Università di Sassari
diritto
e pax deorum in Roma Antica
Sommario: 1. Premessa. – 2. Pax deorum. – 3. Luoghi
della pax deorum: la urbs Roma
“auspicato inauguratoque condita”.
– 4. Procedure
operative per la pax deorum. A) Qualificazione religiosa
del tempo (tempo degli dèi). – 5. B)
“Aperture cultuali” verso
tutti gli dèi: alcuni esempi dai documenti sacerdotali. – 6. Ispirazione religiosa della
pace.
Pochi giorni dopo il suo trionfale ritorno
dall’esilio, Marco Tullio Cicerone introduceva con queste parole
l’orazione De domo sua,
pronunciata davanti al collegio dei pontefici il giorno 29 settembre (o forse
il 30) del 57 a.C.:
Cic. De
domo 1: Cum multa divinitus, pontifices, a maioribus nostris inventa atque instituta
sunt, tum nihil praeclarius quam quod eosdem et religionibus deorum immortalium
et summae reipublicae praeesse voluerunt, ut amplissimi et clarissimi cives rem
publicam bene gerendo religiones, religionibus sapienter interpretando rem
publicam conservarent[1].
Non posso certo ripercorrere qui di seguito
le vicende della casa di Cicerone, la cui area, dopo la condanna
all’esilio dell’oratore, era stata fatta consacrare dal tribuno della
plebe P. Clodio Pulcro[2], con l’intenzione di innalzarvi un
tempio alla Libertas[3]; tuttavia, vorrei rammentare il valore
giuridico e religioso dell’orazione, che si presenta come una fonte
attendibilissima, e certo ben documentata, in tema di ius publicum e di ius pontificium[4].
Il brano iniziale del celebre discorso
ciceroniano esprime, in maniera davvero pregnante, il pensiero politico
essenziale e l’ideologia dominante della classe dirigente romana in
merito al rapporto tra diritto (pubblico / privato) e religione. Al di
là della circostanza, nelle parole di Cicerone si registra tutta la
consapevolezza, tipicamente romana, sia dell’ispirazione religiosa delle
istituzioni della res publica populi
Romani, sia del carattere “civile” della religione tradizionale
di Roma[5].
Ne consegue, che l’idea di pax deorum risulta l’angolo visuale più idoneo per inquadrare
le dinamiche del sistema giuridico-religioso romano[6].
Questa mia comunicazione propone alcune
riflessioni sul tema diritto e pax deorum.
Per comprendere le dinamiche del sistema
giuridico-religioso romano risulta fondamentale l’idea di pax deorum[7].
Infatti, nella comunità romana arcaica e repubblicana, la sapientia (teologica e giuridica) dei
sacerdoti, rivolgendo le sue prime e maggiori cautele alla regolamentazione dei
rapporti tra uomini e dèi, perseguiva la finalità essenziale di
instaurare, preservare e conservare la pax
deorum: cioè una favorevole situazione di benevolenza e di amicizia
da parte degli dèi. La conservazione della pax deorum
richiedeva una perfetta conoscenza da parte dei sacerdoti di tutto ciò
che potesse turbarla; degli atti che mai dovevano essere compiuti nel tempo e
nello spazio; delle parole che mai dovevano essere pronunciate.
«In queste condizioni
tutta la vita privata e quella pubblica erano dominate dall’assillo
ansioso e ininterrotto di operare in accordo con queste “forze” o
“deità”, di procurarsi il loro ausilio, di propiziarsi il
loro assenso, di mettersi al riparo dalle loro influenze ostili, di non fare
nulla che potesse suscitare il loro sfavore o una loro reazione. La paura di
non soddisfare gli dèi o, peggio, che qualche atto o comportamento
potesse rompere la pax deorum da cui
dipendevano il benessere dell’individuo, della famiglia, della comunità,
rendeva il romano continuamente attento a cercare in qualunque aspetto della
natura i segni della volontà divina»[8].
Nell’antitesi fas/nefas[9],
fondata sul sentimento che spazio e tempo appartenessero agli Dèi, si
manifestava compiutamente la peculiarità dei rapporti tra uomini e
divinità nel sistema giuridico-religioso romano: in un sistema,
cioè, in cui la distinzione tra il “divino” e
l’“umano” rappresentava – per usare le parole di un grande
maestro come Riccardo Orestano – «la più antica concezione
romana del mondo»[10].
Va sottolineato, che su tale concezione del mondo, da cui risultano evidenti la
cautela definitoria della scienza sacerdotale e la tensione universalistica
della teologia pontificale[11],
appaiano fondate sia la definizione ulpianea di iurisprudentia, accolta nei Digesta
dell’Imperatore Giustiniano
D. 1.1.10.2 (Ulpianus libro primo regularum): Iuris prudentia
est divinarum atque humanarum rerum notitia, iusti atque iniusti scientia[12];
sia la summa divisio rerum
della giurisprudenza romana
Gai. Inst. 2.2 = D. 1.8.1 pr.: Summa itaque rerum divisio in duos
articulos diducitur: nam aliae sunt divini iuris, aliae humani [13].
Quasi sicuramente, anche M. Terenzio
Varrone[14]
faceva riferimento a questa «più antica concezione romana del
mondo» per la divisione delle sue Antiquitates[15]
in humanae e divinae[16].
Tutte le manifestazioni significative della
vita e della storia del Popolo romano
sono rappresentate in rapporto di imprescindibile causalità con la religio[17].
Teologia e ius divinum mostravano che
la volontà degli Dèi aveva determinato la fondazione dell’urbs Roma[18];
ne aveva sostenuto la prodigiosa “crescita” del numero dei
cittadini (civitas augescens, per
usare l’espressione del giurista Pomponio, conservata dai compilatori dei
Digesta Iustiniani[19]);
infine, presiedeva all’incomparabile fortuna dell’imperium populi Romani e garantiva la
sua estensione sine fine[20].
I
sacerdoti romani postularono, fin dalle prime attestazioni della memoria
storica e documentaria delle loro attività, un legame indissolubile tra
la vita del Popolo romano e la sua religio (parola da intendere nel senso
di culto degli Dèi «religione,
id est cultu deorum»)[21];
per questa ragione riti e culti della religione politeista furono sempre finalizzati
al conseguimento e alla conservazione della pax
deorum[22], pace
degli Dèi, ma da intendere nel senso di pace con gli Dèi:
«La conception – d’ordre
philosophique – du monde romain est celle d’un ensemble de rapports
ou de forces en équilibre: toute action humaine affecte par
définition cette harmonie naturelle et trouble l’ordre voulu par
les dieux. D’où la nécessité, avant (ou, au pire,
après) toute action, de se concilier l’accord des dieux témoignant
leur adhésion. La paix universelle est alors sauvegardée. La
religion consiste ainsi à rester en bons rapports avec les dieux, pour
les avoir avec soi»[23].
Per
la vita del Popolo romano si riteneva indispensabile il permanere di una
situazione di amicizia nei rapporti tra uomini e dèi[24],
considerati anch’essi una delle parti del sistema giuridico-religioso;
certo la più importante, in ragione dell’intrinseca potenza che si
riconosceva alle divinità[25].
Marco Tullio Cicerone doveva avere ben
presente questa concezione della religio,
quando scriveva nel de legibus che
gli dèi e gli uomini appartengono alla medesima societas, alla medesima civitas[26]:
Cic. De leg. 1.23: Est igitur, quoniam nihil est ratione melius, eaque est
et in homine et in deo, prima homini cum deo rationis societas. Inter quos
autem ratio, inter eosdem etiam recta ratio [et] communis est: quae cum sit
lex, lege quoque consociati homines cum dis putandi sumus. Inter quos porro est
communio legis, inter eos communio iuris est. Quibus autem haec sunt inter eos
communia, ei civitatis eiusdem habendi sunt. Si vero isdem imperiis et
potestatibus parent, multo iam magis parent [autem] huic caelesti discriptioni
mentique divinae et praepotenti deo, ut iam universus sit hic mundus una
civitas communis deorum atque hominum existimanda[27];
e che la loro associazione riposa nella comunanza della legge: lege quoque consociati homines cum dis
putandi sumus.
Dagli
dèi i Romani si aspettavano di ricevere pace e perdono[28];
senza tuttavia ignorare che le loro colpe potevano essere punite da Iuppiter con gravissimi mali[29].
Emerge così la nozione di pax
deorum, attestata ancora nella sua forma arcaica, pax divom o deum, da
Plauto (sunt hic omnia, quae ad deum
pacem oportet adesse?)[30],
Lucrezio (non divom pacis votis adit, ac
prece quaesit)[31],
Virgilio (exorat pacem divom)[32]
e Tito Livio (His avertendis terroribus
in triduum feriae indictae, per quas omnia delubra pacem deum exposcentium
virorum mulierumque turba implebantur)[33].
Dal
punto di vista umano (cioè dello ius
sacrum), il «legalismo
religioso» («Legalismo religioso è l’insieme delle
regole che insegnano a mantenere la pax
deorum»: P. Voci)[34]
dei sacerdoti romani configurava la pax
deorum come una somma di atti e comportamenti, ai quali collettività
e individui dovevano necessariamente attenersi per poter conservare il favore
degli Dèi. Questo spiega anche l’attenzione precisa e minuziosa
dell’annalistica romana, erede diretta dell’attività
“storiografica” del collegio dei pontefici[35],
nel documentare fatti e avvenimenti suscettibili di turbare la pax deorum, conseguenze negative per la
vita comunitaria, riti e cerimonie posti in essere per espiare[36].
La
conservazione della pax deorum
costituiva il fondamento e la ratio
di tutte le procedure operative dei riti pubblici e privati:
«Roman ritual, as it was later
formulated in the ius divinum of the
State-cult, recognized four means (caerimoniae)
for securing and maintaining the pax
deorum, the relation of kindliness between gods and men»[37];
allo
stesso tempo, era considerata la più solida garanzia dell’organizzazione
politica romana. Non senza ragione essa costituiva, quindi, materia dello ius del Popolo romano (ius publicum), tripartito in sacra, sacerdotes, magistratus nel De legibus di Cicerone[38]
e nella celebre definizione del giurista Ulpiano[39].
Si
tratta di «una suddivisione propria della giurisprudenza repubblicana,
tracciata in spontanea adesione ai documenti sacerdotali e magistratuali»[40].
A mio avviso, la tripartizione ulpianea (e ciceroniana) dello ius publicum affonda le sue radici in
età precedente al pareggiamento tra patrizi e plebei, o in anni appena
successivi; riflette, infatti, una gerarchizzazione delle parti dello ius publicum sostanzialmente antiplebea[41].
Il conservatorismo rituale e il carattere prevalentemente sacerdotale della giurisprudenza
medio-repubblicana[42]
hanno consentito all’antica partizione dello ius publicum di affermarsi nella sistematica giurisprudenziale del
III e II secolo a.C.[43].
Nei libri ab urbe condita
di Tito Livio[44] si
registra di norma una convinta adesione – forse anche influenzata dalla
coeva restaurazione religiosa di Augusto – alla “teologia”
della storia propria dei collegi sacerdotali romani. Nell’opera liviana,
infatti, traspare più volte la convinzione che la storia dei Romani
costituisse la prova più inconfutabile di come nelle vicende umane
«omnia prospera evenisse
sequentibus deos»:
Liv. 5.51.4-5: Equidem, si nobis cum urbe simul positae
traditaeque per manus religiones nullae essent, tamen tam evidens numen hac
tempestate rebus adfuit Romanis, ut omnem neglegentiam divini cultus exemptam
hominibus putem. Intuemini enim horum deinceps annorum vel secundas res vel
adversas; invenietis omnia prospera evenisse sequentibus deos, adversa
spernentibus[45].
Animava lo storico un altro convincimento
profondo: la pietas e la fides[46]
avevano costituito (e costituivano) gli elementi essenziali per la
legittimazione divina dell’imperium
dei Romani; a suo avviso, gli dèi si erano mostrati, in ogni
circostanza, più ben disposti verso coloro i quali avevano osservato la pietas ed onorato la fides:
Liv. 44.1.9-11: favere enim
pietati fideique deos, per quae populus Romanus ad tantum fastigii venerit[47].
Ai fini del nostro discorso, appare
più rilevante un altro passo di Tito Livio, peraltro assai conosciuto,
tratto dal quinto dei suoi ab urbe
condita libri:
Liv. 5.52.1-3: Haec culti
neglectique numinis tanta monumenta in rebus humanis cernentes ecquid sentitis,
Quirites, quantum vixdum e naufragiis prioris culpae cladisque emergentes
paremus nefas? Urbem auspicato inauguratoque conditam habemus; nullus locus in
ea non religionum deorumque est plenus; sacrificiis sollemnibus non dies magis
stati quam loca sunt in quibus fiant. Hos omnes deos publicos privatosque,
Quirites, deserturi estis?
In questo testo, relativo alla narrazione
degli eventi appena successivi alla distruzione dell’Urbe ad opera dei
Celti, il grande annalista, con un discorso attribuito a Furio Camillo, ha
voluto caratterizzare la città di Roma, proprio in ragione dei suoi initia
(cioè dei riti della sua fondazione), come lo spazio terrestre
massimamente votato alla conservazione della pax deorum («Abbiamo
una città fondata con regolari auspici e augurii, dove non vi è
luogo che non sia pieno di cose sacre e di dèi»)[48].
La valenza religiosa di questo testo liviano era stata già colta assai
bene da Huguette Fugier nel suo libro dedicato all’espressione del sacro
nella lingua latina:
«En fait, le populus ne
pourrait subsister s’il perdait le milieu sacré qui le nourrit
pour ainsi dire, en quittant l’urbs
fondée avec l’acquiescement des auspices et par un acte inaugural;
ou pour exprimer la même idée à un niveau religieux un peu
plus moderne, il ne pourrait conserver la pax
deorum, hors du cadre seul apte
à contenir les sacrifices réguliers, par lesquels cette
“paix” se maintient. Telles sont les vérités que lui
rappelle Camille, pour ruiner la folle suggestion des tribuns, d’émigrer
en masse vers le site de Véies»[49].
Del resto il testo di Livio è molto
esplicito: con buone argomentazioni, tutte svolte sul filo della teologia e
dello ius sacrum, Camillo sosteneva che il popolo romano sarebbe
perito qualora avesse abbandonato il sito dell’Urbs Roma, dove
peraltro «nullus locus in ea non religionum deorumque est plenus»;
cioè l’unico luogo che aveva determinato (al momento degli initia
Urbis) e poteva assicurare (nel tempo) l’identità religiosa
e giuridica del popolo romano, in quanto fondato da Romolo con un atto
inaugurale seguendo il volere degli dèi. Detto in altre parole, il
pensiero di Camillo è che non si potesse conservare la pax deorum
al di fuori del solo ambito locale (
Questo imprescindibile legame tra
dèi e luoghi deputati al loro culto, di cui la urbs Roma
rappresenta l’esempio più significativo, non deve far dimenticare,
tuttavia, che la religione politeista romana, proprio perché finalizzata
alla conservazione della pax deorum, fu sempre caratterizzata da
forti tensioni universalistiche e da costanti “aperture” cultuali
verso l’esterno[50].
Che il calendario romano[51],
più che far conoscere ai cittadini la successione delle stagioni o
l’annuale ripetersi del loro ciclo, avesse lo scopo precipuo di tracciare
i doveri religiosi a cui essi dovevano attenersi nei giorni stabiliti, era
stato osservato già da Auguste Bouché-Leclercq nel suo bel libro Les Pontifes de l’ancienne Rome[52],
opera per molti versi ancora fondamentale nella ricostruzione della storia di questo
antico collegio sacerdotale romano[53].
«C’était le tableau des fêtes – scriveva il
grande studioso francese – ordinaires et extraordinaires, fixes ou
mobiles, qui imposaient à l’Etat et aux particuliers le
chômage exigé par la théologie pontificale. Le calendrier,
ainsi conçu, ne pouvait être réglé que par le
collége de Pontifes et échappait par sa nature à tout
autre contrôle»[54].
Del resto, nella tradizione documentaria
sacerdotale la misurazione del tempo, o per meglio dire – parafrasando il
suggestivo sottotitolo del volume che Jörg Rüpke ha dedicato al
calendario romano[55]
– la definizione qualitativa del tempo dal punto di vista religioso,
viene sempre presentata come tipica prerogativa dei sacerdotes e prima ancora dei reges,
a cominciare dallo stesso Romolo[56]:
Macr. Sat. 1.12.3: Non igitur mirum in hac
varietate Romanos quoque olim auctore Romulo annum suum decem habuisse mensibus
ordinatum: qui annus incipiebat a Martio et conficiebatur diebus trecentis
quattuor, ut sex quidem menses, id est Aprilis Iunius Sextilis September
November December, tricenum essent dierum, quattuor vero, Martius Maius
Quintilis October, tricenis et singulis expedirentur, qui hodieque septimanas
habent nonas, ceteri quintanas[57].
