N. 5 – 2006 – Tradizione Romana

 

Francesco Fasolino

Università di Salerno

 

Le usurae rei iudicatae

 

 

Sommario: 1. Iudicatum facere oportere e tempus iudicati. – 2. Le usurae rei iudicatae nella giurisprudenza dell’età classica… – 3. …e nelle costituzioni imperiali. – 4. L’affermazione del principio in CTh. 4.19.1. – 5. La riforma di Giustiniano.

 

1. – Iudicatum facere oportere e tempus iudicati

 

Il tema delle usurae rei iudicatae, vale a dire degli interessi legalmente dovuti in relazione al debito derivante da una sentenza di condanna non eseguita, come già ebbe a rilevare, agli inizi del secolo scorso, il De Francisci[1], è stato «lasciato nell’ombra» dagli studi romanistici. In effetti, si tratta di un argomento poco indagato sul quale, tuttavia, mi sembra utile svolgere qualche riflessione, anche in considerazione delle sue strette interrelazioni con altri temi, assai rilevanti, quali gli effetti del iudicatum, il tempus iudicati e il regime giuridico delle usurae in generale.

È noto che, fino allo scorcio dell’età classica, allorchè l’azione di accertamento si concludeva con una sentenza del iudex che imponeva il pagamento di una determinata somma di denaro[2] al soccombente, sorgeva in capo a quest’ultimo la cosiddetta obligatio iudicati:[3] qualunque fosse, infatti, il rapporto di diritto sostanziale da cui aveva avuto origine l’azione di accertamento, esso, a seguito della sentenza, si trasformava nel vincolo obbligatorio che da questa scaturiva[4].

L’esecuzione del giudicato ad opera della parte risultata soccombente nella lite venne, invero, ben presto concettualizzata dai giuristi romani come oggetto di una vera e propria obbligazione, che essi classificarono come un oportere, sul cui fondamento poteva essere intentata, in caso di mancato adempimento, l’actio iudicati[5].

A tale riguardo la testimonianza di Gaio è estremamente chiara: già quelli che egli definisce i veteres, vale a dire, con ogni probabilità, i giuristi della tarda età repubblicana[6], avevano ben chiaro che il condemnatus era tenuto ex causa iudicati, e dunque che la sua obbligazione era fondata su quanto era stato deciso dal iudex nella sentenza di condanna ed aveva per oggetto iudicatum facere[7], appunto cioè, eseguire la condanna.

 

Gai. 3.180: Tollitur adhuc obligatio litis contestatione, si modo legitimo iudicio>fuerit actum: nam tunc obligatio quidem principalis dissolvitur, incipit>autem teneri reus litis contestatione. Sed si condemnatus sit, sublata litis contestatione incipit ex causa iudicati teneri. Et hoc est, quod apud veteres scriptum est ante litem contestatam dare debitorem oportere, post litem contestatam condemnari oportere, post condemnationem iudicatum facere oportere.

 

Dunque, l’obligatio iudicati, derivante dal iudicatum, normalmente si concretava nell’obbligo del soccombente di pagare al vincitore della controversia la somma pecuniaria stabilita dal giudice nella sentenza (a iudicato ergo hoc exigitur, ut pecuniam solvat), come è enunciato a chiare lettere in D. 42.1.4.3 (Ulpianus libro quinquagensimo octavo ad edictum):

 

Ait praetor: ‘condemnatus, ut pecuniam solvat’. A iudicato ergo hoc exigitur, ut pecuniam solvat. Quid ergo, si solvere quidem paratus non sit, satisfacere autem paratus sit, quid dicimus? Et ait Labeo debuisse hoc quoque adici ‘neque eo nomine satisfaciat’: fieri enim posse, ut idoneum expromissorem habeat. Sed ratio pecuniae exigendae haec fuit, quod noluerit praetor obligationes ex obligationibus fieri: idcirco ait ‘ut pecunia solvatur’. Ex magna tamen et idonea causa accedendum erit ad Labeonis sententiam.

 

Il brano[8], peraltro, appare di estremo interesse non soltanto perché in esso viene riportata quella che doveva essere l’enunciazione edittale relativa all’obligatio iudicati (‘condemnatus, ut pecuniam solvat’), ma anche perché vi si esamina la questione relativa alla possibilità di adempiere l’obligatio iudicati in maniera diversa dal pagamento della summa condemnationis. A tale riguardo, infatti, Labeone esclude categoricamente la possibilità per il condannato di offrire forme alternative di satisfactio al vincitore della lite: ciò in quanto, secondo il giurista augusteo, nell’editto del pretore non si rinveniva la frase “neque eo nomine satisfaciat” proprio perché il magistrato, nel porre l’obbligo di eseguire il giudicato, non aveva voluto che nascessero ulteriori obbligazioni da quelle precedenti. In altri termini, lo scopo era quello di evitare che il rapporto dedotto in giudizio si perpetuasse, consentendo, qualora l’obbligazione novata non venisse adempiuta, di riproporre in giudizio la medesima questione: il che, come è noto, non sarebbe stato possibile nel sistema formulare nel quale, invero, non era ammissibile una revisione del iudicatum.[9]

Solo in età classica avanzata si arrivò a ritenere che il giudicato potesse esere eseguito anche in altri modi diversi dal pagamento della summa condemnationis: ciò è quanto si afferma in D. 42.1.7 (Gaius libro ad edictum praetoris urbani titulo de re iudicata):

 

Intra dies constitutos, quamvis iudicati agi non possit, multis tamen modis iudicatum liberari posse hodie non dubitatur, quia constitutorum dierum spatium pro iudicato, non contra iudicatum per legem constitutum est.

 

Gaio ci dice, dunque, che ai suoi tempi (hodie), superate le vecchie dispute, si era giunti finalmente ad ammettere che la liberazione del condannato potesse avvenire non solo attraverso la solutio per aes et libram, che rappresentava, come si apprende da Gai. 3.173-174[10], la modalità normale di estinzione per i debiti derivanti ex causa iudicati, ma anche multis modis, vale a dire attraverso molte altre forme alternative le quali, peraltro, non vengono specificate neppure esemplificativamente: tuttavia, come sembra, non erano ammesse né la novatio dell’obligatio iudicati, eccettuato il caso in cui essa fosse utilizzata per rendere possibile una successiva acceptilatio, né la transazione[11].

Il passo accenna anche ad un’altra questione: quella relativa alla possibilità di adempiere, eventualmente in forme alternative, prima che fosse decorso il periodo di tempo stabilito (dies constitutos) nel quale non poteva essere richiesta l’esecuzione del giudicato di condanna. La risposta del giurista è positiva in considerazione del fatto che, come egli dice, tale dilazione è prevista in favore di colui che è stato giudicato e non contro di lui (quia constitutorum dierum spatium pro iudicato, non contra iudicatum per legem constitutum est)[12].

Il condemnatus, dunque, per procedere all’adempimento dell’obligatio iudicati, aveva a disposizione un determinato lasso di tempo prima dell’esito del quale il vincitore della lite non poteva agire, intentando l’actio iudicati, al fine di chiedere l’esecuzione della condanna pronunciata con la sentenza[13]: si tratta di un precetto risalente già all’età decemvirale, solitamente ricondotto alla Tab. 3.1[14] di cui ci fa menzione Aulo Gellio in N.A. 20.1.42-45:

 

Confessi igitur aeris ac debiti iudicatis triginta dies sunt dati conquirendae pecuniae causa, quam dissolverent: eosque dies decemviri iustos appellaverunt, velut quoddam iustitium, id est iuris inter eos quasi interstitionem quandam et cessationem, quibus diebus nihil cum his agi iure posset…Sic enim sunt, opinor, verba legis: Aeris confessi rebusque iure iudicatis triginta dies iusti sunto. Post deinde manus iniectio esto, in ius ducito…[15]

 

In N.A. 15.13.11 la norma viene ripetuta pressocchè negli stessi termini:

 

Confessi autem aeris, de quo facta confessio est, in XII tabulis scriptum his verbis: aeris confessi rebusque iudicatis XXX dies iusti sunto[16].

 

Dunque, nelle XII Tavole veniva disposto che, prima di procedere alla manus iniectio, bisognava attendere che fossero trascorsi trenta giorni dal momento della confessio avente ad oggetto un debito in denaro o dalle res iudicatae.

Lo stesso Gellio spiega che la ragione di questa dilazione concessa ai debitori stava nel consentire ad essi di poter reperire il denaro necessario per ottemperare al giudicato di condanna (conquirendae pecuniae causa), senza temere di essere coinvolti in ulteriori processi: come egli stesso, infatti, chiarisce, i giorni della dilazione erano qualificati come iusti proprio ad indicare che si trattava di una sorta di parentesi (velut quoddam iustitium, id est iuris inter eos quasi interstitionem quondam et cessationem) nella quale veniva concessa una tregua al condannato, contro il quale non potevano, per l’appunto, essere intentate altre azioni[17]. Analoga finalità al tempus iudicati viene riconosciuta anche da Gaio in 3.78:

 

Bona autem veneunt aut vivorum aut mortuorum: vivorum, velut eorum, qui fraudationis causa latitant nec absentes defenduntur; item eorum, qui ex lege Iulia bonis cedunt; item iudicatorum post tempus, quod eis partim lege XII tabularum, partim edicto praetoris ad expediendam pecuniam tribuitur. Mortuorum bona veneunt velut eorum, quibus certum est neque heredes neque bonorum possessores neque ullum alium iustum successorem existere.

 

Il periodo di dilazione concesso al condannato prima dell’esecuzione del giudicato serve a costui, come afferma il giurista, per procurarsi il denaro occorrente per estinguere il suo debito (ad expediendam pecuniam)[18].

Dal brano in esame, peraltro, apprendiamo che, all’epoca di Gaio, il tempus iudicati non era più categoricamente fissato in trenta giorni, ma era stabilito in parte dalle legge delle XII tavole, in parte dall’editto del pretore (partim partim …). In dottrina sono state avanzate diverse interpretazioni circa l’espressione usata da Gaio. Secondo alcuni[19], con essa il giurista avrebbe voluto affermare che nell’editto del pretore veniva riprodotta la norma decemvirale. A mio avviso, sembra, invece, più verosimile che la bipartizione gaiana sia da intendere nel senso che il termine iudicatus si riferisse sì allo stesso modo a tutti i soggetti condannati, ma che solo per i iudicati nei giudizi legittimi ci si potesse riallacciare al tempus iudicati come stabilito dalle XII tavole; altrettanto non doveva accadere, invece, per tutti gli altri processi, quelli quae imperio continentur, per i quali il termine per l’adempimento doveva essere indicato nell’editto del pretore[20]: anche laddove tale termine, come è probabile, fosse sempre fissato in trenta giorni, in ogni caso la sua fonte non era più nel diritto decemvirale bensì in quello onorario[21].

Proprio considerando che il tempus iudicati aveva lo scopo di consentire al debitore di procurarsi la somma da versare al vincitore della lite, qualche autore[22] ha ritenuto che, una volta trascorso il tempus iudicati, dovesse di nuovo essere accertata l’esistenza dell’obligatio iudicati e che, a tale scopo, fosse utilizzata proprio l’actio iudicati, mediante la quale, nel contraddittorio delle parti, si sarebbe nuovamente dovuta accertare la sussistenza del credito scaturente dal iudicatum. A tale riguardo, tuttavia, è stato giustamente osservato[23] che sarebbe stato quantomeno eccessivo, al fine di accertare la sopravvivenza dell’obligatio iudicati, prospettare il necessario esercizio di un’azione laddove al medesimo scopo si sarebbe potuto, molto più agevolmente, far ricorso alla causae cognitio del pretore. Peraltro, non vi sono elementi per ritenere che il mero trascorrere del tempus iudicati non rendesse incerta l’obligatio iudicati ma semplicemente eseguibile il iudicatum[24]: in età classica, ad ogni modo, l’agire per l’esecuzione prima che fossero trascorsi i trenta giorni del tempus iudicati configurava senz’altro un’ipotesi di pluris petitio tempore[25].

Considerata, dunque, la finalità del tempus iudicati, si può allora facilmente comprendere come i condemnati abbiano spesso cercato di ottenere una maggiore dilazione per ottemperare al giudicato di condanna; parimenti, con riferimento alle circostanze concrete del caso, il termine di trenta giorni normativamente fissato sarà talvolta potuto sembrare eccessivo, inducendo, pertanto, i vincitori della lite a fare pressioni per ottenere prima quanto loro dovuto. La dottrina non ha assunto una posizione concorde circa la possibilità che tali esigenze trovassero accoglimento già nell’ambito del processo formulare, con la concessione al iudex della facoltà di abbreviare ovvero prolungare il tempus iudicati; a tale specifico riguardo, il Wenger[26] propende per l’attendibilità di questa ipotesi sulla scorta di quanto affermato in D. 42.1.4.5: (Ulpianus libro quinquagensimo octavo ad edictum):

 

Si quis condemnatus sit, ut intra certos dies solvat, unde ei tempus iudicati actionis computamus, utrum ex quo sententia prolata est, an vero ex eo, ex quo dies statutus praeteriit? Sed si quidem minorem diem statuerit iudex tempore legitimo, repletur ex lege, quod sententiae iudicis deest: sin autem ampliorem numerum dierum sua definitione iudex amplexus est, computabitur reo et legitimum tempus et quod supra id iudex praestitit.

