Repubblica francese suscitarono la reazione delle forze
feudali e dei «realisti» del Capo di Sassari che attraverso la
Reale Governazione animarono il più grave tentativo di rottura
dell’unità politica del Regno della storia moderna della Sardegna.
All’insaputa del Vivalda, il governatore Santuccio si rivolgeva al
viceré britannico di Corsica, lord Gilbert Elliot, per chiedere
l’intervento della flotta inglese contro Cagliari[34].
Così il «partito patriottico» dovette giustificare presso la
corte di Torino i gravi fatti del luglio, denunciare la pericolosità del
piano «realista», difendere l’operato del viceré,
della Reale Udienza e degli Stamenti che governavano il Regno in una dimensione
sempre più autonoma dalla Dominante di Terraferma[35].
«La Sardegna io la considero come già un paese perduto e tutto
regolato sul piede di Parigi»[36],
avrebbe amaramente confidato in ottobre il conte Prospero Viretti, segretario
del Supremo Consiglio di Sardegna, al segretario del re, Giuseppe Antonio
Dellera.
Per
spiegare le ragioni della prova di forza e per propagandare la piattaforma del
movimento gli Stamenti decidevano di dare pubblica lettura delle carte
sequestrate ai «realisti» e di sviluppare una vera e propria
campagna di controinformazione, attraverso diverse
«rappresentanze», memoriali indirizzati al governo sabaudo e
contemporaneamente stampati e diffusi in migliaia di copie all’interno e
all’esterno del Regno. Nasceva in questo contesto il «Giornale di
Sardegna», vero e proprio organo del «partito patriottico» al
potere, che usciva con cadenza settimanale e si prefiggeva di orientare l’opinione
pubblica del Regno[37].
In
realtà è questa nuova attenzione verso l’opinione pubblica,
di cui erano diretta espressione la pubblicazione delle
«rappresentanze» e del giornale, la novità più
significativa dell’esperienza rivoluzionaria del 1794-96. Non a caso il
ministero torinese si affrettò a proibire «ogni stampa di
rappresentanze, dispacci, giornali e scritti»[38].
Al pesante atto di intimidazione gli Stamenti risposero con fermezza: «la
proibizione della stampa era una violazione del dritto dell’uomo ed un
attentato altresì alla libertà degli Stamenti, i quali per
privilegio erano autorizzati a dare alle stampe qualunque loro atto». La
proibizione ministeriale veniva presentata come il protervo tentativo di
«occultare le ragioni dei regnicoli»[39]
e il viceré dovette sospendere l’esecuzione del provvedimento
governativo.
Ma
il più grave problema di questa terza fase della «sarda
rivoluzione» fu rappresentato dallo «scisma» sassarese:
inizialmente incoraggiato dal ministero subalpino, il disegno di una
restaurazione assolutistica sembrava trovare nei «realisti» e nella
feudalità le forze capaci di indirizzarlo e soprattutto di
concretizzarlo nella costituzione di un governo del Capo settentrionale
separato e indipendente da Cagliari e legittimato da Torino.
È
proprio nelle vicende di questo «scisma» che si possono
rintracciare alcuni tratti che saranno caratteristici delle
«insorgenze» antigiacobine del triennio 1796-99: innanzitutto la
decisa reazione dei ceti privilegiati al mutato quadro politico e il loro
arroccamento nella difesa del vecchio ordine, sino a configurare una sorta di
controrivoluzione; in secondo luogo l’esplicito appello al particolarismo
locale e municipale come estremo tentativo di sottrarsi ad un governo ritenuto
tirannico o comunque caduto nelle mani di fanatici rivoluzionari; in terzo
luogo la ricerca di protezione e di legittimazione da parte di
un’autorità superiore. E tuttavia, a differenza delle successive
«insorgenze» italiane, l’iniziativa secessionistica della
feudalità, delle gerarchie ecclesiastiche e delle autorità
governative del Capo di Sassari rimase sostanzialmente priva di basi popolari
sia nella città sia nelle campagne: in realtà nella reazione
aristocratico-feudale sassarese non c’è traccia di un serio
tentativo di ricorrere alla mobilitazione popolare che sarà invece
l’elemento di novità delle esperienze controrivoluzionarie del
triennio 1796-99. Nella secessione sassarese, accanto al riacutizzarsi del
tradizionale antagonismo tra le due principali città del Regno, il
marcato lealismo filopiemontese del blocco feudale del Capo settentrionale
mirava soprattutto alla salvaguardia degli equilibri sociali minacciati dal
nuovo corso del governo della capitale[40].
Del tutto assente era inoltre la motivazione di carattere religioso.
Un
ruolo significativo giocò invece fin dall’inizio l’elemento
ideologico-politico, che si manifestò nella contrapposizione a un
governo considerato come diretta emanazione del «giacobinismo»
francese: un governo presentato come nemico dell’ordine e delle
prerogative feudali, che secondo in memoriale dei «realisti»
rinnovava «gl’infelici tempi di’ barbari Neroni e de’
crudeli Diocleziani»[41].
Non stupisce dunque che un sonetto anonimo d’ispirazione
«realista» dipingesse il «partito patriottico»
cagliaritano come una setta giacobina che d’intesa con la Francia mirava
a instaurare nell’isola la repubblica: «Cabras, Musso, Pintor,
Angioi, Cortese / Cisternes col partito simoniano / Ecco il perfido Club
cagliaritano / che vuol piantar la libertà francese / [...] Sassar vede
da lungi il reo scompiglio / E fedele al suo Re, fedele al Regno / Fugge
de’ Giacobin l’empio consiglio»[42].
Fu
all’interno di questo quadro che il «partito patriottico»,
cercando di evitare il rischio di un isolamento della capitale, rivolse, per la
prima volta, la sua attenzione al malessere sociale ormai dilagante nelle
campagne. Questa linea è chiaramente preannunciata dalla circolare
viceregia del 10 agosto che invitava i sindaci delle comunità infeudate
a denunciare al viceré e alla Reale Udienza gli abusi baronali[43].
Nei mesi successivi il governo cagliaritano e i provvedimenti viceregi
offrirono una decisiva sponda istituzionale al contenzioso delle
comunità infeudate con i baroni. Il primo problema che si pose agli
Stamenti fu di impedire che le agitazioni antifeudali del Capo settentrionale
contagiassero anche i villaggi del meridione dell’isola. In autunno
diventava evidente che la questione feudale e il tentativo separatistico erano
ormai strettamente intrecciati: le comunità rurali del nord dell’isola
entravano in conflitto con le autorità civili e religiose sassaresi
schierate a fianco della feudalità.
L’estate-autunno
del 1795 coincide peraltro con il momento di maggior coesione (e insieme di
maggior forza) dello schieramento patriottico, che anche sul piano teorico
consolidava la propria identità politica e istituzionale. Il lungo e
articolato Ragionamento approvato
dagli Stamenti nell’agosto 1795 riaffermava i principi del «governo
misto», che ormai costituivano il filtro qualificante attraverso il quale
il movimento patriottico rileggeva le peculiarità della «sarda
costituzione»[44].
L’incalzare degli eventi, l’allargamento delle assemblee
stamentarie a nuove forze popolari e le gravi responsabilità di governo
a cui il «partito patriottico» era chiamato imponevano, intanto, la
ricerca di nuove forme di organizzazione e di direzione del movimento. Nasceva
così la prima Deputazione stabile degli Stamenti: un organismo
ristretto, composto di 8 membri, che, coniugando il diritto pubblico patrio con
le coeve esperienze rivoluzionarie europee, aveva il compito di affiancare il
viceré e la Reale Udienza nell’effettivo governo del Regno.
Un
problema storiografico ancora aperto riguarda la questione dei primi contatti
tra i patrioti sardi e la diplomazia francese. L’idea di invocare
l’aiuto della Grande Nazione risale probabilmente all’estate del
1795 quando, nella fase più acuta della crisi con Torino e di fronte al
timore di un intervento di truppe «estere», alcuni esponenti del
«partito patriottico», secondo diverse, frammentarie testimonianze,
avrebbero deciso di inviare segretamente un emissario a Genova per chiedere la
protezione della Repubblica francese[45].
Le fonti coeve che accreditano l’esistenza di precise intese tra i
patrioti e gli agenti francesi sono prevalentemente di parte realista e vanno
naturalmente esaminate con beneficio d’inventario[46].
Anche il viceré, però, nell’agosto del 1795 comunicava al
segretario del sovrano di aver appreso in via confidenziale che se non fosse
stata concessa l’attesa amnistia generale era assai probabile che i
patrioti si rivolgessero alla Repubblica francese per invocarne
l’intervento nell’isola[47].