A proposito di Numa Pompilio[58],
in Tito Livio si legge che il re sabino, dopo aver ristrutturato il calendario
annuale, per primo diede forma alla divisione qualitativa dei giorni (Idem nefastos dies fastosque fecit),
alla cui osservanza destinò i sacerdotes
pontifices.
Liv. 1.19.6-7: Atque omnium
primum ad cursus lunae in duodecim menses discribit annum; quem quia tricenos
dies singulis mensibus luna non explet, desuntque *** dies solido anno qui
solstitiali circumagitur orbe, intercalariis mensibus interponendis ita
dispensavit, ut vicesimo anno ad metam eandem solis unde orsi essent, plenis
omnium annorum spatiis, dies congruerent. Idem nefastos dies fastosque fecit,
quia aliquando nihil cum populo agi utile futurum erat[59].
La centralità del tempo (o
più concretamente dei giorni e delle stagioni) nelle pratiche cultuali
dell’antica religione romana[60],
finalizzate sempre alla conservazione della pax
deorum[61],
risulta anche da un altro testo di Tito Livio, attinente anch’esso alla
riforma religiosa di Numa Pompilio[62].
Liv. 1.20.5-7: (Numa)
Pontificem deinde Numam Marcium Marci filium ex patribus legit eique sacra
omnia exscripta exsignataque attribuit, quibus hostiis, quibus diebus, ad quae
templa sacra fierent, atque unde in eos sumptus pecunia erogaretur. Cetera
quoque omnia publica privataque sacra pontificis scitis subiecit, ut esset quo
consultum plebes veniret, ne quid divini iuris neglegendo patrios ritus
peregrinosque adsciscendo turbaretur; nec celestes modo caerimonias, sed iusta
quoque funebria placandosque manes ut idem pontifex edoceret, quaeque prodigia
fulminibus aliove, quo visu missa susciperentur atque curarentur[63].
Nel passo Tito Livio trascrive
l’elenco/ordine delle materie di competenze dei pontefici: hostiae, dies, templa, pecunia, cetera
sacra, funebria, prodigia; quale risultava dagli antichissimi sacra omnia exscripta exsignataque[64]
di Numa Pompilio, istitutivi del sacerdozio pontificale. Innegabile la buona
qualità di questo elenco/ordine delle competenze pontificali,
poiché, come è stato autorevolmente dimostrato[65],
il testo di Tito Livio appare ricalcato, quasi per certo, su un documento di
autentica derivazione sacerdotale.
La tradizione documentaria sacerdotale fa
risalire, dunque, le competenze del collegio dei pontefici[66]
nella qualificazione religiosa (e quindi giuridica e politica) del tempo
all’epoca immemorabile dell’origine delle istituzioni romane,
rappresentata appunto dall’età dell’antichissimo re Numa
Pompilio. Tali competenze si sostanziavano, da un punto di vista tecnico, nel
registrare le lunazioni e nell’ordinare le intercalazioni; ma in tal modo
i pontefici divennero
«i depositari della
sapienza religiosa romana, della normativa (sacrale e giuridica) che ne
derivava e che permetteva loro di dare un ordine persino al corso degli eventi.
In quest’ultima funzione essi registravano gli avvenimenti e le
magistrature di ciascun anno, e compilavano il calendario festivo»[67].
Il
rispetto del tempo degli dèi, dies
festi o feriae, era una delle prescrizioni religiose più rilevanti
del Popolo Romano; per i sacerdoti romani, infatti, la conservazione della pax deorum
dipendeva massimamente da tale scrupolosa osservanza. I dies festi, come
apprendiamo da Macrobio, erano dedicati interamente agli dèi (Festi dis dicati sunt):
Macr.
Sat. 1.16.2-3: Numa ut in menses
annum, ita in dies mensem quemque distribuit, diesque omnes aut festos aut
profestos aut intercisos vocavit. Festi dis dicati sunt, profesti hominibus ob
administrandum rem privatam publicamque concessi, intercisi deorum hominumque
communes sunt. Festis insunt sacrificia epulae ludi feriae.
Si
trattava, dunque, di giorni in cui i cittadini romani dovevano praticare la
devozione verso le divinità e celebrare i sacrifici in loro onore;
giorni sottratti alle altre attività umane, per essere consacrati
esclusivamente all’esercizio della religione.
L’obbligatorietà del rispetto delle feriae viene argomentata con linguaggio tecnico-giuridico dal
Servio Danielino nel commento al verso 268 del primo libro delle Georgiche, in un contesto che sembra
estrapolato, quanto meno, da un trattato di ius
pontificium di eccellente fattura:
Serv. in Verg. Georg. 1.268: Sunt enim aliqua, quae si festis diebus
fiant, ferias polluant: quapropter et pontifices sacrificaturi praemittere
calatores suos solent, ut, sicubi viderint opifices adsidentes opus suum,
prohibeant, ne pro negotio suo et ipsorum oculos et caerimonias deum
attaminent: feriae enim operae deorum creditae sunt. Sane feriis terram ferro
tangi nefas est, quia feriae deorum causa instituuntur, festi dies hominum
quoque.
Il commentatore di Virgilio scrive che le feriae sono da considerarsi, a tutti gli
effetti, operae dovute agli
dèi (Feriae enim operae deorum
creditae sunt) e spiega il nefas
che inibisce i lavori agricoli durante le feriae
(feriis terram ferro tangi nefas est),
in ragione del fatto che «feriae
deorum causa instituuntur». Proprio nel ricorso alla nozione di opera, mi pare possa cogliersi il
preciso senso giuridico degli obblighi gravanti sugli uomini per il rispetto
del tempo delle feriae. Tuttavia, al
riguardo, non credo di poter condividere la tesi formulata da Pierre Braun alla
fine degli anni cinquanta del Novecento, in un suo saggio dedicato ai
“Tabous des «feriae»”[68].
Lo studioso francese, basandosi sul passo appena discusso, ha sostenuto che i
divieti imposti nelle feriae
determinerebbero l’instaurarsi di una relazione tra uomini e
divinità del tutto simile «à celle de l’affranchi et
de son patron», per quanto poi nella pratica esplicazione delle operae il liberto fosse tenuto ad un
operare in positivo, mentre il dovere dell’uomo verso gli dèi era
di astenersi dalle attività vietate[69].
Su
questi divieti, i pontefici elaborarono regole di comportamento piuttosto
complesse e minuziose, di cui avevano tramandato la memoria e la dottrina nei libri del collegio, come attesta ancora
una volta Servio Danielino nel suo commento al verso 270 del primo libro delle Georgiche virgiliane.
Serv. Dan. in
Verg. Georg. 1.270: Sed qui disciplinas pontificum interius agnoverunt, ea
die festo sine piaculo dicunt posse fieri, quae supra terra sunt, vel quae
omissa nocent, vel quae ad honorem deorum pertinent, et quidquid fieri sine
institutione novi operis potest: ut rivorum inductionem sic accipimus, per
fossam vel pratum purgatum deducere, id est emittere, quoniam cautum in libris
sacris est feriis denucalibus aquam in pratum ducere nisi legitimam non licet,
ceteris feriis omnes aquas licet deducere. Ergo hic, ut aliquibus videtur,
‘deducere’ purgare est, et sordes emittere, quae praecludant aquam,
ideo quia a pontificibus, ut novum fieri non permittitur feriis, ita vetus
purgeri permittitur. Alii hoc secundum augurale ius dictum tradunt, quod etiam
in bello observetur, ne novum negotium incipiatur. Ergo ‘rivos
deducere’ non est novum negotium, et potest hoc ad illud referri quique
paludis collectum umorem bibula deducit harena. Sane quae feriae a quo genere
hominum vel quibus diebus observentur, vel quae festis diebus fieri permissa
sint, siquis scire desiderat, libros pontificales legat[70].
Tuttavia,
sulla materia vi erano scrupoli e zone d’ombra che richiedevano il
costante conforto degli esperti. Regnava, per esempio, grande incertezza sulle
opere agricole consentite durante i dies
festi; tema peraltro usuale fra gli
scrittori di agricultura: ne
trattarono Catone il Censore[71],
poi Virgilio[72] ed
infine Columella[73], senza
pervenire ad una totale identità di vedute.
Le
prescrizioni pontificali in materia dovevano essere assai permissive, almeno a
far data dall’età di Quinto Mucio Scevola[74]:
il grande giurista e pontefice massimo, infatti, consultus, quid feriis agi liceret, aveva risposto che durante le
ferie poteva essere portato a compimento tutto ciò quod praetermissum noceret.
Macr.
Sat. 1.16.11: Scaevola denique
consultus, quid feriis agi liceret, respondit: quod praetermissum noceret.
Quapropter, si bos in specum decidisset eumque pater familias adhibitis operis
liberasset, non est visus ferias polluisse; nec ille qui trabem tecti fractam
fulciendo ab imminenti vindicavit ruina[75].
Lo
stesso Quinto Mucio era, invece, piuttosto rigoroso nell’escludere la
possibilità di espiare le violazioni volontarie del “tempo degli
dei”:
Varr.
De ling. Lat. 6.30: Contrarii horum
vocantur dies nefasti, per quos dies nefas fari praetorem ‘do, dico,
addico’; itaque non potest agi: necesse est aliquo <eorum> uti
verbo, cum lege qui<d> peragitur. Quod si tum imprudens id verbum emisit
ac quem manumisit, ille nihilo minus est liber, sed vitio, ut magistratus vitio
creatus nihilo setius magistratus. Praetor qui tum fa[c]tus est, si imprudens
fecit, piaculari hostia facta piatur; si prudens dixit, Quintus Mucius
a[b]i[g]ebat eum expiari ut impium non posse[76].
Come si legge in Varrone, il pontefice
massimo Scevola, a proposito della violazione da parte del pretore dei dies nefasti,
per quos dies nefas fari praetorem
‘do, dico, addico’, distingueva nettamente la posizione del
magistrato che avesse violato il nefas
fari involontariamente (imprudens), e dunque poteva espiare con
un sacrificio; da quella di chi a tale obbligo era venuto meno volontariamente
(prudens), per il quale non vi era a
suo avviso possibilità di espiazione: si prudens dixit, Quintus Mucius aiebat eum expiari ut impium non posse[77].
L’interpretatio
(dispositiva, precettiva o rispondente) dei pontefici, e degli altri sacerdoti,
risultava dunque finalizzata a preservare nel tempo la pax deorum; da consolidare mediante le prescrizioni cultuali
previste nei giorni riservati agli dèi. Ai sacerdoti si richiedeva
un’intensa attività cautelare in rapporto al tempo e alla natura;
al fine di evitare, prevenire o rimuovere, ogni accadimento suscettibile di
innescare il verificarsi del nefas[78]
(che l’opera della natura o l’azione degli uomini tendevano sempre
a provocare), con la sua dirompente turbativa dei rapporti tra uomini e
divinità. Proprio mediante la riqualificazione a favore degli dèi
di quote del tempo profano, che in tal modo diventavano giorni di ferie e di
preghiera per tutta la comunità, la scienza sacerdotale si mostrò
quasi sempre in grado di exposcere pacem deum nella maniera più efficace. Un mirabile esempio di
questa procedura operativa può leggersi nel terzo libro di Tito Livio:
Liv.
3.5.14: Ut Romam reditum est, iustitium remissum est; caelum visum est ardere
plurimo igni, portentaque alia aut obversata oculis aut vanas exterritis
ostentavere species. His avertendis terroribus in triduum feriae indictae, per
quas omnia delubra pacem deum exposcentium virorum mulierumque turba
implebantur[79].
Con queste azioni rituali, la
giurisprudenza sacerdotale rendeva concreto, attuale e indissolubile il legame
tra la vita del Popolo romano e la
sua religio, per stabilizzare la pax deorum:
cioè il permanere di una situazione di benevolenza e amicizia nei
rapporti tra uomini e dèi.
La concezione romana di pax deorum
postulava una costante apertura religiosa, giuridica e politica verso
l’esterno[80].
Nell’intero arco del suo sviluppo storico dalla civitas all’impero, la res
publica romana – e la sua religione politeista –, è
sempre stata caratterizzata dalla continua esigenza (e preoccupazione) di
integrare l’“alieno”: dèi, uomini, spazi terrestri;
divinità dei vicini e divinità dei nemici[81],
cerchi concentrici sempre più larghi, che potenzialmente abbracciavano
l’intero spazio terrestre e tutto il genere umano. Si tratta, come appare
evidente, di una esperienza giuridica millenaria per niente assimilabile alla
concezione particolaristica ed esclusivistica dello Stato contemporaneo. Per la
stessa ragione, risulta fuorviante applicare la “Staatslehre” allo
studio dello ius publicum del popolo
romano[82].
Dai documenti sacerdotali emergono numerose
“procedure operative” che hanno permesso ai sacerdoti di dare corpo
a questa vocazione universalistica. In questa sede, mi limiterò a
segnalare solo alcuni esempi.
1.
Il primo frammento attiene alla distinzione
dei genera agrorum elaborata dalla
disciplina augurale:
Varr. De ling. Lat. 5.33: Ut nostri augures publici dixerunt,
agrorum sunt genera quinque: Romanus, Gabinus, peregrinus, hosticus, incertus.
Romanus dictus unde Roma ab Rom<ul>o; Gabinus ab oppido Gabis; peregrinus
ager pacatus, qui extra Romanum et Gabinum, quod uno modo in his servantur auspicia;
dictus peregrinus a pergendo, id est a progrediendo: eo [quod] enim ex agro
Romano primum progrediebantur. Quocirca Gabinus quoque peregrinus, sed quod
auspicia habet singularia, ab reliquo discretus; hosticus dictus ab hostibus;
incertus is, qui de his quattuor qui sit ignoratur[83].
La divisione dello spazio terrestre in
cinque agrorum genera[84]
rappresenta un mirabile esempio della semplicità, dell’efficacia
interpretativa e delle potenzialità universalistiche della scienza sacerdotale.
Pur salvaguardando la centralità dell’ager romanus (anche
verso gli Dèi), la classificazione dei genera agrorum
mostra una fortissima propensione religiosa e giuridica ad instaurare rapporti
– tanto reali quanto potenziali – con la molteplicità degli
spazi terrestri; con gli homines che hanno relazioni a vario titolo con
questi spazi; con gli innumerevoli Dèi che quegli spazi (e quanti li
abitano) presiedono e tutelano.
2.-3.
I frammenti 2 e 3 (Cic. De nat. deor. 1.84) (Serv. Dan. in Verg. Georg. 1.21) provengono dai
documenti del collegio dei pontefici[85].
Cic. De nat. deor. 1.84: At primum, quot hominum linguae, tot nomina
deorum; non enim ut tu Velleius, quocumque veneris, sic idem in Italia
Volcanus, idem in Africa, idem in Hispania. Deinde nominum non magnus numerus
ne in pontificiis quidem nostris, deorum autem innumerabilis[86].
Serv. Dan. in Verg. Georg. 1.21: dique deaeque
omnes post specialem invocationem
transit ad generalitatem, ne quod numen praetereat, more pontificum, (per) quos
ritu veteri in omnibus sacris post speciales deos, quos ad ipsum sacrum, quod
fiebat, necesse erat invocari, generaliter omnia numina invocabantur[87].
In De
nat. deor. 1.84, Cicerone attesta la rigorosa propensione dei pontefici
romani a determinare, con la maggiore certezza possibile, i nomina deorum; divinità di cui tuttavia sfuggiva alla conoscenza umana il
dato numerico quantitativo. Il frammento n. 3 (Serv. Dan. in Verg. Georg. 1.21) si presenta in
logica connessione col testo di Cicerone. Servio Danielino riferisce
all’antico mos pontificum una cautela rituale osservata
nelle formule delle preghiera indirizzate agli dèi. Quasi ad esorcizzare
l’umana impossibilità di conoscere il numero degli dèi, i
pontefici romani prescrivevano al fedele, una volta pronunciata
l’invocazione alle divinità particolari onorate nella cerimonia,
di rivolgersi sempre ad generalitatem, ne
quod numen praetereat. Non senza ragione, proprio in questo antico mos pontificum
delle preghiere, che operava fin dai primordia civitatis, «una
“apertura” illimitata» verso tutti gli Dèi, è
stata ravvisata la potenzialità
universalistica della concezione romana di pax deorum[88].
4.
Il
quarto frammento, anch’esso riferibile ai documenti del collegio dei
pontefici, attiene alle realtà teologiche e cultuali dei peregrina sacra[89],
nonché alle concrete procedure operative dell’interpretatio Romana.
Fest.
De verb. sign., v. Peregrina sacra, p.
