N. 5 – 2006 – Tradizione
Romana
Università
di Salerno
Le usurae rei iudicatae
Sommario: 1. Iudicatum facere oportere e tempus iudicati. – 2. Le usurae rei iudicatae nella giurisprudenza dell’età
classica… – 3. …e
nelle costituzioni imperiali. – 4. L’affermazione
del principio in CTh. 4.19.1. – 5. La riforma di Giustiniano.
Il tema delle usurae rei iudicatae, vale a dire degli
interessi legalmente dovuti in relazione al debito derivante da una sentenza di
condanna non eseguita, come già ebbe a rilevare, agli inizi del secolo
scorso, il De Francisci[1],
è stato «lasciato nell’ombra» dagli studi romanistici.
In effetti, si tratta di un argomento poco indagato sul quale, tuttavia, mi sembra
utile svolgere qualche riflessione, anche in considerazione delle sue strette
interrelazioni con altri temi, assai rilevanti, quali gli effetti del iudicatum, il tempus iudicati e il
regime giuridico delle usurae in
generale.
È noto che, fino
allo scorcio dell’età classica, allorchè l’azione di
accertamento si concludeva con una sentenza del iudex che imponeva il pagamento di una determinata somma di denaro[2]
al soccombente, sorgeva in capo a quest’ultimo la cosiddetta obligatio iudicati:[3]
qualunque fosse, infatti, il rapporto di diritto sostanziale da cui aveva avuto
origine l’azione di accertamento, esso, a seguito della sentenza, si
trasformava nel vincolo obbligatorio che da questa scaturiva[4].
L’esecuzione
del giudicato ad opera della parte risultata soccombente nella lite venne,
invero, ben presto concettualizzata dai giuristi romani come oggetto di una
vera e propria obbligazione, che essi classificarono come un oportere, sul cui fondamento poteva
essere intentata, in caso di mancato adempimento, l’actio iudicati[5].
A tale riguardo la
testimonianza di Gaio è estremamente chiara: già quelli che egli
definisce i veteres, vale a dire, con
ogni probabilità, i giuristi della tarda età repubblicana[6],
avevano ben chiaro che il condemnatus
era tenuto ex causa iudicati, e
dunque che la sua obbligazione era fondata su quanto era stato deciso dal iudex nella sentenza di condanna ed
aveva per oggetto iudicatum facere[7],
appunto cioè, eseguire la condanna.
Gai. 3.180: Tollitur adhuc obligatio litis contestatione, si modo legitimo
iudicio>fuerit actum: nam tunc obligatio quidem principalis dissolvitur,
incipit>autem teneri reus litis contestatione. Sed si condemnatus sit,
sublata litis contestatione incipit ex causa iudicati teneri. Et hoc est, quod
apud veteres scriptum est ante litem contestatam dare debitorem oportere, post
litem contestatam condemnari oportere, post condemnationem iudicatum facere
oportere.
Dunque, l’obligatio iudicati, derivante dal iudicatum, normalmente si concretava
nell’obbligo del soccombente di pagare al vincitore della controversia la
somma pecuniaria stabilita dal giudice nella sentenza (a iudicato ergo hoc exigitur, ut pecuniam solvat), come è
enunciato a chiare lettere in D. 42.1.4.3 (Ulpianus libro
quinquagensimo octavo ad edictum):
Ait praetor: ‘condemnatus, ut
pecuniam solvat’. A iudicato ergo hoc exigitur, ut pecuniam solvat. Quid
ergo, si solvere quidem paratus non sit, satisfacere autem paratus sit, quid
dicimus? Et ait Labeo debuisse hoc quoque adici ‘neque eo nomine
satisfaciat’: fieri enim posse, ut idoneum expromissorem habeat. Sed
ratio pecuniae exigendae haec fuit, quod noluerit praetor obligationes ex
obligationibus fieri: idcirco ait ‘ut pecunia solvatur’. Ex magna
tamen et idonea causa accedendum erit ad Labeonis sententiam.
Il brano[8],
peraltro, appare di estremo interesse non soltanto perché in esso viene
riportata quella che doveva essere l’enunciazione edittale relativa
all’obligatio iudicati (‘condemnatus, ut pecuniam
solvat’), ma anche perché vi si esamina la questione relativa
alla possibilità di adempiere l’obligatio iudicati in maniera diversa dal pagamento della summa condemnationis. A tale riguardo, infatti, Labeone esclude
categoricamente la possibilità per il condannato di offrire forme alternative
di satisfactio al vincitore della
lite: ciò in quanto, secondo il giurista augusteo, nell’editto del
pretore non si rinveniva la frase “neque
eo nomine satisfaciat” proprio perché il magistrato, nel porre
l’obbligo di eseguire il giudicato, non aveva voluto che nascessero
ulteriori obbligazioni da quelle precedenti. In altri termini, lo scopo era
quello di evitare che il rapporto dedotto in giudizio si perpetuasse,
consentendo, qualora l’obbligazione novata non venisse adempiuta, di
riproporre in giudizio la medesima questione: il che, come è noto, non
sarebbe stato possibile nel sistema formulare nel quale, invero, non era
ammissibile una revisione del iudicatum.[9]
Solo in età
classica avanzata si arrivò a ritenere che il giudicato potesse esere
eseguito anche in altri modi diversi dal pagamento della summa condemnationis: ciò è quanto si afferma in D.
42.1.7 (Gaius libro ad edictum praetoris urbani titulo de re iudicata):
Intra dies constitutos, quamvis
iudicati agi non possit, multis tamen modis iudicatum liberari posse hodie non
dubitatur, quia constitutorum dierum spatium pro iudicato, non contra iudicatum
per legem constitutum est.
Gaio ci dice, dunque,
che ai suoi tempi (hodie), superate
le vecchie dispute, si era giunti finalmente ad ammettere che la liberazione
del condannato potesse avvenire non solo attraverso la solutio per aes et libram, che rappresentava, come si apprende da
Gai. 3.173-174[10],
la modalità normale di estinzione per i debiti derivanti ex causa iudicati, ma anche multis modis, vale a dire attraverso
molte altre forme alternative le quali, peraltro, non vengono specificate
neppure esemplificativamente: tuttavia, come sembra, non erano ammesse
né la novatio dell’obligatio iudicati, eccettuato il caso
in cui essa fosse utilizzata per rendere possibile una successiva acceptilatio, né la transazione[11].
Il passo accenna anche ad un’altra questione: quella
relativa alla possibilità di adempiere, eventualmente in forme
alternative, prima che fosse decorso il periodo di tempo stabilito (dies constitutos)
nel quale non poteva essere richiesta l’esecuzione del giudicato di
condanna. La risposta del giurista è positiva in considerazione del
fatto che, come egli dice, tale dilazione è prevista in favore di colui
che è stato giudicato e non contro di lui (quia constitutorum dierum spatium pro iudicato, non contra iudicatum
per legem constitutum est)[12].
Il condemnatus, dunque, per procedere
all’adempimento dell’obligatio
iudicati, aveva a disposizione un determinato lasso di tempo prima
dell’esito del quale il vincitore della lite non poteva agire, intentando
l’actio iudicati, al fine di
chiedere l’esecuzione della condanna pronunciata con la sentenza[13]:
si tratta di un precetto risalente già all’età decemvirale,
solitamente ricondotto alla Tab. 3.1[14]
di cui ci fa menzione Aulo Gellio in N.A. 20.1.42-45:
Confessi
igitur aeris ac debiti iudicatis triginta dies sunt dati conquirendae pecuniae
causa, quam dissolverent: eosque dies decemviri iustos appellaverunt, velut
quoddam iustitium, id est iuris inter eos quasi interstitionem quandam et
cessationem, quibus diebus nihil cum his agi iure posset…Sic enim sunt,
opinor, verba legis: Aeris confessi rebusque iure iudicatis triginta dies iusti
sunto. Post deinde manus iniectio esto, in ius ducito…[15]
In N.A. 15.13.11 la
norma viene ripetuta pressocchè negli stessi termini:
Confessi
autem aeris, de quo facta confessio est, in XII tabulis scriptum his verbis:
aeris confessi rebusque iudicatis XXX dies iusti sunto[16].
Dunque, nelle XII
Tavole veniva disposto che, prima di procedere alla manus iniectio, bisognava attendere che fossero trascorsi trenta
giorni dal momento della confessio
avente ad oggetto un debito in denaro o dalle res iudicatae.
Lo stesso Gellio spiega
che la ragione di questa dilazione concessa ai debitori stava nel consentire ad
essi di poter reperire il denaro necessario per ottemperare al giudicato di
condanna (conquirendae pecuniae causa),
senza temere di essere coinvolti in ulteriori processi: come egli stesso,
infatti, chiarisce, i giorni della dilazione erano qualificati come iusti proprio ad indicare che si
trattava di una sorta di parentesi (velut
quoddam iustitium, id est iuris inter eos quasi interstitionem quondam et
cessationem) nella quale veniva concessa una tregua al condannato, contro
il quale non potevano, per l’appunto, essere intentate altre azioni[17].
Analoga finalità al tempus
iudicati viene riconosciuta anche da Gaio in 3.78:
Bona autem veneunt aut vivorum aut
mortuorum: vivorum, velut eorum, qui fraudationis causa latitant nec absentes
defenduntur; item eorum, qui ex lege Iulia bonis cedunt; item iudicatorum post
tempus, quod eis partim lege XII tabularum, partim edicto praetoris ad
expediendam pecuniam tribuitur. Mortuorum bona veneunt velut eorum, quibus
certum est neque heredes neque bonorum possessores neque ullum alium iustum
successorem existere.
Il periodo di
dilazione concesso al condannato prima dell’esecuzione del giudicato
serve a costui, come afferma il giurista, per procurarsi il denaro occorrente
per estinguere il suo debito (ad
expediendam pecuniam)[18].
Dal brano in esame,
peraltro, apprendiamo che, all’epoca di Gaio, il tempus iudicati non era più categoricamente fissato in
trenta giorni, ma era stabilito in parte dalle legge delle XII tavole, in parte
dall’editto del pretore (partim …
partim …). In dottrina sono
state avanzate diverse interpretazioni circa l’espressione usata da Gaio.
Secondo alcuni[19],
con essa il giurista avrebbe voluto affermare che nell’editto del pretore
veniva riprodotta la norma decemvirale. A mio avviso, sembra, invece,
più verosimile che la bipartizione gaiana sia da intendere nel senso che
il termine iudicatus si riferisse
sì allo stesso modo a tutti i soggetti condannati, ma che solo per i iudicati nei giudizi legittimi ci si
potesse riallacciare al tempus iudicati
come stabilito dalle XII tavole; altrettanto non doveva accadere, invece, per
tutti gli altri processi, quelli quae
imperio continentur, per i quali il termine per l’adempimento doveva
essere indicato nell’editto del pretore[20]:
anche laddove tale termine, come è probabile, fosse sempre fissato in
trenta giorni, in ogni caso la sua fonte non era più nel diritto
decemvirale bensì in quello onorario[21].
Proprio considerando
che il tempus iudicati aveva lo scopo
di consentire al debitore di procurarsi la somma da versare al vincitore della
lite, qualche autore[22]
ha ritenuto che, una volta trascorso il tempus
iudicati, dovesse di nuovo essere accertata l’esistenza dell’obligatio iudicati e che, a tale scopo,
fosse utilizzata proprio l’actio
iudicati, mediante la quale, nel contraddittorio delle parti, si sarebbe
nuovamente dovuta accertare la sussistenza del credito scaturente dal iudicatum. A tale riguardo, tuttavia,
è stato giustamente osservato[23]
che sarebbe stato quantomeno eccessivo, al fine di accertare la sopravvivenza
dell’obligatio iudicati,
prospettare il necessario esercizio di un’azione laddove al medesimo
scopo si sarebbe potuto, molto più agevolmente, far ricorso alla causae cognitio del pretore. Peraltro,
non vi sono elementi per ritenere che il mero trascorrere del tempus iudicati non rendesse incerta
l’obligatio iudicati ma
semplicemente eseguibile il iudicatum[24]:
in età classica, ad ogni modo, l’agire per l’esecuzione
prima che fossero trascorsi i trenta giorni del tempus iudicati configurava senz’altro un’ipotesi di pluris petitio tempore[25].