Tuttavia nel «partito patriottico» l’idea di ricorrere alla
Francia restava un’ipotesi subordinata all’interno di una
strategia che puntava fondamentalmente alla ricontrattazione dei rapporti tra
il Regno e la monarchia sabauda e aveva l’obiettivo di concludere
positivamente la vertenza col governo di Torino con l’ottenimento
dell’amnistia generale e con il pieno accoglimento delle «cinque
domande». Il problema principale restava dunque quello di ricucire lo
strappo con il sovrano. Si faceva strada l’idea di inviare a Torino una
nuova Deputazione «per fare a viva voce presso Sua Maestà le parti
della comune causa»[48].
Sulla sua natura e la sua composizione si aprì un vivace dibattito tra
chi chiedeva la nomina di una delegazione di tre membri, che avrebbe garantito
un’ampia rappresentatività stamentaria, e chi invece suggeriva la
nomina dell’arcivescovo di Cagliari, il piemontese Filippo Melano, per
ottenere l’intercessione del pontefice sull’esempio
dell’intervento della Santa Sede presso l’imperatore Giuseppe II ai
tempi della ribellione del Brabante. Gli Stamenti scelsero la seconda
soluzione, sicché Melano, «oratore del Regno», partì
per la penisola con una nuova «rappresentanza» indirizzata a
Vittorio Amedeo III.
In
effetti all’interno del «partito patriottico» cagliaritano le
due componenti principali tendevano ormai a polarizzarsi su linee in parte
divergenti. Innanzitutto si distingueva la vasta nebulosa degli aderenti alla
cosiddetta «casa» Cabras, che aveva il suo punto di forza nello
Stamento reale (il braccio parlamentare rappresentativo delle sette
città regie), controllava gran parte delle milizie urbane e disponeva di
un’ampia base sociale, cementata dalle ramificate clientele dei suoi
capi, nei ceti artigiani e nel mondo forense. L’ideologia di questo
raggruppamento che rappresentava il baricentro moderato del «partito
patriottico», pur affondando le sue radici nei sentimenti antipiemontesi
della sollevazione del 1794, era caratterizzata da un fermo lealismo
monarchico, da un autonomismo imperniato sulla rivendicazione
dell’esclusività delle cariche per i «nazionali» e da
una chiara pregiudiziale «antigiacobina».
Il
secondo polo di attrazione era costituito dal raggruppamento del giudice della
Reale Udienza Giovanni Maria Angioy, che aveva il suo punto di forza nello
Stamento militare e che grazie agli appoggi di cui godeva nel supremo
magistrato del Regno aveva aperto la vertenza col governo di Torino sulla
questione delle terne. Questo raggruppamento si era progressivamente
qualificato come l’ala più radicale e illuminata del
«partito patriottico» e annoverava tra i suoi aderenti autorevoli
membri degli Stamenti, diversi letterati laici ed ecclesiastici, esponenti del
mondo mercantile e delle professioni, della nobiltà di servizio e della
piccola nobiltà rurale. Non è facile individuare il retroterra
ideale del composito raggruppamento angioiano, che condivideva con la
«casa» Cabras l’ispirazione patriottica del rilancio delle
Leggi fondamentali e dell’antica costituzione del Regno. Esso si
caratterizzava tuttavia per la sua particolare sensibilità ai temi
giuridico-istituzionali e per un’accentuata impronta antiassolutistica
che tendeva a travalicare il quadro dell’Antico Regime e ad aprirsi verso
nuove idee di libertà. Sulla questione feudale le differenze tra queste
due principali componenti, nel corso del 1795, restavano in secondo piano.
Le divergenze manifestatesi a proposito della nuova
ambasceria da inviare a Torino non avevano comunque compromesso
l’unità del movimento. Il suo comune denominatore risiedeva nella
piattaforma delle «cinque domande» e nelle altre rivendicazioni avanzate
nel corso del 1795 e che ora entravano a far parte della nuova Rappresentanza a Vittorio Amedeo III,
affidata all’arcivescovo di Cagliari: la costituzione di un contingente
militare stabile, formato esclusivamente da sardi; la sospensione
dell’attribuzione delle cariche vacanti fino alla celebrazione delle
Corti; la possibilità per la «nazione» di accedere
direttamente al sovrano mediante gli Stamenti e infine l’amnistia per
tutti i patrioti coinvolti nelle «turbolenze»[49].
La
secessione sassarese era però la spina nel fianco del governo
cagliaritano. Era dunque necessario concentrare ogni sforzo per ricomporre
l’unità del Regno e salvare le conquiste della «sarda
rivoluzione». Eloquente testimonianza di questa strategia è il Discorso parenetico – una vera e
propria orazione esortativa – che l’abate Gian Francesco Simon
pronunciò nell’assemblea degli Stamenti del 13 ottobre 1795
per perorare l’invio di commissari che in tutte le contrade spiegassero
le ragioni di una rivoluzione finalizzata «al bene universale del Regno e
di tutti i suoi abitanti e singolarmente di quelli che sentono [...] più
degli altri il peso dell’oppressione e del longobardico sistema
feudale»[50].
L’opera
dei commissari degli Stamenti inviati nel Capo settentrionale per assicurare
ovunque la pubblicazione degli ultimi provvedimenti viceregi contribuì
in modo determinante ad orientare la protesta antibaronale contro la
Governazione sassarese, provocando un massiccio pronunciamento delle
comunità rurali a favore degli Stamenti e del governo cagliaritano. I
vassalli dei villaggi settentrionali si sentivano pertanto dei «ribelli
legali», spalleggiati dal governo della capitale e quasi incoraggiati ad
individuare nella Reale Governazione di Sassari la roccaforte dei loro
oppressori e dei loro nemici[51].
Il
24 novembre i villaggi logudoresi di Thiesi, Bessude, Borutta e Cheremule
stipulavano dinanzi al notaio uno «strumento d’unione» nel
quale si invocava il riscatto dei feudi e si dichiarava di «non riconoscere
più alcun feudatario»[52].
L’ala angioiana del «partito patriottico» colse subito la
dirompente novità di questa iniziativa: «il tenore dell’atto
– commentava il «Giornale di Sardegna» – è
d’una natura affatto nuova in questo Regno, e tanto strepitoso [...] che
certamente formerà uno dei più interessanti monumenti della
Storia Sarda dell’epoca presente»[53].
La questione feudale si era ormai innestata sul consolidato ceppo delle
rivendicazioni patriottiche, ma la secessione «realista» e le
agitazioni antifeudali furono anche lo scoglio su cui si sarebbe infranta
l’unità del movimento. Ai primi di dicembre i patrioti
cagliaritani concertarono con quelli sassaresi una vasta offensiva per
sottomettere la città ribelle. Il 28 dicembre Sassari capitolava, conquistata
da un esercito improvvisato di migliaia di contadini armati, guidati da due
esponenti radicali: il notaio cagliaritano Francesco Cilocco, commissario degli
Stamenti, e l’avvocato sassarese Gioacchino Mundula. Il governatore
Santuccio e l’arcivescovo Giacinto Della Torre venivano arrestati e
tradotti prigionieri a Cagliari[54].
Fu in questa occasione che si verificò un lungo braccio di ferro tra i
patrioti sassaresi, che si ostinavano a considerare il governatore e
l’arcivescovo alla stregua di prigionieri, e i membri della Deputazione
stamentaria che intendevano assicurare la massima protezione alle due alte
personalità. Le prime notizie della caduta di Sassari sorpresero il
viceré e destarono nella capitale sconcerto e preoccupazione: la fine
tanto auspicata della secessione «realista» evocava ormai lo
spettro di un’inarrestabile sollevazione contadina. La violenta conquista
di Sassari poteva inoltre compromettere la missione torinese
dell’arcivescovo Melano. In realtà la sconfitta della
nobiltà feudale e «realista», anziché rafforzare
l’unità dei patrioti, poneva le premesse della loro definitiva
polarizzazione su prospettive contrapposte.
Con
la capitolazione della roccaforte dei «realisti», espugnata
attraverso un’azione violenta sfuggita al controllo del governo viceregio
e della Deputazione stamentaria, si apre la quarta ed ultima fase della
«sarda rivoluzione», contraddistinta, come si è accennato,
dalla lacerazione del «partito patriottico» e dalla crescita del movimento
antifeudale. Le ragioni che portarono alla progressiva divaricazione delle
principali componenti dello schieramento stamentario non sono ancora del tutto
chiare. Fin dal gennaio 1796 la componente moderata appariva turbata nel
constatare che le intese con i patrioti sassaresi consentivano agli
«angioiani» di disporre di un crescente seguito nel Capo
settentrionale, dove essi divenivano il punto di riferimento del movimento
antifeudale. Certamente l’alleanza con i patrioti sassaresi rompeva il
delicato equilibrio che si era instaurato a Cagliari tra i seguaci della
«casa» Cabras e quelli del giudice Angioy. A Sassari, anche a causa
dell’asprezza dello scontro politico e sociale, il nucleo del movimento
patriottico, capeggiato dall’avvocato Mundula, esprimeva posizioni
radicali e spesso apertamente repubblicane e filofrancesi.