 

Nel frammento, che la dottrina prevalente ritiene integralmente manipolato[27], ci si interroga sulle modalità di computazione del tempus solutionis e ci si chiede, in particolare, se il termine fissato dal giudice per l’actio iudicati dovesse decorrere dalla pronuncia del giudice ovvero dopo che fosse trascorso il tempus iudicati normativamente previsto. Il frammento riporta due ipotesi diverse, cui corrispondono diverse risposte: si afferma, infatti, che se la dilazione concessa dal iudex fosse stata minore di quella stabilita ex lege, allora il tempus solutionis si sarebbe automaticamente protratto per tutta la durata legale, non applicandosi la decisione del giudice; se, invece, quest’ultimo avesse accordato una dilazione più lunga, allora il condannato avrebbe beneficiato sia del periodo normativamente fissato, sia di quello ulteriore concesso dal iudex.

Altri elementi a favore della sua tesi il Wenger ha ritenuto di poterli trovare nel riferimento, contenuto in Gai 3.78, alla potestà del pretore di fissare il termine per l’adempimento del giudicato grazie alla quale le suddette esigenze poterono, con ogni probabilità, essere soddisfatte in virtù della facoltà di proroga che il magistrato avrebbe avuto con riguardo ai iudicia imperio continentia[28].

Resta il fatto, però, che mentre, come è certo, il tempus iudicati era stabilito dalla legge, non vi sono esempi di formule in cui venga attribuito al giudice il potere di modificare questo regime[29]. Il potere del giudicante di modificare il tempus iudicati trovò, invece, un espresso riconoscimento nell’ambito nella cognitio extra-ordinem[30]: in D. 42.1.2 è detto, infatti, che tale termine può essere abbreviato o prolungato, a discrezione del giudice, a seconda del valore e della qualità della controversia, ovvero in considerazione della causa, della persona o della sua eventuale contumacia; inoltre, vi si afferma che assai raramente le sentenze si eseguono entro il termine stabilito, come nelle ipotesi in cui si attribuiscono alimenti ovvero si sovviene alle necessità dei minori di venticinque anni.

 

D. 42.1.2 (Ulpianus libro sexto ad edictum)

 

Qui pro tribunali cognoscit, non semper tempus iudicati servat, sed nonnumquam artat, nonnumquam prorogat pro causae qualitate et quantitate vel personarum obsequio vel contumacia. sed perraro intra statutum tempus sententiae exsequentur, veluti si alimenta constituantur vel minori viginti quinque annis subvenitur[31].

 

Analogamente, in D. 42.1.31 (Callistratus libro secundo cognitionum):

 

Debitoribus non tantum petentibus dies ad solvendum dandi sunt, sed et prorogandi, si res exigat: si qui tamen per contumaciam magis, quam quia non possint explicare pecuniam, differant solutionem, pignoribus captis compellendi sunt ad satisfaciendum ex forma, quam Cassio proconsuli divus Pius in haec verba rescripsit: ‘His, qui fatebuntur debere aut ex re iudicata necesse habebunt reddere, tempus ad solvendum detur, quod sufficere pro facultate cuiusque videbitur: eorum, qui intra diem vel ab initio datum vel ex ea causa postea prorogatum sibi non reddiderint, pignora capi eaque, si intra duos menses non solverint, vendantur: si quid ex pretiis supersit, reddatur ei, cuius pignora vendita erant’.

 

Nel passo in esame Callistrato enuncia il principio per il quale, ai debitori che ne facciano richiesta, non soltanto va concesso un periodo di dilazione per l’adempimento, ma tale periodo va anche successivamente prorogato qualora le circostanze lo esigano. Laddove venga concesso il differimento del pagamento, in caso di impossibilità di adempiere per contumacia del debitore o per impossibilità di procurarsi il denaro, il giurista ricorda che costoro possono essere costretti, in ogni caso, all’adempimento mediante pignoris capio, secondo quanto stabilito dall’imperatore Antonino Pio in un suo rescritto destinato al proconsole Cassio: in base ad esso, infatti, ai debitori, ivi compresi coloro che fossero tali in virtù di un giudicato di condanna, doveva essere dato per adempiere un tempo ritenuto sufficiente in relazione alle loro possibilità; una volta trascorso il periodo di dilazione, sia quello originariamente concesso sia quello eventualmente prorogato, senza che il debitore avesse adempiuto, allora si potevano prendere dei pegni e, dopo altri due mesi senza che fosse stato pagato il debito, si procedeva alla loro vendita, con soddisfacimento del creditore sul ricavato e con l’attribuzione al debitore dell’eventuale supero.

I testi esaminati consentono di ritenere che con la cognitio extra ordinem[32] venne generalizzata la facoltà per il giudicante di modificare il tempus iudicati, e, per lo più, come era del resto prevedibile, si assistette ad una dilatazione del periodo concesso al debitore.

Secondo qualche autore[33], le fonti finora considerate non sarebbero sufficienti ad escludere che comunque vi fosse un tempus iudicati legislativamente predeterminato anche nell’ambito della cognitio extra ordinem; si tratta di un’affermazione plausibile, anche alla luce del tenore letterale di D. 42.1.2: sulla scorta di quest’ultimo passo, tuttavia, si può fondatamente supporre che tale previsione normativa fosse frequentemente ed ampiamente derogata (sed perraro intra statutum tempus sententiae exsequentur).

D’altro canto, nel sistema della cognitio, il iudicatum non fu più una semplice fonte di obbligazione ma rappresentò un comando proveniente dall’autorità pubblica, cui bisognava necessariamente obbedire[34]: conseguentemente, venne meno la necessità di intentare un’apposita actio iudicati per far valere l’obligatio scaturente dall’azione di accertamento e l’attuazione del giudicato venne devoluta, senza bisogno di interporre alcun diaframma, alla stessa autorità statale che aveva emessa la sentenza e che, normalmente, provvedeva anche a porre in essere i relativi atti esecutivi[35].

In tale nuovo scenario, il tempus solutionis non precedeva più l’actio iudicati ma direttamente l’esecuzione della sentenza. Forse anche in considerazione di questo mutamento di funzione, la tendenza a prorogare il termine di dilazione fu recepita pure a livello normativo[36]: nel 380 d.C., con una costituzione ora raccolta in CTh. 4.19.1, fu generalizzato, come si vedrà meglio tra breve, quale tempus dilationis il termine di due mesi; nel 529 Giustiniano, intervenendo con ulteriori disposizioni normative, ora contenute in CI 7.54.3, su cui pure si tornerà diffusamente più avanti, portò il termine per l’esecuzione del giudicato a quattro mesi[37].

 

2. – Le usurae rei iudicatae nella giurisprudenza dell’età classica...

 

La prima cosa che emerge accingendosi allo studio delle usurae rei iudicatae è l’assenza di testi, nei Digesta, che ad esse si riferiscano espressamente. La quasi totalità degli autori[38] ne fa conseguire che il diritto classico non dovette conoscere le usurae rei iudicatae, come sembrerebbe confermato da D. 22.1.1.2 (Papinianus libro secundo quaestionum):

 

Nec tamen iudex iudicii bonae fidei recte iubebit interponi cautiones, ut, si tardius sententiae condemnatus paruerit, futuri temporis pendantur usurae, cum in potestate sit actoris iudicatum exigere. Paulus notat: quid enim pertinet ad officium iudicis post condemnationem futuri temporis tractatus?

 

Nel frammento Papiniano si esprime negativamente circa la possibilità, per il giudice di un giudizio di buona fede, di imporre una cauzione al soccombente affinché costui si impegni a pagare gli interessi sulla summa condemnationis nell’ipotesi che non esegua il iudicatum entro il tempo a tal fine concesso. Il giurista giustifica la propria decisione affermando che è nella potestà dell’attore esigere o meno l’adempimento del giudicato, e pertanto, non essendo sicuro se il vincitore della causa chiederà l’esecuzone dell’obligatio ex causa iudicati, sostenendo che sarebbe fuor di luogo disporre una cautio per le usurae relativamente ad un evento che, al momento dell’emanazione della sentenza, appare meramente ipotetico.

A sua volta, la nota paolina assevera il principio enunciato da Papiniano, esplicitando meglio, peraltro, quel collegamento a prima vista poco chiaro tra il potere dell’attore vincitore della lite di esigere l’ottemperanza del giudicato e il diniego della possibilità di imporre una cauzione per le usurae rei iudicatae: non rientra infatti, spiega Paolo, nell’officium iudicis una statuizione relativa ad un tempo successivo alla sentenza in quanto ancora non si sa se in quel tempo si realizzeranno i presupposti sui quali tale disposizione dovrebbe fondarsi [39].

È stato condivisibilmente osservato che la nota contenuta nel passo in esame si giustifica molto più se riferita propriamente a Paolo che non piuttosto alla mano di un rielaboratore postclassico, il quale difficilmente avrebbe potuto aderire all’opinione di Papiniano in un’epoca in cui si era oramai affermato l’opposto principio della decorrenza delle usurae rei iudicatae[40].

In realtà, il passo in esame, a mio avviso, appare indizio di una problematica che, in quell’epoca, comincia a proporsi e a richiedere una soluzione. È molto probabile, infatti, che l’esigenza di corrispondere gli interessi sulla summa condemnationis non fosse stata significativamente avvertita come tale fin quando il tempo concesso per la dilazione del pagamento fu mantenuto, abbastanza rigorosamente, nel termine di trenta giorni. Allorquando, invece, il tempus iudicati cominciò a subire più o meno ampie proroghe per venire incontro ai condannati, dandogli così modo e tempo di procurarsi il denaro necessario - prassi che, come si è visto, proprio con l’affermarsi della cognitio extra ordinem dovette prendere sempre più piede – all’incirca contemporaneamente si dovette anche cominciare ad avvertire l’esigenza di evitare che gli oneri connessi al protrarsi del tempus solutionis ricadessero interamente sul vincitore della lite. La fissazione a tal fine di una cautio ad opera del giudice dovette, pertanto, apparire un possibile rimedio (non a caso il passo riferito contempla l’ipotesi di un iudicium bonae fidei dove, com’è noto, il giudice aveva un parametro molto ampio di decisione che gli consentiva di prendere in considerazione una serie di elementi che oltrepassavano la mera impostazione giuridico-formale della controversia), permettendo all’attore vittorioso, in caso di inadempimento del giudicato di condanna, di esigere le usurae in virtù della cauzione a lui prestata.

Se Papiniano, e con lui Paolo, escludono l’ammissibilità di tale soluzione, ciò costituisce il risultato di considerazioni tutto sommato solo formalmente e teoricamente ineccepibili (e cioè, come si è visto, che, essendo in potestate actoris iudicatum exigere, il giudice non dovrebbe interessarsi dell’eventuale inadempimento del soccombente, ed inoltre, che esulerebbe dall’officium iudicis disporre per un tempo successivo alla condanna) ma, evidentemente proprio perché tali, inidonee a fornire un’adeguata e, soprattutto, definitiva, soluzione ad un bisogno concreto emergente, sempre più pressantemente sentito nella prassi giudiziaria.

Il problema, insomma, era ormai ineludibilmente posto: occorreva, pertanto, che fossero apprestati gli opportuni rimedi. In tal senso, la previsione dell’obbligo di corrispondere gli interessi cominciò ad imporsi particolarmente laddove la mancata esecuzione del giudicato da parte del soccombente rappresentava non solo l’ingiustificato inadempimento di un’obbligo ma, per qualche ragione, anche il risultato di una distorta utilizzazione degli strumenti processuali: è questa la fattispecie che appare affrontata in D. 22.1.41pr. (Modestinus libro tertio responsorum):

 

Tutor condemnatus per appellationem traxerat exsecutionem sententiae. Herennius Modestinus respondit eum qui de appellatione cognovit potuisse, si frustratoriam morandi causa appellationem interpositam animadverteret, etiam de usuris medii temporis eum condemnare.

 

Un tutore condannato aveva proposto appello contro la sentenza, facendo in modo così da protrarne l’esecuzione. Il giurista Modestino, rispondendendo ad un quesito rivoltogli, afferma che il giudice il quale conosce dell’appello, se si accorge che l’appellatio è stata interposta al solo fine di ritardare l’esecuzione del giudicato, e così frustrare le giuste pretese del vincitore della lite, deve condannare l’appellante a pagare anche gli interessi relativi al periodo di durata dell’appello.

È stato obiettato[41] che nel passo in esame non si farebbe questione di usurae rei iudicatae in senso stretto; se ciò è senz’altro vero, in quanto la condanna al pagamento delle usurae interviene soltanto all’esito dell’appellatio e con riferimento al tempo impiegato per lo svolgimento di tale fase, e dunque, in buona sostanza, va ad integrare la condanna già pronunciata in primo grado, tuttavia appare altrettanto innegabile che quello che il giurista si propone di reprimere è l’uso strumentale dell’appellatio, laddove proposta a fini puramente dilatori: in altri termini, anche qui si tratta di sanzionare, con il pagamento degli interessi, una sostanziale inottemperanza al giudicato, formalmente mascherata attraverso l’utilizzazione strumentale dei mezzi apprestati dall’ordinamento.

Neppure si potrebbe ritenere, a rigore, che si tratti di usurae rei iudicatae in D. 42.1.64 (Scaevola libro vicensimo quinto digestorum)[42]:

 

Negotiorum gestorum condemnatus appellavit et diu negotium tractum est: quaesitum est appellatione eius iniusta pronuntiata, an, quo tardius iudicatum sit, usurae pecuniae in condemnatum deductae medii temporis debeantur. Respondit secundum ea quae proponentur dandam utilem actionem.