Considerata, dunque,
la finalità del tempus iudicati,
si può allora facilmente comprendere come i condemnati abbiano spesso cercato di ottenere una maggiore
dilazione per ottemperare al giudicato di condanna; parimenti, con riferimento
alle circostanze concrete del caso, il termine di trenta giorni normativamente
fissato sarà talvolta potuto sembrare eccessivo, inducendo, pertanto, i
vincitori della lite a fare pressioni per ottenere prima quanto loro dovuto. La
dottrina non ha assunto una posizione concorde circa la possibilità che
tali esigenze trovassero accoglimento già nell’ambito del processo
formulare, con la concessione al iudex
della facoltà di abbreviare ovvero prolungare il tempus iudicati; a tale specifico riguardo, il Wenger[26]
propende per l’attendibilità di questa ipotesi sulla scorta di
quanto affermato in D. 42.1.4.5: (Ulpianus libro quinquagensimo
octavo ad edictum):
Si quis condemnatus sit, ut intra
certos dies solvat, unde ei tempus iudicati actionis computamus, utrum ex quo
sententia prolata est, an vero ex eo, ex quo dies statutus praeteriit? Sed si
quidem minorem diem statuerit iudex tempore legitimo, repletur ex lege, quod
sententiae iudicis deest: sin autem ampliorem numerum dierum sua definitione
iudex amplexus est, computabitur reo et legitimum tempus et quod supra id iudex
praestitit.
Nel frammento, che la
dottrina prevalente ritiene integralmente manipolato[27],
ci si interroga sulle modalità di computazione del tempus solutionis e ci si chiede, in particolare, se il termine
fissato dal giudice per l’actio
iudicati dovesse decorrere dalla pronuncia del giudice ovvero dopo che
fosse trascorso il tempus iudicati
normativamente previsto. Il frammento riporta due ipotesi diverse, cui
corrispondono diverse risposte: si afferma, infatti, che se la dilazione concessa
dal iudex fosse stata minore di
quella stabilita ex lege, allora il tempus solutionis si sarebbe
automaticamente protratto per tutta la durata legale, non applicandosi la
decisione del giudice; se, invece, quest’ultimo avesse accordato una
dilazione più lunga, allora il condannato avrebbe beneficiato sia del
periodo normativamente fissato, sia di quello ulteriore concesso dal iudex.
Altri elementi a
favore della sua tesi il Wenger ha ritenuto di poterli trovare nel riferimento,
contenuto in Gai 3.78, alla potestà del pretore di fissare il termine
per l’adempimento del giudicato grazie alla quale le suddette esigenze poterono,
con ogni probabilità, essere soddisfatte in virtù della
facoltà di proroga che il magistrato avrebbe avuto con riguardo ai iudicia imperio continentia[28].
Resta il fatto,
però, che mentre, come è certo, il tempus iudicati era stabilito dalla legge, non vi sono esempi di
formule in cui venga attribuito al giudice il potere di modificare questo
regime[29].
Il potere del giudicante di modificare il tempus
iudicati trovò, invece, un espresso riconoscimento nell’ambito
nella cognitio extra-ordinem[30]:
in D. 42.1.2 è detto, infatti, che tale termine può essere
abbreviato o prolungato, a discrezione del giudice, a seconda del valore e
della qualità della controversia, ovvero in considerazione della causa,
della persona o della sua eventuale contumacia; inoltre, vi si afferma che
assai raramente le sentenze si eseguono entro il termine stabilito, come nelle
ipotesi in cui si attribuiscono alimenti ovvero si sovviene alle
necessità dei minori di venticinque anni.
D. 42.1.2 (Ulpianus libro sexto ad edictum)
Qui pro tribunali cognoscit, non
semper tempus iudicati servat, sed nonnumquam artat, nonnumquam prorogat pro
causae qualitate et quantitate vel personarum obsequio vel contumacia. sed
perraro intra statutum tempus sententiae exsequentur, veluti si alimenta
constituantur vel minori viginti quinque annis subvenitur[31].
Analogamente, in D. 42.1.31 (Callistratus libro secundo
cognitionum):
Debitoribus non tantum petentibus dies
ad solvendum dandi sunt, sed et prorogandi, si res exigat: si qui tamen per
contumaciam magis, quam quia non possint explicare pecuniam, differant
solutionem, pignoribus captis compellendi sunt ad satisfaciendum ex forma, quam
Cassio proconsuli divus Pius in haec verba rescripsit: ‘His, qui
fatebuntur debere aut ex re iudicata necesse habebunt reddere, tempus ad
solvendum detur, quod sufficere pro facultate cuiusque videbitur: eorum, qui
intra diem vel ab initio datum vel ex ea causa postea prorogatum sibi non
reddiderint, pignora capi eaque, si intra duos menses non solverint, vendantur:
si quid ex pretiis supersit, reddatur ei, cuius pignora vendita erant’.
Nel passo in esame Callistrato enuncia il principio per il quale,
ai debitori che ne facciano richiesta, non soltanto va concesso un periodo di
dilazione per l’adempimento, ma tale periodo va anche successivamente
prorogato qualora le circostanze lo esigano. Laddove venga concesso il
differimento del pagamento, in caso di impossibilità di adempiere per
contumacia del debitore o per impossibilità di procurarsi il denaro, il
giurista ricorda che costoro possono essere costretti, in ogni caso,
all’adempimento mediante pignoris
capio, secondo quanto stabilito dall’imperatore Antonino Pio in un
suo rescritto destinato al proconsole Cassio: in base ad esso, infatti, ai debitori,
ivi compresi coloro che fossero tali in virtù di un giudicato di
condanna, doveva essere dato per adempiere un tempo ritenuto sufficiente in
relazione alle loro possibilità; una volta trascorso il periodo di
dilazione, sia quello originariamente concesso sia quello eventualmente
prorogato, senza che il debitore avesse adempiuto, allora si potevano prendere
dei pegni e, dopo altri due mesi senza che fosse stato pagato il debito, si
procedeva alla loro vendita, con soddisfacimento del creditore sul ricavato e
con l’attribuzione al debitore dell’eventuale supero.
I testi esaminati consentono di ritenere che con la cognitio extra ordinem[32]
venne generalizzata la facoltà per il giudicante di modificare il tempus iudicati, e, per lo più,
come era del resto prevedibile, si assistette ad una dilatazione del periodo
concesso al debitore.
Secondo qualche
autore[33],
le fonti finora considerate non sarebbero sufficienti ad escludere che comunque
vi fosse un tempus iudicati
legislativamente predeterminato anche nell’ambito della cognitio extra ordinem; si tratta di
un’affermazione plausibile, anche alla luce del tenore letterale di D.
42.1.2: sulla scorta di quest’ultimo passo, tuttavia, si può
fondatamente supporre che tale previsione normativa fosse frequentemente ed
ampiamente derogata (sed perraro intra statutum tempus sententiae
exsequentur).
D’altro canto,
nel sistema della cognitio, il iudicatum non fu più una semplice
fonte di obbligazione ma rappresentò un comando proveniente
dall’autorità pubblica, cui bisognava necessariamente obbedire[34]:
conseguentemente, venne meno la necessità di intentare un’apposita
actio iudicati per far valere
l’obligatio scaturente
dall’azione di accertamento e l’attuazione del giudicato venne
devoluta, senza bisogno di interporre alcun diaframma, alla stessa
autorità statale che aveva emessa la sentenza e che, normalmente,
provvedeva anche a porre in essere i relativi atti esecutivi[35].
In tale nuovo
scenario, il tempus solutionis non
precedeva più l’actio iudicati ma direttamente l’esecuzione
della sentenza. Forse anche in considerazione di questo mutamento di funzione,
la tendenza a prorogare il termine di dilazione fu recepita pure a livello
normativo[36]:
nel 380 d.C., con una costituzione ora raccolta in CTh. 4.19.1, fu
generalizzato, come si vedrà meglio tra breve, quale tempus dilationis il termine di due
mesi; nel 529 Giustiniano, intervenendo con ulteriori disposizioni normative,
ora contenute in CI 7.54.3, su cui pure si tornerà diffusamente
più avanti, portò il termine per l’esecuzione del giudicato
a quattro mesi[37].
La prima cosa che
emerge accingendosi allo studio delle usurae
rei iudicatae è l’assenza di testi, nei Digesta, che ad esse si riferiscano espressamente. La quasi
totalità degli autori[38]
ne fa conseguire che il diritto classico non dovette conoscere le usurae rei iudicatae, come sembrerebbe
confermato da D. 22.1.1.2 (Papinianus
libro secundo quaestionum):
Nec tamen
iudex iudicii bonae fidei recte iubebit interponi cautiones, ut, si tardius
sententiae condemnatus paruerit, futuri temporis pendantur usurae, cum in
potestate sit actoris iudicatum exigere. Paulus notat: quid enim pertinet ad
officium iudicis post condemnationem futuri temporis tractatus?
Nel frammento
Papiniano si esprime negativamente circa la possibilità, per il giudice
di un giudizio di buona fede, di imporre una cauzione al soccombente
affinché costui si impegni a pagare gli interessi sulla summa condemnationis nell’ipotesi
che non esegua il iudicatum entro il
tempo a tal fine concesso. Il giurista giustifica la propria decisione
affermando che è nella potestà dell’attore esigere o meno
l’adempimento del giudicato, e pertanto, non essendo sicuro se il
vincitore della causa chiederà l’esecuzone dell’obligatio ex causa iudicati, sostenendo
che sarebbe fuor di luogo disporre una cautio
per le usurae relativamente ad un
evento che, al momento dell’emanazione della sentenza, appare meramente
ipotetico.
A sua volta, la nota
paolina assevera il principio enunciato da Papiniano, esplicitando meglio,
peraltro, quel collegamento a prima vista poco chiaro tra il potere
dell’attore vincitore della lite di esigere l’ottemperanza del
giudicato e il diniego della possibilità di imporre una cauzione per le usurae rei iudicatae: non rientra
infatti, spiega Paolo, nell’officium
iudicis una statuizione relativa ad un tempo successivo alla sentenza in
quanto ancora non si sa se in quel tempo si realizzeranno i presupposti sui
quali tale disposizione dovrebbe fondarsi [39].
È stato
condivisibilmente osservato che la nota contenuta nel passo in esame si
giustifica molto più se riferita propriamente a Paolo che non piuttosto
alla mano di un rielaboratore postclassico, il quale difficilmente avrebbe
potuto aderire all’opinione di Papiniano in un’epoca in cui si era
oramai affermato l’opposto principio della decorrenza delle usurae rei iudicatae[40].
In realtà, il
passo in esame, a mio avviso, appare indizio di una problematica che, in
quell’epoca, comincia a proporsi e a richiedere una soluzione. È
molto probabile, infatti, che l’esigenza di corrispondere gli interessi
sulla summa condemnationis non fosse
stata significativamente avvertita come tale fin quando il tempo concesso per
la dilazione del pagamento fu mantenuto, abbastanza rigorosamente, nel termine
di trenta giorni. Allorquando, invece, il tempus
iudicati cominciò a subire più o meno ampie proroghe per
venire incontro ai condannati, dandogli così modo e tempo di procurarsi
il denaro necessario - prassi che, come si è visto, proprio con
l’affermarsi della cognitio extra
ordinem dovette prendere sempre più piede – all’incirca
contemporaneamente si dovette anche cominciare ad avvertire l’esigenza di
evitare che gli oneri connessi al protrarsi del tempus solutionis ricadessero interamente sul vincitore della lite.
La fissazione a tal fine di una cautio
ad opera del giudice dovette, pertanto, apparire un possibile rimedio (non a
caso il passo riferito contempla l’ipotesi di un iudicium bonae fidei dove, com’è noto, il giudice
aveva un parametro molto ampio di decisione che gli consentiva di prendere in
considerazione una serie di elementi che oltrepassavano la mera impostazione
giuridico-formale della controversia), permettendo all’attore vittorioso,
in caso di inadempimento del giudicato di condanna, di esigere le usurae in virtù della cauzione a
lui prestata.
Se Papiniano, e con
lui Paolo, escludono l’ammissibilità di tale soluzione, ciò
costituisce il risultato di considerazioni tutto sommato solo formalmente e
teoricamente ineccepibili (e cioè, come si è visto, che, essendo in potestate actoris iudicatum exigere,
il giudice non dovrebbe interessarsi dell’eventuale inadempimento del
soccombente, ed inoltre, che esulerebbe dall’officium iudicis disporre per un tempo successivo alla condanna)
ma, evidentemente proprio perché tali, inidonee a fornire
un’adeguata e, soprattutto, definitiva, soluzione ad un bisogno concreto
emergente, sempre più pressantemente sentito nella prassi giudiziaria.
Il problema, insomma,
era ormai ineludibilmente posto: occorreva, pertanto, che fossero apprestati
gli opportuni rimedi. In tal senso, la previsione dell’obbligo di
corrispondere gli interessi cominciò ad imporsi particolarmente laddove
la mancata esecuzione del giudicato da parte del soccombente rappresentava non
solo l’ingiustificato inadempimento di un’obbligo ma, per qualche
ragione, anche il risultato di una distorta utilizzazione degli strumenti
processuali: è questa la fattispecie che appare affrontata in D.
22.1.41pr. (Modestinus libro tertio responsorum):
Tutor
condemnatus per appellationem traxerat exsecutionem sententiae. Herennius
Modestinus respondit eum qui de appellatione cognovit potuisse, si
frustratoriam morandi causa appellationem interpositam animadverteret, etiam de
usuris medii temporis eum condemnare.