Dalla
definizione di peregrina sacra del De verborum significatu di Sesto Pompeo Festo, emergono con
chiarezza le concrete procedure operative dell’interpretatio Romana: la “teologia” sacerdotale e lo ius divinum potevano integrare nel
rituale romano, ogni qualvolta fosse stato ritenuto necessario, tutte le
divinità straniere – compresi gli dèi dei nemici –,
delle quali si conservavano, peraltro, anche le forme di culto originarie (quae coluntur eorum more, a quibus sunt
accepta)[91]. Avvalendosi di queste procedure
operative, i sacerdoti romani conciliarono la fedeltà agli dèi
patrii con l’apertura potenzialmente illimitata verso le divinità
straniere. A fondamento dell’interpretatio[92]
stava un senso “cosmico” e “politico” della religione,
che si traduceva, secondo Jean Bayet, nei concetti di pax deorum e religio:
«Qu’il ne s’agisse point
là d’un phénomène second, mais d’un primat
psychologique, c’est ce que prouvent deux expressions
spécifiquement latines: pax deorum;
religio. Les Romains désirent,
à chaque instant de leur vie publique la “paix des dieux”,
c’est-à-dire l’assurance qu’au delà de leur
nature et de leur activité humaines ils ne rencontrent pas,
s’opposant à leur vouloir, la réaction hostile des dieux -
y compris (ceci est important) ceux de l’adversaire ou ceux dont le camp
est douteux»[93].
Come
ha rilevato assai acutamente Robert Turcan, la propensione ad allargare
all’infinito la sfera degli dèi, e quindi dei rapporti umani, fu
caratteristica congenita della religione politeista e del sistema
giuridico-religioso di Roma antica, determinando un rapporto inscindibile tra
«polythéisme et pluralisme cultuel»[94].
5.-6.
Gli
ultimi due frammenti proposti riguardano le evocationes[95]
degli dèi del nemico[96]:
Liv.
5.21.3: Te simul, Iuno regina, quae nunc Veios colis, precor ut nos victores in
nostram tuamque mox futuram urbem sequare, ubi te dignum amplitudine tua
templum accipiat[97].
Macr.
Sat. 3.9.6-9: Nam repperi in libro
quinto rerum reconditarum Sammonici Sereni utrumque carmen, quod ille se in
cuiusdam Furii vetustissimo libro repperisse professus est. Est autem carmen
huius modi quo di evocantur cum oppugnatione civitas cingitur: “Si deus,
si dea est, cui populus civitasque Carthaginiensis est in tutela, teque maxime,
ille qui urbis huius populique tutelam recepisti, precor venerorque, veniamque
a vobis peto ut vos populum civitatemque Carthaginiensem deseratis, loca templa
sacra urbemque eorum relinquatis, absque his abeatis eique populo civitatique
metum formidinem oblivionem iniciatis, propitiique Romam ad me meosque
veniatis, nostraque vobis loca templa sacra urbs acceptior probatiorque sit,
mihique populoque Romano militibusque meis propitii sitis. Si <haec> ita
faceritis ut sciamus intellegamusque, voveo vobis templa ludosque
facturum”. In eadem verba hostias fieri oportet, auctoritatemque videri
extorum, ut ea promittant futura[98].
Si
tratta delle formule solenni concepite dai sacerdoti romani per le evocationes
delle divinità che proteggevano due mortali nemici di Roma, quali la
città etrusca di Veio[99]
e la metropoli africana dell’impero dei Fenici d’Occidente,
Cartagine[100].
Non
posso discutere, qui e ora, le implicazioni teologiche e giuridiche della
formula e del rito delle evocationes[101]
degli dèi del nemico; tuttavia, appare evidente che proprio le evocationes
costituiscono una delle prove più significative della costante apertura
religiosa verso l’esterno, insita nella concezione di pax deorum
elaborata dalla teologia e dal diritto dei sacerdoti romani.
Per
la tradizione giuridica e religiosa romana, la guerra rappresentava una rottura
della pacifica naturalità delle relazioni inter populos; sempre
finalizzata, quindi, alla restaurazione della pace. Questo legame tra guerra e
pace, o per meglio dire la subordinazione della prima alla seconda, si trova
ben configurato, anche dal punto di vista della dottrina dei sacerdoti romani,
nella stessa etimologia che gli scrittori antichi davano della parola fetiales:
Varr.
De ling. Lat. 5.86: Fetiales, quod fidei publicae inter populos
praeerant: nam per hos fiebat ut iustum conciperetur bellum, et inde desitum,
ut foedere fides pacis constitueretur. Ex his mittebantur, ante quam
conciperetur, qui res repeterent, et per hos etiam nunc fit foedus, quod fidus
Ennius scribit dictum[102].
Collegando
strettamente l’etimologia[103]
alle competenze dei sacerdoti[104]
feziali, quod fidei publicae inter populos praeerant, Varrone[105]
e gli altri grammatici antichi[106]
stabilivano, dunque, un rapporto molto stretto tra fides, foedus[107]
e fetialis; mentre con l’evidenza data alla funzione «di
presiedere alla fides publica»[108],
si sottolineava la competenza di questi sacerdoti a ristabilire la fides
pacis con il foedus, piuttosto che quella (logicamente precedente)
di concipere un bellum iustum.
Da
notare, inoltre, che anche nel II libro del De legibus di Cicerone,
l’ordine delle funzioni dei sacerdoti feziali vede la pace anteposta alla
guerra.
Cic. De
leg. 2.21: Feoderum pacis, belli,
indotiarum ratorum fetiales iudices, nontii sunto, bella disceptanto.
Infine,
la “teologia” dei sacerdoti romani manifestava in tutta la sua
evidenza la subordinazione della guerra alla pace anche nell’antichissima
gerarchia dei sacerdozi: nell’ordo sacerdotum, infatti, il
flamine di Iuppiter, cioè della divinità che tra le altre
cose tutelava i foedera pacis e la fides, si presenta
sovraordinato al flamine di Marte[109].
Tuttavia,
per questa breve e conclusiva riflessione sulla pace, vorrei muovere da alcuni
versi virgiliani (Aen. 6.851-853), che a mio avviso illuminino, forse
meglio di ogni altro testo antico, la nozione “romana” della pace,
intesa nei suoi aspetti essenziali giuridici e religiosi.
Tu regere imperio populos,
Romane, memento
(hae tibi erunt artes)
pacique imponere morem,
parcere subiectis et
debellare superbos[110].
è innegabile, che la poetica
virgiliana sottenda una concezione della storia rappresentata religiosamente
come prodotto «eines Wirkens der Gotter», da cui consegue il
governo mondiale dei Romani, da intendere come missione religiosa, fondata ‑
ha scritto Antonie Wlosok ‑ sulla convinzione che esista «eine
theologische Deutung der römischen Geschichte und Herrschaft»[111];
tuttavia dai versi appena citati emerge, in primo luogo, il carattere
bilaterale e imperativo della pax. Rimandano al carattere imperativo sia
il termine mos, connesso con lex nel
commento del grammatico Servio: Pacis
morem leges pacis[112];
sia il verbo imponere[113].
L’osservanza della pax sembra
essere condizione necessaria per distinguere subiecti e superbi, assicurando la legittimità
del parcere nei confronti dei primi[114]
e dello «sterminio con la guerra» nei confronti degli altri[115].
Il carattere bilaterale della pace risulta
evidente anche nelle definizioni che ne davano giuristi e antiquari, i quali
sottolineavano la connessione etimologica del termine pax con le parole pactio
e pactum. Tale è il caso della definizione attribuita da Verrio
Flacco all’antiquario augusteo Sinnio Capitone[116]:
Fest. De verb. sign.,
p.
o di quella che i compilatori giustinianei trassero dal quarto
libro ad edictum di Ulpiano:
D. 2.14.1.1-2: Pactum autem a pactione dicitur (inde
etiam pacis nomen appellatum est) et est pactio duorum pluriumve in idem
placitum et consensus[118].
Questa
etimologia, ammessa anche da molti linguisti moderni[119],
ricollega pax alla radice indoeuropea
pak-, alternante con pag-, da cui anche l’arcaico pacere delle XII Tavole[120],
pacisci, pacio, pactio. Pax, nome d’azione
femminile, designa l’atto di stipulare una convenzione, quindi gli atti
relativi alla situazione di pace[121];
in ciò sta anche la differenza tra pax e il termine greco e„r»nh: mentre questo designa «il
contenuto e i frutti del tempo di pace, la pax
latina indica più semplicemente
il presupposto e la premessa di un contenuto, piuttosto che il contenuto
stesso»[122].
Per concludere,
mi pare dimostrato che la definizione giuridica di pace, bilaterale e
imperativa al tempo stesso, esprime pienamente questo «significato
sacrale originario di pax»[123]:
accordo tra parti in conflitto (“atto” quindi rivolto alla pace e
non alla “situazione di pace” che da esso conseguiva), che tuttavia
prefigurava, a simiglianza della pax
deorum, una
gerarchizzazione dei rapporti tra le parti contraenti, pur in presenza di idem placitum et consensum. Da
ciò lo strettissimo legame tra guerra, pace e fides, o meglio tra
la vittoria militare e quel paci imponere
morem[124] garantito
dalla fides publica, che rappresentava l’essenza
della vocazione pacifica ed universalistica del populus Romanus, seppure perseguita attraverso una storia di guerre
ininterrotte[125]. Nella
pax deorum, e nella sua conservazione, risiedevano dunque le
motivazioni religiose e giuridiche della dimensione universale dell’imperium
populi Romani[126].
[1] Trad.: Tra
le molte istituzioni che gli dèi, o pontefici, hanno ispirato ai nostri antenati,
non ce n’è una che sia più bella della loro volontà
di affidare agli stessi uomini sia i culti degli dèi immortali (religiones
deorum immortalium) sia i supremi
interessi della repubblica, affinché i più autorevoli e illustri
cittadini assicurassero col loro buon governo la conservazione dei culti e con
una saggia interpretazione della religio la prosperità della repubblica.
[2] Altre fonti:
Cic. De leg. 2.42; Plut. Cic. 33; Cass. Dio 38.17.6.
Sull’episodio, da ultimo, vedi B. Berg, Cicero’s Palatine home and Clodius’ shrine of liberty:
alternative emblems of the Republic in Cicero’s De domo sua, in Studies in Latin literature and Roman
history VIII, a cura di C. Deroux
(Bruxelles 1997) 122 ss.
[3] Il culto della Libertas ebbe ufficialmente inizio nella seconda metà del
III secolo a.C.; proprio in quegli anni, infatti, fu dedicato a questa
divinità un tempio nell’Aventino da parte di Ti. Sempronio Gracco,
console dell’anno 238 (Tito Livio 24.16.19). Cfr. G. Wissowa, Religion
und Kultus der Römer, 2a ed. (München 1912) 138 s.; K. Latte, Römische Religionsgeschichte (München 1960) 256; C. Koch, v. Libertas, in Real-Encyclopädie
der classischen Altertumswissenschaft XIII.1 (Stuttgart 1926) 101 ss.; R.F. Rossi, v. Libertas Dea, in Dizionario
Epigrafíco di Antichità Romane IV (Roma 1958) 903.
[4] Alle molteplici problematiche religiose e
giuridiche affrontate nell’orazione ciceroniana ha dedicato una
monografia la studiosa tedesca Claudia
Bergemann, Politik und Religion im
spätrepublikanischen Rom (Stuttgart 1992); ora vedi anche W. Stroh, De Domo Sua: Legal Problem and Structure,
in Cicero. The Advocate, a cura di J.
Powell e J. Paterson, (Oxford 2004) 313 ss. Cfr. F. Sini, Documenti
sacerdotali di Roma antica, I. Libri e commentarii (Sassari 1983) 96 ss., 172.
[5] Penso al genus della teologia varroniana, theologia tripertita,
conosciuta soprattutto grazie all’esposizione di Sant’Agostino in
ampi passi del De civitate dei: sul rapporto Agostino Varrone, vedi G. Barra, La figura e l’opera
di Terenzio Varrone Reatino nel “De civitate dei” di Agostino
(Napoli 1969); i passi sono raccolti in R.
Agahd, M. Terenti Varronis Antiquitates rerum divinarum. Libri I XIV
XV XVI. Praemissae sunt quaestiones varronianae, in Jahrbücher
für Classische Philologie, Supplementband 24 (Leipzig 1898) 142 ss.;
A.G. Condemi, M. Terenti Varronis Antiquitates rerum
divinarum. Librorum I-II fragmenta (Bologna 1965) 14 ss.; B. Cardauns, M. Terentius Varro Antiquitates rerum divinarum, I. Die Fragmente (Wiesbaden 1976) 18 ss.
La teologia varroniana è stata
oggetto in passato di numerosi studi: per maggiori approfondimenti rinvio
all’articolo, davvero esauriente, di G.
Lieberg, Die “Theologia tripertita” in Forschung und
Bezeugung, in Aufstieg und Niedergang
der römischen Welt I.4 (Berlin-New York 1972) 63 ss., in cui sono
discussi i contributi anteriori al 1970. Successivamente a tale data, sono da
vedere P. Boyancé, Ėtymologie
et théologie chez Varron, in Revue des Ėtudes Latines 53
(1975) 99 ss.; Id., Les implications
philosophiques des recherches de Varron sur la religion romaine, in Atti
del Congresso Internazionale di Studi Varroniani I (Rieti 1976) 137 ss.; J. Pépin, Remarques sur les
sources de la ‘theologia tripertita’ de Varron, in Varron.
Grammaire antique et stylistique latine. Recueil offet à J. Collart (Paris 1978) 127 ss.; B. Cardauns, Varro
und die römische Religion. Zur Theologie, Wirkungsgeschichte und
Leistung der Antiquitates Rerum Divinarum, in Aufstieg und Niedergang der römischen
Welt II.16.1 (Berlin-New York 1978) 80 ss.; G. Lieberg, Die theologia tripertita als Formprinzip
antiken Denkens, in Rheinisches Museum für Philologie 125
(1982) 25 ss.; H. Dörrie, Zu
Varros Konzeption der theologia tripertita in den Antiquitates rerum divinarum,
in Beiträge zur altitalischen Geistesgeschichte. Festschrift für
G. Radke (Münster 1986) 83 ss.; Y.
Lehmann, Varron théologien et philosophe romain (Bruxelles
1997) 192 ss.
[6] Sull’espressione «sistema
giuridico-religioso», vedi P.
Catalano: Linee del sistema
sovrannazionale romano I (Torino 1965) 30 ss., in part. 37 nt. 75; Aspetti
spaziali del sistema giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, in Aufstieg und Niedergang der römischen
Welt II.16.1 (Berlin-New York 1978) 445 s.; Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema
romano (Torino 1990) 57; con il quale concorda, in parte, anche G. Lombardi, Persecuzioni, laicità, libertà religiosa.
Dall’Editto di Milano alla Dignitatis Humanae (Roma 1991) 34 s.
[7] Per la definizione di pax deorum, vedi H. Fuchs,
Augustinus und der antike Friedengedanke.
Untersuchungen zum neunzehnten Buch der Civitas Dei (Berlin 1926) 186 ss.;
ampi riferimenti alle fonti attestanti i comportamenti umani suscettibili di
violarla in P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica,
in Studia et Documenta Historiae et Iuris
19 (1953) 49 ss. [= Id., Scritti di diritto romano I (Padova
1985) 226 ss.]; ai quali sono da aggiungere: J. Bayet, La religion
romaine. Histoire politique et
psychologique (1957) 2a ed. (Paris 1969 [rist. 1976]) 57 ss. [= Id., La religione romana. Storia politica e psicologica, trad. it. di G. Pasquinelli (Torino 1959,
rist. 1992) 59 ss.]; M. Sordi,
Pax deorum e libertà religiosa nella storia di Roma, in La pace nel mondo antico (Milano 1985)
146 ss.; con qualche riserva, R. Fiori,
Homo sacer. Dinamica
politico-costituzionale di una sanzione giuridico-religiosa (Napoli 1996)
167 ss.; E. Montanari, Il concetto originario di ‘pax’
e la ‘pax deorum’, in Concezioni
della pace (Seminario 21 aprile 1988),
[Da Roma alla Terza Roma, Studi - VI] a cura di P. Catalano e P. Siniscalco
(Roma 2006) 39 ss.
[9] F.
Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto
internazionale antico” (Sassari 1991) 83 ss.
[10] R.
Orestano, Dal ius al fas. Rapporto tra diritto divino e umano in Roma dall’età
primitiva all’età classica, in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano 46 (1939) 201:
«Una siffatta concezione ci riporta a quella che è stata la
più antica concezione romana del mondo, rimasta costante in tutta la
tradizione, secondo la quale la totalità degli esseri ragionevoli si
divideva in due gruppi, gli Dei e gli uomini. Da essa scaturiva la suprema
distinzione di tutti i rapporti e delle pertinenze in “divina” e “humana”».