 

Il caso sottoposto al parere del giurista Scevola è leggermente diverso da quello prima considerato da Modestino. Colui che è stato condannato in base ad un’actio negotiorum gestorum ha proposto appello contro la sentenza ma la sua appellatio è stata dichiarata iniusta; possono – questo è il quesito - essere richiesti gli interessi per il fatto che il processo[43] si è ingiustificatamente protratto e pertanto il giudicato si è avuto più tardi? Il giurista, in proposito, ritiene di poter concedere un’utilis actio[44] per ottenere il pagamento delle usurae in riferimento alla durata del processo di appello e ciò proprio in considerazione del fatto che l’appellatio è stata dichiarata dal giudicante infondata e pertanto si è protratto ingiustamente il tempo per arrivare al giudicato.

La regola appena esaminata viene sostanzialmente ribadita, estendendola anche ai giudizi di buona fede concernenti il tutore ovvero il curatore, in D. 49.1.24pr. (Scaevola libro quinto responsorum):

 

Negotiorum gestor vel tutor vel curator bona fide condemnati appellaverunt et diu negotium tractum est: quaesitum est appellatione eorum iniusta pronuntiata an, quia tardius iudicatum sit, usurae principalis pecuniae medii temporis debeantur. Respondit secundum ea quae proponerentur dandam utilem actionem.

 

Ancora una volta, a stretto rigore, si esula dal problema delle usurae rei iudicatae: il problema formalmente, infatti, riguarda la tardiva formazione del giudicato (tardius iudicatum sit), riconducibile all’interposizione di un appello infondato contro la sentenza di condanna.

Tuttavia, al fondo emerge la medesima esigenza: garantire che gli oneri connesi al fatto di dover aspettare un tempo più lungo per vedere soddisfatte le proprie pretese non ricadano su chi ha visto riconosciute le proprie ragioni all’esito della controversia. I giuristi romani sembrano proiettati in un ordine di idee prettamente concreto: l’appellatio, se dilatoria, strumentale, temeraria o semplicemente infondata, ha come risultato, in buona sostanza, quello di rinviare, senza una giusta causa, (la formazione e) l’esecuzione del giudicato: pertanto, il giudice dell’appello ne terrà conto, applicando le usurae per il tempo intermedio inutilmente trascorso.

È l’essenza stessa del giudizio di buona fede che impone di tenere in adeguato conto la sostanziale frustrazione delle aspettative del vincitore della lite: la concessione di un’actio utilis appare pertanto, a Scevola, lo strumento maggiormente idoneo a ristorare il vincitore dell’ingiustificata attesa che ha dovuto sopportare per veder adempiuto quanto riconosciutogli già precedentemente e che, se non fosse intervenuta l’appellatio iniusta, gli sarebbe dovuto essere corrisposto molto tempo prima.

Su questa scia, deve quindi ritenersi, fu sentito altresì come conforme alla buona fede obbligare la parte soccombente a corrispondere gli interessi sulla summa condemnationis in caso di inadempimento, una volta trascorso inutilmente il tempus solutionis all’uopo previsto dalla legge o dall’editto ovvero specificamente concesso dal giudice nella procedura extra ordinem: anche in tal caso, infatti, il vincitore andava ristorato per essere stato costretto ad aspettare più a lungo del dovuto l’adempimento di quanto gli spettava ex causa iudicati. La scarsità delle fonti disponibili, tuttavia, non consente di andare oltre l’individuazione del sostrato comune sotteso ad entrambi i cennati principi né tantomeno di ricostruire, con un maggior grado di approssimazione, le tappe storico-giuridiche attraverso le quali essi sono comparsi e si sono progressivamente affermati nell’ordinamento giuridico romano; del resto, l’imposizione in via generale dell’obbligo di corrispondere le usurae rei iudicatae, sancita, come meglio vedremo, in CTh. 4.19.1, ha, molto probabilmente, fatto sì che non restasse alcuna traccia del relativo dibattito dottrinale che, presumibilmente, l’aveva preceduta ed accompagnata.

 

3. – …e nelle costituzioni imperiali

 

L’esigenza posta dalla prassi di riconoscere e dare una giusta tutela alle ragioni di chi, pur essendo risultato vincitore di una lite giudiziaria, ciononostante vedesse adempiuto solo con notevole ritardo il giudicato di condanna da parte del soccombente fu, come era prevedibile e naturale che fosse, portata anche all’attenzione della cancelleria imperiale.

La più risalente ipotesi di applicazione delle usurae rei iudicatae si rinviene in una costituzione dell’imperatore Antonino Caracalla, ora raccolta in CI. 7.54.1:

 

(Imp. Ant. A. procuratoribus hereditatium): Fiscus, qui bona secundum se dicta sententia persequitur, eas quoque rationes habiturus est, ut, qui post legitimum tempus placitis non obtemperavit, usuram centesimam temporis quod postea fluxerit solvat.

 

Il fatto che questa costituzione fosse diretta ai procuratores hereditatum, funzionari addetti alle finanze imperiali[45], ha indotto autorevolissima dottrina[46] a ritenere che in essa venisse contemplato un privilegio del fisco; il De Francisci[47], in particolare, ne ha dedotto che, se all’epoca di Caracalla avesse avuto valenza generale l’obbligo di pagare le usurae rei iudicatae, sarebbe stato assurdo ribadirlo, con un’apposita statuizione normativa, in favore del fisco. Tale ragionamento, però, a mio avviso, sarebbe pienamente valido ed inoppugnabile se la costituzione in parola non fosse stata conservata proprio da Giustiniano nel suo codice, in un’epoca, dunque, nella quale il principio della decorrenza degli interessi legali sulla summa condemnationis era sicuramente pacifico e di portata generale. Noi non sappiamo, invero, quale ragione indusse i compilatori del Codice giustinianeo a raccogliere, ed anzi a collocare proprio in testa al titolo de usuris rei iudicatae del libro settimo, la costituzione di Antonino Caracalla. Volendo ipotizzare, in via meramente congetturale, una probabile spiegazione, si può immaginare che essi, più che a conservare memoria di un tanto risalente privilegio in favore dell’erario pubblico, erano interessati, probabilmente, a fugare i dubbi che dovettero essere stati avanzati, per qualche motivo che ignoriamo, circa l’applicazione, anche in tale specifico ambito, di tal genere di usurae; ovvero, ancora, si può supporre che ad essi interessava particolarmente evidenziare la consonanza tra il tasso di interesse previsto in CI. 7.54.1 e quello stabilito con la riforma giustinianea contenuta in CI. 7.54.2 e 3, di cui parleremo più avanti.

In ogni caso, per quanto si è appena detto, ritengo che non si possa individuare con esattezza il grado di diffusione del principio delle usurae rei iudicatae all’epoca di Caracalla: non si hanno, infatti, elementi sufficienti per stabilire se la statuizione contenuta in CI. 7.54.1 rappresentasse, come vorrebbe il De Francisci, una singolare eccezione prevista in favore delle finanze imperiali, ovvero andasse ad inserirsi, consolidandolo, in un quadro più ampio di analoghe, magari ancora settorialmente circoscritte, prime affermazioni del principio in parola.

Quest’ultima ipotesi, tuttavia, a me sembra maggiormente avvalorata laddove si consideri che una previsione in via generale del principio di applicazione delle usurae rei iudicatae si trova, invece, in una costituzione di poco successiva, emanata dall’imperatore Alessandro Severo, ora raccolta in CI. 4.32.13:

 

(Imp. Alex. A. Eustathiae et aliis): In bonae fidei iudiciis, quale est etiam negotiorum gestorum, usurarum rationem haberi certum est. Sed si finitum est iudicium sententia, quamvis minoris condemnatio facta est non adiectis usuris, nec provocatio secuta est, finita retractanda non sunt: nec eius temporis, quod post rem iudicatam fluxit, usurae ullo iure postulantur nisi ex causa iudicati.

 

Nel rescritto in questione si afferma che nei giudizi di buona fede, tra i quali rientra anche quello relativo ad una negotiorum gestio (fattispecie che evidentemente doveva essere stata posta a fondamento del quesito rivolto all’imperatore) bisognava senza dubbio alcuno (certum est) computare anche gli interessi. Tuttavia, se il giudizio si fosse concluso e non fosse stato proposto appello, la sentenza, benché contemplasse una condanna minore del dovuto perché non erano state aggiunte le usurae, non poteva essere ritrattata né si poteva chiedere che venissero pagate le usurae per il tempo trascorso dopo il giudicato, se non per una sola ragione: appunto, ex causa iudicati.

Il De Francisci[48], sulla scia del Lenel, il quale aveva individuato nell’inciso finale nisi ex causa iudicati un’interpolazione, ha ritenuto che esso sia nella sua interezza un glossema post-classico: ciò sia per ragioni formali - l’autore sospetta, infatti, del “nisi così frequente nelle appiccicature finali d’origine spuria” - che sostanziali, quali egli ha creduto di poter ricavare dal contrasto tra la statuizione contenuta in CI. 4.32.13 e quanto prima si è visto essere affermato da Papiniano, e asseverato da Paolo, in D. 22.1.1.2, laddove viene negata al giudice la facoltà, nel far interporre cautiones rei iudicatae, di comprendervi le usurae futuri temporis. Si tratterebbe, dunque, di un’aggiunta inconciliabile con i principi classici romani, in base ai quali dopo la sentenza esiste un’unica obbligazione:“iudicatum facere oportere”, come si legge in Gai. 3.180; poiché quella discendente dal giudicato è l’unica obbligazione esistente che si sostituisce alle altre preesistenti, che hanno costituito il motivo della controversia (D. 42.1.4.7), il tratto finale nisi-iudicati potrebbe essere stato aggiunto, a parere del De Francisci, solo da chi, non conoscendo i principi classici, potè pensare alla sopravvivenza di un’altra causa debendi all’infuori del iudicatum. Ulteriori indizi di manipolazione del testo genuino, sarebbero rappresentati, poi, secondo l’illustre studioso, dal fatto che in nessun altra norma che ammette le usurae rei iudicatae esse sarebbero computate dalla res iudicata, ma soltanto dalla fine del tempus iudicati, nonchè dalla costatazione che l’inciso in questione non si trova nei Basilici 23.3.61, e neppure nello scolio di Taleleo a questa costituzione né, tantomeno, nello scolio di Teodoro a Bas. 13.2.37[49].

Se pure gli argomenti predetti sono sicuramenti degni di considerazione, a mio avviso essi possono ritenersi superabili laddove non si sopravvalutino i rilievi di ordine formale e si tenga altresì presente lo scenario che si è delineato in precedenza circa la progressiva emersione nella prassi giudiziaria dell’esigenza di tutelare adeguatamente le ragioni di coloro che risultavano vittoriosi in giudizio.

Certo, si può convenire che la frase nisi ex causa iudicati sia un’espressione stilisticamente poco felice e corretta, ma, tuttavia, non sembra che con essa si sia voluto sostenere che accanto al giudicato permanessero altre ragioni di debito: l’affermazione della cancelleria imperiale, preoccupata di escludere la possibilità di applicare le usurae nei giudizi di buona fede una volta che fosse divenuta definitiva la sentenza che non le avesse applicate, solo incidentalmente si premura di ribadire che, in ogni caso, sono dovute le usurae ex casusa iudicati, fondate cioè su tutt’altra causa da quella per la quale era stato fatto il giudizio (negotiorum gestio).

Al riguardo può forse, allora, essere avanzata un’altra possibile spiegazione: in CI. 4.32.13 si avrebbe una prima affermazione del principio di applicazione delle usurae rei iudicatae, fatta sicuramente non ex professo bensì solo incidenter tantum, a margine di una diversa questione concernente le preclusioni all’esigibilità delle usurae nei giudizi di buona fede; la cancelleria imperiale, così, avrebbe colto l’occasione dello specifico quesito sottopostogli per chiarire meglio anche la portata di un principio di recentissima introduzione.

Escludere radicalmente che per tutta l’epoca di Alessandro Severo non si sia mai parlato di usurae rei iudicatae[50] sembra, allora, un’affermazione troppo categorica, fondata sul postulato di un’estrema ed ininterrotta coerenza non solo tra le opinioni dei prudentes e la posizione della cancelleria imperiale, ma anche al loro rispettivo interno, quale invece non è dato quasi mai di rinvenire nella realtà storico-giuridica. Non a caso, del resto, chi ha sostenuto tale tesi si è visto costretto ad affermare l’interpolazione anche di una costituzione di Severo e Caracalla, ora in CI. 7.46.1, dal cui contenuto, invece, emerge l’ammissibilità della previsione di tali interessi[51]:

 

(Impp. Sev. et Ant. AA. Aaelianae): Cum iudicem, quoad pecunia condemnationis soluta fuisset, pendendis usuris legem dixisse profitearis, non contra iuris formam sententiam datam palam est.

 

Gli imperatori Severo e Caracalla, sciogliendo il dubbio posto da una tale Eliana, decidevano nel senso che il giudicante potesse validamente condannare il soccombente al pagamento delle usurae rei iudicatae.