Fu
in questo contesto, segnato dal vuoto di potere determinatosi nel Capo
settentrionale, che maturò la decisione di inviare Angioy quale alternos viceregio a Sassari, dove il 28
febbraio del 1796 fece il suo ingresso solenne con un migliaio di uomini a
cavallo e un folto seguito di contadini: durante il lungo viaggio i consiglieri
dei villaggi infeudati gli avevano consegnato petizioni e rimostranze contro i
feudatari[55].
La sua missione offrì subito l’opportunità per una grande
iniziativa di propaganda delle idee riformatrici. Per i redattori del
«Giornale di Sardegna» la sua marcia trionfale verso Sassari era la
«prova evidente dell’universale sentimento» del Regno: il
giudice aveva raccolto «la volontà di molti Popoli»,
convincendosi che essi «sono costanti a voler vivere sotto l’ombra
d’un pacifico Governo che cerchi di svellere gli abusi e di felicitare i
sudditi coll’accordare le necessarie riforme»[56].
Durante
il governo di Angioy a Sassari, mentre montava il movimento antifeudale nelle
campagne e si moltiplicavano gli «strumenti d’unione» tra i
villaggi infeudati, a Cagliari si consumava, nella primavera del 1796, tra
defezioni ed aspri conflitti, la definitiva spaccatura del «partito patriottico»,
con l’aperta prevaricazione della componente moderata dei Cabras
sull’ala filoangioiana, le cui file avevano iniziato ad assottigliarsi.
Al centro di questa spaccatura vi erano le divergenti valutazioni sulla
protesta delle comunità e quindi sulle misure per contenere le
agitazioni: da un lato i moderati, sensibili alle istanze della nobiltà,
dalle originarie posizioni di un «temperamento» del potere baronale
si erano repentinamente spostati su una linea di sostegno alla
feudalità; dall’altro l’ala angioiana che ormai individuava
nel feudo un pilastro del dispotismo e si disponeva ad affrontare il problema
del superamento del quadro feudale attraverso il meccanismo del riscatto
oneroso, col quale le comunità avrebbero potuto affrancarsi dai diritti
e dai tributi feudali.
Nonostante
i numerosi studi dedicati alle peculiarità economiche e sociali dei
moti, l’interpretazione del movimento antifeudale del 1795-96 continua a
presentare alcuni problemi irrisolti. Innanzitutto i motivi per i quali le
agitazioni si svilupparono in un’area territoriale circoscritta –
cioè quella delle regioni della Sardegna nordoccidentale e in
particolare del Logudoro e del Sassarese –, mentre non si estesero alle
campagne e ai villaggi del meridione dell’isola che pure,
all’indomani della cacciata dei piemontesi, furono attraversati da
fermenti antibaronali; in secondo luogo la questione delle matrici culturali
delle proposte avanzate dalle comunità rurali per il superamento del
regime feudale; infine il rapporto tra il movimento contadino e l’iniziativa
dell’alternos Angioy verso lo
schieramento stamentario e il governo cagliaritano[57].
Certamente
la crisi dell’estate del 1795 con la secessione sassarese ebbe un ruolo
determinante nel caratterizzare lo sviluppo del movimento contadino delle
campagne logudoresi che dalla denuncia degli abusi baronali passò alla
contestazione della giurisdizione, dei tributi e dei poteri feudali. Dietro
l’azione di propaganda contro la Reale Governazione di Sassari
iniziò ben presto ad emergere la prospettiva della «redenzione»
o del «riscatto» dei vassalli. Nello «strumento
d’unione» approvato il 14 ottobre dai Consigli delle
comunità di Thiesi, Bessude e Cheremule, si stabiliva di chiedere al
sovrano «il riscatto» del Marchesato di Montemaggiore
«pagando quella somma, deductis
deducendis, che detto feudatario o i suoi antecessori ebbero sborsato in
Tesoreria nel suo primo acquisto, con quelle clausole e condizioni che il
procuratore da scegliere potrà meglio convenire con chi farà le
parti di Sua Regia Maestà»[58].
Si trattava, come si può
osservare, di una rivendicazione che assumeva una valenza particolarmente
dirompente, ma che puntava su procedure e atti giuridici che attingevano alla
tradizione dell’Antico Regime il cui quadro complessivo non era peraltro
messo in discussione. E del resto non vi fu in Sardegna niente di paragonabile
ai decreti del 4-11 agosto 1789 che avevano sancito l’individualismo
radicale della Rivoluzione francese, disponendo l’abolizione della
feudalità come indispensabile premessa dell’uguaglianza dei
cittadini (sebbene anche in Francia i diritti feudali dichiarati riscattabili
sarebbero stati aboliti senza indennità soltanto nel 1793)[59].
Non a caso la formula prescelta era ancora quella della petizione al sovrano e
le modalità individuate per l’affrancamento dal sistema feudale
erano basate sul meccanismo dell’indennizzo, che si rifaceva sia alle
istanze avanzate fin dalla metà del secolo da alcune comunità
(come nel caso di Ittiri 1765), sia alle ipotesi di «riacquisto» da
parte della Corona dei feudi appartenenti ai baroni residenti in Spagna,
prospettate negli anni del riformismo boginiano[60].
Ma
il coinvolgimento delle comunità rurali infeudate nell’offensiva
antirealista portò alla ribalta non soltanto la questione feudale, ma anche
il problema di un allargamento del circuito della partecipazione e della
rappresentanza politica, seppur all’interno del quadro degli antichi
ordini del Regno. È sufficiente confrontare gli «strumenti
d’unione» dell’autunno del 1795 con quelli della primavera
del 1796 per cogliere la rapida maturazione di una nuova consapevolezza del
ruolo e della forza del movimento antifeudale. Nella prima fase della
mobilitazione delle comunità prevale la logica dell’allineamento
al governo viceregio, alla Reale Udienza e agli Stamenti, che riequilibra
l’insubordinazione all’autorità naturale della Governazione
di Sassari: «tutte le anzidette ville confermano le proposte
d’unione alla Capitale e di ubbidienza perfetta» alle autorità
cagliaritane e in particolare «alli tre Stamenti, Ecclesiastico, Militare
e Reale [...] che a tenore della nostra Legge fondamentale possano solamente
rappresentare l’intiera nazione sarda»[61],
si legge nello «strumento d’unione» del 24 novembre 1795.
Nella
primavera del 1796, quando sono ormai mutati gli equilibri politici nel
«partito patriottico», le comunità logudoresi fanno pesare
il contributo dato alla sconfitta dei «realisti» sassaresi e
rivendicano coerentemente il diritto di essere consultate sulle grandi
decisioni che riguardano il Regno: in primo luogo chiedono che prima che i tre
Stamenti assumano qualunque «deliberazione circa le risposte e
determinazioni» del ministero torinese sulle «cinque
domande», venga «inteso e consultato l’intero Capo di Sassari
e Logudoro», sottorappresentato nelle assemblee stamentarie in
seguito alla defezione dei «realisti». La petizione delle
comunità confidava nella «bontà e gentilezza di tutti i
membri di essi Stamenti» perché «altrimenti spiacerebbe
sommamente alle anzidette ville ed abitanti di dover ritirare le procure tutte
delle città, de’ cavalieri e de’ ceti ecclesiastici
de’ suddetti Capi di Sassari e Logudoro». In sostanza, attraverso
un’esasperata estensione del meccanismo della rappresentanza per ordini,
corpi e comunità di Antico Regime, si esigeva un formale impegno dei
deputati stamentari ad attivare un circuito parallelo e informale di preventiva
consultazione dei consigli comunitativi dei villaggi confederati. Su questo
aspetto la rivendicazione era netta: «da questo momento e per sempre»
nessuno dei deputati «muniti di procura d’essi due Capi»
potrà votare negli Stamenti a proposito della piattaforma rivendicativa
del Regno «primaché sappiano quale sia il voto e desiderio delle
infrascritte ville», perché, si sottolineava, sarebbe stato
«assurdo, che da pochi soggetti si desse il voto in un affare cotanto
sostanziale, contro la già dichiarata volontà e protesta
de’ committenti»[62].
Riemerge
ancora una volta il profondo legame che univa il nuovo protagonismo delle
comunità infeudate all’esperienza e alla logica del riformismo
assolutistico del periodo boginiano, che con l’editto di istituzione dei
Consigli comunitativi (1771) aveva contrapposto al potere baronale un corpo
autonomo di rappresentanti di villaggio, protetti dal sovrano, capaci di
resistere alle pretese del feudatario e preposti a far valere le ragioni dei
vassalli[63].