[11] Cfr. la qualifica, certo antichissima,
attribuita al pontifex maximus nell’ordo sacerdotum: Fest. De verb.
sign., pp. 198-
[12] F. Senn,
Les origines de la notion de
jurisprudence (Paris 1926); F. Stella-Maranca,
Intorno alla definizione della
giurisprudenza, in Historia 8
(1934) 640 ss.; F. Schulz, Storia della giurisprudenza romana,
trad. it. a cura di G. Nocera (Firenze 1968) 242; R. Martini, Le definizioni
dei giuristi romani (Milano 1966) 341 nt. 543; G. Nocera, Iurisprudentia.
Per una storia del pensiero giuridico romano (Roma 1978) 9 ss.; G. Crifò, Ulpiano. Esperienze e
responsabilità del giurista, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.15 (Berlin-New
York 1976) 708 s.
[13] Sebbene nel manuale gaiano questa summa divisio sia preceduta dalla
divisione tra cose quae vel in nostro
patrimonio sunt vel extra nostrum patrimonium habentur (Inst. 2.1), non mi pare si possa
dubitare del carattere più risalente della partizione delle res tra ius divinum e ius humanum:
di ciò non dubitavano i compilatori dei Digesta Iustiniani, i quali nel titolo VIII del primo libro, De divisione rerum et qualitate, hanno
ripristinato tale priorità. Su questa divisio vedi F. Fabbrini,
v. Res divini iuris, in Novissimo Digesto Italiano XV (Torino
1968) 510 ss., con ampia rassegna del dibattito dottrinario precedente e della
bibliografia; brevemente anche G. Grosso,
Problemi sistematici del diritto romano.
Cose-Contratti (Torino 1974) 22 s. Riguardo al significato
dell’espressione summa divisio, sempre in riferimento a Gaio,
vedi invece F. Goria, Schiavi, sistematica delle persone e
condizioni economico-sociali nel principato, in Prospettive sistematiche nel diritto romano (Torino 1976) 339 ss.;
sull’influenza dell’ideologia religiosa vedi, infine, L. Lantella, Il lavoro sistematico nel discorso giuridico romano (Repertorio di
strumenti per una lettura ideologica), Ibid.
244 ss.
[14] Per la bibliografia più recente,
rinvio a Y. Lehmann, Varron
théologien et philosophe romain, [Collection Latomus, 237]
(Bruxelles 1997).
[15] Per la sistematica delle Antiquitates varroniane, risultano
fondamentali H. Dahlmann, v. M. Terentius Varro, in Real-Encyclopädie der classischen
Altertumswissenschaft, Suppl. VI (Stuttgart 1935) coll. 1229 ss.; Id., Zu Varros antiquarisch-historischen Werken, besonders den Antiquitates
rerum humanarum et divinarum, in Atti
del Congresso Internazionale di Studi Varroniani I cit. 163 ss.; J. Collart, Varron grammairien latin (Paris 1954) 275 ss. Più in
particolare, sulle ‘antichità divine’: A.G. Condemi, Proemium a M. Terenti
Varronis Antiquitates rerum divinarum. Librorum I-II fragmenta (Bologna
1965) VII ss.; B. Cardauns, M. Terentius Varro Antiquitates rerum
divinarum, II. Kommentar,
(Wiesbaden 1976) 125 ss.; P. Catalano,
Aspetti spaziali del sistema
giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia cit. 446 ss.; brevemente anche
F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, I. Libri e commentarii cit. 210 ss. Per il diritto, vedi A. Cenderelli,
Varroniana. Istituti e terminologia
giuridica nelle opere di M. Terenzio Varrone (Milano 1983).
[16] Aug. De
civ. dei 6.3: In divinis identidem
rebus eadem ab illo divisionis forma servata est, quantum attinet ad ea quae diis
exhibenda sunt. Exhibentur enim ab hominibus, in locis et temporibus sacra.
Haec quattuor, quae dixi, libris complexus est ternis: nam tres priores de
hominibus scripsit, sequentes de locis, tertios de temporibus, quartos de
sacris, etiam hic qui exhibeant, ubi exhibeant, quando exhibeant, quod
exhibeant, subtilissima distinctione commendans. Sed quia oportebat dicere et
maxime id expectabatur quibus exhibeant, de ipsis quoque diis tres conscripsit
extremos, ut quinquies terni quindecim fierent. Sunt autem omnes, ut diximus,
sedecim quia et istorum exordio unum singularem qui prius de omnibus
loqueretur, apposuit; quo absoluto consequenter ex illa quinquepartita
distributione tres praecedentes, qui ad homines petinent, ita subdivisit, ut
primus sit de pontificibus, secundus de auguribus, tertius de quindecemviris
sacrorum: secundos tres ad loca pertinentia ita, ut in uno eorum de sacellis,
altero de sacris aedibus, diceret, tertio de locis religiosis. Tres porro qui
illos sequentur, ad tempora pertinent, id est ad dies festos, ita, ut unum
faceret de feriis, alterum de ludis circensibus, de scenicis tertium. Quartorum
trium ad sacra pertinentia uni dedit consecrationes, alteri sacra privata,
ultimo publica. Hanc velut pompam obsequiorum in tribus, qui restant, dii ipsi
sequuntur extremi, quibus iste universus cultus impensus est, in primo dii
certi, in secundo incerti, in tertio cunctis novissimo dii praecipui atque
selecti.
[17] Per
significati e spettro semantico della parola, cfr. H. Fugier, Recherches
sur l’expression du sacré dans la langue latine (Paris 1963)
172 ss.; é. Benveniste, Le vocabulaire des institutions
indo-européennes, 2. Pouvoir,
droit, religion (Paris 1969) 265 ss.; H.
Wagenvoort, Wesenzüge
altrömischer Religion in Aufstieg
und Niedergang der römischen Welt I.2 (Berlin-New York 1972) 348 ss.
[ripubblicato col titolo Characteristic
Traits of Ancient Roman Religion, in Id.,
Pietas. Selected Studies in Roman
Religion (Leiden 1980) 223 ss.]; G.
Lieberg, Considerazioni
sull’etimologia e sul significato di Religio, in Rivista di Filologia e di Istruzione Classica 102 (1974) 34 ss.; R. Muth, Von Wesen römischer religio, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt II.16.1 (Berlin-New
York 1978) 290 ss.; R. Schilling,
L’originalité du vocabulaire
religieux latin, in Id., Rites, cultes, diex de Rome (Paris 1979)
30 ss.; E. Montanari, v. Religio, in Enciclopedia Virgiliana IV (Roma 1988) 423 ss.
Quanto invece all’antitesi religio/superstitio, vedi il lavoro
ormai classico di W.F. Otto,
Religio und Superstitio, in Archiv für Religionswissenschaft 14
(1911) 406 ss.; e il più recente saggio di M. Sachot, Religio/superstitio. Histoire d’une subversion et
d’un retournement, in Revue de
l’Histoire des Religions 208 (1991) 355 ss.; cfr. Anche S. Calderone, Superstitio, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt I.2 (Berlin-New York 1972)
377 ss.; D. Grodzynski, Superstitio,
in Revue des Études Anciennes 76
(1974) 36 ss.; L.F. Janssen, Die Bedeutungsentwicklung von superstitio/superstes, in Mnemosyne 28 (1975) 135 ss.; W. Belardi,
Superstitio (Roma 1976).
[18] Già il poeta Ennio aveva cantato,
in questo modo, l’antichissima fondazione dell’Urbe: Augusto augurio postquam inclita condita
Roma est (Svetonio, August. 7: cum, quibusdam censentibus Romulum appellari
oportere quasi et ipsum conditorem urbis, praevaluisset, ut Augustus potius
vocaretur, non solum novo sed etiam ampliore cognomine, quod loca quoque
religiosa et in quibus augurato quid consecratur augusta dicatur, ab auctu vel
ab avium gestu gustuve, sicut etiam Ennius docet scribens: Augusto augurio
postquam inclita condita Roma est); cfr. anche Livio 1.4.1: Sed debebatur, ut opinor, fatis tantae origo
urbis maximique secundum deorum opes imperii principium. Le varie
‘fondazioni’, di cui Roma sarebbe stata oggetto in epoche diverse,
sono state studiate da A. Grandazzi,
La fondation de Rome. Réflexion
sur l’histoire (Paris 1991); di cui vedi, in part. 195, dove lo
studioso francese sostiene che i Romani ebbero piena coscienza di questo
«recommencement perpétuel» che aveva caratterizzato la
storia della loro città. Sul tema cfr. ora F. Sini, Initia Urbis e sistema giuridico-religioso romano
(ius sacrum e ius
publicum tra terminologia e sistematica), in «Roma e America. Diritto
romano comune». Atti del Congresso internazionale «Mundus Novus.
America Latina. Sistema giuridico latinoamericano» 18 (2004) [= Mundus Novus. America. Sistema giuridico latinoamericano, a cura di
S. Schipani, Roma 2005] 205 ss.
[19] D. 1.2.2.7 (Pomponius libro singulari enchiridii): Augescente
civitate quia deerant quaedam genera agendi, non post multum temporis spatium
Sextus Aelius alias actiones composuit et librum populo dedit, qui appellatur
ius Aelianum. Le implicazioni giuridiche e politiche del concetto di civitas augescens, con particolare riguardo alla raccolta di iura ordinata dall’imperatore
Giustiniano, sono state ben delineate da P. Catalano,
Diritto e persone. Studi su origine e
attualità del sistema romano cit. xiv
s.: «Entro il quadro ‘sistematico’ della civitas augescens
[…], nei suoi aspetti demografici oltre che spaziali e temporali,
dobbiamo collocare sia il favor libertatis e l’eliminazione degli status di peregrinus e di Latinus
[…] sia il favore per i nascituri». Sulla stessa linea
interpretativa, vedi ora M.P. Baccari,
Il concetto giuridico di civitas augescens: origine e continuità, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 61 (1995) [= Studi in memoria di Gabrio Lombardi II
(Roma 1996)] 759 ss.; Ead., Cittadini popoli e comunione nella
legislazione dei secoli IV-VI [Pubblicazioni del Seminario di Diritto
Romano dell’Università di Sassari, 9] (Torino 1996) 47 ss.
[20] Verg. Aen.
1.275-279: Inde lupae fulvo nutricis tegmine laetus / Romulus
excipiet gentem et Mavortia condet / moenia Romanosque suo de nomine
dicet. / His ego nec
metas rerum nec tempora pono: / imperium sine fine dedi. La forte carica ideologica e la
precisa connotazione religiosa del passo non sono sfuggite a P. Boyancé, La religion de Virgile (Paris 1963) 54, per il quale proprio
sull’annuncio imperium sine fine
dedi «sur l’annonce de l’Empire dans la bouche du dieu
suprême repose pour ainsi dire toute l’œuvre».
Già i commentari antichi (cfr. Serv. in
Verg. Aen. 1.278) avevano stabilito un nesso ben preciso tra l’imperium sine fine e
l’eternità di Roma; lo stesso orientamento si registra nella
maggior parte della dottrina contemporanea. Tuttavia, ad un esame più
attento, il verso non sembra avere univoco senso temporale. Lo interpretano in
senso spazio/temporale sia G. Piccaluga,
Terminus. I segni di confine nella
religione romana (Roma 1974) 209; sia R. Turcan,
Rome éternelle et les
conceptions gréco-romains de l’éternité, in Roma Costantinopoli Mosca [Da Roma alla
Terza Roma, Studi I] (Napoli 1983) 16; mentre A. Mastino, Orbis, kosmos, oikoumene: aspetti spaziali dell’idea dell’impero universale da
Augusto a Teodosio, in Popoli e
spazio romano tra diritto e profezia [Da Roma alla Terza Roma, Studi III]
(Napoli 1986) 71, sostiene che nei due versi Aen. 1.278-279 è attestata la propensione augustea a
superare tutti i limiti di spazio. Per la bibliografia sul poema virgiliano, mi
pare utile rinviare a W. Suerbaum,
Hundert Jahre Vergil-Forschung: eine
systematische Arbeitsbibliographie mit besonderer Berücksichtigung der
Aeneis, in Aufstieg und Niedergang
der römischen Welt II.31.1 (Berlin-New York 1980) 3 ss. Quanto alla divini et humani iuris scientia di Virgilio, vedi invece F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il
problema del “diritto internazionale antico” cit. 17 ss.
[21] Cic. De
nat. deor. 2.8: Nihil nos P. Clodi
bello Punico primo temeritas movebit, qui etiam per iocum deos inridens, cum
cavea liberati pulli non pascerentur, mergi eos in aquam iussit, ut biberent, quoniam
esse nollent? Qui risus classe devicta multas ipsi lacrimas, magnam populo
Romano cladem attulit. Quid collega eius L. Iunius eodem bello nonne tempestate
classem amisit, cum auspiciis non paruisset? Itaque Clodius a populo
condemnatus est, Iunius necem sibi ipse conscivit. C. Flaminium Coelius
religione neglecta cecidisse apud Transumenum scribit cum magno rei publicae
vulnere. Quorum exitio intellegi potest eorum imperiis rem publicam
amplificatam qui religionibus paruissent. Et si conferre volumus nostra cum
externis, ceteris rebus aut pares aut etiam inferiores reperiemur, religione,
id est cultu deorum, multo superiores. Cfr. anche Cic. De nat. deor. 1.117: religionem,
quae deorum cultu pio continetur; De
leg. 1.60; 2.30; ed ancora De har.
resp. 18.
Una diversa definizione di religio è data da Serv. in Verg. Aen. 8.349: religio
id est metus, ab eo quod mentem religet dicta religio. Sull’uso del
termine nelle opere di Virgilio, vedi E.
Montanari, v. Religio, in Enciclopedia Virgiliana IV cit. 423 ss.
[22] Su tale nozione, mi permetto di rinviare
ad alcuni dei miei lavori (ivi fonti e letteratura precedente): F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto
internazionale antico” cit. 256 ss.; Populus et religio dans
[23] M. Humbert, Droit et religion dans
[24] Cfr. in tal senso, P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica cit. 49 [= Id., Scritti di diritto romano I cit. 224].
[25] J. Scheid, Le prêtre et le magistrat. Réflexions sur les sacerdoces
et le droit public à la fin de
[26] Cfr., al riguardo, le suggestive
riflessioni di P. Catalano, Una civitas communis deorum atque
hominum: Cicerone tra temperatio
reipublicae e rivoluzioni, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 61 (1995) [= Studi in memoria di Gabrio
Lombardi II (Roma 1996) 723 ss.].
Quanto ai diversi impieghi della parola, vedi invece P. Rodríguez, El
significado de civitas en
Cicerón, in Veleia 7
(1990) 233 ss.
[27]. Su questo
passo ciceroniano, cfr. K.M. Girardet, Die Ordnung
der Welt: ein Beitrag zur philosophischen und politischen
Interpretation von Ciceros Schrift de legibus
(Wiesbaden 1983) 135 ss.; M. Ducos,
Les Romains et la loi.
Recherches sur les rapports de la philosophie grecque et de la tradition romaine à la fin
de
[28] Cic. Pro Rabir. per. 5: ab Iove Optimo Maximo ceterisque dis deabus immortalibus, quorum ope et
auxilio multo magis haec res publica quam ratione hominum et consilio gubernatur,
pacem ac veniam peto; Ovid. Amor.
1.2.21: veniam pacemque rogamus; Liv.
39.10.5: pacem veniamque precata deorum
dearumque. Cfr. Plaut. Merc. 678:
Apollo, quaeso te ut des pacem propitius;
Liv. 1.16.3: pacem praecibus exposcunt;
3.7.8: veniam irarum caelestium finem
pesti exposcunt; Sen. Med. 595: Parcite, o divi, veniam precamur. Per una più ampia raccolta delle
fonti sul pacem deum petere da parte
degli uomini e sul pacem dare degli dèi, rinvio al libro
di H. Fuchs, Augustinus und der antike Friedengedanke cit. 186 ss.
[29] Verg. Aen.
12.849-852: Hae Iovis ad solium saevique
in limine regis / apparent acuuntque metum mortalibus aegris, / si quando letum
horrificum morbosque deum rex / molitur, meritas aut bello territat urbes;
per quanto nella teologia tradizionale Iuppiter
non era legato alla morte, come possiamo leggere nel commento di Serv. in Verg. Aen. 12.851: letum
horrificum volunt Iovem non esse morti auctorem, sed posse mortis genere
vel prodesse vel obesse mortalibus.
[30] Plaut. Poen. 252-253: Ergo amo te. Sed hoc nunc responde [mihi]: / Sunt hic omnia, quae ad
deum pacem oportet adesse?.