Il De Francisci ritiene insiticio il non, attribuendolo all’intervento dei compilatori, e giunge così ad affermare che il tenore genuino della costituzione in esame fosse proprio quello esattamente opposto: la cancelleria imperiale, cioè, avrebbe escluso, secondo l’illustre studioso, la legittimità di una sentenza che avesse contemplato anche la condanna al pagamento delle usurae rei iudicatae[52]. Peraltro, lo stesso autore[53] afferma che il testo letterale, apparentemente, potrebbe essere difeso rilevando che non si tratta tanto di usurae rei iudicatae quanto di usurae già stabilite dal giudice nella condemnatio: ma anche tale interpretazione, a suo dire, porrebbe CI. 7.46.1 in contraddizione con quanto affermato in D. 22.1.1.2, e ciò perchè se, da un lato, è vero, infatti, che tale ultimo brano è tratto dalle Quaestiones di Papiniano, scritte sotto il regno di Severo, e dunque anteriormente alla costituzione riportata in CI. 7.46.1, dall’altro, però, il principio è ribadito nelle note paoline, la cui redazione è da attribuirsi proprio al regno di Severo e Caracalla[54].

A mio avviso, tuttavia, a favore dell’opinione avanzata non vi è alcun indizio se non quello fornito dall’argomento logico che, in quanto tale, mantiene, evidentemente, tutta la sua opinabilità. Ove, invece, si condividesse il quadro che sin qui ho cercato di delineare, dalla statuizione contenuta in CI. 7.46.1 sembra potersi ricavare un’ulteriore conferma che nell’età antoniniana, e successivamente in quella severiana, vi dovette essere un ampio dibattito sulla possibilità per il giudice di disporre, nell’ambito della condemnatio, il pagamento degli interessi per tutto il tempo in cui non venisse pagata la somma indicata dalla sentenza; su tale controversa questione i giuristi dovettero assumere posizioni variegate, così come, probabilmente, all’inizio dovette essere disomogenea, e comunque non priva di oscillazioni ed incertezze, anche la posizione assunta dalla stessa cancelleria imperiale.

Il problema, in ogni caso, era ormai posto e la prassi sollecitava una risposta definitiva la cui urgenza si rivelava tanto maggiore quanto indefettibile diventava l’esigenza di dare adeguata tutela alle pur giuste rivendicazioni di coloro che, pur essendo risultati vittoriosi in giudizio, non riuscivano a vedere soddisfatte in tempi ragionevoli le loro ragioni creditorie, sia a causa del puro e semplice inadempimento dei condannati sia, talvolta, a causa dei comportamenti maliziosi e delle tattiche giudiziarie meramente defatigatorie poste in essere da costoro.

Una risposta soddisfacente, capace di dirimere una volta per sempre tutti i dubbi, potè giocoforza giungere, considerata anche la sempre più ampia statalizzazione del processo, soltanto ex auctoritate principis.

 

4. – L’affermazione del principo in CTh. 4.19.1

 

L’applicazione, in via generale, degli interessi legali per il caso di inadempimento del giudicato fu sancita in una costituzione del 380, degli imperatori Graziano, Valentiniano e Teodosio, raccolta nel codice teodosiano:

 

CTh. 4.19.1pr.-2 [= Brev. 4.17.1pr.-2]

 

(Impp. Grat., Valentin. et Theodos. AA. Eutropio Pf. p.): Qui post iudicii finem, exceptis duobus mensibus, quibus per leges solutionum nonnumquam est concessa dilatio, moram afferent solutioni, a die patrati iudicii, quo obnoxii redditi sunt, in duplicium centesimarum conveniantur usuras [extrinsecus scilicet medietatem debiti, de quo litigatum est, sicut prius constitutum est, inferentes] usque in id tempus, quo debitum solutione diluerint. Quod a nobis exemplo aequabili ex iuris prisci est formulis introductum, ut, quia malae fidei possessores in fructus duplos conveniuntur, aeque malae fidei debitores simile damni periculum persequatur. 1. Sed tamen creditor, ternis interiectis mensibus post sententiam, contestari moram debebit adhibitae tarditatis, ut ei centesimarum duplicium fructus possit acquiri. Cavendum quippe ex diverso est etiam contra illam malitiam creditorum, ne, iudicatis ad solutionem cunctantibus, incipiant spe dupli foenoris imminere; quamquam iudicatum, si hanc poenam a se removere festinet, contractam pecuniam vel apud iudices obsignatam locare vel iudicio conveniat offerre, ut periculum duplicium usurarum incurrere ex ea die, qua obnoxius esse coeperit, desistat. 2. Distinguendum vero hoc quoque arbitrati sumus, ut, si contractus debiti ex stipulatione descendit, et casu usurae per annorum curricula summam capitis impleverint (scilicet ut quantitas sortis quantitati foenoris adaequetur), post sententiam usurae duplices non utriusque debiti currant, sed capitis quidem duplae, usurarum vero simplae. [Dat. XV. kal. Iul. Thessalonica, Gratiano V et Theodos. I AA. conss. – a. 380].

 

Interpretatio

 

Debitor, qui post emissum iudicium, a quo victus fuerit, debiti summam implere neglexerit, transactis duobus mensibus, duplam centesimam debiti ipsius usque in diem solutionis se noverit redditurum; ita tamen, ut medietatem rei iudicatae mox cogatur inferre: quia non immerito sicut malae fidei possessor duplos fructus, ita et qui post iudicium tardior ad reddendum fuerit, duplam centesimam reddat. Sed tamen et hoc contra>creditorum malitiam, quibus debitores addicti fuerint, ordinamus, ut non velint pro spe duplicandae centesimae suo vitio tardius exsequi, quod fuerit iudicatum: unde debebit creditor, ternis interiectis mensibus, post datum iudicium contestari, ut sic duplam centesimam possit exigere. Nam si collectam pecuniam habuerit debitor et oblatam; et ille, qui vicit, noluerit pro lucro duplandarum centesimarum accipere, signatam eam debitor apud idoneas faciat sequestrari personas, ut damnum usurarum postea non possit incurrere. Hoc quoque praecipimus observari, ut, si debitoris cautio cum omni firmitate proferatur, et usurae per annos plures cum capitali debito se aequaverint, a debitore amplius non petatur. Sane post iudicium duplam centesimam, quam reddi iussimus, taliter solvat, ut de capitali debito tantum duplae usurae reddantur: de illo vero, quod in usuris ante iudicium crevit, simpla tantum centesima detur[55].

 

La costituzione in esame, indirizzata al prefetto del pretorio Eutropio, prevede una disciplina a valenza generale ed abbastanza articolata: innanzi tutto la fonte imperiale, probabilmente per la prima volta, stabilì che il tempus iudicati fosse portato a due mesi, generalizzando così un termine di dilazione che, a dire degli imperatori, sarebbe stato talvolta concesso da alcune leggi – circa le quali null’altro, però, ci viene riferito – con riguardo, è da supporre, ad alcune ipotesi specifiche[56].

Trascorso tale periodo, colui che non avesse ottemperato ad una sentenza giudiziaria che lo condannava al pagamento di una determinata somma, avrebbe dovuto obbligatoriamente pagare anche gli interessi, dal giorno dell’emanazione della sentenza sino all’adempimento del giudicato, nella misura del 24% (duplam centesimam). Inoltre, come sembra, il soccombente inadempiente sarebbe stato anche obbligato a pagare, a titolo di penale, una somma pari alla metà del suo debito[57].

Come si è già accennato, la maggior parte degli studiosi ritiene che CTh. 4.19.1 rappresenti la prima statuizione normativa in materia di usurae rei iudicatae[58]; dalla lettura delle disposizioni in essa contenute non sembra, tuttavia, esservi alcun indizio che faccia propendere per ritenere che l’introduzione degli interessi legali in caso di inadempimento del giudicato rappresentasse una novità assoluta. Innovativo è, invece, senza dubbio alcuno, quanto viene statuito circa la misura del tasso da applicare (duplae centesimae, pari al 24%: dunque, il doppio del tasso normalmente corrente che era, appunto, la centesima, vale a dire il 12%), tant’è vero che, nel porre tale disciplina, si avverte la necessità di richiamare l’analogo principio, di cui in CTh. 4.18.1, emanata nel 369[59], in base al quale i possessori di mala fede sono tenuti alla restituzione del doppio dei frutti, principio che, a dire della cancelleria imperiale, affonderebbe le proprie radici nell’antichissimo diritto cui essa dichiara apertamente di essersi ispirata[60]: dunque, la ratio addotta per giustificare la regola secondo cui le usurae rei iudicatae devono applicarsi nella misura del doppio del tasso normalmente consentito risiede nel fatto che i debitori inadempienti al giudicato di condanna sono ritenuti malae fidei debitores, come tali da punire alla stregua di qualunque altro soggetto, in mala fede, detenga cose o denaro altrui.

Una volta enunciato il principio dell’applicazione delle usurae rei iudicatae, in CTh. 4.19.1.1 viene prevista anche un’adeguata tutela dei debitori dalla malitia creditorum, ossia dall’eventuale comportamento scorretto dei creditori, i quali, nell’intento di approfittare della situazione, lucrando un interesse pari al doppio di quella correntemente ammesso, avrebbero potuto essere facilmente indotti a non esigere il loro credito: viene così disposto che, per ottenere gli interessi legali al tasso della doppia centesima, trascorsi tre mesi dall’emanazione della sentenza, essi dovessero contestare la mora al condemnatus-debitore e quindi promuovere l’esecuzione del giudicato. Dal canto loro, peraltro, i debitori, nel caso che i propri creditori rifiutassero di accettare la somma loro offerta, potevano liberarsi dal debito, nonchè dal pericolo di applicazione dell’onerosa sanzione, attraverso il deposito presso i giudici della somma in un contenitore munito di sigilli ovvero mediante un’offerta formalizzata nel corso di un apposito giudizio (nell’Interpretatio, tuttavia, si parla solo di un sequestro volontario presso persone idonee).

Anche la previsione di apposite disposizioni finalizzate a reprimere gli abusi dei creditori mi induce a ritenere che, molto probabilmente, la costituzione del 380 non dovette sancire per la prima volta il principio dell’applicazione delle usurae rei iudicatae: la disciplina contenuta in CTh. 4.19.1, invero, nella sua complessa articolazione, appare piuttosto il frutto di un processo di elaborazione che, alla luce dei problemi applicativi già incontrati in precedenza, tentava in qualche modo di risolverli.

Ad analoghe considerazioni, ritengo, muove anche l’esame di quanto è statuito, con specifico riferimento agli interessi decorrenti su un debito nato ex stipulatione, in CTh. 4.19.1.2, laddove si stabilisce che, qualora il loro ammontare avesse eguagliato il capitale dovuto, dopo la sentenza le usurae rei iudicatae sarebbero decorse nella misura della doppia centesima esclusivamente su quest’ultimo, mentre sarebbe stata applicata la mera centesima sugli interessi scaduti e non pagati[61].

Dunque, trascorsi due mesi senza che il pagamento stabilito dalla sentenza fosse stato effettuato, decorrevano gli interessi sia sul capitale dovuto sia sugli interessi già maturati prima della sentenza: a tale proposito, si è parlato di «eccezione al principio classico che vieta in generale l’anatocismo»[62]: in realtà, come già ho avuto modo di affermare altrove[63], mi sembra che le disposizioni in questione, lungi dal rappresentare un’eccezione ad una presunta regola in senso contrario, si inseriscano in un più ampio quadro normativo finalizzato a disciplinare sì in senso restrittivo, ma, quantomeno fino a Giustiniano, non certo a tacciare di illiceità né tantomeno a reprimere una pratica socialmente assai diffusa, quale appunto quella dell’applicazione degli interessi sugli interessi[64].

Come è stato condivisibilmente osservato[65], anche se in CTh. 4.19.1.2 non viene ribadito il divieto delle usurae convenzionali eccedenti l’ammontare del capitale (ultra duplum), di cui in D. 12.6.26.1[66], esso può, tuttavia, ritenersi ancora in vigore ed anzi presupposto dalla costituzione medesima: in tal senso, infatti, si esprime chiaramente l’Interpretatio la quale, andando oltre il testo stesso della costituzione, afferma che se la cautio relativa agli interessi è formalmente valida e le usurae hanno ormai raggiunto il capitale, cessa per il debitore l’obbligo di corrispondere ulteriori interessi convenzionali.

Del resto, è proprio in correlazione con la regola del divieto di interessi pattizi ultra duplum che si comprende la ratio della norma contenuta nella costituzione in esame: avendo infatti le usurae eguagliato nel loro ammontare il capitale da restituire, dopo la sentenza gli interessi giudiziari decorrono su di essi ad un tasso inferiore a quello che viene applicato sul capitale di debito. Si tratta, cioè, con tutta evidenza, di una norma che si inserisce nel quadro di quelle disposizioni, enunciate immediatamente prima in CTh. 4.19.1.1 e in qualche modo ispirate ad un favor debitoris[67]. Tuttavia, il limite del supra duplum in senso stretto non si applica alle usurae rei iudicatae: per queste, infatti, la costituzione di Teodosio prevede espressamente che tali interessi decorrano fino all’avvenuto pagamento della summa condemnationis (usque in id tempus quo debitum solutione diluerit) e dunque, senza limiti né quantitativi né temporali, così come, del resto, è sicuro che avvenisse, più in generale, per gli interessi di mora, come ci è attestato dal giurista Paolo in D. 31.87.1, secondo una regola la cui ratio è, peraltro, facilmente comprensibile[68].