Un tutore condannato
aveva proposto appello contro la sentenza, facendo in modo così da
protrarne l’esecuzione. Il giurista Modestino, rispondendendo ad un quesito
rivoltogli, afferma che il giudice il quale conosce dell’appello, se si
accorge che l’appellatio
è stata interposta al solo fine di ritardare l’esecuzione del
giudicato, e così frustrare le giuste pretese del vincitore della lite,
deve condannare l’appellante a pagare anche gli interessi relativi al
periodo di durata dell’appello.
È stato
obiettato[41]
che nel passo in esame non si farebbe questione di usurae rei iudicatae in senso stretto; se ciò è
senz’altro vero, in quanto la condanna al pagamento delle usurae interviene soltanto
all’esito dell’appellatio
e con riferimento al tempo impiegato per lo svolgimento di tale fase, e dunque,
in buona sostanza, va ad integrare la condanna già pronunciata in primo
grado, tuttavia appare altrettanto innegabile che quello che il giurista si
propone di reprimere è l’uso strumentale dell’appellatio, laddove proposta a fini
puramente dilatori: in altri termini, anche qui si tratta di sanzionare, con il
pagamento degli interessi, una sostanziale inottemperanza al giudicato,
formalmente mascherata attraverso l’utilizzazione strumentale dei mezzi
apprestati dall’ordinamento.
Neppure si potrebbe
ritenere, a rigore, che si tratti di usurae
rei iudicatae in D. 42.1.64 (Scaevola libro vicensimo quinto
digestorum)[42]:
Negotiorum gestorum condemnatus
appellavit et diu negotium tractum est: quaesitum est appellatione eius iniusta
pronuntiata, an, quo tardius iudicatum sit, usurae pecuniae in condemnatum
deductae medii temporis debeantur. Respondit secundum ea quae proponentur
dandam utilem actionem.
Il caso sottoposto al parere del giurista Scevola è
leggermente diverso da quello prima considerato da Modestino. Colui che
è stato condannato in base ad un’actio negotiorum gestorum ha proposto appello contro la sentenza ma
la sua appellatio è stata
dichiarata iniusta; possono –
questo è il quesito - essere richiesti gli interessi per il fatto che il
processo[43]
si è ingiustificatamente protratto e pertanto il giudicato si è
avuto più tardi? Il giurista, in proposito, ritiene di poter concedere
un’utilis actio[44] per ottenere il pagamento delle usurae in riferimento alla durata del
processo di appello e ciò proprio in considerazione del fatto che
l’appellatio è stata
dichiarata dal giudicante infondata e pertanto si è protratto ingiustamente
il tempo per arrivare al giudicato.
La regola appena
esaminata viene sostanzialmente ribadita, estendendola anche ai giudizi di
buona fede concernenti il tutore ovvero il curatore, in D. 49.1.24pr. (Scaevola
libro quinto responsorum):
Negotiorum gestor vel tutor vel
curator bona fide condemnati appellaverunt et diu negotium tractum est:
quaesitum est appellatione eorum iniusta pronuntiata an, quia tardius iudicatum
sit, usurae principalis pecuniae medii temporis debeantur. Respondit secundum ea
quae proponerentur dandam utilem actionem.
Ancora una volta, a stretto rigore, si esula dal problema delle usurae rei iudicatae: il problema
formalmente, infatti, riguarda la tardiva formazione del giudicato (tardius iudicatum sit), riconducibile
all’interposizione di un appello infondato contro la sentenza di
condanna.
Tuttavia, al fondo emerge la medesima esigenza: garantire che gli
oneri connesi al fatto di dover aspettare un tempo più lungo per vedere
soddisfatte le proprie pretese non ricadano su chi ha visto riconosciute le
proprie ragioni all’esito della controversia. I giuristi romani sembrano
proiettati in un ordine di idee prettamente concreto: l’appellatio, se dilatoria, strumentale,
temeraria o semplicemente infondata, ha come risultato, in buona sostanza,
quello di rinviare, senza una giusta causa, (la formazione e)
l’esecuzione del giudicato: pertanto, il giudice dell’appello ne
terrà conto, applicando le usurae
per il tempo intermedio inutilmente trascorso.
È l’essenza stessa del giudizio di buona fede che
impone di tenere in adeguato conto la sostanziale frustrazione delle
aspettative del vincitore della lite: la concessione di un’actio utilis appare pertanto, a Scevola, lo strumento maggiormente idoneo
a ristorare il vincitore dell’ingiustificata attesa che ha dovuto
sopportare per veder adempiuto quanto riconosciutogli già
precedentemente e che, se non fosse intervenuta l’appellatio iniusta, gli sarebbe dovuto essere corrisposto molto
tempo prima.
Su questa scia, deve quindi ritenersi, fu sentito altresì
come conforme alla buona fede obbligare la parte soccombente a corrispondere
gli interessi sulla summa condemnationis
in caso di inadempimento, una volta trascorso inutilmente il tempus solutionis all’uopo
previsto dalla legge o dall’editto ovvero specificamente concesso dal
giudice nella procedura extra ordinem:
anche in tal caso, infatti, il vincitore andava ristorato per essere stato
costretto ad aspettare più a lungo del dovuto l’adempimento di
quanto gli spettava ex causa iudicati.
La scarsità delle fonti disponibili, tuttavia, non consente di andare
oltre l’individuazione del sostrato comune sotteso ad entrambi i cennati
principi né tantomeno di ricostruire, con un maggior grado di
approssimazione, le tappe storico-giuridiche attraverso le quali essi sono
comparsi e si sono progressivamente affermati nell’ordinamento giuridico
romano; del resto, l’imposizione in via generale dell’obbligo di
corrispondere le usurae rei iudicatae, sancita, come meglio
vedremo, in CTh. 4.19.1, ha, molto probabilmente, fatto sì che non
restasse alcuna traccia del relativo dibattito dottrinale che, presumibilmente,
l’aveva preceduta ed accompagnata.
L’esigenza
posta dalla prassi di riconoscere e dare una giusta tutela alle ragioni di chi,
pur essendo risultato vincitore di una lite giudiziaria, ciononostante vedesse
adempiuto solo con notevole ritardo il giudicato di condanna da parte del
soccombente fu, come era prevedibile e naturale che fosse, portata anche all’attenzione
della cancelleria imperiale.
La più risalente ipotesi di applicazione delle usurae rei iudicatae si rinviene in una
costituzione dell’imperatore Antonino Caracalla, ora raccolta in CI.
7.54.1:
(Imp. Ant. A. procuratoribus hereditatium):
Fiscus, qui bona secundum se dicta sententia persequitur, eas quoque rationes
habiturus est, ut, qui post legitimum tempus placitis non obtemperavit, usuram
centesimam temporis quod postea fluxerit solvat.
Il fatto che questa
costituzione fosse diretta ai procuratores
hereditatum, funzionari addetti alle finanze imperiali[45],
ha indotto autorevolissima dottrina[46]
a ritenere che in essa venisse contemplato un privilegio del fisco; il De
Francisci[47],
in particolare, ne ha dedotto che, se all’epoca di Caracalla avesse avuto
valenza generale l’obbligo di pagare le usurae rei iudicatae, sarebbe stato assurdo ribadirlo, con
un’apposita statuizione normativa, in favore del fisco. Tale
ragionamento, però, a mio avviso, sarebbe pienamente valido ed inoppugnabile
se la costituzione in parola non fosse stata conservata proprio da Giustiniano
nel suo codice, in un’epoca, dunque, nella quale il principio della
decorrenza degli interessi legali sulla summa
condemnationis era sicuramente pacifico e di portata generale. Noi non
sappiamo, invero, quale ragione indusse i compilatori del Codice giustinianeo a
raccogliere, ed anzi a collocare proprio in testa al titolo de usuris rei iudicatae del libro
settimo, la costituzione di Antonino Caracalla. Volendo ipotizzare, in via
meramente congetturale, una probabile spiegazione, si può immaginare che
essi, più che a conservare memoria di un tanto risalente privilegio in
favore dell’erario pubblico, erano interessati, probabilmente, a fugare i
dubbi che dovettero essere stati avanzati, per qualche motivo che ignoriamo,
circa l’applicazione, anche in tale specifico ambito, di tal genere di usurae; ovvero, ancora, si può
supporre che ad essi interessava particolarmente evidenziare la consonanza tra
il tasso di interesse previsto in CI. 7.54.1 e quello stabilito con la riforma
giustinianea contenuta in CI. 7.54.2 e 3, di cui parleremo più avanti.
In ogni caso, per
quanto si è appena detto, ritengo che non si possa individuare con
esattezza il grado di diffusione del principio delle usurae rei iudicatae
all’epoca di Caracalla: non si hanno, infatti, elementi sufficienti per
stabilire se la statuizione contenuta in CI. 7.54.1 rappresentasse, come
vorrebbe il De Francisci, una singolare eccezione prevista in favore delle finanze
imperiali, ovvero andasse ad inserirsi, consolidandolo, in un quadro più
ampio di analoghe, magari ancora settorialmente circoscritte, prime
affermazioni del principio in parola.
Quest’ultima ipotesi, tuttavia, a me sembra maggiormente
avvalorata laddove si consideri che una previsione in via generale del
principio di applicazione delle usurae
rei iudicatae si trova, invece, in una costituzione di poco successiva,
emanata dall’imperatore Alessandro Severo, ora raccolta in CI. 4.32.13:
(Imp. Alex. A. Eustathiae et aliis):
In bonae fidei iudiciis, quale est etiam negotiorum gestorum, usurarum rationem
haberi certum est. Sed si finitum est iudicium sententia, quamvis minoris
condemnatio facta est non adiectis usuris, nec provocatio secuta est, finita retractanda
non sunt: nec eius temporis, quod post rem iudicatam fluxit, usurae ullo iure
postulantur nisi ex causa iudicati.
Nel rescritto in questione si afferma che nei giudizi di buona
fede, tra i quali rientra anche quello relativo ad una negotiorum gestio (fattispecie che evidentemente doveva essere
stata posta a fondamento del quesito rivolto all’imperatore) bisognava
senza dubbio alcuno (certum est)
computare anche gli interessi. Tuttavia, se il giudizio si fosse concluso e non
fosse stato proposto appello, la sentenza, benché contemplasse una
condanna minore del dovuto perché non erano state aggiunte le usurae, non poteva essere ritrattata
né si poteva chiedere che venissero pagate le usurae per il tempo trascorso dopo il giudicato, se non per una sola
ragione: appunto, ex causa iudicati.
Il De Francisci[48],
sulla scia del Lenel, il quale aveva individuato nell’inciso finale nisi ex causa iudicati
un’interpolazione, ha ritenuto che esso sia nella sua interezza un
glossema post-classico: ciò sia per ragioni formali - l’autore
sospetta, infatti, del “nisi così frequente nelle appiccicature
finali d’origine spuria” - che sostanziali, quali egli ha
creduto di poter ricavare dal contrasto tra la statuizione contenuta in CI.
4.32.13 e quanto prima si è visto essere affermato da Papiniano, e
asseverato da Paolo, in D. 22.1.1.2, laddove viene negata al giudice la
facoltà, nel far interporre cautiones
rei iudicatae, di comprendervi le usurae
futuri temporis. Si tratterebbe, dunque, di un’aggiunta
inconciliabile con i principi classici romani, in base ai quali dopo la
sentenza esiste un’unica obbligazione:“iudicatum facere oportere”, come si legge in Gai. 3.180;
poiché quella discendente dal giudicato è l’unica
obbligazione esistente che si sostituisce alle altre preesistenti, che hanno
costituito il motivo della controversia (D. 42.1.4.7), il tratto finale nisi-iudicati
potrebbe essere stato aggiunto, a parere del De Francisci, solo da chi, non
conoscendo i principi classici, potè pensare alla sopravvivenza di
un’altra causa debendi
all’infuori del iudicatum.
Ulteriori indizi di manipolazione del testo genuino, sarebbero rappresentati,
poi, secondo l’illustre studioso, dal fatto che in nessun altra norma che
ammette le usurae rei iudicatae esse
sarebbero computate dalla res iudicata, ma soltanto dalla fine del tempus iudicati, nonchè dalla
costatazione che l’inciso in questione non si trova nei Basilici 23.3.61,
e neppure nello scolio di Taleleo a questa costituzione né, tantomeno,
nello scolio di Teodoro a Bas. 13.2.37[49].
Se pure gli argomenti predetti sono sicuramenti degni di
considerazione, a mio avviso essi possono ritenersi superabili laddove non si
sopravvalutino i rilievi di ordine formale e si tenga altresì presente
lo scenario che si è delineato in precedenza circa la progressiva
emersione nella prassi giudiziaria dell’esigenza di tutelare
adeguatamente le ragioni di coloro che risultavano vittoriosi in giudizio.