[31] Lucr. De rer. nat. 5.1226-1230: Summa etiam cum vis violenti per mare venti
/ induperatorem classis super aequora verrit / cum validis pariter legionibus
atque elephantis, / non divom pacem votis adit, ac prece quaesit / ventorum
pavidus paces animasque secundas?.
[32] Verg. Aen. 3.369-373: Hic Helenus caesis primum de more iuvencis / exorat pacem divom vittasque
resolvit / sacrati capitis, meque ad tua limina, Phoebe, / ipse manu multo
suspensum numine ducit, / atque haec deinde canit divino ex ore sacerdos. Questo è anche l’unico testo
di Virgilio in cui troviamo esplicitamente menzionata l’espressione pax deorum; il contenuto, poi, è
di particolare solennità rituale, in quanto il verbo exorare nel linguaggio sacerdotale
significa impetrare, come del resto
aveva già spiegato il grammatico Servio (Serv. in Verg. Aen. 3.370: exorat pacem divum aut de sacrificantum
more requirit, utrum tempus consulendi esset; nam et hoc vehementer quaeritur,
ut in sexto cum virgo poscere fata tempus ait; aut certe, quod et melius est,
de sacrificantum more ante nefas expiat ab harpyia praedictum, et sic venit ad
vaticinationem. Ut autem hic expiatam famem intellegamus sequens efficit locus,
ut aderitque vocatus Apollo, cum constet, nisi in hoc intellexeris loco, famis
causa nusquam invocatum esse Apollinis numen. Dubitationem autem in hoc loco
‘exorat’ facit; nam ‘orare’ est petere,
‘exorare’ impetrare: ergo impetrat pacem aut ad inquirendum tempus,
aut ad mitigandum famis periculum. Sul testo cfr. C. Bailey, Religion in Virgil (Oxford 1935) 47; F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto
internazionale antico” cit. 262.
[33] Liv. 3.5.14; 7.2.2: nisi quod pacis deum exposcendae causa tertio tum post conditam urbem
lectisternium fuit; 42.2.3: prodigia
expiari pacemque deum peti praecationibus, qui editi ex fatalibus libris
essent, placuit. Vedi anche Liv. 3.7.6-8; 6.41.8-9; 10.7.12; 27.22.4;
38.46.12-13; 39.10.5.
[34] P. Voci,
Diritto sacro romano in età
arcaica cit. 50 [= Id., Scritti di diritto romano cit. 225].
[35] B.W.
Frier, ‘Libri Annales
pontificum Maximorum’: the Origins of the Annalistic Tradition (Roma
1979 [2ª ed., Ann Arbor 1998]); J. Rüpke,
Livius, Priesternamen und die annales maximi, in Klio 75 (1993) 155 ss.; M. Chassignet,
L’annalistique romaine, Tome I. Les
annales des pontifes et l’annalistique ancienne (fragments), Texte
établi et traduit par M. Ch. (Paris 1996).
[36] Cfr. Liv. 2.36.1; 3.5.14; 3.10.6; 4.9.3;
4.12.6; 4.21.5; 4.30.7; 5.13.4; 6.20.16; 7.2.2; 7.3.3; 7.27.1; 7.28.7; 8.6.9;
8.9.6-12; 8.25.1; 10.47.6; 21.46.1-3; 21.63.13; 22.3.11; 22.9.7; 22.36.6;
23.31.15; 23.36.10; 23.39.5; 24.10.6; 24.44.8-9; 25.7.7-9; 25.16.1; 25.17.3;
26.23.3-6; 26.45.9; 27.4.11; 27.11.1; 28.27.16; 30.2.9-13; 30.38.8. Sul nutrito
elenco di prodigi presenti nell’opera liviana, certo improntati -
direttamente o indirettamente - agli Annales
Maximi, vedi E. De Saint-Denis,
Les énumérations de
prodiges dans l’œuvre de Tite-Live, in Revue de Philologie 16 (1942) 126 ss.; J.Ph. Packard, Official notices in Livy’s fourth
decade: style and treatment (Ann Arbor 1970) 125 ss.; E. Rawson, Prodigy list and the use of Annales Maximi, in The Classical Quarterly 21 (1971) 158 ss.; infine B. MacBain, Prodigy and expiation: a study in religion and politics in Republican
Rome (Bruxelles 1982) 82 ss. [Appendix
A: index of prodigies].
[37] C. Bailey, Phases in the religion of Ancient
[38] Cic. De
leg. 2.19 ss.; 3.6 ss. V. Marotta,
Ulpiano e l’impero I (Napoli
2000) 157, sostiene che «Ulpiano, scrivendo che “ius publicum in sacris, in sacerdotibus
… consistit”, rinnova, nella peculiare situazione politica e
religiosa dei suoi tempi, il punto di vista tradizionale di derivazione
ciceroniana: se gli auspici di Romolo e i riti di Numa posero le fondamenta
della res publica, Roma appartiene ai suoi dèi in ogni momento e in
ogni aspetto della vita quotidiana».
[39] D. 1.1.1.2 (Ulpianus libro primo institutionum): Huius
studii duae sunt positiones, publicum et privatum. Publicum ius est quod ad
statum rei Romanae spectat, privatum quod ad singulorum utilitatem: sunt enim
quaedam publice utilia, quaedam privatim. Publicum ius in sacris, in
sacerdotibus, in magistratibus consistit. Riguardo al frammento di Ulpiano,
mi pare che possano ormai considerarsi superate sia affermazioni contrarie alla
genuinità del testo: F. Schulz,
Prinzipien des römischen Rechts (München
1934) qui cit. in trad. it.: I principii
del diritto romano, trad. it. a cura
di V. Arangio-Ruiz (Firenze 1949) 23 nt. 33; U. von Lübtow, Das
römische Volk. Sein Staat und
sein Recht (Frankfurt am Main 1955) 618: «Die merkwürdige
Dreiteilung des ius publicum: in sacris,
in sacerdotibus, in magistratibus stammt sicherlich nicht von
Ulpian»; sia dubbi e perplessità: B. Albanese, Premessa allo
studio del diritto privato romano (Palermo 1978) 192 nt. 295. Favorevoli
all’autenticità del testo, fra gli altri: F. Stella Maranca, Il diritto pubblico romano nella storia delle istituzioni e delle
dottrine politiche, in Id., Scritti vari di diritto romano (Bari
1931) 102 ss.; Silvio Romano, La distinzione fra ius publicum e ius
privatum nella giurisprudenza romana, in Scritti giuridici in onore di Santi Romano IV (Padova 1940) 157
ss.; G. Nocera, Ius publicum (D. 2, 14, 38). Contributo alla
ricostruzione storico-esegetica delle regulae iuris (Roma 1946) 152 ss.:
«Ulpiano è sulla scia della più pura tradizione romana»
(161); Id., Il binomio pubblico-privato nella storia del diritto (Napoli 1989)
171 ss.; F. Wieacker, Doppelexemplare der Institutionen
Florentins, Marcians und Ulpians, in Mélenges
De Visscher II (Bruxelles 1949) 585, il quale sostiene che sacra, sacerdotia e magistratus è una suddivisione di inconfondibile stampo
repubblicano; A. Carcaterra, L’analisi del ius e della lex come elementi primi. Celso, Ulpiano, Modestino, in Studia et Documenta Historiae et Iuris
XLVI (1980) 272 ss.; G. Aricò
Anselmo, Ius publicum - ius privatum in Ulpiano, Gaio e
Cicerone, in Annali del Seminario
Giuridico dell’Università di Palermo 37 (1983) 447 ss., in
part. 461 ss.; H. Ankum, La noción de ius publicum en derecho romano, in Anuario
de Historia del Derecho Español 53 (1983) 524 ss.; M. Kaser, Ius publicum und ius privatum, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für
Rechtsgeschichte (R. A.) 103 (1986) 6 ss.; F. Sini, Bellum nefandum.
Virgilio e il problema del “diritto internazionale antico” cit.
223 nt. 112; P. Stein, Ulpian and the Distinction between ius
publicum and ius privatum, in Collatio
iuris Romani. études
dédiées à Hans Ankum à l’occasion de son
65ème anniversaire II (Amsterdam 1995) 499 ss.; V. Marotta, Ulpiano e l’impero I cit. 153 ss.
[40] P.
Catalano, La divisione del potere in Roma (a proposito di Polibio e di Catone),
in Studi in onore di Giuseppe Grosso
VI (Torino 1974) 676; con adesione di C. Nicolet,
Notes complémentaires, in Polybe, Histoires, Livre VI (Paris 1977) 149 ss.; e di J. Scheid, Le prêtre et le magistrat. Réflexions sur les sacerdoces et le droit public à la fin de
[41] F. Sini,
Documenti sacerdotali di Roma antica
cit. 213-214: «Questa simiglianza rappresenta un fatto di notevole
portata, in quanto consente di definire con precisione la matrice ideologica
della concezione ciceroniana e ulpianea del ius
publicum. Essa trae le sue radici da una gerarchizzazione assai antica
delle parti del ius publicum,
sostanzialmente antiplebea, risalente di certo alla elaborazione sacerdotale di
età precedente al pareggiamento dei due ordini, o ad età
immediatamente successiva: prova di ciò può trovarsi nel fatto
che con l’avvento dei plebei alle magistrature, questi introdussero la
consuetudine non solo di cumulare magistratura e sacerdozio, ma di anteporre
gli honores ai sacerdotia (schema ancora conservato in Varrone, De ling. Lat. 5,80-86), che divenne
tipica dell’età medio-repubblicana».
[43] F. D’Ippolito,
Giuristi e sapienti in Roma arcaica
cit.; F. Sini, A quibus iura
civibus praescribebantur. Ricerche sui
giuristi del III secolo a.C. [Pubblicazioni del Seminario di Diritto Romano
dell’Università di Sassari, 8] (Torino 1992, 1995).
[44] Già G. Scherillo, Il diritto
pubblico romano in Tito Livio, in Liviana
(Milano 1943) 79 ss., sottolineava, a ragione, la notevole rilevanza dei libri ab urbe condita quale fonte
privilegiata per la conoscenza della complessa materia dello ius publicum in età repubblicana;
nello stesso senso, C.St. Tomulescu, La valeur juridique de l’histoire de Tite-Live, in Labeo 21 (1975) 295 ss.
[45] Cfr. Liv. 1.9.3-4: Urbes quoque, ut cetera,
ex infimo nasci; dein, quas sua virtus ac dii iuvent, magnas opes sibi magnumque
nomen facere; satis scire origini Romanae et deos
adfuisse et non defuturam virtutem. 1.21.1-2: Ad haec consultanda
procurandaque multitudine omni a vi
et armis conversa, et animi
aliquid agendo occupati erant, et deorum adsidua insidens cura, cum interesse
rebus humanis caeleste numen videretur, ea pietate omnium pectora imbuerat, ut fides ac ius
iurandum pro legum ac poenarum
metu civitatem regerent. Et cum
ipsi se homines in regis
velut unici exempli mores formarent, tum finitimi etiam populi, qui antea
castra non urbem positam in medio ad sollicitandam
omnium pacem crediderant, in eam
verecundiam adducti sunt, ut civitatem
totam in cultum versam deorum violare ducerent nefas. 1.55.3-4: Inter principia condendi huius operis movisse numen ad indicandam
tanti imperii molem traditur deos; nam cum omnium
sacellorum exaugurationes admitterent
aves, in Termini fano non
addixere; idque omen auguriumque ita acceptum est, non
motam Termini sedem unumque eum deorum non evocatum
sacratis sibi finibus firma stabiliaque cuncta portendere. 8.3.10: Hoc demum proelium Samnitium res ita infregit,
ut omnibus conciliis fremerent minime id quidem mirum esse, si impio
bello et contra foedus suscepto, infestioribus merito deis quam hominibus, nihil prospere agerent. 28.11.1: In civitate tanto discrimine belli sollicita, cum omnium secundorum adversorumque causas in deos
verterent, multa prodigia nuntiabantur.
[46] M.-L. Deißmann-Merten, Fides
Romana bei Livius, Diss. 1964 (Frankfurt am Main 1965); W. Flurl, Deditio in fidem. Untersuchungen zu Livius und Polybios (Diss.
München 1969) 127 ss.; P.
Boyancé, études
sur la religion romaine (Rome
1972) 105 ss. [Fides romana et la vie internationale], 135 ss. [Les
Romains, peuple de
[47] Livio
44.1.9-11: Paucis post diebus consul
contionem apud milites habuit. Orsus a parricidio Persei perpetrato in fratrem,
cogitato in parentem, adiecit post scelere partum regnum veneficia, caedes,
latrocinio nefando petitum Eumenen, iniurias in populum Romanum, direptiones
sociarum urbium contra foedus. Ea omnia quam dis quoque invisa essent, sensurum
in exitu rerum suarum; favere enim pietati fideique deos, per quae populus
Romanus ad tantum fastigii venerit. Per una visione d’insieme delle
concezioni religiose del sommo annalista romano, sono da consultare G. Stübler, Die Religiosität des Livius (Stuttgart-Berlin 1941); I. Kajanto, God and fate in Livy (Turku 1957); A. Pastorino, Religiosità romana dalle Storie di
Tito Livio (Torino 1961); W.
Liebeschuetz, The Religious
position of Livy’s History, in The
Journal of Roman Studies 67 (1967) 45 ss.; D.S. Levene, Religion
in Livy (Leiden-New York-Köln 1993); per le formule di preghiera, vedi
invece F.V. Hickson, Roman prayer language: Livy and the Aeneid
of Virgil (Stuttgart 1993).
[48] Cfr.,
in tal senso, A. Ferrabino, Urbs
in aeternum condita (Padova 1942); J. Vogt,
Römischer Glaube und römisches
Weltreich (Padova 1943). Per quanto riguarda, invece, più
specificamente l’ideologia, vedi H. Haffter,
Rom und römische Ideologie bei
Livius, in Gymnasium 71 (1964)
236 ss. [= Id., Römische Politik und römische Politiker (Heidelberg 1967)
74 ss.]; M. Mazza, Storia e ideologia in Livio. Per
un’analisi storiografica della ‘praefatio’ ai ‘libri ab
urbe condita’ (Catania 1966) 129 ss.; G. Miles, Maiores, Conditores, and Livy’s Perspective of the Past,
in Transactions of the American
Philological Association 118 (1988) 185 ss.; B. Feichtinger, Ad maiorem gloriam Romae. Ideologie und Fiktion in der Historiographie des Livius, in Latomus 51 (1992) 3 ss.
[49] H. Fugier, Recherches sur l’expression du
sacré dans la langue latine cit. 207; ma vedi anche la riflessione
di C.M. Ternes, Tantae molis erat… De la ‘nécessité’ de
fonder Rome, vue par quelques écrivains romains du –1er
siècle, in “Condere
Urbem”. Actes des 2èmes Rencontres Scientifiques de Luxembourg
(janvier 1991) (Luxembourg 1992) 18 s.
[50] F.
Sini, Impero Romano e religioni straniere: riflessioni in tema di
universalismo e “tolleranza” nella religione politeista romana,
in Sandalion. Quaderni di cultura
classica, cristiana e medievale 21-22 (1998-1999 [pubbl. 2001]) 57 ss.; Id., Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma
antica, cit. 44 ss.; Id., Dai
documenti dei sacerdoti romani: dinamiche dell’universalismo nella
religione e del diritto pubblico di Roma, in Diritto @ Storia 2 (Marzo 2003) < http://www.dirittoestoria.it/tradizione2/Sini-Dai-Documenti.htm
>; Id., Dai peregrina sacra alle pravae et externae religiones dei Baccanali: alcune riflessioni su
‘alieni’ e sistema giuridico-religioso romano, in
[51] Per un rapido elenco dei calendari
superstiti, vedi N. Turchi, La religione di Roma antica (Bologna
1939) 320 s.; D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, dal calendario
festivo all’ordine cosmico (Milano 1988) 8; frammenti epigrafici in A. Degrassi, Inscriptiones Italiae, vol. XIII: Fasti et elogia (Roma 1963).
Sull’antico calendario romano
è ancora da consultare il vecchio lavoro di Ph.E. Huschke, Das alte
Römische Jahr und seine Tage. Eine chronologisch-rechtsgeschichtliche Untersuchung in zwei Büchern (Breslau 1869,
rist. an. Vaduz 1986); fra gli studi recenti: V.L. Johnson, The
Prehistoric Roman Calendar, in American
Journal of Philology 84 (1963) 28 ss.; Agnes
K. Michels, The Calendar of the Roman Republic (Princeton
1967), da leggere anche la recensione di J.-C.
Richard, Le calendrier
préiulien, in Revue des études latines 46 (1968) 54 ss.; Ch. Guittard, Le
calendrier romaine des origines au milieu du Ve siècle avant J. C.,
in Bulletin de l’Association G.
Budé (1973) 203 ss.; H.