 

5. – La riforma di Giustiniano

 

Il regime delle usurae rei iudicatae subì con Giustiniano ampie e significative innovazioni. Occorre esaminare, innanzitutto, una costituzione del 529, ora in CI. 7.54.2:

 

(Imp. Iustinianus A. Menae pp.): Eos, qui condemnati solutionem pecuniarum, quas dependere iussi sunt, ultra quattuor menses a die condemnationis vel, si provocatio fuerit oblata, a die confirmationis sententiae connumerandos distulerint, centesimas usuras exigi praecipimus: nec priscis legibus, quae duas centesimas eis inferebant, nec nostra sanctione, quae dimidiam centesimae statuit, locum in eorum personam habentibus. [D. VII id. April. Constantinopoli Decio cons. – a. 529].

 

Con tale disposizione l’imperatore interviene nella disciplina della materia sotto due profili: innanzitutto, proroga ulteriormente il tempus solutionis portandolo a quattro mesi, decorrenti dal giorno in cui è stata emessa la sentenza di condanna ovvero, nel caso sia stato interposto l’appello, dal giorno in cui è stata confermata la prima sentenza; in secondo luogo, egli stabilisce che il tasso di interesse da applicare sia quello della centesima (12%), e ciò nella consapevolezza di discostarsi tanto dall’antico diritto, che prevedeva al riguardo l’applicazione della doppia centesima, quanto da una propria recente disposizione con la quale si era stabilito, in via tendenzialmente generale, un tasso massimo per gli interessi convenzionali pari alla dimidia centesima (6%).

Del resto, pochi giorni prima dell’emanazione di CI. 7.54.2, e precisamente il primo di aprile del 529, Giustiniano aveva emanato un’altra costituzione che, pur non riguardando specificamente le usurae rei iudicatae, era destinata ad incidervi assai profondamente: anche a queste ultime, infatti, veniva ad estendersi il divieto di decorrenza delle usurae ultra sortis summam, vale a dire di continuare ad applicare gli interessi una volta che essi avessero eguagliato per ammontare il capitale dovuto, secondo la disciplina contenuta, per l’appunto, in CI. 4.32.27.1-2 e valevole per tutti i casi di applicazione degli interessi, senza alcuna eccezione o distinzione[69].

 

(Iustinianus A. Menae pp.): 1. Cursum insuper usurarum ultra duplum minime procedere concedimus, nec si pignora quaedam pro debito creditori data sint, quorum occasione quaedam veteres leges et ultra duplum usuras exigi permittebant. 2. Quod et in bonae fidei iudiciis ceterisque omnibus in quibus usurae exiguntur servari censemus.[D. K. April. Constantinopoli Decio vc. Cons – a. 529].

 

Non a caso, del resto, nelle due costituzioni che, nel codice giustinianeo, disciplinano le usurae rei iudicatae, CI. 7.54.2 e 3 (su quest’ultima ci soffermeremo tra breve), non si rinviene alcuna disposizione analoga a quella contenuta in CTh. 4.19.1pr. relativamente alla decorrenza degli interessi senza limiti, fino all’integrale pagamento della somma dovuta dal condannato: anche l’actio iudicati, con cui si fanno valere tali interessi, rientra, infatti, nel novero di quei iudicia in quibus usurae exiguntur in ordine ai quali, in CI. 4.32.27.2, era stato sancito un generale divieto di interessi ultra duplum, estendendolo altresì anche ad ipotesi precedentemente consentite quali i iudicia bonae fidei nonché a tutte le ipotesi in cui si applicassero interessi cd. legali[70].

Si tratta di una disciplina che va ad inserirsi nel quadro più ampio delle misure adottate in quegli anni dall’imperatore in materia di debiti e tassi di interesse: come è noto, Giustiniano, infatti, nel 528 (CI. 4.32.26.1)[71] aveva provveduto a dimezzare, in via generale e fatte salve alcune, più o meno significative, eccezioni, il tasso massimo di interesse convenzionalmente applicabile, istituendo, appunto, la cd. dimidia centesima (6%) e vietando espressamente, altresì, ai giudici di applicare, con riguardo ai tassi, le consuetudini locali (mos regionis) allorché esse fossero sfavorevoli ai debitori (CI. 4.32.26.2)[72]. Ancora, nel 535 (Nov. 121.2), abolendo espressamente un rescritto di contenuto opposto dell’imperatore Caracalla (CI. 4.32.10)[73], stabilì che, ai fini del rispetto del limite del duplum, di cui si è prima fatto cenno, si dovesse tenere conto anche degli interessi pagati di tempo in tempo; inoltre, probabilmente sempre nel medesimo anno[74] (Nov. 138), dispose che il debitore conseguisse la liberazione da ogni sua obbligazione laddove avesse corrisposto complessivamente al creditore, a titolo di interessi, una somma pari al doppio del capitale ricevuto in prestito.

Nel suo complesso, tale legislazione, come è stato osservato[75], rappresenta un singolare documento del modo di procedere della cancelleria giustinianea e del suo atteggiarsi di fronte alle istanze provenienti dalla prassi, nonché delle oscillazioni, dei ripensamenti, delle necessarie rettifiche di una politica legislativa che, se pur fortemente motivata in tema di riduzione del saggio d’interesse, non potè, ovviamente, sottrarsi al confronto con la realtà della situazione economica nè alle pressioni di determinate categorie sociali[76].

Nel vasto quadro normativo ispirato ad un obiettivo di contenimento degli interessi spicca, tuttavia, una costituzione di Giustiniano del 529, ora in CI. 4.32.28, anch’essa destinata a produrre effetti assai incisivi, pur se indirettamente, in tema di usurae rei iudicatae. Con tale costituzione l’imperatore, sancisce, infatti, a chiare lettere, un divieto generale ed assoluto di tutte le forme di anatocismo: da quella, maggiormente evidente, degli interessi che decorrono su altri interessi, a quella, per dir così surrettizia, della capitalizzazione degli interessi scaduti con produzione di nuovi interessi sull’intero coacervo così ottenuto. In CI. 4.32.28.pr.-1, infatti, l’imperatore dispone che:

 

(Imp. Iustinianus A. Demostheni pp.): Ut nullo modo usurae usurarum a debitoribus exigantur, et veteribus quidem legibus constitutum fuerat, sed non perfectissime cautum. Si enim usuras in sortem redigere fuerat concessum et totius summae usuras stipulari, quae differentia erat debitoribus, qui re vera usurarum usuras exigebantur? Hoc certe erat non rebus sed verbis tantummodo leges ponere. 1. Quapropter hac apertissima lege definimus nullo modo licere cuidam usuras praeteriti vel futuri temporis in sortem redigere et earum iterum usuras stipulari, sed, si hoc fuerit subsecutum, usuras quidem semper usuras manere et nullum aliarum usurarum incrementum sentire, sorti autem antiquae tantummodo incrementum usurarum accedere. [PP. k. Oct. Chalcedone Decio vc. cons.- a. 529].

 

Giustiniano fa, dunque, riferimento ad antiche leggi che avrebbero vietato del tutto, per il passato, le usurae usurarum, ma a tanto avrebbero provveduto in maniera non del tutto perfetta, non essendo stata vietata l’incorporazione degli interessi nel capitale al fine di far conseguentemente decorrere ulteriori interessi sull’intero nuovo ammontare così ottenuto. A tale proposito, l’imperatore stigmatizza che, in tal modo, per i debitori non era cambiato nulla: così facendo, infatti - sostiene lo stesso Giustiniano - si era posto un divieto puramente “a parole”, non certo nella sostanza (hoc certe erat non rebus sed verbis tantummodo leges ponere). Pertanto, con una decisione a valenza generale, l’imperatore dispone che in nessun modo sia consentito praticare l’anatocismo integrando gli interessi, sia quelli già maturati che quelli ancora da maturare, nel capitale e su tale somma complessivamente ottenuta far decorrere nuovi interessi; egli aggiunge, inoltre, che, osservando tale disposizione, gli interessi sarebbero rimasti sempre e soltanto tali e non si sarebbero potuti incrementare con altri interessi, mentre il capitale originariamente preso a prestito dal debitore avrebbe potuto essere aumentato soltanto degli interessi, per dir così, semplici[77].

La proibizione asoluta dell’anatocismo appare quindi il portato di una più vasta politica di contenimento delle usurae, probabilmente finalizzata a garantire esigenze di ordine sociale, impedendo che venissero portate alla rovina masse di debitori[78], e dunque anche a consolidare il regime politico-istituzionale giustinianeo, prevenendo i disordini che sarebbero stati provocati dalle masse di debitori finiti sul lastrico[79]. In tale disegno che, come si è visto, Giustiniano persegue a più riprese, forse in ciò influenzato anche, in qualche misura, dai precetti della religione cattolica da lui professata[80], si inserisce pure il secondo intervento di Giustiniano in materia di anatocismo, specificamente riferito alle usurae rei iudicatae.

L’imperatore, infatti, nel 531, due anni dopo il provvedimento adottato in CI. 4.32.28, emana un’ulteriore costituzione, ora in CI. 7.54.3, con la quale dispone l’abrogazione della disciplina posta da Teodosio nel 380 (CTh. 4.19.1, sopra esaminata), e vieta del tutto l’anatocismo sugli interessi dovuti in caso di inottemperanza ad un giudicato di condanna:

 

(Imp. Iustinianus A. Iohanni pp.): Sancimus, ut si quis condemnatus fuerit, post datas a nobis quadrimenstres indutias centesimas quidem usuras secundum naturam iudicati eum compelli solvere, sed tantummodo sortis et non usurarum, quae ex pristino contractu in condemnationem deductae sunt. Cum enim iam constituimus usurarum usuras penitus esse delendas, nullum casum relinquimus, ex quo huiusmodi machinatio possit induci. 1. Si enim sine emendatione relinquatur, aliquid absurdum atque inelegans necesse est evenire, cum utiliter ex contractibus descendentes plerumque minores centesimae ex nostra lege factae sunt et necesse est minoribus usuris graviores supponi. Si enim ex iudicati actione centesimae omnimodo currunt usurae, ex contractibus autem hoc raro contingit in capitulis lege nostra tantummodo exceptis, huiusmodo iniquitatem ipsa necessitas rerum introducebat. 2. Et ideo pio remedio causam corrigentes sancimus sortis tantummodo usuras usque ad centesimam currentes ex iudicati actione profligari, non autem usurarum quantascumque usuras. Si enim novatur iudicati actione prior contractus, necesse est usurarum quidem, quae anterioris contractus sunt, cursum post sententias inhiberi, alias autem usuras ex iudicati actione tantummodo sortis procedere, et non ideo, quod forsitan consummata est quantitas sortis et usurarum, totius summae usuras postea colligi, sed sortis tantummodo. 3. Et cum antiquitas pessimo exemplo reis quidem condemnatis laxamentum duorum mensum praestabat, fideiussores autem eorum eodem uti beneficio non concedebat, ut liceret victoribus relictis propter legem condemnatis personis a fideiussoribus eorum vel mandatoribus statim pecunias vel res in condemnatione positas exigere, huiusmodi acerbitatem resecantes sancimus quadrimenstres indutias, quas dedimus condemnatis, etiam ad fideiussores eorum et mandatores extendi, ne legi fiat derogatum. Cum enim interventor solvere compellatur et ipse reum coerceat ad invitam solutionem, nullum condemnatus habebat nostrae sensum humanitatis, quia per medium fideiussorem statim pecunias persolvere compellebatur. [D. V K. Dec. Constantinopoli post consulatum Lampadii et Orestis vv. cc.- a. 531].

 

L’intervento normativo di Giustiniano si presenta molto articolato. Dopo aver ribadito che, trascorso un tempo di dilazione pari a quattro mesi dall’emanazione della sentenza, ovvero dalla sua conferma in appello, decorrono le usurae rei iudicatae, l’imperatore specifica che tali interessi si applicano esclusivamente sul capitale dovuto in base al contratto dal quale è scaturita la condanna e non sugli interessi da questo nel frattempo prodotti (sed tantummodo sortis et non usurarum). E la ratio di tale disposizione è subito enunciata: avendo stabilito di eliminare alle radici gli interessi sugli interessi, l’imperatore non aveva voluto far residuare nessuna ipotesi in relazione alla quale potesse trovare spazio quella che viene da lui enfaticamente definita una machinatio. Giustiniano, dunque, aveva avvertito la sostanziale iniquità introdotta dalla sua stessa legislazione nel momento in cui ammetteva, nel caso di inadempimento di una condanna giudiziaria, quell’anatocismo che invece egli aveva rigorosamente vietato per le convenzioni dei privati: di qui, pertanto, la decisione di eliminare ogni contraddizione.

Con un linguaggio ridondante, Giustiniano osservava che il suo nuovo intervento si rendeva necessario al fine di evitare una situazione da lui definita assurda e sconveniente: se da un lato, infatti, egli aveva ricondotto le usurae convenzionali al di sotto della centesima e, d’altro canto, nella pratica, raramente i contratti potevano giungere a prevedere tale tasso di interesse in virtù delle eccezioni consentite dalle disposizioni imperiali, al contrario, accadeva che le usurae decorrenti sulla res iudicata venissero costantemente applicate nella misura della centesima, con la conseguenza che, in tal modo, si producesse una sostanziale iniquità.

L’imperatore ritenne, pertanto, di dover porre rimedio a tale situazione e, dopo aver ribadito l’obbligo, da lui sancito precedentemente in CI. 7.54.2, di applicare il tasso nella misura della centesima anche per le usurae rei iudicate (anziché quello della doppia centesima introdotto da Teodosio e fino ad allora vigente), stabilì che in caso di mancato pagamento, il condannato fosse tenuto a pagare gli interessi ma soltanto sul capitale e non anche sugli interessi già maturati.