Certo, si può convenire che la frase nisi ex causa iudicati sia un’espressione stilisticamente
poco felice e corretta, ma, tuttavia, non sembra che con essa si sia voluto
sostenere che accanto al giudicato permanessero altre ragioni di debito:
l’affermazione della cancelleria imperiale, preoccupata di escludere la
possibilità di applicare le usurae
nei giudizi di buona fede una volta che fosse divenuta definitiva la sentenza
che non le avesse applicate, solo incidentalmente si premura di ribadire che,
in ogni caso, sono dovute le usurae ex casusa iudicati, fondate cioè
su tutt’altra causa da quella per la quale era stato fatto il giudizio (negotiorum gestio).
Al riguardo può forse, allora, essere avanzata
un’altra possibile spiegazione: in CI. 4.32.13 si avrebbe una prima
affermazione del principio di applicazione delle usurae rei iudicatae, fatta sicuramente non ex professo bensì solo incidenter
tantum, a margine di una diversa questione concernente le preclusioni
all’esigibilità delle usurae
nei giudizi di buona fede; la cancelleria imperiale, così, avrebbe colto
l’occasione dello specifico quesito sottopostogli per chiarire meglio
anche la portata di un principio di recentissima introduzione.
Escludere radicalmente che per tutta l’epoca di Alessandro
Severo non si sia mai parlato di usurae
rei iudicatae[50]
sembra, allora, un’affermazione troppo categorica, fondata sul postulato
di un’estrema ed ininterrotta coerenza non solo tra le opinioni dei prudentes e la posizione della
cancelleria imperiale, ma anche al loro rispettivo interno, quale invece non
è dato quasi mai di rinvenire nella realtà storico-giuridica. Non
a caso, del resto, chi ha sostenuto tale tesi si è visto costretto ad
affermare l’interpolazione anche di una costituzione di Severo e
Caracalla, ora in CI. 7.46.1, dal cui contenuto, invece, emerge
l’ammissibilità della previsione di tali interessi[51]:
(Impp. Sev. et Ant. AA. Aaelianae): Cum iudicem, quoad pecunia
condemnationis soluta fuisset, pendendis usuris legem dixisse profitearis, non
contra iuris formam sententiam datam palam est.
Gli imperatori Severo
e Caracalla, sciogliendo il dubbio posto da una tale Eliana, decidevano nel
senso che il giudicante potesse validamente condannare il soccombente al
pagamento delle usurae rei iudicatae.
Il De Francisci
ritiene insiticio il non,
attribuendolo all’intervento dei compilatori, e giunge così ad
affermare che il tenore genuino della costituzione in esame fosse proprio
quello esattamente opposto: la cancelleria imperiale, cioè, avrebbe
escluso, secondo l’illustre studioso, la legittimità di una
sentenza che avesse contemplato anche la condanna al pagamento delle usurae rei iudicatae[52].
Peraltro, lo stesso autore[53]
afferma che il testo letterale, apparentemente, potrebbe essere difeso
rilevando che non si tratta tanto di usurae
rei iudicatae quanto di usurae
già stabilite dal giudice nella condemnatio:
ma anche tale interpretazione, a suo dire, porrebbe CI. 7.46.1 in
contraddizione con quanto affermato in D. 22.1.1.2, e ciò perchè
se, da un lato, è vero, infatti, che tale ultimo brano è tratto
dalle Quaestiones di Papiniano,
scritte sotto il regno di Severo, e dunque anteriormente alla costituzione
riportata in CI. 7.46.1, dall’altro, però, il principio è
ribadito nelle note paoline, la cui redazione è da attribuirsi proprio
al regno di Severo e Caracalla[54].
A mio avviso,
tuttavia, a favore dell’opinione avanzata non vi è alcun indizio
se non quello fornito dall’argomento logico che, in quanto tale,
mantiene, evidentemente, tutta la sua opinabilità. Ove, invece, si
condividesse il quadro che sin qui ho cercato di delineare, dalla statuizione
contenuta in CI. 7.46.1 sembra potersi ricavare un’ulteriore conferma che
nell’età antoniniana, e successivamente in quella severiana, vi
dovette essere un ampio dibattito sulla possibilità per il giudice di
disporre, nell’ambito della condemnatio,
il pagamento degli interessi per tutto il tempo in cui non venisse pagata la
somma indicata dalla sentenza; su tale controversa questione i giuristi
dovettero assumere posizioni variegate, così come, probabilmente,
all’inizio dovette essere disomogenea, e comunque non priva di
oscillazioni ed incertezze, anche la posizione assunta dalla stessa cancelleria
imperiale.
Il problema, in ogni
caso, era ormai posto e la prassi sollecitava una risposta definitiva la cui
urgenza si rivelava tanto maggiore quanto indefettibile diventava
l’esigenza di dare adeguata tutela alle pur giuste rivendicazioni di
coloro che, pur essendo risultati vittoriosi in giudizio, non riuscivano a
vedere soddisfatte in tempi ragionevoli le loro ragioni creditorie, sia a causa
del puro e semplice inadempimento dei condannati sia, talvolta, a causa dei
comportamenti maliziosi e delle tattiche giudiziarie meramente defatigatorie
poste in essere da costoro.
Una risposta soddisfacente,
capace di dirimere una volta per sempre tutti i dubbi, potè giocoforza
giungere, considerata anche la sempre più ampia statalizzazione del
processo, soltanto ex auctoritate
principis.
L’applicazione,
in via generale, degli interessi legali per il caso di inadempimento del
giudicato fu sancita in una costituzione del 380, degli imperatori Graziano,
Valentiniano e Teodosio, raccolta nel codice teodosiano:
CTh. 4.19.1pr.-2 [= Brev. 4.17.1pr.-2]
(Impp. Grat., Valentin. et Theodos. AA. Eutropio Pf. p.): Qui post iudicii
finem, exceptis duobus mensibus, quibus per leges solutionum nonnumquam est
concessa dilatio, moram afferent solutioni, a die patrati iudicii, quo obnoxii
redditi sunt, in duplicium centesimarum conveniantur usuras [extrinsecus
scilicet medietatem debiti, de quo litigatum est, sicut prius constitutum est,
inferentes] usque in id tempus, quo debitum solutione diluerint. Quod a nobis
exemplo aequabili ex iuris prisci est formulis introductum, ut, quia malae
fidei possessores in fructus duplos conveniuntur, aeque malae fidei debitores
simile damni periculum persequatur. 1. Sed tamen creditor, ternis interiectis
mensibus post sententiam, contestari moram debebit adhibitae tarditatis, ut ei
centesimarum duplicium fructus possit acquiri. Cavendum quippe ex diverso est
etiam contra illam malitiam creditorum, ne, iudicatis ad solutionem
cunctantibus, incipiant spe dupli foenoris imminere; quamquam iudicatum, si
hanc poenam a se removere festinet, contractam pecuniam vel apud iudices
obsignatam locare vel iudicio conveniat offerre, ut periculum duplicium
usurarum incurrere ex ea die, qua obnoxius esse coeperit, desistat. 2.
Distinguendum vero hoc quoque arbitrati sumus, ut, si contractus debiti ex
stipulatione descendit, et casu usurae per annorum curricula summam capitis
impleverint (scilicet ut quantitas sortis quantitati foenoris adaequetur), post
sententiam usurae duplices non utriusque debiti currant, sed capitis quidem
duplae, usurarum vero simplae. [Dat. XV. kal. Iul. Thessalonica, Gratiano V et Theodos.
I AA. conss. – a. 380].
Interpretatio
Debitor, qui post emissum iudicium, a
quo victus fuerit, debiti summam implere neglexerit, transactis duobus
mensibus, duplam centesimam debiti ipsius usque in diem solutionis se noverit
redditurum; ita tamen, ut medietatem rei iudicatae mox cogatur inferre: quia
non immerito sicut malae fidei possessor duplos fructus, ita et qui post
iudicium tardior ad reddendum fuerit, duplam centesimam reddat. Sed tamen et
hoc contra>creditorum malitiam, quibus debitores addicti fuerint, ordinamus,
ut non velint pro spe duplicandae centesimae suo vitio tardius exsequi, quod
fuerit iudicatum: unde debebit creditor, ternis interiectis mensibus, post
datum iudicium contestari, ut sic duplam centesimam possit exigere. Nam si
collectam pecuniam habuerit debitor et oblatam; et ille, qui vicit, noluerit
pro lucro duplandarum centesimarum accipere, signatam eam debitor apud idoneas
faciat sequestrari personas, ut damnum usurarum postea non possit incurrere.
Hoc quoque praecipimus observari, ut, si debitoris cautio cum omni firmitate
proferatur, et usurae per annos plures cum capitali debito se aequaverint, a
debitore amplius non petatur. Sane post iudicium duplam centesimam, quam reddi
iussimus, taliter solvat, ut de capitali debito tantum duplae usurae reddantur:
de illo vero, quod in usuris ante iudicium crevit, simpla tantum centesima
detur[55].
La costituzione in
esame, indirizzata al prefetto del pretorio Eutropio, prevede una disciplina a
valenza generale ed abbastanza articolata: innanzi tutto la fonte imperiale,
probabilmente per la prima volta, stabilì che il tempus iudicati fosse portato a due mesi, generalizzando
così un termine di dilazione che, a dire degli imperatori, sarebbe stato
talvolta concesso da alcune leggi – circa le quali null’altro,
però, ci viene riferito – con riguardo, è da supporre, ad
alcune ipotesi specifiche[56].
Trascorso tale
periodo, colui che non avesse ottemperato ad una sentenza giudiziaria che lo
condannava al pagamento di una determinata somma, avrebbe dovuto
obbligatoriamente pagare anche gli interessi, dal giorno dell’emanazione
della sentenza sino all’adempimento del giudicato, nella misura del 24% (duplam centesimam). Inoltre, come sembra,
il soccombente inadempiente sarebbe stato anche obbligato a pagare, a titolo di
penale, una somma pari alla metà del suo debito[57].
Come si è
già accennato, la maggior parte degli studiosi ritiene che CTh. 4.19.1
rappresenti la prima statuizione normativa in materia di usurae rei iudicatae[58];
dalla lettura delle disposizioni in essa contenute non sembra, tuttavia,
esservi alcun indizio che faccia propendere per ritenere che
l’introduzione degli interessi legali in caso di inadempimento del
giudicato rappresentasse una novità assoluta. Innovativo è,
invece, senza dubbio alcuno, quanto viene statuito circa la misura del tasso da
applicare (duplae centesimae, pari al
24%: dunque, il doppio del tasso normalmente corrente che era, appunto, la
centesima, vale a dire il 12%), tant’è vero che, nel porre tale
disciplina, si avverte la necessità di richiamare l’analogo
principio, di cui in CTh. 4.18.1, emanata nel 369[59],
in base al quale i possessori di mala fede sono tenuti alla restituzione del
doppio dei frutti, principio che, a dire della cancelleria imperiale,
affonderebbe le proprie radici nell’antichissimo diritto cui essa
dichiara apertamente di essersi ispirata[60]:
dunque, la ratio addotta per
giustificare la regola secondo cui le usurae
rei iudicatae devono applicarsi nella misura del doppio del tasso
normalmente consentito risiede nel fatto che i debitori inadempienti al
giudicato di condanna sono ritenuti malae
fidei debitores, come tali da punire alla stregua di qualunque altro
soggetto, in mala fede, detenga cose o denaro altrui.
Una volta enunciato
il principio dell’applicazione delle usurae
rei iudicatae, in CTh. 4.19.1.1 viene prevista anche un’adeguata
tutela dei debitori dalla malitia
creditorum, ossia dall’eventuale comportamento scorretto dei
creditori, i quali, nell’intento di approfittare della situazione,
lucrando un interesse pari al doppio di quella correntemente ammesso, avrebbero
potuto essere facilmente indotti a non esigere il loro credito: viene
così disposto che, per ottenere gli interessi legali al tasso della
doppia centesima, trascorsi tre mesi dall’emanazione della sentenza, essi
dovessero contestare la mora al condemnatus-debitore
e quindi promuovere l’esecuzione del giudicato. Dal canto loro, peraltro,
i debitori, nel caso che i propri creditori rifiutassero di accettare la somma
loro offerta, potevano liberarsi dal debito, nonchè dal pericolo di
applicazione dell’onerosa sanzione, attraverso il deposito presso i
giudici della somma in un contenitore munito di sigilli ovvero mediante
un’offerta formalizzata nel corso di un apposito giudizio (nell’Interpretatio, tuttavia, si parla solo
di un sequestro volontario presso persone idonee).
Anche la previsione
di apposite disposizioni finalizzate a reprimere gli abusi dei creditori mi induce
a ritenere che, molto probabilmente, la costituzione del 380 non dovette
sancire per la prima volta il principio dell’applicazione delle usurae rei iudicatae: la disciplina
contenuta in CTh. 4.19.1, invero, nella sua complessa articolazione, appare piuttosto
il frutto di un processo di elaborazione che, alla luce dei problemi
applicativi già incontrati in precedenza, tentava in qualche modo di
risolverli.