Non a caso le comunità sottolineavano che la consultazione preventiva
non avrebbe costituito una violazione della «politica fondamentale
Costituzione del Regno» dal momento che i deputati stamentari avrebbero
potuto continuare ad esprimere il loro voto «nella maniera legittima e
prescritta dalle nostre leggi»[64].
Il
celebre inno antifeudale, Su patriottu sardu
a sos feudatarios, composto dal cavaliere Francesco Ignazio Mannu, membro
dello Stamento militare e aderente alla componente angioiana del «partito
patriottico», ricalca il quadro politico e ideale che emerge dalle
rivendicazioni dei villaggi federati. Dietro le veementi espressioni
dell’inno, impropriamente definito la «Marsigliese sarda»,
non è difficile scorgere le aspirazioni di un movimento contadino
già decisamente orientato, più
che a rivendicare l’abolizione generale del regime feudale, a pretendere
un’immediata «moderazione» dell’oppressione
baronale: «Procurad’ ’e moderare, / Barones, sa
tirannia...» (cercate di moderare baroni, la tirannia), recitavano i
primi versi dell’inno[65].
Così l’avvocato Mannu non esitava a incitare i vassalli alla ribellione
antifeudale: «Custa, pobulos è s’ora / D’estirpare sos
abusos! / A terras sos malos usos, / A terra su dispotismu».
Parallelamente l’esponente del «partito patriottico»
cagliaritano offriva al mondo contadino una lettura colta della originaria usurpazione
baronale, sottolineando l’illegittimità degli ordinamenti feudali
che si erano sovrapposti ai diritti naturali degli abitanti dei villaggi[66].
Anche
l’Achille della Sarda Liberazione, un
organico documento articolato in tesi che, diffuso nella primavera del 1796,
costituì il più compiuto manifesto delle posizioni politiche e
istituzionali della componente angioiana del «partito patriottico»,
legava il processo di emancipazione dalla «schiavitù feudistica»
alla piattaforma stamentaria e alla battaglia per la piena realizzazione della
«sarda costituzione». In aperta polemica con la «politica
machiavellica» del ministero torinese l’ignoto autore del documento
prospettava un nuovo «patto sociale tra il sovrano e la nazione»
che doveva definitivamente sancire da un lato l’impegno del monarca ad
osservare le leggi patrie, dall’altro l’obbligo per la
«nazione» di «rispettare le regalie del sovrano».
Sotto
questo profilo l’Achille
costituisce una preziosa testimonianza della cultura politica tipica di importanti
settori del «partito patriottico» e comune a diversi protagonisti
della «rivoluzione angioiana»: si trattava in sostanza di
un’elaborazione per molti versi originale che si innestava su un
patrimonio culturale ancora permeato della tradizione giuspubblicistica
sei-settecentesca, e delle idee del contrattualismo e della «monarchia
mista», e solo vagamente lambito dallo spirito delle costituzioni degli
Stati Uniti d’America e della Francia rivoluzionaria. Lontane da ogni
suggestione filofrancese e repubblicana, le tesi dell’Achille riflettevano posizioni e
aspettative diffuse tra quei patrioti che auspicavano – a dispetto delle
accuse mosse loro dai «realisti» e dai moderati – una
monarchia costituzionale, fondata sul definitivo superamento degli ordinamenti
feudali e sul riequilibrio paritario dei rapporti tra il Regno e la Dominante,
senza ledere le «prerogative» della sovranità. Si trattava
di una visione dei problemi dell’isola animata da un forte spirito di
autonomia e da una nuova accesa consapevolezza dell’identità
patria della Sardegna. Espressione della nuova ondata di radicalismo
antipiemontese che si manifestò nella primavera del 1796, l’Achille ritornava insistentemente a
rimproverare al Piemonte di essersi «arrogato [...] il titolo di Nazione Dominante»;
accusava i «Piemontesi» di aver tentato di «corrompere la
religione ed i costumi Nazionali» e perfino di aver introdotto
nell’isola «molte malattie» con la «loro scostumanza in
ogni genere di vita»: dai piemontesi, insomma, la Sardegna veniva «considerata
e trattata come una colonia americana».
Specchio
delle passioni che agitavano i villaggi dell’isola, il libello sferrava
un durissimo attacco al sistema feudale, descritto come un ordinamento
«tirannico» e contrario al «diritto delle genti», che
aveva provocato miseria e spopolamento nelle campagne e che teneva «in
una manifesta e spaventevole oppressione le classi più laboriose, le
più utili e le più numerose della Sardegna, l’Agricoltore e
il Pastore». Di qui l’appello di quei mesi: «Eterna guerra al
feudalismo, ed ai suoi fautori, come nemici della Patria». In questo
contesto il riscatto dei feudi che le comunità invocavano veniva
presentato come una sorta di «temperamento e una via di mezzo suggerita
dall’equità», laddove la «ragione» e la «giustizia»
avrebbero richiesto «l’abolizione perfetta della tirannia»[67].
Certo,
nel Capo settentrionale dell’isola, in quei mesi di grande fermento,
s’intensificava la diffusione di poesie e stampe clandestine
inneggianti insieme alla ribellione antifeudale e alla Francia:
«Giacché innalzato è l’albero / s’abbassino i
tiranni / co’ suoi superbi vanni / scenda la libertà / o caro
amato popolo / o Santa Fratellanza / viva l’uguaglianza / viva la libertà»[68],
recitava un componimento anonimo diffuso a Sassari il 15 maggio 1796. I
vassalli in rivolta saccheggiavano i magazzini e i palazzi dei baroni,
rifiutavano di pagare i tributi feudali (non solo quelli controversi) e
andavano ben oltre la semplice richiesta del riscatto, di fatto ricusando ogni
ordine e autorità baronali. Nel mese di marzo oltre quaranta villaggi
avevano ormai sottoscritto gli «strumenti d’unione». Tuttavia
il governo dell’alternos,
sebbene ripetutamente sconfessato dalla Deputazione stamentaria cagliaritana,
continuava ad appoggiare le rivendicazioni delle comunità, anche se
puntando ancora su una soluzione contrattata col viceré e col ministero
torinese.
A
Cagliari invece, nella primavera del 1796, chiunque professasse simpatie
angioiane era avversato come «partitante della Rivoluzione di Francia».
In questa mutata temperie ideale si colloca la forzata cessazione delle
pubblicazioni del «Giornale di Sardegna». La componente moderata
del «partito patriottico», alleatasi con i «realisti» e
con i baroni, era l’ago della bilancia della vita politica del Regno.
Anche alcuni aderenti all’ala angioiana paventavano ormai un pericoloso
salto nel buio: «se non con l’azione – scriveva Matteo Luigi
Simon in una lettera del 16 marzo – certamente con la parola, nostro
fratello Gian Francesco aiuta l’Angioy e i suoi seguaci ispirando nel
popolo desiderio di libertà. A mio parere si conduce male
[poiché] egli stesso è convinto che nulla si otterrà in
siffatto modo e anzi la insensata prova porterà danno alla patria e al
popolo»[69].
Angioy
decideva invece di tentare l’«insensata prova». Il 2 giugno
abbandonava Sassari alla volta di Cagliari con un nutrito seguito di miliziani,
di dragoni e di suoi convinti fautori. La marcia fu all’inizio un vero
trionfo, soprattutto nei villaggi in lotta contro i feudatari. Angioy si
dirigeva verso la capitale accompagnato da villici armati, il cui numero andava
crescendo nel corso del viaggio. Ma già il 6 giugno nel villaggio di
Macomer, nell’altipiano centrale dell’isola, il tumultuante corteo
incontrò l’opposizione dei nobili e l’ostile diffidenza
delle popolazioni agropastorali che non erano state attivamente coinvolte nel
movimento antifeudale: vi furono disordini, reazioni e saccheggi. Il 9 giugno
da Oristano l’alternos scrisse
una lettera al viceré, nella quale affermava che la «Provincia del
Logudoro» era «fedele a Sua Maestà», ma
«altrettanto ferma e risoluta nel difendere i dritti, interessi e
privilegi della Sarda Nazione». «Non occorre di rammentare le
vicende, alle quali fu sottoposta la tranquillità del Regno –
proseguiva l’alternos –,
ma crederei, che colla mediazione della Repubblica francese potrebbero
terminarsi felicemente, e con soddisfazione di tutti i buoni, le nostre
vertenze. Questa Repubblica, che ha già fatto la pace con Sua
Maestà essendo savia, illuminata e spregiudicata saprà
determinare i diritti della Sovranità e quelli della Nazione
Sarda». Per trattare «queste e molte altre circostanze»
l’alternos, in qualità
di rappresentante della «provincia di Logudoro», chiedeva «un
abboccamento con diversi membri degli Stamenti ed anche del Supremo
Magistrato»[70].