Giustiniano, peraltro, non manca di fornire un’argomentazione anche di taglio tecnico-giuridico al divieto da lui posto: egli spiega, infatti, che, se con l’actio iudicati viene ad essere novato il precedente contratto dal quale scaturivano gli interessi, allora, così come è inibito, dopo la sentenza, l’ulteriore corso degli interessi derivanti dal contratto, così pure le usurae derivanti dal giudicato dovranno scaturire esclusivamente dal capitale, non potendosi ritenere fusi insieme la sorte capitale e gli interessi al fine di far decorrere ulteriori interessi legali sul loro complessivo ammontare[81].

Infine, in CI. 7.54.3.3, Giustiniano interviene a porre rimedio anche ad un’altra situazione di iniqua che egli pure aveva avuto modo di rilevare. Infatti, secondo quello che l’imperatore medesimo considerava il pessimo modello vigente nell’antichità, la proroga di due mesi accordata a coloro che erano risultati soccombenti nella lite non veniva concessa anche ai loro fideiussori: pertanto, i vincitori della lite potevano lecitamente pretendere dai garanti dei condannati che adempissero immediatamente il giudicato di condanna, e dunque che provvedessero al pagamento delle somme ovvero alla consegna delle res: si trattava di una sopravvivenza del regime classico così efficacemente delineato in D. 46.7.1 (Paulus libro vicensimo quarto ad edictum):

 

In stipulatione iudicatum solvi post rem iudicatam statim dies cedit, sed exactio in tempus reo principali indultum differtur.

 

L’imperatore decide allora di porre fine a quest’ulteriore disparità di trattamento (huiusmodi acerbitatem resecantes), concedendo ai fideiussori ed ai mandanti, senza consentire che vi fosse la possibilità di derogarvi validamente, il medesimo termine di dilazione concesso ai debitori condannati, tempo che pure viene fissato in quattro mesi. Del resto, soggiunge l’imperatore, nel caso in cui si fosse costretto il garante a pagare, questi avrebbe anch’egli immediatamente esercitato il suo diritto di regresso nei confronti del debitore condannato il quale, pertanto, non avrebbe così realmente beneficiato del periodo di dilazione che l’humanitas del sovrano gli aveva, invece, voluto concedere[82].

 

 



 

[1] Così P. DE FRANCISCI, Appunti esegetici intorno alle “usurae rei iudicatae”, in Saggi romanistici, I, Pavia 1913, 61, il quale ricordava altresì che il tema era stato pochissimo trattato anche dalla dottrina più antica: vi sono, infatti, in proposito, soltanto delle brevi osservazioni di BETHMANN-HOLLWEG, Der römischen Civilprozess, Bonn 1865, II.2, 633 s. e III, 297, nonchè una nota di O. LENEL, Das Edictum Perpetuum2, 428 nt. 1, nella quale l’illustre Maestro tedesco, come meglio si vedrà più avanti, avanza alcuni dubbi circa la genuinità del periodo finale di CI. 4.32.13 che, appunto, accenna alle usurae ex causa iudicati.

 

[2] Come tutti sanno, il contenuto sempre pecuniario dell’obligatio iudicati trae origine già dalla procedura per legis actiones: nella manus iniectio, infatti, l’attore, come si apprende da Gai. 4.21, faceva riferimento ad una somma di denaro a lui dovuta dal iudicatus; nel processo formulare, l’accertamento giudiziale si concludeva necessariamente con una condanna a carattere pecuniario, come è affermato chiaramente in Gai. 4.51: …iudex si condemnet, certam pecuniam condemnare debet…, in perfetta corrispondenza con la clausola edittale riferita all’actio iudicati, riportata in D. 42.1.4.3: condemnatus ut pecuniam solvat…, su cui amplius più avanti nel testo. È altrettanto noto che, invece, in età giustinianea, nella cognitio extra ordinem, qualora non si trattasse di debiti di somme di denaro, si condannava a dare o a restituire la cosa stessa (v. D. 6.1.68; D. 42.1.13.1; I. 4.6.32) e non la sua aestimatio, ricorrendosi alla condanna pecuniaria solo in via eccezionale. Per più ampi ragguagli, si veda C. GIOFFREDI, Su l'origine della condemnatio pecuniaria e la stuttura del processo romano, in SDHI. 12 (1946) 136 ss.; U. LÜBTOW, Ursprung und entwicklung der «condemnatio pecuniaria», in ZSS. 68 (1951) 320 ss.; R. TAUBENSCHLAG, Die condemnatio pecuniaria im Rechte der Papyri, in Mélanges Henri Lévy-Bruhl, 297 ss.; M.N. BAPTISTA, Condemnatio pecuniaria, in Romanitas 10 (1970) 349 ss.; H. BLANK, Condemnatio pecuniaria und Sachzugriff, in ZSS. 99 (1982) 303 ss.; A. BURDESE, Sulla condanna pecuniaria nel processo civile romano, in Seminarios Complutenses de Derecho romano I: Cuestiones de Jurisprudencia y Proceso, Madrid 1990, 175 ss.; A. ROMANO, Condanna in ipsam rem e condanna pecuniaria nella storia del processo romano, in Labeo 28 (1982) 131 ss., nonché, EAD., Economia naturale ed economia monetaria nella storia della condanna arcaica, Milano 1986.

 

[3] Sull’obligatio iudicati v., in particolare, B. BIONDI, Appunti intorno alla sentenza nel processo civile romano, in Studi Bonfante 4, Milano 1930, 61 ss., nonché l’ampia letteratura cit. in C. BUZZACCHI, Studi sull’actio iudicati nel processo romano classico, Milano 1996.

 

[4] Com’è noto, non si aveva però una novazione in senso tecnico: per tutti, v. F. BONIFACIO, La novazione nel diritto romano, Napoli 1950, 62 ss. Per quanto concerne il problema relativo alla possibilità che l’obligatio iudicati sorgesse anche da una confessio cfr., amplius, F. LA ROSA, L’«actio iudicati» nel diritto romano classico, Milano 1963, 23 ss.

 

[5] Sulla struttura e la funzione dell’actio iudicati sono state avanzate diverse ipotesi: si segnalano, in particolare, gli studi di EISELE, Über ‘actio iudicati’ und Nichtigkeitsbeschwerde, in Abhandlungen zum römischen Civilprocess, Freiburg 1889, 125 ss.; WENGER, Zur Lehre von der ’actio iudicati’, Graz 1901; F. LA ROSA, Actio iudicati, cit. in part. 59 ss.; più di recente, M. KASER, ’Unmittelbare Vollstreckbarkeit' und Bürgenregress, in ZSS. 100 (1983) 80 ss. nonché BUZZACCHI, Studi sull’actio iudicati, cit. in part. 53 ss. e 111 ss.

 

[6] Sul concetto di veteres, utile la lettura di F. HORAK, Wer waren die veteres? Zur Terminologie der Klassischen römischen Juristen, in Vestigia Iuris Romani. Festschrift für G. Wesener, Graz 1992, 201 ss.

 

[7] Per un’analisi semantica dell’espressione iudicatum facere, cfr. A. SALOMONE, «Iudicatum facere». Per una storia terminologica, in Index 25 (1997) 1 ss. L’autrice afferma che l’espressione iudicatum facere debba farsi risalire alle XII Tavole e ad un processo in cui probabilmente ancora non esisteva la condemnatio pecuniaria, sicchè eseguire il giudicato copriva un arco di comportamenti molto più esteso del mero pagamento della summa condemnationis. Man mano che si affermò e consolidò l’idea che dalla res iudicata discendesse un’obligatio, l’espressione iudicatum facere, quale oggetto di un oportere, rappresentò per i giuristi repubblicani una concettualizzazione nuova, formulata mediante l’impiego di un’espressione antica. In altri termini, i veteres, lavorando attorno alle prime esperienze della procedura formulare, per le loro elaborazioni teoriche sulla obligatio iudicati avrebbero continuato ad utilizzare la terminologia da secoli invalsa per raffigurare l’esecuzione del giudicato: l’ampia accezione del verbo facere, infatti, non frapponeva alcun ostacolo a che si continuasse a rispettare quella radicata tradizione terminologica, anche quando, in ragione della natura pecuniaria della condemnatio formulare, sarebbe stato senz’altro più appropriato utilizzare l’espressione iudicatum solvere. Quest’ultima, invece, fu utilizzata e si consolidò attorno alla cautio destinata a prenderne il nome: secondo l’Autrice ciò avvenne perché i veteres dovettero avere qualche difficoltà ad impiegare solvere per indicare un comportamento a cui si era tenuti in base non ad una promissio ma in virtù della sententia iudicis.

 

[8] L’ultima frase, da ex magna a sententiam, è per lo più ritenuta un’interpolazione: l’opinione da attribuire ad Ulpiano, secondo la quale la posizione di Labeone dovrebbe essere seguita solo in casi eccezionali, sarebbe un’aggiunta dei compilatori, per i quali era sicuramente ammissibile un adempimento dell’obligatio iudicati diverso dal pagamento: sul punto si vedano le osservazioni di LA ROSA, Actio iudicati, cit. 49 e nt. 131.

 

[9] Amplius, v. LA ROSA, Actio iudicati, cit. 47 s. e nt. 128.

 

[10] Gai. 3.173: Est et alia species imaginariae solutionis, per aes et libram; quod et ipsum genus certis in causis receptum est, veluti si quid eo nomine debeatur, quod per aes et libram gestum sit, sive quid ex iudicati causa debeatur. 174: Adhibentur non minus quam quinque testes et libripens; deinde is qui liberatur, ita oportet loquatur: quod ego tibi tot milibus condemnatus sum, me eo nomine a te solvo liberoque hoc aere aeneaque libra. Hanc tibi libram primam postremamque expendo secundum legem publicam. Deinde asse percutit libram eumque dat ei a quo liberatur, veluti solvendi causa. Cfr. R. KNÜTEL, Zum Prinzip der formalen Korrespondenz im römischen Recht, in ZSS. 88 (1971) 67 ss., in part. 74; KASER, ’Unmittelbare Vollstreckbarkeit', cit. 100 ss., in part. 109. Certamente, in età classica, il ricorso alla solutio per aes et libram fu utilizzato solo qualora l’intento delle parti era quello di rimettere il debito, mentre normalmente per il pagamento si aveva una semplice solutio: cfr. V. ARANGIO-RUIZ, Istituzioni di diritto romano14, Napoli 1960, 395; LA ROSA, Actio iudicati, cit. 42.

 

[11] Amplius, LA ROSA, Actio iudicati, cit. 44 ss., in part. 51 s., e lett. ivi citata.

 

[12] Il brano è stato sospettato di alterazioni in più parti; tuttavia, fatta eccezione per i termini constitutos e constitutorum, da sostituire, con ogni probabilità, con l’originario riferimento ai triginta dies che rappresentavano il tempus solutionis, per il resto non vi sono elementi decisivi per escludere la sostanziale genuinità del passo: per un sintetico ragguaglio su tale questione, v. BUZZACCHI, Studi sull’actio iudicati, cit. 60 ss. Più di recente, sul tema della datio in solutum, A. SACCOCCIO, La c.d. datio in solutum necessaria nel sistema giuridico romanistico, in Roma e America 14 (2002) 17 ss.

 

[13] Lo stesso principio varrà, in via di estensione, oltre che per i iudicati, anche per i confessi, come si ricava da D. 42.2.6.7: Confessi utique post confessionem tempora quasi ex causa iudicati habebunt.

 

[14] Per la collocazione nella II tavola cfr., invece, O. BEHRENDS, Der Zwölftafelprozess. Zur Geschichte des römischen Obligationenrechts, Göttingen 1974, 128 nt. 74. Si veda, tuttavia, G. NICOSIA, Il processo privato romano. 2. La regolamentazione decemvirale. Corso di diritto romano, Catania 1984, 2, 9 e 135 ss.

 

[15] Si tratta di un frammento della nota disceptatio sulla legge delle XII Tavole tra il giurista Sesto Cecilio Africano e il filosofo Favorino che ci è conservata appunto tramite l’opera di Gellio. Circa il dibattito dottrinale relativo alle difficoltà stilistiche di questo versetto, v. lett. cit. in S. RICCOBONO, Leges2, 32.

 

[16] Propendono per una sostanziale genuinità dei frammenti, pur non ritenendo che essi siano riprodotti secondo l’originario tenore letterale: H. LÉVI-BRUHL, Recherches sur les actions de la loi, Paris 1960, 282; G. PUGLIESE, Il processo civile romano. 1. Le legis actiones. Corso di diritto romano, Roma 1962, 304 ss; BEHRENDS, Der Zwölftafelprozess, cit. 128 ss; KASER, Unmittelbare Vollstreckarkeit, cit. 87 nt. 7; NICOSIA, Il processo privato romano, 2, cit. 137 nt. 125, B. ALBANESE, Il processo privato romano delle legis actiones, Palermo 1987, 37 nt. 107; BURDESE, Sulla condanna pecuniaria, cit. 183 e nt. 27.

 

[17] Ritiene, tuttavia, inaccettabile l’accostamento tra dies iusti e iustitium ALBANESE, Il processo privato romano delle legis actiones, cit. 36 nt. 102.

 

[18] Qualora il tempus iudicati non fosse stato interamente consumato dal de cuius, ne avrebbero beneficiato, per la parte rimanente, anche l’erede e gli altri successori, come si legge in D. 42.1.29 (Modestinus libro septimo pandectarum): Tempus, quod datur iudicato, etiam heredibus eius ceterisque qui in locum eius succedunt tribuitur (videlicet quod ex tempore deest), quia causae magis quam personae beneficium praestituitur. Interessante la motivazione della soluzione data da Modestino, secondo cui si trattava, infatti, di un beneficio concesso non tanto in considerazione della persona del condemnatus quanto della ragione stessa del debito.