Ad analoghe
considerazioni, ritengo, muove anche l’esame di quanto è statuito,
con specifico riferimento agli interessi decorrenti su un debito nato ex stipulatione, in CTh. 4.19.1.2,
laddove si stabilisce che, qualora il loro ammontare avesse eguagliato il
capitale dovuto, dopo la sentenza le usurae
rei iudicatae sarebbero decorse nella misura della doppia centesima
esclusivamente su quest’ultimo, mentre sarebbe stata applicata la mera
centesima sugli interessi scaduti e non pagati[61].
Dunque, trascorsi due
mesi senza che il pagamento stabilito dalla sentenza fosse stato effettuato,
decorrevano gli interessi sia sul capitale dovuto sia sugli interessi
già maturati prima della sentenza: a tale proposito, si è parlato
di «eccezione al principio classico
che vieta in generale l’anatocismo»[62]:
in realtà, come già ho avuto modo di affermare altrove[63],
mi sembra che le disposizioni in questione, lungi dal rappresentare
un’eccezione ad una presunta regola in senso contrario, si inseriscano in
un più ampio quadro normativo finalizzato a disciplinare sì in
senso restrittivo, ma, quantomeno fino a Giustiniano, non certo a tacciare di
illiceità né tantomeno a reprimere una pratica socialmente assai
diffusa, quale appunto quella dell’applicazione degli interessi sugli
interessi[64].
Come è stato
condivisibilmente osservato[65],
anche se in CTh. 4.19.1.2 non viene ribadito il divieto delle usurae convenzionali eccedenti
l’ammontare del capitale (ultra
duplum), di cui in D. 12.6.26.1[66],
esso può, tuttavia, ritenersi ancora in vigore ed anzi presupposto dalla
costituzione medesima: in tal senso, infatti, si esprime chiaramente l’Interpretatio la quale, andando oltre il
testo stesso della costituzione, afferma che se la cautio relativa agli interessi è formalmente valida e le usurae hanno ormai raggiunto il
capitale, cessa per il debitore l’obbligo di corrispondere ulteriori
interessi convenzionali.
Del resto, è
proprio in correlazione con la regola del divieto di interessi pattizi ultra duplum che si comprende la ratio della norma contenuta nella
costituzione in esame: avendo infatti le usurae
eguagliato nel loro ammontare il capitale da restituire, dopo la sentenza gli
interessi giudiziari decorrono su di essi ad un tasso inferiore a quello che
viene applicato sul capitale di debito. Si tratta, cioè, con tutta
evidenza, di una norma che si inserisce nel quadro di quelle disposizioni,
enunciate immediatamente prima in CTh. 4.19.1.1 e in qualche modo ispirate ad
un favor debitoris[67].
Tuttavia, il limite del supra duplum
in senso stretto non si applica alle usurae
rei iudicatae: per queste, infatti, la costituzione di Teodosio prevede
espressamente che tali interessi decorrano fino all’avvenuto pagamento
della summa condemnationis (usque in id tempus quo debitum solutione
diluerit) e dunque, senza limiti né quantitativi né
temporali, così come, del resto, è sicuro che avvenisse,
più in generale, per gli interessi di mora, come ci è attestato
dal giurista Paolo in D. 31.87.1, secondo una regola la cui ratio è, peraltro, facilmente
comprensibile[68].
Il regime delle usurae rei iudicatae subì con
Giustiniano ampie e significative innovazioni. Occorre esaminare, innanzitutto,
una costituzione del 529, ora in CI. 7.54.2:
(Imp. Iustinianus A. Menae pp.): Eos, qui condemnati solutionem
pecuniarum, quas dependere iussi sunt, ultra quattuor menses a die
condemnationis vel, si provocatio fuerit oblata, a die confirmationis
sententiae connumerandos distulerint, centesimas usuras exigi praecipimus: nec
priscis legibus, quae duas centesimas eis inferebant, nec nostra sanctione,
quae dimidiam centesimae statuit, locum in eorum personam habentibus. [D. VII
id. April. Constantinopoli Decio cons.
– a. 529].
Con tale disposizione
l’imperatore interviene nella disciplina della materia sotto due profili:
innanzitutto, proroga ulteriormente il tempus
solutionis portandolo a quattro mesi, decorrenti dal giorno in cui è
stata emessa la sentenza di condanna ovvero, nel caso sia stato interposto
l’appello, dal giorno in cui è stata confermata la prima sentenza;
in secondo luogo, egli stabilisce che il tasso di interesse da applicare sia
quello della centesima (12%), e
ciò nella consapevolezza di discostarsi tanto dall’antico diritto,
che prevedeva al riguardo l’applicazione della doppia centesima, quanto da una propria recente
disposizione con la quale si era stabilito, in via tendenzialmente generale, un
tasso massimo per gli interessi convenzionali pari alla dimidia centesima (6%).
Del resto, pochi
giorni prima dell’emanazione di CI. 7.54.2, e precisamente il primo di
aprile del 529, Giustiniano aveva emanato un’altra costituzione che, pur
non riguardando specificamente le usurae
rei iudicatae, era destinata ad incidervi assai profondamente: anche a
queste ultime, infatti, veniva ad estendersi il divieto di decorrenza delle usurae ultra sortis summam, vale a dire di continuare ad applicare gli
interessi una volta che essi avessero eguagliato per ammontare il capitale
dovuto, secondo la disciplina contenuta, per l’appunto, in CI. 4.32.27.1-2 e valevole per tutti i
casi di applicazione degli interessi, senza alcuna eccezione o distinzione[69].
(Iustinianus
A. Menae pp.): 1. Cursum insuper usurarum ultra duplum minime procedere
concedimus, nec si pignora quaedam pro debito creditori data sint, quorum occasione
quaedam veteres leges et ultra duplum usuras exigi permittebant. 2. Quod et in
bonae fidei iudiciis ceterisque omnibus in quibus usurae exiguntur servari
censemus.[D. K. April. Constantinopoli Decio vc. Cons – a. 529].
Non a caso, del
resto, nelle due costituzioni che, nel codice giustinianeo, disciplinano le usurae rei iudicatae, CI. 7.54.2 e 3 (su
quest’ultima ci soffermeremo tra breve), non si rinviene alcuna
disposizione analoga a quella contenuta in CTh. 4.19.1pr. relativamente alla
decorrenza degli interessi senza limiti, fino all’integrale pagamento
della somma dovuta dal condannato: anche l’actio iudicati, con cui si fanno valere tali interessi, rientra,
infatti, nel novero di quei iudicia in
quibus usurae exiguntur in ordine ai quali, in CI. 4.32.27.2, era stato
sancito un generale divieto di interessi ultra
duplum, estendendolo altresì anche ad ipotesi precedentemente
consentite quali i iudicia bonae fidei
nonché a tutte le ipotesi in cui si applicassero interessi cd. legali[70].
Si tratta di una
disciplina che va ad inserirsi nel quadro più ampio delle misure
adottate in quegli anni dall’imperatore in materia di debiti e tassi di
interesse: come è noto, Giustiniano, infatti, nel 528 (CI. 4.32.26.1)[71]
aveva provveduto a dimezzare, in via generale e fatte salve alcune, più
o meno significative, eccezioni, il tasso massimo di interesse
convenzionalmente applicabile, istituendo, appunto, la cd. dimidia centesima (6%) e vietando espressamente, altresì, ai
giudici di applicare, con riguardo ai tassi, le consuetudini locali (mos regionis) allorché esse
fossero sfavorevoli ai debitori (CI. 4.32.26.2)[72].
Ancora, nel 535 (Nov. 121.2), abolendo espressamente un rescritto di contenuto
opposto dell’imperatore Caracalla (CI. 4.32.10)[73],
stabilì che, ai fini del rispetto del limite del duplum, di cui si è prima fatto cenno, si dovesse tenere
conto anche degli interessi pagati di tempo in tempo; inoltre, probabilmente
sempre nel medesimo anno[74]
(Nov. 138), dispose che il debitore conseguisse la liberazione da ogni sua
obbligazione laddove avesse corrisposto complessivamente al creditore, a titolo
di interessi, una somma pari al doppio del capitale ricevuto in prestito.
Nel suo complesso,
tale legislazione, come è stato osservato[75],
rappresenta un singolare documento del modo di procedere della cancelleria
giustinianea e del suo atteggiarsi di fronte alle istanze provenienti dalla
prassi, nonché delle oscillazioni, dei ripensamenti, delle necessarie
rettifiche di una politica legislativa che, se pur fortemente motivata in tema
di riduzione del saggio d’interesse, non potè, ovviamente,
sottrarsi al confronto con la realtà della situazione economica
nè alle pressioni di determinate categorie sociali[76].
Nel vasto quadro
normativo ispirato ad un obiettivo di contenimento degli interessi spicca,
tuttavia, una costituzione di Giustiniano del 529, ora in CI. 4.32.28,
anch’essa destinata a produrre effetti assai incisivi, pur se
indirettamente, in tema di usurae rei
iudicatae. Con tale costituzione l’imperatore, sancisce, infatti, a
chiare lettere, un divieto generale ed assoluto di tutte le forme di
anatocismo: da quella, maggiormente evidente, degli interessi che decorrono su
altri interessi, a quella, per dir così surrettizia, della
capitalizzazione degli interessi scaduti con produzione di nuovi interessi
sull’intero coacervo così ottenuto. In CI. 4.32.28.pr.-1, infatti,
l’imperatore dispone che:
(Imp. Iustinianus A. Demostheni pp.):
Ut nullo modo usurae usurarum a debitoribus exigantur, et veteribus quidem
legibus constitutum fuerat, sed non perfectissime cautum. Si enim usuras in
sortem redigere fuerat concessum et totius summae usuras stipulari, quae
differentia erat debitoribus, qui re vera usurarum usuras exigebantur? Hoc
certe erat non rebus sed verbis tantummodo leges ponere. 1. Quapropter hac
apertissima lege definimus nullo modo licere cuidam usuras praeteriti vel
futuri temporis in sortem redigere et earum iterum usuras stipulari, sed, si
hoc fuerit subsecutum, usuras quidem semper usuras manere et nullum aliarum
usurarum incrementum sentire, sorti autem antiquae tantummodo incrementum
usurarum accedere. [PP. k. Oct. Chalcedone Decio vc. cons.- a. 529].
Giustiniano fa,
dunque, riferimento ad antiche leggi che avrebbero vietato del tutto, per il
passato, le usurae usurarum, ma a
tanto avrebbero provveduto in maniera non del tutto perfetta, non essendo stata
vietata l’incorporazione degli interessi nel capitale al fine di far
conseguentemente decorrere ulteriori interessi sull’intero nuovo
ammontare così ottenuto. A tale proposito, l’imperatore
stigmatizza che, in tal modo, per i debitori non era cambiato nulla:
così facendo, infatti - sostiene lo stesso Giustiniano - si era posto un
divieto puramente “a parole”, non certo nella sostanza (hoc certe erat non rebus sed verbis tantummodo
leges ponere). Pertanto, con una decisione a valenza generale,
l’imperatore dispone che in nessun modo sia consentito praticare
l’anatocismo integrando gli interessi, sia quelli già maturati che
quelli ancora da maturare, nel capitale e su tale somma complessivamente
ottenuta far decorrere nuovi interessi; egli aggiunge, inoltre, che, osservando
tale disposizione, gli interessi sarebbero rimasti sempre e soltanto tali e non
si sarebbero potuti incrementare con altri interessi, mentre il capitale originariamente
preso a prestito dal debitore avrebbe potuto essere aumentato soltanto degli
interessi, per dir così, semplici[77].
La proibizione
asoluta dell’anatocismo appare quindi il portato di una più vasta
politica di contenimento delle usurae,
probabilmente finalizzata a garantire esigenze di ordine sociale, impedendo che
venissero portate alla rovina masse di debitori[78],
e dunque anche a consolidare il regime politico-istituzionale giustinianeo,
prevenendo i disordini che sarebbero stati provocati dalle masse di debitori
finiti sul lastrico[79].
In tale disegno che, come si è visto, Giustiniano persegue a più
riprese, forse in ciò influenzato anche, in qualche misura, dai precetti
della religione cattolica da lui professata[80],
si inserisce pure il secondo intervento di Giustiniano in materia di
anatocismo, specificamente riferito alle usurae
rei iudicatae.
L’imperatore,
infatti, nel 531, due anni dopo il provvedimento adottato in CI. 4.32.28, emana
un’ulteriore costituzione, ora in CI. 7.54.3, con la quale dispone
l’abrogazione della disciplina posta da Teodosio nel 380 (CTh. 4.19.1,
sopra esaminata), e vieta del tutto l’anatocismo sugli interessi dovuti
in caso di inottemperanza ad un giudicato di condanna:
(Imp.