L’iniziativa
dell’Angioy si presentava dunque come l’ultimo disperato tentativo
di forzare il quadro politico tradizionale per sconfiggere la coalizione
moderato-conservatrice di Cagliari ed imporre l’accettazione delle
rivendicazioni antifeudali del Logudoro, senza tuttavia separare il Regno dalla
monarchia sabauda (e anzi riservandosi il definitivo appello al sovrano). Nello
stesso giorno in cui l’alternos proponeva
l’intermediazione della Francia, a Cagliari, col consenso degli Stamenti
e della Reale Udienza, il viceré lo destituiva dalla carica di
rappresentante governativo nel Capo di Sassari e conferiva ampi poteri a tre
membri della Deputazione stamentaria che, alla testa della cavalleria miliziana,
si diressero verso Oristano. Messo al bando e colpito da una taglia come
ribelle, isolato e inseguito dalle milizie cagliaritane, Angioy era così
costretto ad abbandonare l’isola, mentre ovunque scattava una feroce
repressione.
Probabilmente
l’alternos aveva sopravvalutato
la forza d’urto del movimento dei villaggi confederati, per di più
confidando in un intervento di mediazione francese che potesse costringere lo
Stato sabaudo ad accettare le rivendicazioni del Regno ed il riscatto dei
feudi. Ma il movimento angioiano venne schiacciato – è bene
ricordarlo – dalle milizie «nazionali» inviate dalla
Deputazione stamentaria e dal governo cagliaritano (e non da truppe
piemontesi). Paradossalmente il giudice Angioy, con il suo appoggio alla
richiesta del riscatto oneroso dei feudi, indirizzata dalle comunità al
sovrano, finiva per essere in maggiore sintonia con quei magistrati sabaudi che
tra il 1771 e il 1792 avevano varato l’affrancamento delle
comunità infeudate in Savoia piuttosto che con i suoi compatrioti cagliaritani
membri della Deputazione.
Certo,
grazie alla coerente battaglia che era stata condotta dall’intero
«partito patriottico», negli stessi giorni in cui scattava la
repressione nei confronti del movimento angioiano i moderati ottenevano, col
regio biglietto dell’8 giugno, il pieno accoglimento delle cinque
domande. Ma come avrebbe scritto nel 1816 Matteo Luigi Simon, «i sardi
furono egualmente ingannati e beffati, negli anni seguenti, quando fu consumata
la “grande opera” di ricondurre le cose allo stato in cui erano
prima del 1793»[71].
Resta ancora aperto l’inquietante problema storiografico della
continuità che gli uomini del «partito patriottico»
assicurarono alla restaurazione nel triennio 1796-99 e che ancora una volta
ripropone il problema della specifica dimensione di una rivoluzione intimamente
legittimista e ancora profondamente legata al quadro sociale e istituzionale
del passato.
Le
osservazioni fin qui svolte consentono di riprendere il tema della sostanziale
irriducibilità della «crisi politica» sarda del 1793-96 ai
paradigmi di quelle tendenze storiografiche ideologizzanti che pretendono di
cogliere il significato delle singole vicende storiche misurandole su categorie
univoche e schemi astratti. Non vogliamo negare il valore della comparazione,
quanto piuttosto mettere in guardia da sommarie classificazioni che finiscono
per appiattire (e talvolta stravolgere) le specificità delle dinamiche
storiche. Nel caso del triennio rivoluzionario sardo le ipoteche ideologiche e
le categorie interpretative sulle quali si è polarizzato il dibattito
storiografico hanno a lungo impedito la comprensione (e perfino la
comparabilità) di una vicenda complessa che per la sua sfasatura cronologica
e la sua eccentrica peculiarità non è direttamente riconducibile
ai grandi paradigmi di riferimento dell’espansione della Rivoluzione
francese e delle «insorgenze» controrivoluzionarie.
Nel
In
effetti questa particolare dislocazione dei ceti rurali dell’isola
rappresenta uno dei tratti più originali dell’esperienza sarda e
ne misura la distanza dalle vicende di fine secolo italiane ed europee. Nel
corso della rivoluzione stamentaria emerge a più riprese una sintonia di
fondo tra il mondo contadino e le élites intellettuali e
professionali urbane, che in alcuni momenti decisivi esercitarono una larga
influenza nelle campagne dell’isola. Occorrerebbe semmai analizzare i
meccanismi e le forme attraverso le quali alcuni esponenti della nobiltà
di servizio, dei ceti forensi e del clero riuscirono a saldare le rivendicazioni
del movimento patriottico alle aspettative contadine e antifeudali. E capire
come il rapporto si sia modificato nelle diverse fasi di quella «crisi
politica», dalla mobilitazione antifrancese alla sollevazione contro i
piemontesi, dalla sollecitazione dell’intervento dei villaggi infeudati
contro la secessione realista alla fase culminante delle agitazioni
antifeudali, con la redazione e la diffusione degli «strumenti
d’unione». Paradossalmente, la dialettica che nelle insorgenze del
1796-99 contrappone il mondo delle campagne alle repubbliche giacobine si
manifesta in Sardegna in modo rovesciato, quando il movimento contadino, che
era stato incoraggiato dal «partito patriottico», passa
all’attacco del feudo, travalicando gli argini sociali e istituzionali di
una rivoluzione interna all’Antico Regime.
Se
si vuole dunque rintracciare il filo conduttore che attraversa l’intero
triennio rivoluzionario sardo occorre guardare al grande contenzioso
patriottico-costituzionale che oppone gli Stamenti al ministero torinese per la
ricontrattazione dei rapporti tra la «Sarda Nazione» e
[1]. Cfr. Astemio Lugtimnio, Crisi politica dell’isola di Sardegna.
Risposta imparziale ad un oltremontano, Cosmopoli [Genova], s.n.t., 1800. Sotto
lo pseudonimo si nasconde il magistrato Matteo Luigi Simon (1761-1816), che fu
uno dei protagonisti e insieme uno degli osservatori più acuti del
triennio rivoluzionario sardo: cfr. A. Mattone, P. Sanna, I Simon, una famiglia di intellettuali fra riformismo e restaurazione,
in All’ombra dell’aquila
imperiale. Trasformazioni e continuità istituzionali nei territori
sabaudi in età napoleonica (1802-1814), Atti del convegno, Torino
15-18 ottobre 1990, II, Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali,
Ufficio centrale per i beni archivistici, 1994, pp. 762-863.
[2]. A.M. Rao, Folle controrivoluzionarie: La questione delle insorgenze italiane,
in «Studi storici», XXXIX (1998), n. 2, p. 346 (il saggio, a cui si
rinvia anche per l’aggiornata bibliografia, è introduzione al
numero monografico della rivista dedicato a Le
insorgenze popolari nell’Italia rivoluzionaria e napoleonica, con
contributi di P. Preto, G.P. Romagnani, B.A. Raviola, G. Assereto, V. Sani, C.
Tosi, M. Cattaneo, M. Caffiero, J.A. Davis), ripubblicato nel volume
collettaneo Folle controrivoluzionarie. Le insorgenze popolari
nell’Italia giacobina e napoleonica, a cura di A.M. Rao, Roma,
Carocci, 1999. Il volume di M. Viglione, Rivolte
dimenticate. Le insorgenze degli italiani dalle origini al 1815, Roma,
Città nuova, 1999, costituisce il più recente esempio di
volgarizzazione e di esasperazione ideologica della storiografia
«revisionista»: contro ogni evidenza storica l’autore cerca
di disegnare i tratti di un’unica «insorgenza controrivoluzionaria
italiana» nella quale vengono accomunate esperienze di matrice assai
diversa, che vanno dai «moti antigiansenisti in Toscana» del
1787-90 alla «insorgenza generale del Regno d’Italia» del
1809, fino all’«ultimo atto della guerra sanfedista (e quindi di
tutta l’Insorgenza italiana)», con la cattura di Gioacchino Murat
da parte dei contadini calabresi nel 1815. Sui limiti della storiografia
«revisionista» cfr., fra tutti, le caustiche osservazioni di S.L.
Kaplan, Adieu 89, Paris, Fayard, 1993,
pp. 199-233, 643-796.
[3]. Per la prima interpretazione cfr. C. Sole, Fermenti di autonomia politica nel decennio
rivoluzionario (1789-1799), in Politica,
economia e società in Sardegna nell’età moderna,
Cagliari, Fossataro, 1978, pp. 123-175, e dello stesso La Sardegna sabauda nel Settecento («Storia della Sardegna
antica e moderna» diretta da A. Boscolo, vol. 8), Sassari, Chiarella,
1984, pp. 175 ss.; per la seconda i numerosi studi di F. Francioni, Introduzione a D. Scano, La vita e i tempi di Giommaria Angioy,
Cagliari, Edizioni Della Torre, 1985, pp. VII-XLI; Sardegna e Rivoluzione francese nel fiume della «grande
storia», in «Ichnusa», n. 12, 1987, pp. 52-66; Diritto di resistenza, nazione e patria in
Sardegna durante
[4]. Cfr. G. Manno, Storia moderna della Sardegna dall’anno 1773 al 1799, Torino,
Favale, 1842, e la ristampa, a cura di A. Mattone (Biblioteca sarda, n.