 

[19] O. LENEL, Das Edictum Perpetuum3 , Leipzig 1927 – rist. Aalen 1956, 328.

 

[20] Così BUZZACCHI, Studi sull’actio iudicati, cit. 71.

 

[21] Per LA ROSA, Actio iudicati, cit. 106 ss, l’espressione gaiana partim… partim, coerentemente a quella che è la tesi di fondo sostenuta dall’autrice, secondo la quale normalmente la bonorum venditio sarebbe stata provocata dall’actio iudicati, andrebbe interpretata nel senso che nelle XII tavole sarebbe stato indicato il tempo necessario prima di poter agire con l’actio iudicati, sommandosi a questo i giorni indicati dal pretore per dar luogo alla bonorum venditio. Come ha però giustamente obiettato BUZZACCHI, Studi sull’actio iudicati, cit. 69, tale tesi comporterebbe la necessità di sommare ai trenta giorni precedenti all’actio iudicati, quelli susseguenti all’azione ed inoltre quelli concessi dal magistrato per la bonorum venditio, con evidente dilatazione dei tempi: se anche talvolta poteva accadere che la bonorum venditio seguisse ad una condanna nell’actio iudicati dopo il tempo obbligatoriamente concesso per adempiere al iudicatum, tuttavia da Gai 3.78 ciò non è rappresentato come un passaggio indefettibile.

 

[22] LIEBMAN, L’actio iudicati nel processo giustinianeo, in Studi Bonfante 3, Milano 1930, 403.

 

[23] BUZZACCHI, Studi sull’actio iudicati, cit. 58 s.

 

[24] Né sussistono elementi decisivi per sostenere che, con il processo formulare, alla funzione più antica (ad expediendam pecuniam) del tempus iudicati si sarebbe potuta agiungere quella di differire gli effetti del iudicatum e, quindi, in primo luogo il sorgere dell’obligatio iudicati, secondo il dubbio manifestato dal Cuiacio, Opera, 8, Prato 1838, col. 234. Contro tale tesi si veda anche quanto detto in D. 16.2.16.1, riportato nella nota seguente, in base al quale sembra avvalorata l’interpretazione secondo cui l’obligatio iudicati venisse subito ad esistenza, benché non fosse immediatamente escutibile.

 

[25] BUZZACCHI, Studi sull’actio iudicati, cit. 64 nt. 42. Peraltro viene ammessa la possibilità di compensazione anche prima della scadenza del termine di dilazione: una cosa infatti, come dice Papiniano in D. 16.2.16.1 (Papinianus libro tertio quaestionum), è che il termine dell’obbligazione non sia ancora maturato, un’altra invece concedere, per una valutazione più conforme al senso di humanitas, del tempo per il pagamento: Cum intra diem ad iudicati exsecutionem datum iudicatus Titio agit cum eodem Titio, qui et ipse pridem illi iudicatus est, compensatio admittetur: aliud est enim diem obligationis non venisse, aliud humanitatis gratia tempus indulgeri solutionis.

 

[26] Il WENGER, Actio iudicati, cit. 242 ss, in part. 245, giunge a supporre, benché con molta cautela, che la proroga del tempus iudicati nel processo formulare riguardasse fattispecie particolari quali quelle delle azioni caratterizzate dal beneficium competentiae o dall’arbitratus de restituendo.

 

[27] BIONDI, Appunti intorno alla sentenza, cit. 65, secondo cui il quesito sarebbe improponibile in quanto esorbitante dai principi classici attinenti il proceso formulare nel quale il giudice non poteva differire il pagamento del iudicatum essendo il tempus iudicati fissato dalla legge; G. PROVERA, La pluris petitio nel processo romano, 1, La procedura formulare, Torino 1958, 157 ss.; ID. Lezioni sul processo civile giustinianeo, Torino 1989, 188 ss.; LA ROSA, Actio iudicati, cit. 55 ss. e ntt. 151-152, la quale suppone che il frammento riguardasse, in origine, la possibilità di concedere un tempus iudicati diverso da quello normativamente previsto; successivamente, quando ciò fu pacificamente ammesso, la discussione dovette esere imperniata solo sulle modalità del calcolo di tale ulteriore tempus. Analogamente, BUZZACCHI, Studi sull’actio iudicati, cit. 64. WENGER, Actio iudicati, cit. 251, con molta cautela avanza l’ipotesi (peraltro meramente congetturale) che la questione trattata nel passo in esame fosse connessa a casi in cui il debitore godeva del beneficium competentiae.

 

[28] Per PH. E. HUSCHKE, Iurisprudentiae antejustinianae reliquias6, Leipzig 1927, rist. 1988, 305, la facoltà di proroga il pretore l’aveva per i iudicia imperio continentia; mentre per BETHMANN-HOLLWEG, Der römischen Civilprozess, II, cit. 633 nt. 21, il pretore si sarebbe genericamente riservata la facoltà di prorogare il termine, mentre la possibilità di abbreviarlo sarebbe stata ammessa soltanto con la procedura extra ordinem.

 

[29] Cfr. in tal senso BUZZACCHI, Studi sull’actio iudicati, cit. 68.

 

[30] Il tenore del frammento e l’esempio proposto farebbero propendere per ritenere che si tratti di cognitio extra ordinem: così WENGER, Actio iudicati, cit. 247; BIONDI, Appunti intorno alla sentenza, cit. 82; F. LA ROSA, Actio iudicati, cit. 54 e nt. 145; BUZZACCHI, Studi sull’actio iudicati, cit. 63.

 

[31] Secondo DE FRANCISCI, Appunti, cit. 72, il periodo finale vel minori viginti quinque annis subvenitur sarebbe un’aggiunta post-classica; l’espressione statutum tempus è già stato ritenuta interpolata dal Gradenwitz e dal Lenel. Dubbia sembrerebbe altresì la classicità dell’enumerazione pro causae qualitate et quantitate vel personarum obsequio vel contumacia; inoltre, il perraro sarebbe dubbio anche in D. 1.9.12 pr.

 

[32] In tal senso LA ROSA, Actio iudicati, cit. 54 e nt. 145.

 

[33] DE FRANCISCI, Appunti, cit. 71 nt. 5.

 

[34] BIONDI, Appunti intorno alla sentenza, cit. 77 ss.; LA ROSA, Actio iudicati, cit. 14 ss.

 

[35] LA ROSA, Actio iudicati, cit. 14 ss., in part. 18 ss.

 

[36] Non si ha motivo di escludere che ai giudicanti residuasse uno spazio di manovra anche dopo tali interventi normativi, come sembra potersi ricavare sempre da D. 42.1.2.

 

[37] Secondo l’opinione del GRADENWITZ, Intepolationen in den Pandekten, in ZSS. 7.1 (1886) 52 s., a seguito di questa riforma vi sarebbe stata l’interpolazione dei testi in cui si faceva riferimento alla durata di trenta giorni del tempus iudicati: cfr., ad es., D. 42.1.7.; D. 44.3.2; D. 16.2.16.1.

 

[38] L’obbligo di corrispondere le usurae rei iudicate sarebbe sconosciuto con riferimento al processo formulare: in tal senso cfr. DE FRANCISCI, Appunti, cit. 62, secondo il quale D. 22.1.1.2 escluderebbe chiaramente che il giudice se ne dovesse preoccupare, anche solo attraverso la stipulatio iudicatum solvi; pertanto sarebbe da ritenersi inesatto il richiamo del DERNBURG-SOKOLOWSKI, System der Romischen Recht, I, 262 nt. 5, a D. 22.1.1.2 quale testo classico che parlerebbe di usurae rei iudicatae. Sulla scia del DE FRANCISCI si è posta sostanzialmente la dottrina successiva: cfr. LA ROSA, Actio iudicati, cit. 54 nt. 146; BUZZACCHI, Studi sull’actio iudicati, cit. 65 e nt. 45; B. SANTALUCIA, Le note Pauline ed Ulpianee alle «Quaestiones» ed ai «Responsa» di Papiniano, in BIDR. 68 (1965) 61 e nt. 40.

 

[39] Sul tormentato problema dell’apocrifia delle note di Paolo ed Ulpiano agli scritti papinianei: cfr. S. SOLAZZI, Un responso di Papiniano e una nota di Paolo in D. 27.9.13.1?, in AG. CXXXV, 1948, 130 ss.; SCHULZ, History of Roman legal science, Oxford 1946, 221; SANTALUCIA, Le note Pauline ed Ulpianee, cit. 49 ss. Il problema fu avvertito già in antico, tanto da indurre Costantino, in CTh. 1.4.1 del 321 d.C., a decretarne l’abolizione.

 

[40] Pertanto SANTALUCIA, Le note Pauline ed Ulpianee, cit. 64, ritiene non condivisibili i rilievi espressi sulla genuinità della nota paolina in questione dal BESELER, Beiträge II, 25 s. e dal H. KRÜGER, Römische Juristen und ihre Werke, in Studi Bonfante 2, Milano 1930, 311 nt. 36, ritenendoli privi di qualsivoglia dimostrazione e destinati a cedere di fronte ad una valutazione sotto il profilo sia formale che sostanziale della nota medesima.

 

[41] Così DE FRANCISCI, Appunti, cit. 63.

 

[42] Secondo quanto sostenuto da DE FRANCISCI, op. loc. ult. cit.

 

[43] Sull’impiego diffuso del termine negotium, da parte dei giuristi classici ed ancora nel tardo antico, per indicare il processo, cfr. le osservazioni di G. FINAZZI, Ricerche in tema di negotiorum gestio I. Azione pretoria ed azione civile, Napoli 1999, 36 ss., e bibliografia ivi cit. Contra ATZERI, I principi fondamentali della gestione d’affari, I,1., Cagliari 1890, 139.

 

[44] Per più ampi ragguagli sulle actiones utiles, si vedano D. DAUBE, Utiliter agere, in IURA 11 (1960) 69 ss.; E. VALINO, Actiones utiles, Pamplona 1974, passim; R. SOTTY, Recherche sur les utiles actiones. La notion d'action utile en droit romain classique, Grenoble 1980, passim; R. STOLMAR, Actio utilis. Band I: Die Genesis der utilis actio aus der celsinischen Durchgangstheorie. 1. Teil, Sindelfingen 1984 nonché ID., Die Formula der actio, Sindelfingen 1992.

 

[45] Di tali funzionari si fa menzione anche in D. 49.14.32 (Marc. 14 Inst.).

 

[46] Così LENEL, EP2, 428 nt.1.

 

[47] DE FRANCISCI, Appunti, cit. 64.

 

[48] Così DE FRANCISCI, Appunti, cit. 64 ss.

 

[49] DE FRANCISCI, Appunti, cit. 66. Tuttavia, l’affermazione secondo cui in nessun altra fonte normativa le usurae decorrerebbero dalla res iudicata appare inesatta alla luce di quanto espressamente affermato in tal senso da CTh. 4.19.1pr., su cui amplius al prg. seguente.

 

[50] Come sostiene, per l’appunto, DE FRANCISCI, Appunti, cit. 66.

 

[51] Costituzione peraltro ritenuta genuina dal Lenel, come lo stesso DE FRANCISCI, Appunti, cit. 66, invero, non manca di far notare.

 

[52] SANTALUCIA, Le note Pauline ed Ulpianee, op. loc. ult. cit., propende per seguire DE FRANCISCI, ritenendo interpolato il non.

 

[53] DE FRANCISCI, Appunti, cit. 67.

 

[54] Se poi, aggiunge DE FRANCISCI, Appunti, cit. 67, si ritenesse col BESELER, Beiträge, II, cit. 25, che anziché a Paolo la nota vada attribuita ad un glossatore post-classico, apparirebbe ancora più grave il contrasto tra CI. 7.46.1 che consente al giudice di preoccuparsi anche del tempo successivo alla sentenza e D. 22.1.1.2 in cui si nega al giudicante tale facoltà. Dunque, in conclusione, l’autore ritiene di poter asserire che nell’epoca classica le usurae rei iudicatae fossero del tutto sconosciute: nel Digesto non ve ne sarebbe traccia e le due costituzioni in cui esse sono menzionate, CI. 7.46.1 e CI. 4.32.13, una di Severo e Caracalla, l’altra di Alessandro Severo, sarebbero interpolata l’una e glossata la seconda.

 

 

[55] Come rilevato dal DE FRANCISCI, Appunti, cit. 68, questa costituzione è stata pressoché trascurata dagli studiosi, fatta eccezione per il Gotofredo (Cod. Theodos. Notae ad h.l.) e il Mitteis (Reichsrecht und Volksrecht, cit. 514). In particolare il Gotofredo ha ritenuto che essa dovrebbe connettersi con altre sei costituzioni del Teodosiano (Cth. 3.5.11; 6.1; 3.11.1; 9.27.2; 9.42.8.9) che portano tutte la medesima data del 17 giugno 380, e con le quali gli imperatori avrebbero modificato molte delle materie contenute nelle leggi sociali dell’epoca Augustea: ma la eterogeneità delle materie è tale da far ritenere tale tesi una mera congettura.