Iustinianus A. Iohanni pp.): Sancimus, ut si quis condemnatus fuerit, post
datas a nobis quadrimenstres indutias centesimas quidem usuras secundum naturam
iudicati eum compelli solvere, sed tantummodo sortis et non usurarum, quae
ex pristino contractu in condemnationem deductae sunt. Cum enim iam
constituimus usurarum usuras penitus esse delendas, nullum casum relinquimus,
ex quo huiusmodi machinatio possit induci. 1. Si enim sine emendatione
relinquatur, aliquid absurdum atque inelegans necesse est evenire, cum utiliter
ex contractibus descendentes plerumque minores centesimae ex nostra lege factae
sunt et necesse est minoribus usuris graviores supponi. Si enim ex iudicati
actione centesimae omnimodo currunt usurae, ex contractibus autem hoc raro
contingit in capitulis lege nostra tantummodo exceptis, huiusmodo iniquitatem
ipsa necessitas rerum introducebat. 2. Et ideo pio remedio causam corrigentes
sancimus sortis tantummodo usuras usque ad centesimam currentes ex iudicati actione
profligari, non autem usurarum quantascumque usuras. Si enim novatur iudicati
actione prior contractus, necesse est usurarum quidem, quae anterioris
contractus sunt, cursum post sententias inhiberi, alias autem usuras ex
iudicati actione tantummodo sortis procedere, et non ideo, quod forsitan
consummata est quantitas sortis et usurarum, totius summae usuras postea
colligi, sed sortis tantummodo. 3. Et cum antiquitas pessimo exemplo reis
quidem condemnatis laxamentum duorum mensum praestabat, fideiussores autem
eorum eodem uti beneficio non concedebat, ut liceret victoribus relictis
propter legem condemnatis personis a fideiussoribus eorum vel mandatoribus
statim pecunias vel res in condemnatione positas exigere, huiusmodi acerbitatem
resecantes sancimus quadrimenstres indutias, quas dedimus condemnatis, etiam ad
fideiussores eorum et mandatores extendi, ne legi fiat derogatum. Cum enim
interventor solvere compellatur et ipse reum coerceat ad invitam solutionem,
nullum condemnatus habebat nostrae sensum humanitatis, quia per medium
fideiussorem statim pecunias persolvere compellebatur. [D. V K. Dec. Constantinopoli post consulatum Lampadii et Orestis vv. cc.- a.
531].
L’intervento
normativo di Giustiniano si presenta molto articolato. Dopo aver ribadito che,
trascorso un tempo di dilazione pari a quattro mesi dall’emanazione della
sentenza, ovvero dalla sua conferma in appello, decorrono le usurae rei iudicatae, l’imperatore
specifica che tali interessi si applicano esclusivamente sul capitale dovuto in
base al contratto dal quale è scaturita la condanna e non sugli
interessi da questo nel frattempo prodotti (sed
tantummodo sortis et non usurarum). E la ratio di tale disposizione è subito enunciata: avendo
stabilito di eliminare alle radici gli interessi sugli interessi,
l’imperatore non aveva voluto far residuare nessuna ipotesi in relazione
alla quale potesse trovare spazio quella che viene da lui enfaticamente
definita una machinatio. Giustiniano,
dunque, aveva avvertito la sostanziale iniquità introdotta dalla sua
stessa legislazione nel momento in cui ammetteva, nel caso di inadempimento di
una condanna giudiziaria, quell’anatocismo che invece egli aveva
rigorosamente vietato per le convenzioni dei privati: di qui, pertanto, la
decisione di eliminare ogni contraddizione.
Con un linguaggio
ridondante, Giustiniano osservava che il suo nuovo intervento si rendeva
necessario al fine di evitare una situazione da lui definita assurda e
sconveniente: se da un lato, infatti, egli aveva ricondotto le usurae convenzionali al di sotto della centesima e, d’altro canto, nella
pratica, raramente i contratti potevano giungere a prevedere tale tasso di
interesse in virtù delle eccezioni consentite dalle disposizioni
imperiali, al contrario, accadeva che le usurae
decorrenti sulla res iudicata
venissero costantemente applicate nella misura della centesima, con la conseguenza che, in tal modo, si producesse una
sostanziale iniquità.
L’imperatore
ritenne, pertanto, di dover porre rimedio a tale situazione e, dopo aver ribadito
l’obbligo, da lui sancito precedentemente in CI. 7.54.2, di applicare il
tasso nella misura della centesima
anche per le usurae rei iudicate
(anziché quello della doppia centesima
introdotto da Teodosio e fino ad allora vigente), stabilì che in caso di
mancato pagamento, il condannato fosse tenuto a pagare gli interessi ma
soltanto sul capitale e non anche sugli interessi già maturati.
Giustiniano,
peraltro, non manca di fornire un’argomentazione anche di taglio
tecnico-giuridico al divieto da lui posto: egli spiega, infatti, che, se con
l’actio iudicati viene ad
essere novato il precedente contratto dal quale scaturivano gli interessi,
allora, così come è inibito, dopo la sentenza, l’ulteriore
corso degli interessi derivanti dal contratto, così pure le usurae derivanti dal giudicato dovranno
scaturire esclusivamente dal capitale, non potendosi ritenere fusi insieme la
sorte capitale e gli interessi al fine di far decorrere ulteriori interessi
legali sul loro complessivo ammontare[81].
Infine, in CI. 7.54.3.3, Giustiniano interviene a porre rimedio
anche ad un’altra situazione di iniqua che egli pure aveva avuto modo di
rilevare. Infatti, secondo quello che l’imperatore medesimo considerava
il pessimo modello vigente nell’antichità, la proroga di due mesi
accordata a coloro che erano risultati soccombenti nella lite non veniva
concessa anche ai loro fideiussori: pertanto, i vincitori della lite potevano
lecitamente pretendere dai garanti dei condannati che adempissero
immediatamente il giudicato di condanna, e dunque che provvedessero al
pagamento delle somme ovvero alla consegna delle res: si trattava di una sopravvivenza del regime classico
così efficacemente delineato in D. 46.7.1 (Paulus libro vicensimo
quarto ad edictum):
In stipulatione iudicatum solvi post
rem iudicatam statim dies cedit, sed exactio in tempus reo principali indultum
differtur.
L’imperatore decide allora di porre fine a
quest’ulteriore disparità di trattamento (huiusmodi acerbitatem resecantes), concedendo ai fideiussori ed ai
mandanti, senza consentire che vi fosse la possibilità di derogarvi
validamente, il medesimo termine di dilazione concesso ai debitori condannati,
tempo che pure viene fissato in quattro mesi. Del resto, soggiunge
l’imperatore, nel caso in cui si fosse costretto il garante a pagare,
questi avrebbe anch’egli immediatamente esercitato il suo diritto di
regresso nei confronti del debitore condannato il quale, pertanto, non avrebbe
così realmente beneficiato del periodo di dilazione che l’humanitas del sovrano gli aveva, invece,
voluto concedere[82].
[1] Così P. DE
FRANCISCI, Appunti esegetici intorno alle
“usurae rei iudicatae”, in
Saggi romanistici, I, Pavia 1913, 61, il quale ricordava altresì che
il tema era stato pochissimo trattato anche dalla dottrina più antica: vi
sono, infatti, in proposito, soltanto delle brevi osservazioni di
BETHMANN-HOLLWEG, Der römischen Civilprozess, Bonn 1865,
II.2, 633 s. e III, 297, nonchè una nota di O. LENEL, Das Edictum
Perpetuum2, 428 nt. 1, nella quale l’illustre Maestro
tedesco, come meglio si vedrà più avanti, avanza alcuni dubbi
circa la genuinità del periodo finale di CI. 4.32.13 che, appunto,
accenna alle usurae ex causa iudicati.
[2] Come tutti sanno, il
contenuto sempre pecuniario dell’obligatio
iudicati trae origine già dalla procedura per legis actiones: nella manus
iniectio, infatti, l’attore, come si apprende da Gai. 4.21, faceva
riferimento ad una somma di denaro a lui dovuta dal iudicatus; nel processo formulare, l’accertamento giudiziale
si concludeva necessariamente con una condanna a carattere pecuniario, come
è affermato chiaramente in Gai. 4.51: …iudex si condemnet, certam
pecuniam condemnare debet…, in perfetta corrispondenza con la
clausola edittale riferita all’actio
iudicati, riportata in D. 42.1.4.3: condemnatus ut pecuniam solvat…,
su cui amplius più avanti nel
testo. È altrettanto noto che, invece, in età giustinianea, nella
cognitio extra ordinem, qualora non
si trattasse di debiti di somme di denaro, si condannava a dare o a restituire
la cosa stessa (v. D. 6.1.68; D. 42.1.13.1; I. 4.6.32) e non la sua aestimatio, ricorrendosi alla condanna
pecuniaria solo in via eccezionale. Per più ampi ragguagli, si veda C.
GIOFFREDI, Su l'origine della condemnatio
pecuniaria e la stuttura del processo romano, in SDHI. 12 (1946) 136 ss.; U. LÜBTOW, Ursprung und entwicklung der «condemnatio pecuniaria»,
in ZSS. 68 (1951) 320 ss.; R.
TAUBENSCHLAG, Die condemnatio pecuniaria
im Rechte der Papyri, in Mélanges
Henri Lévy-Bruhl, 297 ss.; M.N. BAPTISTA, Condemnatio pecuniaria, in Romanitas
10 (1970) 349 ss.; H. BLANK, Condemnatio
pecuniaria und Sachzugriff, in ZSS.
99 (1982) 303 ss.; A. BURDESE, Sulla
condanna pecuniaria nel processo civile romano, in Seminarios Complutenses de Derecho romano I: Cuestiones de Jurisprudencia
y Proceso, Madrid 1990, 175 ss.; A. ROMANO, Condanna in ipsam rem e condanna pecuniaria nella storia del processo
romano, in Labeo 28 (1982) 131
ss., nonché, EAD., Economia
naturale ed economia monetaria nella storia della condanna arcaica, Milano
1986.
[3] Sull’obligatio iudicati v., in particolare,
B. BIONDI, Appunti intorno alla sentenza nel processo civile
romano, in Studi Bonfante 4, Milano 1930, 61 ss.,
nonché l’ampia letteratura cit. in C. BUZZACCHI, Studi sull’actio iudicati nel processo
romano classico, Milano 1996.
[4] Com’è
noto, non si aveva però una novazione in senso tecnico: per tutti, v. F.
BONIFACIO, La novazione nel diritto
romano, Napoli 1950, 62 ss. Per
quanto concerne il problema relativo alla possibilità che l’obligatio iudicati sorgesse anche da una
confessio cfr., amplius, F.
[5] Sulla struttura e la
funzione dell’actio iudicati
sono state avanzate diverse ipotesi: si segnalano, in particolare, gli studi di
EISELE, Über ‘actio
iudicati’ und Nichtigkeitsbeschwerde, in Abhandlungen zum römischen Civilprocess, Freiburg 1889, 125 ss.; WENGER, Zur Lehre von der ’actio iudicati’, Graz 1901; F.
[6] Sul concetto di veteres, utile la lettura di F. HORAK, Wer waren die veteres? Zur Terminologie der
Klassischen römischen Juristen, in
Vestigia Iuris Romani. Festschrift für
G. Wesener, Graz 1992, 201 ss.
[7] Per un’analisi
semantica dell’espressione iudicatum
facere, cfr. A. SALOMONE, «Iudicatum
facere». Per una storia terminologica, in Index 25 (1997) 1 ss. L’autrice afferma che
l’espressione iudicatum facere
debba farsi risalire alle XII Tavole e ad un processo in cui probabilmente
ancora non esisteva la condemnatio
pecuniaria, sicchè eseguire il giudicato copriva un arco di
comportamenti molto più esteso del mero pagamento della summa condemnationis. Man mano che si affermò e consolidò
l’idea che dalla res iudicata
discendesse un’obligatio,
l’espressione iudicatum facere,
quale oggetto di un oportere,
rappresentò per i giuristi repubblicani una concettualizzazione nuova,
formulata mediante l’impiego di un’espressione antica. In altri
termini, i veteres, lavorando attorno
alle prime esperienze della procedura formulare, per le loro elaborazioni
teoriche sulla obligatio iudicati
avrebbero continuato ad utilizzare la terminologia da secoli invalsa per
raffigurare l’esecuzione del giudicato: l’ampia accezione del verbo
facere, infatti, non frapponeva alcun
ostacolo a che si continuasse a rispettare quella radicata tradizione
terminologica, anche quando, in ragione della natura pecuniaria della condemnatio formulare, sarebbe stato
senz’altro più appropriato utilizzare l’espressione iudicatum solvere. Quest’ultima, invece, fu utilizzata e si
consolidò attorno alla cautio
destinata a prenderne il nome: secondo l’Autrice ciò avvenne
perché i veteres dovettero
avere qualche difficoltà ad impiegare solvere per indicare un comportamento a cui si era tenuti in base
non ad una promissio ma in
virtù della sententia iudicis.