27), Nuoro, Ilisso, 1998; F. Sulis, Dei
moti politici dell’isola di Sardegna dal 1793 al 1821, Torino,
Tipografia nazionale, 1857 (ristampa anastatica Bologna, Forni, 1978).
[5]. Utili ed esaustive rassegne storiografiche
sono quelle di L. Del Piano, Osservazioni
e note sulla storiografia angioiana, in «Studi sardi», XVII
(1959-60), pp. 309-377, e Giacobini e
massoni in Sardegna fra Settecento e Ottocento, Sassari, Chiarella, 1982,
pp. 7-31; C. Sole, Considerazioni sulla
storiografia relativa al cosiddetto «decennio rivoluzionario sardo»
(1792-1802), in «Archivio Storico Sardo», XXXIII (1982), pp.
269-277. I termini del più recente dibattito storiografico sono
ricostruiti da L. Carta, Dallo sbarco
francese a Quartu all’insurrezione antipiemontese di Cagliari del 28
aprile 1794: alcune linee interpretative, in Francia e Italia cit., pp. 22-49, ed ulteriormente sviluppati nella
raccolta di saggi La «sarda rivoluzione». Studi e ricerche sulla
crisi politica in Sardegna tra Settecento e Ottocento, Cagliari, Condaghes,
2001.
[6]. Cfr. G. Sotgiu, La insurrezione di Cagliari del
[7]. Cfr. soprattutto I. Birocchi, La carta autonomistica della Sardegna tra
antico e moderno. Le «leggi fondamentali» nel triennio
rivoluzionario (1793-96), Torino, Giappichelli, 1992, che ha dato impulso
ad una nuova stagione di studi ricollegandosi alla stimolante e problematica
lettura delle ripercussioni di lunga durata del riformismo sabaudo avviata da
G. Ricuperati, Il riformismo sabaudo
settecentesco e
[9]. Cfr. F. Venturi, Settecento riformatore, IV, La
caduta dell’Antico Regime (1776-1789), 2, Il patriottismo repubblicano e gli imperi dell’Est, Torino,
Einaudi, 1984, pp. 572 ss.
[10]. Per una documentata ricostruzione della
sollevazione antipiemontese cfr. T. Orrù, M. Ferrai Cocco Ortu, Dalla guerra all’autogoverno. La
Sardegna del 1793-94: dalla difesa armata contro i francesi alla cacciata dei
piemontesi. Saggi e documenti inediti, Cagliari, Condaghes, 1996, pp. 157
ss.; una lettura in chiave «interetnica» è quella di F.
Francioni, Vespro sardo, in
«Almanacco gallurese», n. 2, 1993, pp. 219-242, sviluppata poi nel
volume Vespro sardo cit., pp. 253-376.
[11]. Cfr. Manifesto giustificativo della emozione
popolare accaduta in Cagliari il dì XXVIII aprile MDCCXCIV, Cagliari, Stamperia reale, 1794, p. 16, ora in Pagine di storia cagliaritana 1794-1795.
«Manifesto giustificativo» e altri documenti stamentari del
triennio rivoluzionario, saggio introduttivo di L. Carta, Cagliari, Camera
di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura, 1995, pp. 141-162.
[12]. Sul ministero Graneri cfr. G. Ricuperati, Il Settecento, in P. Merlin, C. Rosso,
G. Symcox, G. Ricuperati, Il Piemonte
sabaudo. Stato e territori in età moderna («Storia
d’Italia», diretta da G. Galasso, VIII, 1), Torino, Utet,
1994, pp. 671 ss., ora in Lo Stato sabaudo nel Settecento. Dal trionfo delle
burocrazie alla crisi di Antico Regime, Torino, Utet, 2001, pp. 245 ss.; A.
Merlotti, Graneri Pietro Giuseppe, in Dizionario biografico degli
italiani, LVIII, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2002, pp.
538-540.
[13]. Per una visione d’insieme cfr.,
oltre a F. Venturi, Settecento
riformatore cit., IV, 2, pp. 615-
[14]. J. Nicolas, Réformes et subversion en Savoie 1789-
[15] Buc, Miscellanea Baille, s.p. 6 bis. 1.3.,
n. 428. Si tratta di un manoscritto di 24 pagine che trascrive l’opuscolo
stampato a Chambéry dal tipografo Garrin nel 1791. Cfr. a questo proposito R. Devos,
B. Grosperrin,
[16]. Cfr. I. Birocchi, La carta autonomistica cit., pp. 280-296, e dello stesso Tra diritto e politica nel triennio
rivoluzionario sardo di fine Settecento: considerazioni in margine a
un’inedita memoria di Lodovico Baille, in «Quaderni
bolotanesi», n. 17, 1991, pp. 187-199. Per la biografia di Baille cfr. P.
Martini, Memorie intorno alla vita del
cavaliere Lodovico Baille, in Catalogo
della biblioteca sarda del cavaliere Lodovico Baille, Cagliari, Timon,
1844, pp. 3-42.
[17]. A questo proposito si resta sconcertati
dalle affermazioni di M. Viglione, Rivolte
dimenticate cit., pp. 19, 24, che include la mobilitazione patriottica
sarda del 1792-93 tra le «prime vere insorgenze antifrancesi»:
l’autore non appare neppure sfiorato dal dubbio che l’energica
attivizzazione dei corpi stamentari e delle milizie nazionali sarebbe
probabilmente scattata, con connotati ideologici ovviamente diversi, anche nel
caso che a compiere il tentativo di invasione fossero stati eserciti o flotte
di altri paesi stranieri.
[18]. Asga, Lettere di Gian Francesco Simon
(1788-1819), lettera al padre Bartolomeo, Torino senza data (ma giugno 1790).
Nella stessa lettera Simon segnalava che a Torino «si tengon continui e
rilevanti congressi per affari di somma premura che tengono giustamente agitato
il cuor del Monarca e danno a vedere che il malfrancese va serpeggiando a
grandi passi nella Savoia...».
[19]. Sul rapporto tra riforme degli studi e
nascita di una coscienza «patriottica» cfr., oltre a L. Berlinguer,
Domenico Alberto Azuni giurista e
politico (1749-1827), Milano, Giuffrè, 1966, pp. 9-55, I. Birocchi, La carta autonomistica cit., pp. 53-75;
E. Verzella, L’Università di
Sassari nell’età delle riforme (1763-1773), Sassari, Centro
interdisciplinare per la storia dell’Università di Sassari, 1992,
e della stessa L’età di
Vittorio Amedeo III in Sardegna: il
caso dell’Università di Sassari, in «Annali della
Fondazione Luigi Einaudi», XXIV (1990), pp. 225-274; G. De Giudici, La popolazione studentesca
dell’Università di Cagliari dopo la riforma boginiana (1771-1799),
in Le Università minori in Europa
(secoli XV-XIX), Convegno internazionale di studi, Alghero, 30 ottobre-2
novembre
[20]. F. Chabod, L’idea di nazione, a cura di A. Saitta e E. Sestan,
Roma-Bari, Laterza 1974 (1ª ediz. 1961), p. 56.
[21]. Le «cinque domande» erano le
seguenti: 1) «La celebrazione delle Corti Generali, calmate le attuali
vertenze di guerra, e la loro periodica rinnovazione ogni decennio»; 2)
«L’osservanza e confermazione de’ Privilegi e Leggi
fondamentali del Regno»; 3) «La nomina de’ Nazionali alle
quattro Mitre riservate nell’ultimo Parlamento del 1698, come pure, a
riserva della carica di Viceré, agli impieghi secolari
privativamente»; 4) «Lo stabilimento di una terza sala nella Reale
Udienza, che sia il Consiglio di Stato ordinario, cui venga comunicata, per
averne il parere, qualunque supplica si presenti al Viceré, anche per inoltrarla
a Sua Maestà»; 5) «La destinazione d’un Ministero, o
Segreteria di Stato particolare per gli affari della Sardegna» (Manifesto giustificativo cit., pp.
18-21). Sul costituzionalismo del Regno cfr., fra i lavori più recenti,
I. Birocchi, La carta autonomistica
cit., p. 26-45, e dello stesso La questione autonomistica dalla
«fusione perfetta» al primo dopoguerra, in Storia
d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Sardegna, a cura di L. Berlinguer e
A. Mattone, Torino, Einaudi, 1998, pp. 133-138; A. Mattone, La cessione del Regno di Sardegna dal
trattato di Utrecht alla presa di possesso
sabauda (1713-1720), in
«Rivista storica italiana», CIV (1992), pp. 5-89.