 

[56] Non è dato di sapere quali fossero queste leges. Il Gotofredo, op. loc. ult. cit., in via meramente congetturale pensa a costituzioni di Costantino sulla base del fatto che tale imperatore aveva emanato diverse disposizioni concernenti la variazione di alcuni termini.

 

[57] Non è pacifica l’interpretazione da dare al termine ‘medietas’: nel senso che imporrebbe, a titolo di penale, il pagamento di una somma pari alla metà del debito, cfr. G. BILLETER, Geschichte des Zinsfusses im griechisch-römischen Altertum bis auf Justinian, Leipzig 1898 - rist. Wiesbaden 1970, 284 ss., il quale, peraltro, ritiene tale interpretazione accettabile solo sul piano dogmatico ma non su quello storico, propendendo per l’interpolazione del passo in questione. Parla di penale anche MITTEIS, Reichsrecht und Volksrecht, cit. 541. Secondo il DE FRANCISCI, Appunti, cit. 74, vi sarebbe stata un’influenza greca sulla legislazione imperiale la quale, con una costituzione anteriore andata perduta, avrebbe stabilito, appunto, che chi non avesse eseguito il giudicato nel termine fissato avrebbe dovuto pagare, a titolo di penale, tale sovrappiù.

 

[58] In tal senso DE FRANCISCI, Appunti, cit. 61 ss. e 74, il quale ritiene che la sua ipotesi sarebbe dimostrata anche dal tentativo che gli imperatori fanno di giustificare questa loro innovazione richiamando CTh. 4.18.1, su cui subito dopo nel testo; analogamente E. BIANCHI, In tema di usura. Canoni conciliari e legislazione imperiale del IV secolo. II., in Athenaeum 62 (1984) 144. Diversamente, G. CERVENCA, Contributo allo studio delle «usurae» cd. legali, Milano 1969, 205 s., ritiene, invece, di poter rinvenire dei precedenti della costituzione in esame in CI. 7.54.1 e, dubitativamente, in CI. 4.32.13. Incerto sull’innovatività della costituzione del 380 è BIONDI, Diritto romano cristiano, cit. 228.

 

[59] Così DE FRANCISCI, Appunti, cit. 74 nonchè BIANCHI, In tema di usura, cit. 145.

 

[60] Il DE FRANCISCI, Appunti, cit. 75, ha messo in dubbio la correttezza di tale richiamo in quanto la disposizione per cui i malae fidei possessores devono restituire il doppio dei frutti, sia percepiti che percipiendi, sarebbe, a suo dire, veramente un’innovazione e non avrebbe nulla a che vedere con la antica regola della restituzione del doppio dei frutti posteriori alla litis contestatio che, come è noto, aveva luogo nella procedura di rivendica mediante la legis actio sacramento e in quella per sponsionem.

 

[61] Sul tema, amplius, DE FRANCISCI, Appunti, cit. 61 ss., in part. 67 ss.

 

[62] Così CERVENCA, Sul divieto delle cd. «usurae supra duplum», in Index 2 (1971) 293; ID. Contributo allo studio delle « usurae» cd. legali, cit. 208, nt. 380.

 

[63] F. FASOLINO, L’anatocismo nell’esperienza giuridica romana, in SDHI. 72 (2006) 415 ss., in part. 462 s.

 

[64] In definitiva, da CTh. 4.19.1.1 sembra venire un’ulteriore conferma della assenza di disposizioni in età pre-giustinianea che vietassero del tutto il fenomeno dell’anatocismo: anzi, le ipotesi legalmente previste, specie con riguardo agli interessi moratori giudiziari, lasciano intendere che, a livello normativo, non vi era alcuna preclusione di fondo avverso gli interessi composti, pur non mancandosi, al ricorrere di specifiche condizioni, di sancire delle limitazioni, di volta in volta con riferimento al tasso applicabile ovvero all’ammontare complessivo: cfr. amplius, FASOLINO, L’anatocismo, cit. 462 s.

 

[65] CERVENCA, Sul divieto, cit. 293 ss.; ID., Contributo allo studio delle« usurae» cd. legali, cit. 208 nt. 381. L’autore, altresì, rilevando che nell’Interpretatio il principio sull’effetto dell’aequatio degli interessi al capitale è contenuto in un periodo distinto da quello in cui si fa menzione del principio sul decorso della simpla centesima, ipotizza che, nelle intenzioni dell’interprete, l’applicazione di quest’ultima sugli interessi maturati e non pagati, non sia più ritenuta condizionata all’avvenuta aequatio degli interessi al capitale, ma si verificasse in ogni caso.

 

[66] D. 12.6.26.1 (Ulpianus libro vicensimo sexto ad edictum): Supra duplum autem usurae et usurarum usurae nec in stipulatum deduci nec exigi possunt et solutae repetuntur, quemadmodum futurarum usurarum usurae. Su tale regola si vedano, per tutti, CERVENCA, Sul divieto, cit. 291 ss. e L. SOLIDORO MARUOTTI, Sulla disciplina degli interessi convenzionali nell’età imperiale, in Index 25 (1997) 555 ss.

 

[67] Dubita che in ordine alla costituzione in esame possa riscontrarsi una qualche influenza del cristianesimo, BIANCHI, In tema di usura, cit. 145: essa, infatti, avrebbe un carattere eminentemente tecnico lontano da quelle tipiche figure retoriche, usate in materia feneratizia, dagli scrittori cristiani, mentre le disposizioni a favore dei debitori sarebbero dei meri temperamenti, volti a riequilibrare le posizioni delle parti, evitando un ingiusto approfittamento dei creditori, di una disciplina molto rigorosa nei confronti dei debitori.

 

[68] D. 31.87.1 (Paul. 14 responsorum): Usuras fideicommissi post impletos annos viginti quinque puellae, ex quo mora facta est, deberi respondi. quamvis enim constitutum sit, ut minoribus vigenti quinque annis usurae omnimodo praestentur, tamen non pro mora hoc habendum est, quam sufficit semel intervenisse, ut perpetuo debeantur. Sul passo, cfr. CERVENCA, Contributo allo studio delle «usurae» cd. legali, cit. 185 ss., e letteratura ivi citata.

 

[69] Per approfondimenti, v. CERVENCA, Sul divieto, cit. 299, nonché SOLIDORO MARUOTTI, Sulla disciplina degli interessi convenzionali, cit. 562.

 

[70] Cfr. CERVENCA, Sul divieto, cit. 296 ss.

 

[71] Super usurarum vero quantitate etiam generalem sanctionem facere necessarium esse duximus, veterem duram et gravissimam earum molem ad mediocritatem deducentes.[D. Id. Dec. Constantinopoli Iustiniano PP. A. II cons. - a. 528].

 

[72] Ideoque iubemus illustribus quidem personis sive eas praecedentibus minime licere ultra tertiam partem centesimae usurarum in quocumque contractu vili vel maximo stipulari: illos vero, qui ergasteriis praesunt vel aliquam licitam negotiationem gerunt, usque ad bessem centesimae suam stipulationem moderari: in traiecticiis autem contractibus vel specierum fenori dationibus usque ad centesimam tantummodo licere stipulari nec eam excedere, licet veteribus legibus hoc erat concessum: ceteros autem omnes homines dimidiam tantummodo centesimae usurarum posse stipulari et eam quantitatem usurarum etiam in aliis omnibus casibus nullo modo ampliari, in quibus citra stipulationem usurae exigi solent. [D. Id. Dec. Constantinopoli Iustiniano PP. A. II cons. - a. 528].

 

[73] Usurae per tempora solutae non proficiunt ad dupli computationem. tunc enim ultra sortis summam usurae non exiguntur, quotiens tempore solutionis summa usurarum excedit eam computationem. (Ant. A. Crato et Donato mil.).

 

[74] Per un’ipotesi di anticipazione della datazione al 533 v. M.G. BIANCHINI, La disciplina degli interessi convenzionali nella legislazione giustinianea, in Studi in onore di A. Biscardi, II (Milano 1982) 404.

 

[75] BIANCHINI, La disciplina, cit. 390.

 

[76] Per le pressioni esercitate dalla potente corporazione dei banchieri, v. BIANCHINI, op. loc. ult. cit.; nonché, in particolare, A. DIAZ BAUTISTA, Les garanties bancaires dans la législation de Justinien, in RIDA. 29 (1982) 165 ss., in part. 187 ss.; ID., Estudios sobre la banca bizantina (Negocios bancarios en la legislación de Justiniano), Murcia 1987; G. LUCHETTI, Banche, banchieri e contratti bancari. Osservazioni a proposito di una recente ricerca di A. Diaz Bautista, in BIDR. 94-95 (1991-1992) 449 ss.; più di recente, F. LA ROSA, La pressione degli argentarii e la riforma giustinianea del costitutum debiti (C. 4.18.2.2), in Nozione, formazione e interpretazione del diritto dall'età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al Prof. Filippo Gallo, I, Napoli 1997, 445 ss.; mi sia consentito, altresì, il rinvio a F. FASOLINO, Studi sulle tecniche negoziali bancarie: «il receptum argentarii», in Labeo 46 (2000) 169 ss., in part. 182 ss.

 

[77] Per approfondimenti si rinvia a FASOLINO, L’anatocismo, cit. 456 ss. Con riferimento alla teoria richiamata (ed avallata) da Giustiniano secondo cui i fructus, cui sono equiparati gli interessi, non possono ritenersi a loro volta produttivi di ulteriori frutti, cfr., amplius, R. CARDILLI, Dalla regola romana dell’usura pecuniae in fructu non est agli interessi pecuniari come frutti civili nei moderni codici civili, in Roma e America. Diritto romano comune 5 (1998) 3 ss.

 

[78] CASSIMATIS, Les intérèts, cit. 862; A. PIKULSKA, Anatocisme. C. 4,32,28,1: Usuras semper usuras manere, in RIDA. 45 (1998) 446 s.

 

[79] Di recente, si è ipotizzato anche che sullo sfondo degli interventi di Giustiniano possa ravvisarsi, piuttosto che un obiettivo di tutela dei debitori, un disegno politico di mantenimento dell’ordine pubblico economico dell’impero assoluto, nell’intento di affrontare la grave e profonda crisi del mercato del credito che si sarebbe avuta in Occidente, sottoponendo ogni cosa ad un penetrante controllo statale: così C. VITTORIA, Le «usurae usurarum» convenzionali e l’ordine pubblico economico a Roma, in Labeo 49 (2003) 322: si tratta però, a mio avviso, di un’impostazione del problema in chiave eccessivamente modernizzante.

 

[80] È opinione diffusa che la legislazione di Giustiniano sia influenzata dal pensiero dei Padri della Chiesa e, più in generale, dalla dottrina cattolica: così CASSIMATIS, Les intérèts, cit. 33 ss.; KASER, Das römische Privatrecht2, II, München 1975, 341 e nt. 48. Contra, tuttavia, BIANCHINI, La disciplina degli interessi convenzionali nella legislazione giustinianea, in Studi in onore di A. Biscardi, II, Milano 1982, 392 nt. 8, la quale rileva che, fatta eccezione per la limitazione del tasso degli interessi convenzionali, la normativa giustinianea appare in contrasto con gli orientamenti espressi sia dalla patristica che dai canoni conciliari. Nello stesso senso anche BIONDI, Diritto romano cristiano, cit. 243 ss. Più in generale, sulla dottrina cattolica in materia di interessi v. M. GIACCHERO, Aspetti economici fra il III e il IV secolo: prestito ad interesse e commercio nel pensiero dei Padri, in Augustinianum XVII (1977) 25 ss.; “Fenus”, “usura”, “pignus” e “fideiussio” negli scrittori patristici del quarto secolo: Basilio, Gregorio, Ambrogio, Gerolamo, in AARC. 3, Perugia 1979, 443 ss.; ID. L’atteggiamento dei concili in materia di usura dal IV al IX secolo, in AARC. 4, Perugia 1981, 305 ss. V. altresì P. GARBARINO, ‘Senatores in annis minoribus costituti’ e ‘usurae’. Contributo all’esegesi di CTh. 2,33,3, in BIDR. 30 (1988) 342 ss.; da ultimo, per utili ragguagli sull’influenza dell’etica cristiana sulla disciplina prevista, nei secoli, per il fenomeno dell’anatocismo, con particolare riguardo ai principali paesi europei cfr. M. GÓMEZ ROJO, Historia juridica del anatocismo, Barcelona 2003, in part. 22 ss. e 35 ss. Esclude, in generale, quantomeno fino a tutto il IV secolo d.C., un’influenza diretta dei principi della religione cattolica sulla regolamentazione giuridica della materia BIANCHI, In tema di usura, cit. 136 ss.

 

[81] Cfr. G. SACCONI, Studi sulla litis contestatio nel processo formulare, Napoli 1982, 69 s. e 84 s., la quale sottolinea come l’effetto preclusivo derivante dalla pronunzia della sentenza viene inteso, anche dalla cancelleria imperiale dell’età giustinianea, come un novare.

 

[82] Come ha messo in luce A. PALMA, Humanior interpretatio. “Humanitas” nell’interpretazione e nella normazione da Adriano ai Severi, Torino 1992, in part. 2 s. e 5, il ricorso all’humanitas (così come anche alla benignitas ed alla clementia) nella legislazione imperiale e nella giurisprudenza che a quella si ispirava, avviene sia al fine di rifondare la giuridicità in termini sovrannazionali, adeguati alla dimensione dell’Impero, sia anche in chiave propagandistica per legittimare la funzione esercitata dal Potere, teso ad imporsi in chiave universalistica attraverso l’assunzione di valori filantropici.