[8] L’ultima frase,
da ex magna a sententiam, è per lo più ritenuta
un’interpolazione: l’opinione da attribuire ad Ulpiano, secondo la
quale la posizione di Labeone dovrebbe essere seguita solo in casi eccezionali,
sarebbe un’aggiunta dei compilatori, per i quali era sicuramente ammissibile
un adempimento dell’obligatio
iudicati diverso dal pagamento: sul punto si vedano le osservazioni di
[10] Gai. 3.173: Est et alia species imaginariae solutionis,
per aes et libram; quod et ipsum genus certis in causis receptum est, veluti si
quid eo nomine debeatur, quod per aes et libram gestum sit, sive quid ex
iudicati causa debeatur. 174: Adhibentur
non minus quam quinque testes et libripens; deinde is qui liberatur, ita
oportet loquatur: quod ego tibi tot milibus condemnatus sum, me eo nomine a te
solvo liberoque hoc aere aeneaque libra. Hanc tibi libram primam postremamque
expendo secundum legem publicam. Deinde asse percutit libram eumque dat ei a
quo liberatur, veluti solvendi causa. Cfr.
R. KNÜTEL, Zum Prinzip der formalen
Korrespondenz im römischen Recht,
in ZSS. 88 (1971) 67 ss., in part. 74; KASER, ’Unmittelbare Vollstreckbarkeit',
cit. 100 ss., in part. 109. Certamente, in età classica, il ricorso alla
solutio per aes et libram fu
utilizzato solo qualora l’intento delle parti era quello di rimettere il
debito, mentre normalmente per il pagamento si aveva una semplice solutio: cfr. V. ARANGIO-RUIZ,
Istituzioni di diritto romano14, Napoli 1960, 395;
[12] Il brano è
stato sospettato di alterazioni in più parti; tuttavia, fatta eccezione
per i termini constitutos e constitutorum, da sostituire, con ogni
probabilità, con l’originario riferimento ai triginta dies che rappresentavano il tempus solutionis, per il resto non vi sono elementi decisivi per
escludere la sostanziale genuinità del passo: per un sintetico
ragguaglio su tale questione, v. BUZZACCHI, Studi
sull’actio iudicati, cit. 60 ss. Più di recente, sul tema
della datio in solutum, A. SACCOCCIO, La c.d. datio in solutum necessaria nel
sistema giuridico romanistico, in
Roma e America 14 (2002) 17 ss.
[13] Lo stesso principio varrà,
in via di estensione, oltre che per i iudicati,
anche per i confessi, come si ricava
da D. 42.2.6.7: Confessi utique post
confessionem tempora quasi ex causa iudicati habebunt.
[14] Per la collocazione
nella II tavola cfr., invece, O. BEHRENDS, Der
Zwölftafelprozess. Zur
Geschichte des römischen Obligationenrechts, Göttingen 1974, 128
nt. 74. Si veda, tuttavia, G. NICOSIA, Il
processo privato romano. 2. La
regolamentazione decemvirale. Corso di diritto romano, Catania 1984, 2, 9 e
135 ss.
[15] Si tratta di un
frammento della nota disceptatio
sulla legge delle XII Tavole tra il giurista Sesto Cecilio Africano e il
filosofo Favorino che ci è conservata appunto tramite l’opera di
Gellio. Circa il dibattito dottrinale relativo alle difficoltà stilistiche
di questo versetto, v. lett. cit. in S. RICCOBONO,
Leges2, 32.
[16] Propendono per una
sostanziale genuinità dei frammenti, pur non ritenendo che essi siano
riprodotti secondo l’originario tenore letterale: H. LÉVI-BRUHL, Recherches sur les actions de la loi, Paris 1960, 282; G. PUGLIESE, Il processo civile romano. 1. Le legis actiones. Corso di diritto romano, Roma 1962, 304 ss; BEHRENDS, Der Zwölftafelprozess, cit. 128 ss;
KASER, Unmittelbare Vollstreckarkeit,
cit. 87 nt. 7; NICOSIA, Il processo privato
romano, 2, cit. 137 nt. 125, B. ALBANESE, Il processo privato romano delle legis actiones, Palermo 1987, 37
nt. 107; BURDESE, Sulla condanna
pecuniaria, cit. 183 e nt. 27.
[17] Ritiene, tuttavia,
inaccettabile l’accostamento tra dies
iusti e iustitium ALBANESE, Il processo privato romano delle legis
actiones, cit. 36 nt. 102.
[18] Qualora il tempus iudicati non fosse stato
interamente consumato dal de cuius,
ne avrebbero beneficiato, per la parte rimanente, anche l’erede e gli
altri successori, come si legge in D. 42.1.29 (Modestinus libro
septimo pandectarum): Tempus, quod
datur iudicato, etiam heredibus eius ceterisque qui in locum eius succedunt
tribuitur (videlicet quod ex tempore deest), quia causae magis quam personae
beneficium praestituitur. Interessante la motivazione della soluzione data
da Modestino, secondo cui si trattava, infatti, di un beneficio concesso non
tanto in considerazione della persona del condemnatus
quanto della ragione stessa del debito.
[21] Per
[24] Né sussistono
elementi decisivi per sostenere che, con il processo formulare, alla funzione
più antica (ad expediendam
pecuniam) del tempus iudicati si
sarebbe potuta agiungere quella di differire gli effetti del iudicatum e, quindi, in primo luogo il
sorgere dell’obligatio iudicati,
secondo il dubbio manifestato dal Cuiacio, Opera,
8, Prato 1838, col. 234. Contro tale tesi si veda anche quanto detto in D.
16.2.16.1, riportato nella nota seguente, in base al quale sembra avvalorata
l’interpretazione secondo cui l’obligatio
iudicati venisse subito ad esistenza, benché non fosse
immediatamente escutibile.
[25] BUZZACCHI, Studi sull’actio iudicati, cit. 64
nt. 42. Peraltro viene ammessa la possibilità di compensazione anche prima
della scadenza del termine di dilazione: una cosa infatti, come dice Papiniano
in D. 16.2.16.1 (Papinianus libro tertio quaestionum), è
che il termine dell’obbligazione non sia ancora maturato, un’altra
invece concedere, per una valutazione più conforme al senso di humanitas, del tempo per il pagamento: Cum intra diem ad iudicati exsecutionem
datum iudicatus Titio agit cum eodem Titio, qui et ipse pridem illi iudicatus
est, compensatio admittetur: aliud est enim diem obligationis non venisse, aliud
humanitatis gratia tempus indulgeri solutionis.
[26] Il WENGER, Actio iudicati, cit. 242 ss, in part.
245, giunge a supporre, benché con molta cautela, che la proroga del tempus iudicati nel processo formulare
riguardasse fattispecie particolari quali quelle delle azioni caratterizzate
dal beneficium competentiae o
dall’arbitratus de restituendo.
[27] BIONDI, Appunti intorno alla sentenza, cit. 65,
secondo cui il quesito sarebbe improponibile in quanto esorbitante dai principi
classici attinenti il proceso formulare nel quale il giudice non poteva
differire il pagamento del iudicatum
essendo il tempus iudicati fissato
dalla legge; G. PROVERA, La pluris
petitio nel processo romano, 1, La
procedura formulare, Torino 1958, 157
ss.; ID. Lezioni sul processo civile
giustinianeo, Torino 1989, 188
ss.;
[28] Per PH. E. HUSCHKE, Iurisprudentiae antejustinianae reliquias6,
Leipzig 1927, rist. 1988, 305, la facoltà di proroga il pretore
l’aveva per i iudicia imperio
continentia; mentre per BETHMANN-HOLLWEG, Der römischen
Civilprozess, II, cit. 633 nt. 21, il pretore si sarebbe genericamente
riservata la facoltà di prorogare il termine, mentre la possibilità
di abbreviarlo sarebbe stata ammessa soltanto con la procedura extra ordinem.
[30] Il tenore del
frammento e l’esempio proposto farebbero propendere per ritenere che si
tratti di cognitio extra ordinem:
così WENGER, Actio iudicati,
cit. 247; BIONDI, Appunti intorno alla
sentenza, cit. 82; F.
[31] Secondo DE FRANCISCI,
Appunti, cit. 72, il periodo finale vel minori viginti quinque annis subvenitur
sarebbe un’aggiunta post-classica; l’espressione statutum tempus è già
stato ritenuta interpolata dal Gradenwitz e dal Lenel. Dubbia sembrerebbe
altresì la classicità dell’enumerazione pro causae qualitate et quantitate vel
personarum obsequio vel contumacia; inoltre, il perraro sarebbe dubbio anche in D. 1.9.12 pr.
[36] Non si ha motivo di
escludere che ai giudicanti residuasse uno spazio di manovra anche dopo tali
interventi normativi, come sembra potersi ricavare sempre da D. 42.1.2.
[37] Secondo
l’opinione del GRADENWITZ, Intepolationen
in den Pandekten, in ZSS. 7.1
(1886) 52 s., a seguito di questa riforma vi sarebbe stata l’interpolazione
dei testi in cui si faceva riferimento alla durata di trenta giorni del tempus iudicati: cfr., ad es., D.
42.1.7.; D. 44.3.2; D. 16.2.16.1.
[38] L’obbligo di
corrispondere le usurae rei iudicate
sarebbe sconosciuto con riferimento al processo formulare: in tal senso cfr. DE
FRANCISCI, Appunti, cit. 62, secondo
il quale D. 22.1.1.2 escluderebbe chiaramente che il giudice se ne dovesse
preoccupare, anche solo attraverso la stipulatio
iudicatum solvi; pertanto sarebbe da ritenersi inesatto il richiamo del
DERNBURG-SOKOLOWSKI, System der Romischen
Recht, I, 262 nt.
[39] Sul tormentato
problema dell’apocrifia delle note di Paolo ed Ulpiano agli scritti
papinianei: cfr. S. SOLAZZI, Un responso
di Papiniano e una nota di Paolo in D. 27.9.13.1?, in AG. CXXXV, 1948, 130 ss.; SCHULZ, History of Roman legal science, Oxford 1946, 221; SANTALUCIA, Le note Pauline ed Ulpianee, cit. 49 ss.
Il problema fu avvertito già in antico, tanto da indurre Costantino, in
CTh. 1.4.1 del 321 d.C., a decretarne l’abolizione.
[40] Pertanto SANTALUCIA, Le note Pauline ed Ulpianee, cit. 64,
ritiene non condivisibili i rilievi espressi sulla genuinità della nota
paolina in questione dal BESELER, Beiträge
II, 25 s. e dal H. KRÜGER, Römische
Juristen und ihre Werke, in Studi
Bonfante 2, Milano 1930, 311 nt. 36, ritenendoli privi di qualsivoglia dimostrazione
e destinati a cedere di fronte ad una valutazione sotto il profilo sia formale
che sostanziale della nota medesima.
[43] Sull’impiego
diffuso del termine negotium, da
parte dei giuristi classici ed ancora nel tardo antico, per indicare il
processo, cfr. le osservazioni di G. FINAZZI, Ricerche in tema di negotiorum gestio I. Azione pretoria ed azione
civile, Napoli 1999, 36 ss., e bibliografia ivi cit. Contra ATZERI, I principi
fondamentali della gestione d’affari, I,1., Cagliari 1890, 139.
[44] Per più ampi
ragguagli sulle actiones utiles, si
vedano D. DAUBE, Utiliter agere, in IURA 11 (1960) 69 ss.; E. VALINO, Actiones utiles, Pamplona 1974, passim; R. SOTTY, Recherche sur les utiles actiones. La notion d'action utile en droit romain classique, Grenoble 1980, passim; R.
STOLMAR, Actio utilis. Band I: Die Genesis der
utilis actio aus der celsinischen Durchgangstheorie. 1. Teil, Sindelfingen 1984 nonché ID., Die Formula der actio, Sindelfingen
1992.
[49] DE FRANCISCI, Appunti, cit. 66. Tuttavia,
l’affermazione secondo cui in nessun altra fonte normativa le usurae decorrerebbero dalla res iudicata appare inesatta alla luce
di quanto espressamente affermato in tal senso da CTh. 4.19.1pr., su cui amplius al prg. seguente.
[51] Costituzione peraltro
ritenuta genuina dal Lenel, come lo stesso DE FRANCISCI, Appunti, cit. 66, invero, non manca di far notare.
[52] SANTALUCIA, Le note Pauline ed Ulpianee, op. loc. ult. cit., propende per seguire
DE FRANCISCI, ritenendo interpolato il non.
[54] Se poi, aggiunge DE
FRANCISCI, Appunti, cit. 67, si
ritenesse col BESELER, Beiträge,
II, cit. 25, che anziché a Paolo la nota vada attribuita ad un
glossatore post-classico, apparirebbe ancora più grave il contrasto tra
CI. 7.46.1 che consente al giudice di preoccuparsi anche del tempo successivo
alla sentenza e D. 22.1.1.2 in cui si nega al giudicante tale facoltà.