[22]. Cfr. a questo proposito A. Era, Estrema reviviscenza di un secolare
istituto. Gli Stamenti nell’ultimo decennio del secolo XVIII, in
«Annuario dell’Università di Sassari», 1943-47, pp.
15-30; ed anche C. Sole, Gli Stamenti e
la crisi rivoluzionaria sarda della fine del XVIII secolo, in Liber memorialis Antonio Era, Bruxelles,
Corten, 1963, pp. 179-191, e dello stesso Lo
Stamento militare nel gennaio
[23]. Che Pitzolo sia stato l’estensore
del Ragionamento si evince dai
verbali stamentari e dal carteggio intercorso tra i fratelli Domenico e Matteo
Luigi Simon nell’autunno-inverno del 1793-94 (cfr. A. Mattone, P. Sanna, I Simon cit., p. 793). Il testo del Ragionamento è in I. Birocchi, La carta autonomistica cit., pp.
247-279. La paternità del Ragionamento è inoltre
confermata dalla riunione del 30 ottobre 1793 della Deputazione a Torino dove
veniva letto «il Ragionamento giustificativo delle cinque domande
compilato dal signor cavaliere Pitzolo» affinché ciascuno dei
deputati potesse fare le proprie «osservazioni»: L’attività
degli Stamenti cit., II, n. 156/2, pp. 1176-1178.
[24]. Ast, Corte, Paesi, Sardegna, Politico,
Carte relative ai dispacci 1794-96, mazzo 2, Scritture del marchese della Planargia, n. 1, Lettera di G. Pitzolo
al marchese della Planargia, Cagliari 10 luglio 1794.
[26]. Per le biografie dei protagonisti delle
vicende del triennio rivoluzionario cfr. V. Del Piano, Giacobini moderati e reazionari in Sardegna. Saggio di un dizionario
biografico 1793-1812, Cagliari, Edizioni Castello, 1996.
[27]. Le strette relazioni che univano i due
teatri del conflitto emergono con chiarezza dai carteggi sequestrati con le Scritture del marchese della Planargia,
e dalla viva, seppur tendenziosa ricostruzione della anonima Storia de’ torbidi occorsi nel Regno
di Sardegna dall’anno
[29]. Scritture
del marchese della Planargia cit., n. 14, «memoria alla mano»
del marchese senza data, ma della primavera 1794.
[30].
Canzone patriottica, in Storia
de’ torbidi cit., doc. n. 39, p. 227. Si tratta del rifacimento della
canzonetta in ottonari, I dritti
dell’uomo di Luigi Rossi (1769-1799), che il patriota napoletano
compose nel 1793 e che ebbe grande fortuna in diversi Stati italiani durante il
triennio 1796-99. Cfr. a questo proposito L. Guerci, Istruire nelle verità repubblicane. La letteratura politica per
il popolo nell’Italia in rivoluzione (1796-99), Bologna, Il Mulino,
1999, pp. 132, 173-174.
[31]. Scritture
del marchese della Planargia cit., n. 36, supplica dei maggiorali di alcuni
gremi della città di Cagliari, non datata.
[33]. «Viva la religione, viva la patria,
viva il re, viva il giusto; guerra implacabile ai traditori, ai nemici, ai
perniciosi della patria», si leggeva in un foglio clandestino del 10
luglio 1795 (Storia de’ torbidi
cit., pp. 236-237). Sui meccanismi di incubazione di una mentalità
rivoluzionaria cfr. le analisi ancora illuminanti di G. Lefebvre, Foules révolutionnaires, in
«Annales historiques de
[34]. Sull’occupazione inglese della
Corsica cfr. A. Casanova, A. Rovere,
[35]. Cfr. Ragionamento
compilato d’ordine e con approvazione dei tre Stamenti del Regno di
Sardegna in giustificazione di quanto rappresentarono con le rimostranze dei
13, e de’ 24 luglio 1795, Cagliari, Stamperia reale, 1795, ora anche
in Pagine di storia cit., pp. 207-274.
[36]. N. Bianchi, Storia della monarchia piemontese dal 1773
al 1861, II, Torino, Bocca, 1877, p. 514.
[37]. La collezione del periodico è stata
ripubblicata in edizione anastatica da V. Lai, La rivoluzione sarda e il «Giornale di Sardegna» (1795-1796), Cagliari, Edes, 1971. Cfr.
A. Boi, Agli albori del giornalismo in
Sardegna, in «Studi sardi», VIII (1948), pp. 177-197; C. Capra,
Il giornalismo nell’età
rivoluzionaria e napoleonica, in V. Castronovo, G. Ricuperati, C. Capra, La stampa italiana dal Cinquecento
all’Ottocento («Storia della Stampa Italiana», a cura di
V. Castronovo e N. Tranfaglia), Roma-Bari, Laterza, 1976, pp. 401-403.
[40]. Il riemergere della complessa dialettica
tra le realtà locali e i governi centrali è un elemento di
proiezione della crisi dell’Antico Regime che connoterà alcune
«insorgenze» dell’Italia settentrionale: cfr., ad esempio, P.
Preto, Le valli bergamasche e bresciane
fra democratizzazione e rivolta antigiacobina, e G. Assereto, I «Viva Maria» nella Repubblica
ligure, entrambi in Folle controrivoluzionarie cit., rispettivamente
pp. 71-88, e pp. 171-193, e G. Ricuperati, L’avvenimento
e la storia: le rivolte del luglio 1797 nella crisi dello Stato sabaudo, in
«Rivista storica italiana», CIV (1992), n. 2, pp. 349-424. Sempre
stimolanti appaiono le osservazioni di F. Venturi, L’Italia fuori d’Italia, in Storia d’Italia, 3, Dal
primo Settecento all’Unità, Torino, Einaudi, 1973, pp. 1162
ss., e di C. Capra, L’età
rivoluzionaria e napoleonica in Italia 1796-1815, Torino, Loescher, 1978,
pp. 93 ss. Cfr. anche M. Vovelle, Il
triennio rivoluzionario italiano visto dalla Francia 1796-99, Napoli,
Guida, 1999.
[41]. Ast, Corte, Paesi, Sardegna, Politico,
Carte relative ai dispacci 1794-96, mazzo 2, rappresentanza al governo della
nobiltà sassarese del 12 settembre 1795.
[42]. L’anonimo sonetto risalente
all’estate-autunno del 1795, conservato in Buc, Miscellanea Baille,
è stato ripubblicato da L. Carta, Appendice
documentaria, in «Archivio sardo del movimento operaio contadino e
autonomistico», n. 29-31, 1990, p. 389.
[43]. Cfr. a questo proposito S. Pola, I moti delle campagne di Sardegna dal 1792
al 1802, I, Sassari, Lis, 1923, pp. 100 ss.
[45]. Cfr. soprattutto il vecchio ma documentato
lavoro di S. Pola, L’isola di
Sardegna nei rapporti diplomatici franco-piemontesi dal 1795 al 1798, I,
Genova, Fratelli Pala, 1936, pp. 1-32. Sugli interessi della Francia
rivoluzionaria verso l’isola cfr. in generale I. Calia, Francia e Sardegna nel Settecento. Economia,
politica, cultura, Milano, Giuffrè, 1993, pp. 211-242.
[46]. È la tesi della Storia de’ torbidi cit., pp.
129-130, che attribuisce agli «angioiani» il proposito di
«dichiarare Repubblica la Sardegna». Essi, nel settembre del 1795,
avrebbero diffuso a Cagliari «lettere sediziose», piantato
«un albero della Libertà nella piazzetta del Castello», e
fatto circolare «molti altri dipinti in carta, che vennero affissi nei
luoghi pubblici». L’anonimo autore riferisce inoltre che «si
seppe che i faziosi avevano pronto un nuovo padiglione collo stemma di Sardegna
fiancheggiato da due fasce, una rossa, e l’altra azzurra colle seguenti
iscrizioni: “Viva la sarda nazione” in una, e nell’altra:
“Viva
[48]. Acc, Fondo Aymerich, Processi verbali,
fasc. C, sessione dello Stamento militare del 19 settembre 1795.
[49]. Cfr. Rappresentanza
quinta rassegnata dai tre Stamenti di Sardegna a Sua Maestà nei 28
settembre 1795, Cagliari, Stamperia reale, 1795, ora anche in Pagine di storia cit., pp. 469-490.
[50]. Asga, fasc. n. 569, Discorso parenetico a nome della deputazione stamentaria tenuto nella
seduta del 13 ottobre 1795 dall’abate di Salvenero e Cea.
[52]. L. Berlinguer, Alcuni documenti sul moto antifeudale sardo del 1795-
[53]. «Giornale di Sardegna»,
Cagliari, n. 15, 10 dicembre 1795, pp. 12-13, ora in V. Lai, La rivoluzione cit., p. 115.