Hauben, Some Osservations on the
Early Roman Calendar, in Ancient Society 11-12 (1980-1981) 41
ss.; A.J. Holleman, Zur Schaltung im vorjulianischen
römischen Kalendar, in Rheinisches
Museum für Philologie 124 (1981) 55 ss.; Ed. Liénard, Calendrier de Romulus. Les débuts du
calendrier romain, in L’Antiquité
Classique 50 (1981) 469 ss.; P.
Brind’amour, Le calendrier
romain. Recherches
chronologiques (Ottawa 1983); W.
Bergmann, Der römische
Kalender: zur sozialen Konstruktion der Zeitrechnung. Ein Beitrag zur
Soziologie der Zeit, in Saeculum
35 (1984) 1 ss.; G. Radke, Fasti Romani. Betrachtungen zur
Frühgeschichte des römischen Kalenders (Münster 1990).
[52] A. Bouché-Leclercq,
Les Pontifes de l’ancienne Rome. étude historique sur les institutions
religieuses de Rome (Paris 1871, rist. an. New York 1975).
[53] Riguardo alle prerogative giuridiche e
religiose di questi sacerdoti abbiamo – com’è noto –
una vastissima bibliografia; mi limito pertanto a segnalare, senza alcuna
pretesa di completezza, qualche titolo fra le opere più recenti: Jole Vernacchia, I pontefici nella storia del processo romano arcaico, in Ciceroniana 1.2 (1959) 124 ss.; Ead., Il pontificato nell’ambito della res
publica romana, in Studi Betti IV
(Milano 1962) 425 ss.; Ead., “Cogitabant Pontifices”, in Sodalitas. Scritti Guarino I (Napoli 1984) 315 ss.; G.J. Szemler, The Priests of the Roman Republic. A Study of interactions between
Priesthoods and Magistracies (Bruxelles 1972); Id., The Dual Priests
of the Republic, in Rheinisches
Museum für Philologie 117 (1975) 72 ss.; Id., v. Pontifex,
in Real-Encyclopädie der classischen
Altertumswissenschaft Suppl. XV (Stuttgart 1978) 331 ss.; H. Le Bourdelles, Nature profonde du pontificat romain. Tentative d’une etymologie,
in Revue d’Histoire des Religions 189
(1976) 53 ss.; A. Pariente, Sobre pontifex, in Durios 6 (1978) 7 ss.; F. Wieacker,
Altrömische Priesterjurisprudenz,
in Iuris Professio. Festgabe für Max Kaser zum 80.
Geburtstag (Wien-Köln-Graz 1986) 347 ss.; R. Seguin, Remarques
sur les origines des pontifes romains: pontifex maximus et rex sacrorum, in Res sacrae. Hommages à Henri Le Bonniec (Bruxelles 1988) 405 ss.; M.T. Beard, Priesthood in the Roman Republic (Ithaca-New York 1990) 19 ss.; J. Rüpke, Livius, Priesternamen und die annales maximi, in Klio 75 (1993) 155 ss.; Id., Innovationsmechanismen
kultischer Religionen. Sakralrecht im
Rom der Republik, in Geschichte -
Tradition - Reflexion. Festschrift für Martin Hengel zum 70. Geburtstag
II. Griechische und Römische
Religion, hrg. von H. Cancik (Tübingen 1996) 265 ss.
[55] J. Rüpke, Kalender und öffentlichkeit. Die Geschichte der Repräsentation
und religiösen Qualification von
Zeit in Rom (Berlin-New York 1995); su cui vedi la nota di J.-Cl. Richard, Du nouveau sur le calendrier romain,
in Revue des études Latines 74 (1996) 33 ss.
[56] Riguardo al “primo” re di
Roma, alla tradizione antica e al dibattito storiografico più recente,
vedi la sintesi di C. Ampolo, Introduzione, in Plutarco, Le vite di Teseo e
di Romolo, a cura di C. A. e M. Manfredini (Milano 1988) XXXII ss. (con
ampia bibliografia alle LXVIII ss.); da vedere anche A. Mastrocinque, Romolo
(la fondazione di Roma tra storia e leggenda) (Este 1993); A. Carandini, La nascita di Roma. Dèi, Lari, eroi e uomini all’alba di
una civiltà (Torino 1997) 491 ss.; J.
Poucet, Romulus: fondateur et
premier roi de Rome. Autopsie d’une légende, in Folia
Electronica Classica 2
(2001) = http://bcs.fltr.ucl.ac.be/FE/02/Romul.html .
[58] Quanto alla dottrina basterà citare
le opere, ormai classiche, di Ph.E.
Huschke, Das alte Römische
Jahr und seine Tage cit. 26 ss. («Das Jahr des Numa
Pompilius»); e di W.W. Fowler, The Religious Exsperience of the Roman
People. From the earliest times to the age of Augustus (London 1911) 92 ss.
(«The Calendar of Numa»); nonché il lavoro assai più
recente di M.
[59] Sull’importante testo liviano, con
osservazioni assai suggestive riguardo alle funzioni religiose, politiche e
giuridiche del calendario, vedi Bernadette
Liou-Gille, La calendrier Romain:
histoire et fonctions (Tite-Live, 1 19, 6-7), in Euphrosyne 20 (1992) 311 ss. Peraltro, a proposito del passo in
questione, la studiosa francese ritiene che il testo di Tito Livio ingeneri una
qualche confusione sull’essenza dei dies
fasti e nefasti, proprio nella parte conclusiva dell’excursus sul calendario: Idem nefastos dies fastosque fecit, qui
aliquando nihil cum populo agi futurum erat; poiché
l’espressione utilizzata dall’annalista «nihil cum populo agi» è un’espressione tecnica
che si utilizzava sempre a proposito delle assemblee del popolo, convocate in
comizi centuriati o in comizi tributi, sia per l’elezione dei magistrati,
sia per votare delle leggi, mentre i giorni fasti e nefasti non avevano
riguardo che all’attività giudiziaria (cfr. 320).
[60] Sul calendario festivo della religione
romana resta ancora valido, per molti versi, il lavoro di W.W. Fowler, The Roman Festivals of the Period of the Republic. An Introduction to
the Study of the Religion of the Romans, 1899 (qui citato nella ristampa
London 1925); ma sono da vedere anche P.
de Francisci, Primordia civitatis (Roma
1959) 322 ss.; E. Vetter, Zum altrömischen Festkalender, in Rheinisches Museum für Philologie
103 (1960) 90 ss.; M. Le Glay, La religion romaine (Paris 1971) 13 ss.;
A. Pastorino, La religione romana (Milano 1973) 22
ss.; A.J. Pfiffig, Religio
etrusca (Graz 1975) 91 ss.; G.
Dumézil, Fêtes
romaines d’été et d’automne, suivi de dix questions
romaines (Paris 1975) trad. it. a cura di M. Del Ninno: Feste romane (Genova 1989); D.P. Harmon, The Public Festival of Rome, in Aufstieg
und Niedergang der römischen Welt II.16.2 (Berlin-New York 1978) 1440
ss.; H.H. Scullard, Festivals and Ceremonies of the Roman
Republic (London 1981) 51 ss.; cfr. anche la traduzione tedesca: Id., Römische
Feste. Kalender und Kult (Mainz
am Rhein 1985) 75 ss.
[61] Sul
punto, mi pare di poter condividere il pensiero di Agnes K. Michels, The
Calendar of the Roman Republic cit.
5: «The pax deorum, the absence of divine anger, is
sought by all the great religious ceremonies of the state on behalf of the populus Romanus Quiritium, the body
of Roman citizens. All the activities of the state, those which to us seem
secular as well as those which are clearly religious, must be carried out at
times which meet with the approval of the gods, as it is interpreted by the
priests, because the orderly conduct of public affairs is to the Roman both
necessary for the maintenance of the pax
deorum, and also evidence that it has
been maintained. Disorder in the state is evidence that the gods are
angry».
[62] Per le fonti vedi Liv. 1.19-20; Dion. Hal.
2.64-73; Plut. Numa 9-13; Macr. Sat. 1.13. Fra gli studiosi che si sono
occupati delle riforme religiose attribuite a Numa, a parte i vecchi lavori di J.B. Carter, The Religion of Numa, and other Essays on the Religion of Ancient Rome (London 1906) 1 ss., sono da
vedere: F. Ribezzo, Numa Pompilio e la riforma etrusca della
religione primitiva di Roma, in Rendiconti
dell’Accademia dei Lincei 5, VIII ser. (1950) 553 ss.; P. Boyancé, Fides et le serment, in Hommages
à A. Grenier I (Bruxelles 1962) 329 ss. [= Id., Études sur la religion romaine
(Rome 1972) 91 ss.]; E.M. Hooker, The
Significance of Numa’s Religious Reforms, in Numen 10 (1963) 87 ss.; F.
Della Corte, Numa e le streghe,
in Maia 26 (1964) 3 ss.; M.A. Levi, Il re Numa e i “penetralia pontificum”, in Rendiconti dell’Istituto Lombardo
115 (1981 [pubbl. 1984]) 161 ss.; Id., Fides, Terminus, familia e le origini della città, in Religione e città nel mondo antico (Roma 1984) 361 ss.; J. Martínez Pinna, La reforma de Numa y la formación de
Roma, in Gerión 3 (1985)
97 ss.; J. Poucet, Les origines de Rome. Tradition et histoire (Bruxelles 1985) in
part. 194 ss., 219 ss.; L. Fascione,
Il mondo nuovo. La
costituzione romana nella ‘Storia di Roma arcaica’ di Dionigi
d’Alicarnasso I
parte (Napoli 1988) 128 ss.; G.
Capdeville, Les institutions
religieuses de
[63] Sul testo, F. Sini, Documenti
sacerdotali di Roma antica, cit. 160 ss.; Id.,
Sua cuique civitati religio. Religione e diritto
pubblico in Roma antica cit. 177 ss.; Id.,
Lòdi i bogi v rimskoj religiozno òridiqeskoj sisteme: pax deorum, vremà bogov, hertvolrinowenià cit. 8 ss.; Id., Uomini e Dèi nel sistema
giuridico-religioso romano: pax deorum, tempo degli Dèi,
sacrifici cit. [pubbl. anche
in cinese: Human Being and
Gods in the Roman Juridical-religious System: Pax Deorum, Times of Gods and
Sacrifice, Translated by Xu Guodong, Roman Law and Modern Civil Law
(University of Xiamen) 3 (2002) 1 ss.
]; Id., Aspetti
giuridici, teologici e rituali della religione romana (A proposito di
sacrifici, vittime e interpretazioni dei sacerdoti), in Poteri religiosi
e istituzioni: il culto di San Costantino Imperatore tra Oriente e Occidente,
a cura di F. Sini e P.P. Onida, [Collezione «Sistemi Giuridici del
Mediterraneo». Studi e testi, 3] (Torino 2003) 24 ss.
[64] Sul particolare significato da attribuire
all’espressione exscripta
exsignataque, nonché per la ricostruzione dei materiali in essi
contenuti, vedi E. Peruzzi, Le origini di Roma II. Le lettere (Bologna 1973) 155 ss.:
«E quindi si dovrà attribuire a exscripta exsignataque un
preciso valore tecnico; e ciò a tanto maggior ragione in quanto lo stile
arido e minuzioso della notizia liviana esclude che si possa vedere in tale
binomio un’espressione ridondante, come invece propongono certe versioni
[…] è impossibile
dire cosa significhi propriamente exsignatus
nel passo liviano (munito di sigillo impresso con un anello, accompagnato da
una formula di approvazione, da un explicit,
ecc.), ma l’espressione exscripta
exsignataque non lascia dubbio che il testo affidato al pontefice era una
copia, integrale o parziale, autenticata dal rex, degli stessi libri
latini “iuris pontificii” che si ritroveranno nel
Quanto poi al rapporto tra i sacra omnia exscripta exsignataque di Numa Pompilio e i più
antichi libri dei pontefici, vedi anche F.
Sini, Documenti sacerdotali di
Roma antica cit. 160 s.: «è
noto che nelle fonti la compilazione dei “primi” libri sacerdotali si presenta
strettamente connessa con l’organizzazione voluta dal re Numa Pompilio;
anzi, […] tale compilazione deve essere considerata, anche materialmente,
opera dello stesso re. Del resto appare ben comprensibile l’esigenza di
testi scritti che la riforma religiosa di Numa dovette imporre, se solo si
consideri la complessità dei sacra
e delle caerimoniae e la minuziosa
regolamentazione dei sacrifici, testimoniati a proposito della
religiosità di quell’epoca. Che poi questi libri Numae abbiano
costituito il nucleo primitivo dei libri
pontificum è sostenuto anche
dalla tradizione antiquaria».
[65] E.
Peruzzi, Le origini di Roma I. La famiglia (Firenze 1970) 144 s.:
«L’importanza di questo argomento e silentio è indubbia: la principale fonte scritta degli
storici di Roma sono gli annales maximi, e, come è verosimile che
dedicassero particolare attenzione a fatti di significato religioso,
così è assolutamente certo che essi erano il documento più
preciso e minuzioso della tradizione pontificale. Ora, il passo di Liu. 1.20.5
è una scarna notizia, espressa non meno ieiune di quelle degli annales,
che reca un elemento davvero singolare. Trattando della più antica età
regia, non di rado lo storico patavino indica la parentela dei personaggi, sia
pure concisamente, però questo è l’unico caso in cui egli
menziona un individuo con la sua formula onomastica, quale doveva apparire in
registrazioni burocratiche: Numa Marcius
Marci Filius; formula, si noti, dell’età di Numa Pompilio,
poiché questo sovrano, come diceva il sarcofago riportato alla luce nel
[66] A.
Bouché-Leclercq, Les
Pontifes de l’ancienne Rome cit. 228 ss.; J. Marquardt, Römische
Staatsverwaltung, III. Das
Sacralwesen, 2ª ed. a cura di G. Wissowa (Leipzig 1885 [rist. an. New
York 1975]) 281 ss.; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer cit.
432 ss.; N. Turchi, La religione di Roma antica cit. 77 ss.;
K. Latte, Römische Religionsgeschichte cit. 205 s.; G. Dumézil, La religione romana arcaica cit. 478 ss.
[69] P. Braun, “Les
tabous des «feriae»” cit. 54-55: «Ce caractère obligatoire
du respect des feriae avait une
valeur juridique à laquelle les romanistes ne se sont guère
intéressés; les feriae
étaient, en effet, des operae
dues aux dieux: Feriae … operae
deorum creditae sunt, adfirme Deutero-Servius. On pourrait évidemment
considérer que operae signifie
ici journée de travail. Mais le texte du commentateur de Virgile est
bien plus précis; il s’agit d’operae au sens juridique. Nous sommes en présence
d’une relation entre les dieux et l’homme semblable à celle
de l’affranchi et de son patron. Le parallélisme du concept
d’operae dans les deux cas est
frappant; le devoir de l’homme envers les dieux rappelle la notion
l’obsequium. […] L’homme doit se tenir à la
disposition des dieux comme l’affranchi est obligé
d’être au service de son ancien maître. Le pouvoir du patron
sur l’affranchi va jusqu’au droit de vie et de mort; il est
évident que les dieux ont un pourvoir semblable sur les hommes. Cette
soumission se matérialise dans l’officium qui signifie étymologiquement la prestation de
services ou l’exécution d’une tâche. Le terme operae désigne ces services;
mais, alors que l’affranchi est tenu à une action positive, le
devoir de l’homme envers les dieux est de s’abstenir des
activités interdites».
[70] Sulle implicazioni di questo passo del
Servio Danielino nella prospettiva di una ricostruzione delle materie raccolte
ed elaborate nei libri pontificum, si vedano, pur nella
diversità di valutazioni, G. Rohde,
Die Kultsatzungen der römischen
Pontifices (Berlin 1936) 40 s.; F. Sini,
Documenti sacerdotali di Roma antica
cit. 109 s.
[71] Cato De
agr. 4: Per ferias potuisse fossas veteres tergeri, viam publicam muniri,
vepres recidi, hortum fodiri, pratum purgari, virgas vinciri, spinas eruncari, expinsi
far, munditias fieri.
[72] Verg. Georg.
1.268-272: Quippe etiam festis quaedam
exercere diebus / fas et iura sinunt: rivos deducere nulla / religio vetuit,
segeti praetendere saepem, / insidias avibus moliri, incendere vepres /
balantumque gregem fluvio mersere salubri. Su questi versi risultano, per
molti versi, ancora valide le riflessioni di W.W.
Fowler, Roman Essays and
Interpretations (Oxford 1920) 79 ss.
[74] Intorno all’elaborazione teologica e
giuridica di questo sommo giurista dell’età repubblicana, vedi fra
gli altri: G. Lepointe, Quintus Mucius Scaevola. I. Sa vie et son
oeuvre juridique. Ses doctrines sur le droit pontifical (Paris 1926), a cui
rimando per la bibliografia precedente; F.