Dunque, in conclusione, l’autore ritiene di poter asserire che
nell’epoca classica le usurae rei
iudicatae fossero del tutto sconosciute: nel Digesto non ve ne sarebbe
traccia e le due costituzioni in cui esse sono menzionate, CI. 7.46.1 e CI.
4.32.13, una di Severo e Caracalla, l’altra di Alessandro Severo,
sarebbero interpolata l’una e glossata la seconda.
[55] Come rilevato dal DE
FRANCISCI, Appunti, cit. 68, questa
costituzione è stata pressoché trascurata dagli studiosi, fatta
eccezione per il Gotofredo (Cod. Theodos. Notae ad h.l.) e il Mitteis (Reichsrecht und
Volksrecht, cit. 514). In particolare il Gotofredo ha ritenuto che essa dovrebbe
connettersi con altre sei costituzioni del Teodosiano (Cth. 3.5.11; 6.1;
3.11.1; 9.27.2; 9.42.8.9) che portano tutte la medesima data del 17 giugno 380,
e con le quali gli imperatori avrebbero modificato molte delle materie
contenute nelle leggi sociali dell’epoca Augustea: ma la
eterogeneità delle materie è tale da far ritenere tale tesi una
mera congettura.
[56] Non è dato di
sapere quali fossero queste leges. Il
Gotofredo, op. loc. ult. cit., in via
meramente congetturale pensa a costituzioni di Costantino sulla base del fatto
che tale imperatore aveva emanato diverse disposizioni concernenti la
variazione di alcuni termini.
[57] Non è pacifica
l’interpretazione da dare al termine ‘medietas’: nel senso che imporrebbe, a titolo di penale, il
pagamento di una somma pari alla metà del debito, cfr. G. BILLETER, Geschichte des Zinsfusses im
griechisch-römischen Altertum bis auf Justinian, Leipzig 1898 - rist. Wiesbaden
1970, 284 ss., il quale, peraltro, ritiene tale interpretazione accettabile
solo sul piano dogmatico ma non su quello storico, propendendo per
l’interpolazione del passo in questione. Parla di penale anche MITTEIS, Reichsrecht und Volksrecht, cit. 541.
Secondo il DE FRANCISCI, Appunti,
cit. 74, vi sarebbe stata un’influenza greca sulla legislazione imperiale
la quale, con una costituzione anteriore andata perduta, avrebbe stabilito,
appunto, che chi non avesse eseguito il giudicato nel termine fissato avrebbe
dovuto pagare, a titolo di penale, tale sovrappiù.
[58] In tal senso DE
FRANCISCI, Appunti, cit. 61 ss. e 74,
il quale ritiene che la sua ipotesi sarebbe dimostrata anche dal tentativo che
gli imperatori fanno di giustificare questa loro innovazione richiamando CTh.
4.18.1, su cui subito dopo nel testo; analogamente E. BIANCHI, In tema di usura. Canoni conciliari e legislazione imperiale del IV secolo. II., in Athenaeum 62 (1984) 144. Diversamente,
G. CERVENCA, Contributo allo studio delle
«usurae» cd. legali, Milano 1969, 205 s., ritiene, invece, di
poter rinvenire dei precedenti della costituzione in esame in CI. 7.54.1 e,
dubitativamente, in CI. 4.32.13. Incerto sull’innovatività della
costituzione del 380 è BIONDI, Diritto
romano cristiano, cit. 228.
[60] Il DE FRANCISCI, Appunti, cit.
[62] Così CERVENCA,
Sul divieto delle cd. «usurae supra duplum», in Index 2 (1971) 293; ID. Contributo allo studio delle «
usurae» cd. legali, cit. 208, nt. 380.
[63] F. FASOLINO, L’anatocismo nell’esperienza
giuridica romana, in SDHI. 72
(2006) 415 ss., in part. 462 s.
[64] In definitiva, da
CTh. 4.19.1.1 sembra venire un’ulteriore conferma della assenza di
disposizioni in età pre-giustinianea che vietassero del tutto il
fenomeno dell’anatocismo: anzi, le ipotesi legalmente previste, specie
con riguardo agli interessi moratori giudiziari, lasciano intendere che, a livello
normativo, non vi era alcuna preclusione di fondo avverso gli interessi
composti, pur non mancandosi, al ricorrere di specifiche condizioni, di sancire
delle limitazioni, di volta in volta con riferimento al tasso applicabile
ovvero all’ammontare complessivo: cfr. amplius, FASOLINO, L’anatocismo, cit. 462 s.
[65] CERVENCA, Sul divieto,
cit. 293 ss.; ID., Contributo allo studio
delle« usurae» cd. legali, cit. 208 nt. 381. L’autore,
altresì, rilevando che nell’Interpretatio
il principio sull’effetto dell’aequatio
degli interessi al capitale è contenuto in un periodo distinto da quello
in cui si fa menzione del principio sul decorso della simpla centesima,
ipotizza che, nelle intenzioni dell’interprete, l’applicazione di
quest’ultima sugli interessi maturati e non pagati, non sia più
ritenuta condizionata all’avvenuta aequatio
degli interessi al capitale, ma si verificasse in ogni caso.
[66] D. 12.6.26.1 (Ulpianus
libro vicensimo sexto ad edictum): Supra
duplum autem usurae et usurarum usurae nec in stipulatum deduci nec exigi
possunt et solutae repetuntur, quemadmodum futurarum usurarum usurae. Su
tale regola si vedano, per tutti, CERVENCA, Sul
divieto, cit. 291 ss. e L. SOLIDORO
MARUOTTI, Sulla disciplina degli
interessi convenzionali nell’età
imperiale, in Index 25 (1997) 555
ss.
[67] Dubita che in ordine
alla costituzione in esame possa riscontrarsi una qualche influenza del
cristianesimo, BIANCHI, In tema di usura,
cit. 145: essa, infatti, avrebbe un
carattere eminentemente tecnico lontano da quelle tipiche figure retoriche,
usate in materia feneratizia, dagli scrittori cristiani, mentre le disposizioni
a favore dei debitori sarebbero dei meri temperamenti, volti a riequilibrare le
posizioni delle parti, evitando un ingiusto approfittamento dei creditori, di
una disciplina molto rigorosa nei confronti dei debitori.
[68] D. 31.87.1 (Paul. 14
responsorum): Usuras
fideicommissi post impletos annos viginti quinque puellae, ex quo mora facta
est, deberi respondi. quamvis enim constitutum sit, ut minoribus vigenti
quinque annis usurae omnimodo praestentur, tamen non pro mora hoc habendum est,
quam sufficit semel intervenisse, ut perpetuo debeantur. Sul passo, cfr.
CERVENCA, Contributo allo studio delle
«usurae» cd. legali, cit. 185 ss., e letteratura
ivi citata.
[69] Per approfondimenti,
v. CERVENCA, Sul divieto, cit. 299, nonché SOLIDORO MARUOTTI, Sulla disciplina degli interessi convenzionali, cit. 562.
[71] Super usurarum vero quantitate etiam generalem sanctionem facere
necessarium esse duximus, veterem duram et gravissimam earum molem ad
mediocritatem deducentes.[D. Id. Dec. Constantinopoli Iustiniano PP. A. II
cons. - a. 528].
[72] Ideoque iubemus illustribus quidem personis sive eas praecedentibus
minime licere ultra tertiam partem centesimae usurarum in quocumque contractu
vili vel maximo stipulari: illos vero, qui ergasteriis praesunt vel aliquam
licitam negotiationem gerunt, usque ad bessem centesimae suam stipulationem moderari:
in traiecticiis autem contractibus vel specierum fenori dationibus usque ad
centesimam tantummodo licere stipulari nec eam excedere, licet veteribus
legibus hoc erat concessum: ceteros autem omnes homines dimidiam tantummodo
centesimae usurarum posse stipulari et eam quantitatem usurarum etiam in aliis
omnibus casibus nullo modo ampliari, in quibus citra stipulationem usurae exigi
solent. [D. Id. Dec. Constantinopoli Iustiniano PP. A. II cons. - a. 528].
[73] Usurae per tempora solutae non proficiunt ad dupli computationem. tunc
enim ultra sortis summam usurae non exiguntur, quotiens tempore solutionis
summa usurarum excedit eam computationem. (Ant. A. Crato et Donato mil.).
[74] Per un’ipotesi di
anticipazione della datazione al 533 v. M.G. BIANCHINI, La disciplina degli interessi
convenzionali nella legislazione giustinianea, in Studi in onore di A. Biscardi, II (Milano 1982) 404.
[76] Per le pressioni esercitate
dalla potente corporazione dei banchieri, v. BIANCHINI, op. loc. ult. cit.; nonché, in particolare, A. DIAZ
BAUTISTA, Les garanties bancaires dans la
législation de Justinien, in RIDA.
29 (1982) 165 ss., in part. 187 ss.; ID., Estudios
sobre la banca bizantina (Negocios bancarios en la legislación de
Justiniano), Murcia 1987; G. LUCHETTI, Banche,
banchieri e contratti bancari. Osservazioni a proposito di una recente ricerca
di A. Diaz Bautista, in BIDR.
94-95 (1991-1992) 449 ss.; più di recente, F.
[77] Per approfondimenti
si rinvia a FASOLINO, L’anatocismo,
cit. 456 ss. Con riferimento alla teoria richiamata (ed avallata) da
Giustiniano secondo cui i fructus,
cui sono equiparati gli interessi, non possono ritenersi a loro volta
produttivi di ulteriori frutti, cfr., amplius,
R. CARDILLI, Dalla regola romana dell’usura pecuniae in fructu
non est agli interessi pecuniari come frutti civili nei moderni codici civili, in Roma e America. Diritto romano comune 5
(1998) 3 ss.
[78] CASSIMATIS, Les intérèts, cit. 862;
A. PIKULSKA, Anatocisme. C. 4,32,28,1:
Usuras semper usuras manere, in RIDA.
45 (1998) 446 s.
[79] Di recente, si
è ipotizzato anche che sullo sfondo degli interventi di Giustiniano
possa ravvisarsi, piuttosto che un obiettivo di tutela dei debitori, un disegno
politico di mantenimento dell’ordine pubblico economico dell’impero
assoluto, nell’intento di affrontare la grave e profonda crisi del
mercato del credito che si sarebbe avuta in Occidente, sottoponendo ogni cosa
ad un penetrante controllo statale: così C. VITTORIA, Le «usurae usurarum»
convenzionali e l’ordine pubblico economico a Roma, in Labeo 49 (2003) 322: si tratta
però, a mio avviso, di un’impostazione del problema in chiave
eccessivamente modernizzante.
[80] È opinione
diffusa che la legislazione di Giustiniano sia influenzata dal pensiero dei
Padri della Chiesa e, più in generale, dalla dottrina cattolica:
così CASSIMATIS, Les
intérèts, cit. 33
ss.; KASER, Das römische Privatrecht2,
II, München 1975, 341 e nt. 48. Contra,
tuttavia, BIANCHINI, La disciplina degli
interessi convenzionali nella legislazione giustinianea, in Studi in onore di A. Biscardi, II,
Milano 1982, 392 nt. 8, la quale rileva che, fatta eccezione per la limitazione
del tasso degli interessi convenzionali, la normativa giustinianea appare in
contrasto con gli orientamenti espressi sia dalla patristica che dai canoni
conciliari. Nello stesso senso anche BIONDI, Diritto romano cristiano, cit. 243 ss. Più in generale,
sulla dottrina cattolica in materia di interessi v. M. GIACCHERO, Aspetti economici fra il III e il IV secolo:
prestito ad interesse e commercio nel pensiero dei Padri, in Augustinianum XVII (1977) 25 ss.;
“Fenus”, “usura”,
“pignus” e “fideiussio” negli scrittori patristici del
quarto secolo: Basilio, Gregorio, Ambrogio, Gerolamo, in AARC. 3, Perugia 1979, 443 ss.; ID. L’atteggiamento dei concili in materia
di usura dal IV al IX secolo, in AARC.
4, Perugia 1981, 305 ss. V. altresì P. GARBARINO, ‘Senatores in annis minoribus costituti’ e
‘usurae’. Contributo all’esegesi di CTh. 2,33,3, in
BIDR. 30 (1988) 342 ss.; da
ultimo, per utili ragguagli sull’influenza dell’etica cristiana
sulla disciplina prevista, nei secoli, per il fenomeno dell’anatocismo,
con particolare riguardo ai principali paesi europei cfr. M. GÓMEZ ROJO,
Historia juridica del anatocismo,
Barcelona
[81] Cfr. G. SACCONI, Studi sulla litis contestatio nel processo formulare, Napoli 1982, 69 s.
e 84 s., la quale sottolinea come l’effetto preclusivo derivante dalla
pronunzia della sentenza viene inteso, anche dalla cancelleria imperiale
dell’età giustinianea, come un novare.
[82] Come ha messo in luce
A. PALMA, Humanior interpretatio.
“Humanitas” nell’interpretazione e nella normazione da
Adriano ai Severi, Torino