[54]. Sulla conquista di Sassari cfr. la viva
ricostruzione di G. Manno, Storia moderna
cit., II, pp. 52 ss.; la testimonianza di M.L. Simon, Quadro storico della Sardegna durante
[55]. Sulla figura e l’opera di Giovanni
Maria Angioy cfr., oltre alla voce di R. De Felice, Angioy Gian Maria, in Dizionario
biografico degli italiani, III, Roma, Istituto dell’Enciclopedia
Italiana, 1961, pp. 273-275; D. Scano, La
vita e i tempi di Giommaria Angioy cit.; A. Boi, Giommaria Angioy alla luce di nuovi documenti, Sassari, Lis, 1925;
G. Madau Diaz, Un capo carismatico:
Giovanni Maria Angioy, Cagliari, Gasperini, 1979; gli atti del convegno
«G.M. Angioy e i suoi tempi» (Bono 15-17 dicembre 1988) pubblicati
col titolo La Sardegna e
[56]. «Giornale di Sardegna»,
Cagliari, n. 20, 25 febbraio 1796, p. 153, ora in V. Lai, La rivoluzione sarda cit., p. 369.
[57]. Fra gli studi meno recenti, cfr. quello
assai problematico di U.G. Mondolfo, Agricoltura
e pastorizia in Sardegna nel tramonto del feudalesimo, in «Rivista
italiana di sociologia», VIII (1904), ora in Il feudalesimo in Sardegna, a cura di A. Boscolo («Testi e
documenti per la storia della questione sarda», n. 4), Cagliari,
Fossataro, 1967, pp. 429-455; il volume di S. Pola, I moti delle campagne cit., pur con taglio economicista che
sminuisce gli aspetti innovativi della «sarda rivoluzione», si
sofferma con acume sulle agitazioni antibaronali degli anni ottanta; F. Loddo
Canepa, Rapporti fra feudatari e vassalli
in Sardegna, in Fra il passato e
l’avvenire. Saggi storici sull’agricoltura sarda in onore di
Antonio Segni, Padova, Cedam, 1965, pp. 271-313, analizza la natura dei
tributi feudali alla fine del secolo; F. Cherchi Paba, Don Michele Obino e i moti antifeudali lussurgesi (1796-1803),
Cagliari, Fossataro,
[58]. L. Berlinguer, Alcuni documenti cit., p. 18. Nello «strumento
d’unione» dei villaggi logudoresi del 24 novembre 1795 le
comunità si impegnarono a contrastare l’autorità feudale e
a «ricorrere prontamente a chi spetta per essere redente pagando a tal
effetto quel tanto, che da’ Superiori sarà creduto giusto e
ragionevole» (p. 19). Sugli «strumenti d’unione» cfr.
anche le osservazioni di I. Birocchi, La
carta autonomistica cit., pp. 134-146.
[59]. Cfr. F. Furet, Féodalité,
in Dictionnaire critique de
[60]. Cfr. a questo proposito A. Mattone, Le origini della questione sarda. Le
strutture, le permanenze, le eredità, in La Sardegna cit., pp. 121-129.
[62]. Ivi, pp. 25-26. «Atto di unione e
concordia» del 27 marzo 1796 sottoscritto dai Consigli comunitativi dei
villaggi di Thiesi, Cheremule e Bessude. F. Francioni, Le comunità rurali nei Parlamenti sardi del Seicento, in
«Le Carte e la storia», 3, 1997, n. 2, pp. 118-129, pone in
evidenza gli elementi di «continuità» nell’estrema
reviviscenza parlamentare, quando i deputati dei villaggi riuscirono a farsi
ascoltare nel 1795-96 dai tre Stamenti che ormai si riunivano quasi
perennemente in seduta plenaria.
[63]. Il testo dell’editto del 24
settembre 1771 è in Editti,
pregoni, ed altri provvedimenti emanati per il Regno di Sardegna, II,
Cagliari, Stamperia reale, 1775, tit. XIII, ord. VII, pp. 86-93. L’editto
suscitò la dura reazione dei feudatari residenti in Spagna, che lo
considerarono come un’aperta violazione delle clausole dell’atto di
cessione del 1720 che garantiva le prerogative baronali, fra cui quella di
nominare i consiglieri dei villaggi. Sulla importanza di questo provvedimento
cfr. I. Birocchi, M. Capra, L’istituzione
dei Consigli comunitativi in Sardegna, in «Quaderni sardi di
storia», n. 4, 1983-84, pp. 139-158; M. Lepori, Feudalità e Consigli comunitativi nella Sardegna del Settecento,
in «Etudes corses», n. 30-31, 1988, pp. 139-158; A. Mattone, Istituzioni e riforme nella Sardegna del
Settecento, in Dal trono
all’albero della libertà cit., I, pp. 404-411, e La cessione del Regno di Sardegna cit.,
pp. 53-61; G.G. Ortu, Villaggio e poteri
signorili cit., pp. 207-218.
[65]. Il testo dell’inno,
nell’efficace traduzione di M. Brigaglia, è ora in Il meglio della grande poesia in lingua
sarda, pref. di M. Pira, Cagliari, Edizioni Della Torre, 1975, pp. 105-129.
Cfr. inoltre R. Garzia, Il canto d’una
rivoluzione, Cagliari, Tipografia dell’Unione Sarda, 1899; P.A.
Bianco,
F. Cheratzu, Su patriottu sardu a sos
feudatarios di Francesco Ignazio Mannu, Cagliari, Condaghes, 1991; M.A.
Dettori, Su patriottu sardu a sos
feudatarios di Francesco Ignazio Mannu, in «Archivio sardo del
movimento operaio contadino e autonomistico», n. 32-34, 1991, pp.
267-308; L. Marrocu, Procurad’
’e moderare. Racconto popolare della Rivoluzione sarda, Cagliari,
AM&D edizioni, 1996, pp. 155-179; L. Carta, L’inno di Francesco Ignazio Mannu. Procurad’ ’e
moderare barones sa tirannia, Cagliari, Regione Autonoma della Sardegna,
Assessorato Affari Generali, 1998, pp. 3-31; F.I. Mannu, Su patriotu sardu a
sos feudatarios, a cura di L. Carta, Cagliari, Centro di studi filologici
sardi/Cuec, 2002.
[66]. «Meda innantis de sos feudos /
esistian sas biddas, / et issas fini pobiddas / De saltos e biddattones. /
Comente a bois, barones, / Sa cosa anzena es passada? / Cuddu chi bos
l’ha dada/no bos la podia’ dare. / No es presumibile / chi voluntariamente
/ Happa’ sa povera zente / Zedidu a tale derettu; / Su titulu ergo est’infettu, / De
infeudassione, / E i sas biddas reione / tenen de l’impugnare»
(Molto prima dei feudi esistevano i villaggi, ed eran loro padroni di pascoli e
campi coltivati. Come mai a voi, baroni, la roba d’altri è
passata? Colui che ve l’ha data non ve la poteva dare. Non è
pensabile che volontariamente quella povera gente abbia ceduto un tale diritto:
il titolo stesso, ergo, è
illegittimo della infeudazione, e i villaggi hanno ragione ad impugnarlo). Cfr.
Il meglio della grande poesia cit.,
pp. 115, 126.
[67]. L’Achille
della Sarda Liberazione, manoscritto conservato in Buc, Miscellanea Baille,
7.17.V., è stato pubblicato da L. Del Piano, Osservazione e note cit., pp. 59-
[70]. Acc, Fondo Aymerich, Stamento militare,
busta 19. La lettera del 9 giugno, sintetizzata in G. Manno, Storia moderna cit., II, p. 129,
è riprodotta integralmente in G. Madau Diaz, Un capo carismatico cit., p. 351, e in L’attività
degli Stamenti cit., IV, n. 616/1, pp. 2335-2336. Il 22 giugno il
viceré Vivalda incaricava il giudice della Reale Udienza Giuseppe
Valentino di procedere penalmente contro Angioy «ed altri capi e principali
autori della segreta insurrezione, tendente al cambiamento del governo politico
del Regno»: Asc, Reale Udienza, Cause penali, fasc. 554, c. 25 v.
[71]. M.L. Simon, La Sardegna antica e moderna, a cura di C. Sole e V. Porceddu,
Cagliari, Edizioni Av, 1995, p. 297.
[72]. E. Sereni, Agricoltura e mondo rurale, in Storia
d’Italia, 1, I caratteri
originali, Torino, Einaudi, 1972, pp. 242-243. Cfr. a questo proposito
anche l’esauriente rassegna di A.M. Rao, Mezzogiorno e rivoluzione: trent’anni di storiografia, in
«Studi storici», XXXVII (1996), n. 4, pp. 981-1041.