Schulz, Storia della giurisprudenza
romana cit. 81 ss.; O. Behrends,
Die Wissenschaftslehre im Zivilrect des
Q. Mucius Scaevola, in Nachrichten
der Akademie der Wissenschaften in Göttingen. Philologisch-Historische Klasse (1976) 265 ss.; M.
Talamanca, Costruzione giuridica e
strutture sociali fino a Quinto Mucio, in Società romana e produzione schiavistica. 3. Modelli etici, diritto e trasformazioni
sociali, a cura di A. Giardina e A. Schiavone (Roma-Bari 1981) 15 ss.; R.A. Bauman, Lawyers in Roman republican politics. A study of Roman jurists in their
political setting, 316-82 BC (München 1984) 340 ss.; F. Bona, Cicerone e i “libri iuris civilis” di Quinto Mucio Scevola,
in Questioni di giurisprudenza
tardo-repubblicana. Atti di un Seminario (Firenze, 27-28 maggio 1983), a
cura di G.G. Archi (Milano 1985) 205 ss.; A.
Schiavone, Giuristi e nobili nella
Roma repubblicana (Roma-Bari 1987) 25 ss.; Id., Linee di storia
del pensiero giuridico romano (Torino 1994) 47 ss.
Per quanto riguarda la teologia muciana, theologia tripertita, che notoriamente sta alla base del pensiero teologico
varroniano, vedi il saggio di G. Lieberg,
Die Theologia tripertita in Forschung und
Bezeugung cit. 63 ss. (a 107 ss. sono raccolte le fonti fondamentali per la
conoscenza della theologia tripertita), a cui rimando per la
discussione della bibliografia anteriore al 1970. Fra la dottrina più
recente, sono da vedere: A. Schiavone,
Quinto Mucio teologo, in Labeo 20 (1974) 315 ss. = Id., Nascita della giurisprudenza. Cultura aristocratica e pensiero giuridico
nella Roma repubblicana, 2ª ed. (Bari 1977) 5 ss.); J. Pépin, Remarques sur les sources de la ‘theologia tripertita’ de
Varron, in Varron. Grammaire antique
et stylistique latine cit. 127 ss.; G.
Lieberg, Die theologia tripertita
als Formprinzip antiken Denkens, in Rheinisches
Museum für Philologie 125 (1982) 25 ss.; A. Dihle, Die Theologia tripertita bei Augustin, in Geschichte
- Tradition - Reflexion. Festschrift für Martin Hengel zum 70. Geburtstag
II cit. 183 ss.
[75] Ph.E. Huschke, Iurisprudentiae Antejustinianae quae
supersunt, editio quinta (Lipsiae 1886) 15 fr. 12; F.P. Bremer, Iurisprudentiae
Antehadrianae quae supersunt. Pars prior: Liberae Reipublicae iuris consulti
(Lipsiae 1896, rist. an. Roma 1964) 57 fr. 2. Sul testo muciano vedi G. Lepointe, Quintus Mucius Scaevola cit. 93 s.; G. Rohde, Die
Kultsatzungen der römischen Pontifices cit. 41.
[76] Ovid. Fast. 1.47-48: Ille nefastus erit per quem tria verba silentur; / Fastus erit, per
quem lege licebit agi. Gai. Inst.
4.29: praeterea quod nefasto quoque die,
id est quod non licebat lege agere, pignus capi poterat. Cfr. inoltre
Fest. De verb. sign., p.
[77] Nello stesso
senso anche Macr. Sat. 1.16.9-10: Adfirmabant autem sacerdotes pollui ferias si
indictis conceptisque opus aliquod fieret. Praeterea regem sacrorum flaminesque
non licebat videre feriis opus fiere, et ideo per praeconem denuntiabant ne
quid tale ageretur: et praecepti neglegens multabatur. Praeter multam vero
adfirmabatur eum qui talibus diebus imprudens aliquid egisset porco piaculum
dare debere. Prudentem expiare non posse Scaevola pontifex adseverabat, sed
Umbro negat eum pollui qui opus vel ad deos pentinens sacrorumve causa
fecisset, vel aliquid ad urgentem vitae utilitatem respiciens actitasset.
[78] Per un primo approccio alla nozione di nefas, J. Paoli, Le monde
juridique du paganisme romain. Introduction
à l’étude du domaine interdit des dieux dans le temps
(nefas), in Revue Historique de Droit
Français et Étranger 23 (1945) 1 ss.; H. Fugier, Recherches sur l’expression du sacré dans la langue latine
cit. 127 ss.; P. Cipriano, Fas e nefas (Roma 1978); F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio
e il problema del “diritto internazionale antico” cit. 102 ss.
[79] Vedi anche Liv. 3.7.6-8: Haud minor Romae fit morbo strages quam
quanta ferro sociorum facta erat. Consul qui unus supererat moritur; mortui et alii clari viri, M’.
Valerius, T. Verginius Rutulus augures, Ser. Sulpicius curio maximus. Et per ignota
capita late vagata est vis morbi, inopsque senatus auxilii humani ad deos
populum ac vota vertit: iussi cum coniugibus ac liberis supplicatum ire
pacemque exposcere deum. Ad id quod sua quemque mala cogebant
auctoritate publica evocati omnia delubra implent. Stratae passim matres,
crinibus templa verrentes, veniam irarum caelestium finemque pesti exposcunt. 42.2.3-7: Cum bellum Macedonicum in expectatione esset, priusquam id
susciperetur, prodigia expiari pacemque deum peti precationibus, qui editi ex
fatalibus libris essent, placuit. Lanuvi classis magnae species in caelo visa
dicebatur, et Priverni lana pulla terra enata, et in Veienti apud Rementem
lapidatum; Pomptinum omne velut nubibus lucustarum coopertum esse; in Gallico
agro, qua induceretur aratrum, sub existentibus glebis pisces emersisse. Ob
haec prodigia libri fatales inspecti, editumque ab decemviris est, et [ex]
quibus diis quibusque hostiis sacrificaretur, et ut supplicatio prodigiis
expiandis fieret. Alteraque, quae priore anno valetudinis populi causa vota
esset, ea uti fieret feriaeque essent. Ita sacrificatum supplicatumque est, ut
decemviri scriptum ediderant.
[80] Cfr., da ultimo, F. Sini, Dai peregrina
sacra alle pravae et externae religiones dei Baccanali: alcune riflessioni su
‘alieni’ e sistema giuridico-religioso romano cit. 49 ss.; Id., Impero
Romano e religioni straniere: riflessioni su universalismo e tolleranza nella
religione politeista romana cit. 57 ss.; Id.,
Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma antica
cit. 1 ss.; Id., Dai documenti
dei sacerdoti romani: dinamiche dell’universalismo nella religione e del
diritto pubblico di Roma cit.
[81] Sul complesso fenomeno dei rapporti con
gli dèi dei vicini e con gli dèi dei nemici, interpretato in
termini di “estensioni” e “mutamenti” della religione
tradizionale, vedi G. Dumézil,
La religion romaine archaïque
cit. 409 ss., 425 ss. [= Id., La religione romana arcaica cit. 355
ss., 369 ss.].
[82] Sul punto vedi ora, brevemente, F. Sini, Diritto e documenti sacerdotali:
verso una palingenesi, in Ius Antiquum - Drevnee pravo 16 (Moskva 2005) 22 ss.
[83] A.
Brause, Librorum de disciplina
augurali ante Augusti mortem scriptorum reliquiae (Pars I) (Lipsiae 1875)
42 fr. XXVII.
[84] In merito a questa divisione elaborata dal
collegio degli auguri e, più in generale, sul valore giuridico
dell’ager, cfr. P. Catalano, Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano cit. 492
ss.
[85] Cfr. Gell. Noct. Att. 13.23.1: Comprecationes
deum immortalium, quae ritu Romano fiunt, expositae sunt in libris sacerdotum
populi Romani et in plerisque antiquis orationibus; Aug. De civ. dei 4.8.
[86] Sul rapporto tra Cic., De nat. deor. 1.84 e i libri dei pontefici: A.S. Pease, M. Tulli Ciceronis De natura deorum I (Darmstadt 1968, rist. della
1ª ed. 1955) 426; M. van den
Bruwaene, Ciceron, De natura
deorum. Livre premier (Bruxelles 1970) 146; F. Sini, Documenti
sacerdotali di Roma antica cit. 94 e
[87] Seguo la lezione del testo serviano
offerta da B. Cardauns: M. Terentius Varro, Antiquitates rerum divinarum I cit. 64 fr. 87. Su questo passo di
Servio, vedi F. Sini, Dai peregrina sacra alle pravae et externae
religiones dei Baccanali: alcune riflessioni su ‘alieni’ e sistema
giuridico-religioso romano cit. 59 s.
[88] M.
Adriani, Tolleranza e intolleranza religiosa nella Roma antica,
in Studi Romani 6 (1958) 516:
«Volgersi a tutti gli dèi come nel mos pontificum delle invocazioni si verifica, e attraverso un
rinvio dall’ambito degli dèi conosciuti e nominabili
all’ambito dei molti di cui non si sa il nome e che non possono quindi
avere un culto determinato, ma dei quali si pensa l’esistenza e cui si
vuole rendere perciò un ossequio almeno indiretto attraverso il
riconoscimento di un limite che è il limite proprio, è linea
implicita alla tolleranza religiosa, perché è confessione della
generalità rispetto al particolare di partenza, e quindi ammissione
dell’adventicium. E’ da
questo angolo visuale che si legittima un atteggiamento che potremmo dire
positivo in quanto ravvisabile in una “apertura” illimitata, e
insieme un modo altrettanto costante, ordinato negativamente, poiché
quella illimitatezza rivela nonostante tutto dei limiti».
[89] Sui sacra
peregrina vedi, per tutti, J.
Marquardt, Römische
Staatsverwaltung III cit. 42 ss., 74 ss. = Id., Le culte chez les Romains I (Paris 1889) 44 ss., 81 ss.; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer cit. 348 ss.; M. van Doren, Peregrina sacra. Offizielle Kultübertragungen im alten
Rom, in Historia 3 (1955) 488 ss. Cfr. R. Turcan, Lois romaines, dieux étrangers et «religion
d’Etat», in Diritto e
religione da Roma a Costantinopoli a Mosca, a cura di M.P. Baccari (Roma
1994) 23 ss.; F. Sini, Dai peregrina sacra alle pravae et externae religiones dei Baccanali: alcune riflessioni su
‘alieni’ e sistema giuridico-religioso romano cit. 59 ss.
[90] Quanto alla fonte del testo verriano, F. Bona, Contributo allo studio della
composizione del «de verborum significatu» di Verrio Flacco (Milano
1964) 16 nt. 11, ipotizza che possa essere una “glossa catoniana”:
una delle glosse, cioè, «il cui lemma è costituito da
espressioni verbali o nominali tratte dal lessico di Catone (nella quasi
totalità dalle orazioni)» (15); nello stesso senso Id., Opusculum Festinum (Ticini
1982) 15. Cfr. anche F. Sini, Dai peregrina sacra alle pravae et externae religiones dei Baccanali: alcune riflessioni su
‘alieni’ e sistema giuridico-religioso romano cit. 77 s.
[91] J.-L.
Girard, Interpretatio Romana. Questions historiques et problèmes de méthode, in Revue d’Histoire et Philosophie
Religieuses 60 (1980) 21 ss. In questa prospettiva, risultano chiaramente invecchiate alcune
esposizioni manualistiche della materia: cfr., ad esempio, K. Latte, Römische Religionsgeschichte cit. 264 s., per il quale il
fenomeno è da intendersi nel senso di «Hellenisierung der
Götter».
[92] R. Bloch, Interpretatio,
in Id., Recherches sur les religions de l’Italie antique
(Genève 1976) 1 ss.
[93] Queste parole si leggono in un breve ma
denso paragrafo, intitolato significativamente «Il cosmico e il politico: pax
deorum e religio», di J. Bayet, La religion romaine cit.
58 = Id., La religione romana cit. 61 s.
[94] R. Turcan, Lois romaines, dieux étrangers et
«religion d’Etat» cit. 23 ss.: «Le
polythéisme est foncièrement étranger à
l’esprit d’une “religion d’Etat”, puisqu’il
implique la possibilité d’un élargissement du
panthéon à l’infini» (31).
[95] Per un esame completo della documentazione
antica e della dottrina moderna sulla formula e sul rito, rinvio
all’ampio studio di V. Basanoff,
Evocatio. Étude d’un rituel militaire romain (Paris 1947).
[96]
Sulle implicazioni teologiche e giuridiche delle evocationes degli dèi del nemico, sono da vedere anche Plin.
Nat. hist. 28.18: Verrius Flaccus
auctores ponit, quibus credat in obpugnationibus ante omnia solitum a Romanis
sacerdotibus evocari deum, cuius in tutela id oppidum esset, promittique illi
eundem aut ampliorem apud Romanos cultum. Et durat in pontificum disciplina id
sacrum, constatque ideo occultatum, in cuius dei tutela Roma esset, ne qui
hostium simili modo agerent. Serv. Dan. in
Verg. Aen. 2.351: excessere
quia ante expugnationem evocabantur ab hostibus numina propter vitanda
sacrilegia. Inde est, quod Romani celatum esse voluerunt, in cuius dei tutela
urbs Roma sit. Et iure pontificum cautum est, ne suis nominibus dii Romani
appellarentur, ne exaugurari possint. Macr. Sat. 3.9.2-5: Constat enim omnes urbes in alicuius dei esse
tutela, moremque Romanorum arcanum et multis ignotum fuisse ut, cum obsiderent
urbem hostium eamque iam capi posse confiderent, certo carmine evocarent
tutelares deos; quod aut aliter urbem capi posse non crederent, aut etiam si
posset, nefas aestimarent deos habere captivos. Nam propterea ipsi Romani et
deum in cuius tutela urbs Roma est et ipsius urbis Latinum nomen ignotum esse
voluerunt. Sed dei quidem nomen non nullis antiquorum, licet inter se
dissidentium, libris insitum et ideo vetusta persequentibus quicquid de hoc
putatur innotuit. Alii enim Iovem crediderunt, alii Lunam, sunt qui Angeronam,
quae digito ad os admoto silentium denuntiat; alii autem, quorum fides mihi videtur
firmior, Opem Consiviam esse dixerunt. Ipsius vero urbis nomen etiam
doctissimis ignoratum est, caventibus Romanis ne quod saepe adversus urbes
hostium fecisse se noverant, idem ipsi quoque hostili evocatione paterentur, si
tutelae suae nomen divulgaretur.
[97] L’evocatio di Giunone Regina è stata studiata, fra gli altri,
da V. Basanoff, Evocatio. Étude d’un rituel militaire romain cit. 42 ss.; S. Ferri,
[98] P. Preibisch, Fragmenta
librorum pontificiorum (Tilsit 1878) 11 fr. 52; F.P. Bremer, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt
I cit. 29 fr. 1; C. Thulin, Italische sakrale Poesie und Prosa. Eine
metrische Untersuchung (Berlin 1906) 59 ss.; Huschke-Seckel-Kübler, Iurisprudentiae
anteiustinianae reliquias I cit. 15 fr. 1. Quanto all’identità del Furio
autore del vetustissimus liber, non sembrano esservi dubbi sull’identificazione
di esso con L. Furio Filo, uomo politico e giurista amico di Scipione Emiliano,
console nel
[99] Più in generale su “la guerra
tra Roma e Veio” e sulla tradizione annalistica in relazione a tale
guerra, vedi M. Sordi, I
rapporti romano-ceriti e l’origine della civitas sine suffragio (Roma
1960) 2 ss.; H. Scullard, The
Etruscan Cities and Rome (Ithaca 1967) 258 ss.
[100] Per il contesto storico di questa evocatio, vedi V. Basanoff, Evocatio. Étude d’un rituel militaire
romain cit. 37 ss.; R. Bloch,
Interpretatio cit. 17 s.; N.
Berti, Scipione Emiliano, Caio
Gracco e l’evocatio di Giunone
da Cartagine, in Aevum 64 (1990)
69 ss.
[101] Da vedere: J. Marquardt, Römische Staatsverwaltung III cit. 21
= Id., Le culte chez les
Romains I cit. 25 s.; G. Wissowa,
v. Evocatio, in Real-Encyclopädie der classischen
Altertumswissenschaft VI (Stuttgart 1907) 1152 ss.; Id., Religion und Kultus der Römer cit. 383 ss.; K. Latte, Römische Religionsgeschichte cit. 125; G. Dumézil, La
religion romaine archaïque cit. 425 s. = Id., La religione
romana arcaica cit. 369 s.; J. Alvar,
La fórmula de la evocatio y su presencia en contextos
desacralizadores, in Archivo
Español de Arqueología 57 (1984) 143 ss.; Id., Matériaux pour l’étude de la formule sive deus,
sive dea, in Numen 32 (1985) 236 ss.; J.
Rüpke, Domi militiae. Die
religiöse Konstruktion des Kriges in Rom (Stuttgart 1990) 162
ss.; A. Blomart, Die evocatio und der Transfer fremder Götter von der Peripherie nach Rom,
in H. Cancik-J. Rüpke (a cura di),
Römische Reichsreligion und Provinzialreligion (Tübingen 1997) 99 ss.
[102] A. Cenderelli, Varroniana. Istituti e terminologia
giuridica nelle opere di M. Terenzio Varrone cit. 33 fr. 44. J. Collart, Varron, De lingua Latina, Livre V, Texte
établi, traduit et annoté par J.C. (Paris 1954) 199: «Les
anciens établissaient un rapport entre foedus, fidēs
et fētiālis. La parenté des deux premiers mots est
certaine, ils diffèrent seulement par le degré de la racine. Foedus,
mot figé dans la langue religieuse et juridique, a gardé sa
diphtongue, mais fidus est attesté ici et dans les Glossaires. Quant à fētiālis,
son origine demeure obscure». Più in generale, vedi F. Cavazza, Saggio su Varrone
etimologo e grammatico. La lingua latina come modello di struttura linguistica (Firenze
1981): si occupa marginalmente del passo, ma per ribadire il rapporto foedus
/ fides (49, n. 61).
[103] Sull’etimologia della parola, R. Sgarbi, A proposito del lessema
latino «Fētiālēs», in Aevum 66 (1992) 71
ss.
[104] Sui sacerdoti feziali e sullo ius fetiale,
vedi F.C. Conradi, De Fecialibus et iure feciali populi Romani
(Helmstadii 1734); M. Voigt, De fetialibus populi Romani quaestionis
specimen (Lipsiae 1852); G. Fusinato,
Dei Feziali e del diritto feziale.
Contributo alla storia del diritto pubblico esterno di Roma, in Memorie dell’Accademia dei Lincei
13 III ser. (1883-84). Fra la letteratura più recente, P. de Francisci, Primordia
civitatis (Roma 1959) 472 ss.; P. Bierzanek, Sur les origines du droit de la guerre et
de la paix, in Revue Historique de
Droit Français et étranger
38 (1960) 94 ss.; P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano
cit.; Chr. Saulnier, Le rôle des prêtres fétiaux et l’application
du “ius fetiale” à Rome, in Revue Historique de Droit
Français et étranger
58 (1980) 171 ss.; T. Wiedemann,
The Fetiales: a reconsideration, in Classical Quarterly 36 (1986)
479 ss.; Cl. Auliard, Les
Fétiaux, un collège religieux au service du droit sacré
international ou de la politique romaine?, in Mélanges Pierre
Lévêque V (Paris 1992) 1 ss.; J.-L. Ferrary, Ius fetiale et diplomatie, in Ed. Frézouls et A. Jacquemin eds., Les relations
internationales. Actes du Colloque de Strasbourg 15-17 juin 1993 (Paris
1995) 411 ss.; L. Cappelletti, Il ruolo dei fetiales
e il concetto di civitas in Liv. IX 45, 5-
[105] Per la bibliografia più recente,
rinvio a Y. Lehmann, Varron
théologien et philosophe romain [Collection Latomus, 237] (Bruxelles
1997).
[106] Fonti sulle prerogative politiche e
rituali di tali sacerdoti: Cic. De off. 1.36; De leg. 2.21; Liv.
1.32.5-11; 8.39.14; 9.5.3-4; 9.10.2; 9.10.8; 21.45.8; 30.43.9; 31.8.3; 36.3.7;
Dion. Hal. 2.73; Val. Max. Facta et dicta 6.6.3; Plin. Nat. hist.
22.5; Arnob. Adv. Nat. 2.67.
[107] Serv. in
Verg. Aen. 1.62: Foedere modo lege, alias pace, quae fit inter dimicantes.
Foedus autem dictus vel a fetialibus, id est sacerdotibus per quos fiunt
foedera, vel a porca foede, hoc est lapidibus occisa, ut ipse et caesa
iungebant foedera porca; cfr. Servio Dan. in Verg. Aen. 4.242.
[109] Fest. De verb. sign., pp. 198-200: Ordo sacerdotum aestimatur deorum <ordine
ut deus> maximus quisque. Maximus videtur Rex, dein Dialis, post hunc
Martialis, quarto loco Quirinalis, quinto pontifex maximus. Itaque in soliis
Rex supra omnis accumbat licet; Dialis supra Martialem, et Quirinalem;
Martialis supra proximum; omnes item supra pontificem. Rex, quia potentissimus:
Dialis, qui universi mundi sacerdos, qui appallatur Dium; Martialis, quod Mars
conditoris urbis parens; Quirinalis, socio imperii Romani Curibus ascito
Quirino; pontifex maximus, quod iudex atque arbiter habetur rerum divinarum
humanarumque. Per la risalenza dell’ordo sacerdotum
attestato da Festo, vedi soprattutto G.
Dumézil, La religion
romaine archaïque cit. 155 = Id.,
La religione romana arcaica cit. 138
s.; sul testo cfr. anche F. D’Ippolito,
Giuristi e sapienti in Roma arcaica
cit. 91 s.; M. Bretone, Storia del diritto romano (Roma-Bari
1987) 108.
[110] Verg. Aen. 6.851-853. Commenti in E. Norden, P. Vergilius Maro, Aeneis, Buch VI, rist. 4ª ed. 1957 (Stuttgart 1984)
334 ss.; R.G. Austin, P. Vergili Maronis Aeneidos liber sextus (Oxford 1977) 260 ss.; E. Paratore, Virgilio, Eneide, III (Libri V‑VI) (Milano 1979) 358 s.; cfr. anche K. Büchner, Virgilio, 2ª ed. (Brescia 1986) 482. Per un inquadramento più generale,
vedi, fra gli altri: F. Christ, Die römische Weltherrschaft in der
antiken Dichtung (Stuttgart 1938)
145 ss.; E. Beckemann, Der Friede des Augustus, 2ª ed. (Münster im Westf. 1954) 37 s.; W.P. Basson, Virgil, Roman
history and the Romans’ destiny. Notes on Aen. VI 836-
[111] A. Wlosok, Römischer Religions- und Gottesbegriff in heidnischer und
christlicher Zeit, in Antike und
Abendland 16 (1970) 44: «Diese Auffassung der Geschichte als eines
Wirkens der Götter, in dem sie sich fordernd, lohnend und strafend offenbaren,
ist die einzige Form von Theologie, die Rom aufweisen kann. Denn zu einer
theoretischen Entfaltung ihres Religions- und Gottesbegriffs sind die
Römer nie gekommen. Ihr grösster und nahezu einziger Theologe ist ein
Dichter: Vergil. Seine Aenis gibt nicht nur eine theologische Deutung der
römischen Geschichte und Herrschaft in dem umrissenen Sinn». Nello stesso senso, M.A. Levi, Augusto e il
suo tempo (Milano 1986) 327: «Qualunque fosse l’atteggiamento
individuale rispetto ai problemi religiosi e metafìsici, per gli antichi
era impossibile spiegare grandi fenomeni storici, come la vicenda di Roma nei
secoli, senza ammettervi la collaborazione di forze trascendenti. Una poesia
epica sulla storia di Roma o sulle sue origini doveva affrontare il problema:
e, implicitamente, doveva dire se la potenza di Roma fosse
“giusta”, cioè fosse stata voluta dagli dèi e dal
fato».
[113] Cfr., in tal
senso, F. Klingner, Virgil und die römische Idee des
Friedens, in Id., Römische Geisteswelt, 4ª ed. (München 1961) 601: «Die
römische pax, dem Gedanken nach ein
Rechtsverhältnis zwischen zwei Partnern, ist in Wirklichkeit eine
Herrschaftsordnung, Rom ist der Partner, der von sich aus das Verhältnis
ordnet, die Bedingungen festsetzt: pacis
leges dicit oder imponit lauten
die Ausdrücke. Am Anfang steht ein Sieg Roms oder die freiwillige
Unterwerfung eines Gegners». Più in generale, sull’uso del verbo imponere vedi J.B. H(offmann), v. Impono, in Thesaurus Linguae Latinae
VII.1 (Lipsiae 1934-1964, ma 1938) 650 ss.; l’insigne studioso
tedesco colloca il passo virgiliano fra i testi enumerati al paragrafo
«imponere leges, ius sim.» (col. 657). Sul verbo vedi anche,
brevemente, A. Ernout-A. Meillet,
Dictionnaire étymologique de la
langue latine cit. 521.
[114] Sulle implicazioni del testo virgiliano,
vedi F. Eggerding, Parcere subiectis. Ein Beitrag zur Vergilinterpretation, in Gymnasium 59 (1952) 31 s.
Da considerare che il dovere di parcere i nemici sottomessi, motivo ricorrente nella riflessione politica
e giuridica dell’età repubblicana (Cic. De
off. 1.35: Quare suscipienda
quidem bella sunt ob eam causam, ut sine iniuria in pace vivatur, parta autem
victoria conservandi ii, qui non crudeles in bello, non inmanes fuerunt, ut
maiores nostri Tusculanos, Aequos, Volscos, Sabinos, Hernicos in civitatem
etiam acceperunt; Liv.
30.42.16-17: Populum Romanum eo
invictum esse, quod in secundis rebus sapere et consulere meminerit; et hercule
mirandum fuisse, si aliter faceret; ex insolentia, quibus nova bona fortuna
sit, impotentis laetitiae insanire; populo Romano usitata ac propre tam
obsoleta ex victoria gaudia esse, ac plus paene parcendo victis quam vincendo
imperium auxisse), diventa poi
nell’ideologia augustea uno dei cardini dell’azione del princeps (Res Gestae 1.3.15-16: Externas gentes, quibus tuto ignosci potuit, conservare quam excidere
malui).
[115] Penetranti considerazioni di I. Lana, La concezione della pace a Roma. Lezioni (Torino 1987) 84: «Le parole chiave sono: regere, imperium, populi, pax, subicere,
debellare. Tutte parole cariche di senso e di valore, tra le quali la pace
si presenta, al centro, come lo strumento per governare tutto il mondo con un
potere che va al di là del puro esercizio del potere, manifestandosi
come lo strumento in grado di ristabilire la giustizia, nel senso che esso
esige la sottomissione di tutti i popoli al volere del fato: chi non lo
accetta, si macchia della colpa della superbia, per la quale non
v’è né perdono né clemenza». Da vedere
anche H. Haffter, Politischen Denken im alten Rom, in Id.,
Römische Politik und
römische Politiker cit. 52
ss., in particolare 53: «Der Kampf gilt Gegnern, deren Wesen und
Gebaren eine Herausforderung darstellt. Wer die durch das imperium Romanum verkörperte politische, rechtliche, sittliche
und kulturelle Ordnung nicht anerkennt, ist ein Feind aller, ist ein
Verächter dessen, was der Völkergemeinschaft frommt, ist ein superbus»; A. Traina,
v. Superbia, in Enciclopedia Virgiliana IV (Roma 1988) 1072 ss., in partic. 1074, il quale sottolinea come il verso parcere subiectis et debellare superbos costituisca
«la giustificazione etico-politica dell’imperialismo romano almeno
sin dai tempi di Plauto e di Catone». Più in generale, sulla superbia come categoria della lotta
politica, J. Helleguarc’h, Le vocabulaire latin des relations et des
partis politiques sous
[116] W.S. Teuffel, Geschichte der römischen Literatur II, 7ª Auffl. (Leipzig 1920, rist. an.
Aalen 1965) 137 s.; M. Schanz-C. Hosius, Geschichte der römischen Literatur II cit. 380; per i frammenti H. Funaioli, Grammaticae Romanae fragmenta
(Lipsiae 1907, rist. Roma 1964) 457 ss.
[117] H. Funaioli,
Grammaticae Romanae cit. 461 fr. 10; F. Bona, Contributo allo studio della composizione del “de verborum
significatu” di Verrio Flacco
cit. 66 s. Cfr. Fest. De verb. sign., p.
[118] Cfr. anche
Isid. Orig. 5.24.18: Pactum dicitur inter partes ex pace
conveniens scriptura, legibus ac moribus comprovata; et dictum pactum quasi ex
pace factum, ab eo quod est paco, unde et pepegit. Sul frammento ulpianeo vedi L.
Ceci, Le etimologie dei
giureconsulti romani (Torino
1892) 165; F. De Visscher, Pactes et religio, ora in Id., études de droit
romain public et privé,
trois. ser. (Milano 1966) 410; A. Carcaterra, Le definizioni dei giuristi romani. Metodi, mezzi, fini (Napoli 1966) 199, il quale
considera il contenuto del frammento un «esempio di definizione
(etimologica) persuasiva».
[119] Per tutti A. Walde-J.B. Hofmann, Lateinisches etymologisches Wörterbuch II (Heidelberg 1954) 231 s.; A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la
langue latine cit. 473.
[120] Il verbo pacere compare in due frammenti del
codice decemvirale. Il primo è Tab.
I.6-7: Rem ubi pacunt, orato. Ni pacunt in comitio aut in foro ante
meridiem caussam coiciunto (Fontes Iuris Romani Anteiustiniani I cit. 28); per la discussione di
questo testo vedi, pur nella diversità di interpretazioni: C. Gioffredi,
Diritto e processo nelle antiche forme
giuridiche romane (Roma 1955) 151; Id.,
Rem ubi pacunt orato: XII Tab. 1, 6-9
(Per la critica del testo decemvirale), in Bullettino
dell’Istituto di Diritto Romano
76 (1973) 271 ss.; H. Lévy-Bruhl, Recherches sur les actions de la loi (Paris 1960) 206 s.; G.
Pugliese, Il processo civile
romano I. Le legis actiones (Roma 1962) 402 s.; M. Kaser,
Das römische Zivilprozess (München 1966) 83 s.; O. Behrends, Der
Zwölftafelprozess. Zur Geschichte
der römischen Obligationenrecht
(Göttingen 1974) 77 ss.; G.G. Archi, Ait praetor: «pacta conventa
servabo». (Studio sulla genesi e sulla funzione della
clausola nell’“Edictum Perpetuum”), in Id.,
Scritti di diritto romano I (Milano 1981) 493 nt. 28; G. Nicosia, Il processo privato romano
II cit. 68 ss.; A. Manfredini,
Rem ubi pacunt, orato, in Atti del Seminario sulla problematica contrattuale in diritto romano (Milano 1988) 73 ss.
Il secondo frammento è Tab. VIII.2: Si membrum rupsit, ni cum eo pacit, talio esto
(Fontes cit. 53); su questa norma vedi J.M. Alburquerque, Historia del «pactum» antes del
«edictum»: «pactum» como acto de paz en las XII Tablas, in Estudios en omenaje al profesor Juan Iglesias III (Madrid 1988) 1110 ss.; e la
rapida sintesi di B. Santalucia, Diritto e
processo penale nell’antica Roma (Milano 1989) 40.
[121] Ernout-Meillet,
Dictionnaire étimologique de la
langue latine cit. 473; nello stesso senso, vedi C. Milani, Note sulla terminologia della pace nel mondo
antico, in La pace nel mondo antico [Contributi dell’Istituto di
storia antica XI] a cura di M. Sordi (Milano 1985) 25.
[122] I.
Lana, La pace nel mondo antico, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 33 (1967) 9; nello stesso senso, vedi ora Id., Studi sull’idea della pace nel mondo antico cit. 21 (estratto).
[123] M.
Viano, Contributo alla storia
semantica della famiglia latina di “pax”, in Atti
dell’Accademia delle Scienze di Torino 88 (1953-1954) 12 (estratto).
[124] Cfr. Res
Gestae 2.13.43: cum per totum imperium populi Romani terra
marique esset parta victoriis pax. Tale situazione è ben colta da I. Lana, La pace nel mondo antico
cit. 9: «Perciò i Romani, quando sono in guerra e
dichiarano che il loro scopo è quello di pacem dare, leges pacis imponere, ovvero, come si esprime Virgilio nel famoso passo del libro VI
dell’Eneide, paci imponere morem, intendono dire che con la guerra
mirano a realizzare una situazione di superiorità
che consenta loro di dettare
all’avversario le condizioni per l’instaurazione di un certo
rapporto fra Roma e il nemico vinto. In questo senso preciso essi pacem dant ai vinti». Cfr. Id., Studi sull’idea della pace nel mondo antico cit. 21 dell’estratto.
[125] Su quest’aspetto, apparentemente
contradditorio, dell’ideologia romana vedi le acute osservazioni di D. Sabbatucci, La religione di Roma antica
cit. 293.