N. 3 – Maggio 2004 – Lavori in corso –
Contributi
LE COMUNITÀ RURALI NELLA SARDEGNA MEDIEVALE (SECOLI XI-XV)
Archivio di Stato, Cagliari
Università di Sassari
Nel ricordo di John Day,
spirito libero
Sommario: 1. Mitologie del sistema comunitario
sardo. – 2. La villa nella società giudicale dei
secoli XI-XII. – 3. Domini collettivi,
curatorie, scolche. – 4. Villaggi e città nel
Medioevo sardo. – 5. La villa negli statuti sardi
del XIV secolo. – 6. Gli
ordinamenti amministrativi del villaggio nella Carta de Logu di Arborea. – 7. Villaggi
e carte di franchigia nel XV secolo.
«L’esperienza legislativa dei Giudicati e
successivamente l’esperienza della legislazione nazionale […], sono state le
esperienze giuridicamente più intense della Sardegna, anche se in modi diversi
[…], e sono più intimamente penetrate nelle consuetudini locali, determinandone
spesso la crisi totale, altre volte consentendo, stimolando e condizionando sul
lato esterno, quella storia, interna al progresso delle consuetudini
originarie, che definisce il più vasto orizzonte culturale delle esperienze
autonome e originarie della cultura sarda, pur nei suoi residui arcaici»[1].
Così Antonio Pigliaru, professore di Filosofia del diritto nell’Università di
Sassari, poneva nel suo La vendetta
barbaricina come ordinamento giuridico (1959) il problema del rapporto tra
la tradizione consuetudinaria e il sistema giuridico codificato. Pigliaru,
ispirandosi alle teorie di Santi Romano, di Widar Cesarini Sforza e di Giuseppe
Capograssi sulla pluralità degli ordinamenti, riteneva che la società
agro-pastorale sarda avesse elaborato un sistema di norme e al suo interno, un
«codice della vendetta», strutturato come un ordinamento giuridico autonomo,
che avrebbe regolato le relazioni tra gli individui prescindendo dalle istituzioni
dominanti, molto spesso identificate con gli apparati repressivi dello Stato
(tribunali, carceri, caserme dei carabinieri). In sostanza Pigliaru ipotizzava
che le comunità rurali della Sardegna avessero conservato inalterato nel tempo
un patrimonio consuetudinario che affondava le radici negli istituti della
normativa statutaria trecentesca e in particolare nella Carta de Logu d’Arborea[2].
Nei primi mesi del 1796 un giovane avvocato,
Francesco Ignazio Mannu, simpatizzante dell’ala più radicale del “partito
patriottico” cagliaritano, nel suo inno antifeudale in lingua sarda, Su patriota sardu a sos feudatarios,
scriveva: «Meda innanti de sos feudos / Esistian sas biddas / Et issas fini
pobiddas / De saltos e biddattones» («Molto prima dei feudi esistevano i
villaggi ed erano loro i padroni dei pascoli e dei campi coltivati»)[3].
Mannu evocava uno stato originario, quasi incorrotto, delle comunità rurali
che, in un’epoca remota, avrebbero vissuto libere e in pace grazie alle loro
antiche consuetudini e al dominio collettivo sulle terre. Così, nonostante le
diversità di accenti e i differenti contesti culturali in cui si collocavano,
il giurista del XX secolo e l'avvocato-patriota del XVIII secolo coltivavano
idee simili: quelle della vitalità e della ricchezza di valori del patrimonio
consuetudinario sardo, dell’autonomia della comunità di villaggio, degli usi
collettivi sui pascoli e sui boschi.
Nel 1776 Francesco Gemelli, ex professore di
eloquenza nell’Università di Sassari, in un ampio trattato di ispirazione
fisiocratica dal significativo titolo Rifiorimento
della Sardegna, tracciava un quadro analitico del sistema comunitario
allora vigente nelle campagne dell’isola: «tutte le terre della Sardegna ridur
si possono a due classi – scriveva –, a terre comuni e a terre particolari.
Comuni io chiamo quelle, che possedute dalle comunità, quanto al dominio utile
almeno, concedonsi annualmente dalle medesime e gratis per l’ordinario a questi
o a quelli del lor comune, che si offeriscono a coltivarle; per tacer ora de’
pascoli, i quali sono rigorosamente comuni per quasi tutto il regno […].
Particolari poi io appello quell’altre terre – proseguiva Gemelli –, il cui
dominio utile è in proprietà di persone particolari, sieno o non sien
feudatari, godono o no del dominio diretto […]. Le terre coltivate della
Sardegna dividonsi in tanche, o serrati, e in vidazzoni. Le tanche, così appellate dal sardo tancare, che vuol dire chiudere, sono terreni serrati di siepe o di
muro […]. Questi serrati […] si coltivano a grado del padrone e facilmente
ridurr potrebbonsi alla foggia de’ poderi d’Italia […]. Intendo per vidazzoni i gran corpi delle terre
seminali del Regno in ciascun territorio, i quali sebben composti da terre
comuni e di particolari, pure per universale invariabil costume coltivansi nel
modo seguente. Divisi fin ab antico con una linea ideale, o più regioni, a
misura dell’ampiezza rispettiva de’ territori, una d’esse ogni anno destinasi
alla seminagione, restando l’altra all’uso del pascolare»[4].
Le terre arative destinate al seminerio venivano ripartite dalla
comunità «o per sortizione, o per preventiva occupazione» tra coloro che
intendevano coltivarle: era prevista una rotazione delle colture nei terreni
soggetti all’uso comunitario e le porzioni lasciate a riposo, dette paberili, dovevano sempre «rimanere
aperte al comun pascolo» del bestiame manso. Il regime collettivistico era per
Gemelli una delle principali «cagioni» dell’arretratezza delle strutture agrarie
dell’isola. La «comunanza de’ territori nella Sardegna» era «antica, antichissima»,
affermava, facendola risalire ai «costumi germanici» introdotti nel corso delle
invasioni dei vandali e dei goti[5]. In
realtà il sistema comunitario e la rotazione delle colture incominciarono a
diffondersi in Sardegna alla fine del Medioevo e ad affermarsi definitivamente
nel XVI secolo. Nell’età spagnola, infatti, il governo viceregio e le municipalità
incoraggiarono la diffusione del sistema detto a vidazzone, considerato come la soluzione più idonea per difendere i
campi coltivati dai danni provocati dal bestiame e per favorire, con la
redistribuzione periodica delle terre, i ceti contadini più poveri[6].
Soltanto nel Parlamento del viceré conte d’Elda (1602-03), su istanza degli
Stamenti ecclesiastico e militare, venne deliberato che, a causa del «molt gran
dañy als sembrats» arrecato dal bestiame, fosse esteso «generalment» a tutti i
villaggi dell’isola il sistema comunitario a vidazzone («çoes, que tots llauren junts un añy en una part, y tots
altre añy en altra part»), fatta eccezione per i «tancats», cioè i terreni
recintati (vigne, orti, oliveti, frutteti)[7].
Appare evidente che il significato attribuito da questo capitolo di corte al
termine vidazzone, sinonimo del sistema
comunitario e della rotazione delle colture, è assai diverso da quello
utilizzato nella trecentesca Carta de
Logu d’Arborea che con esso identifica soltanto le terre arative, distinte
da quelle (pardu) destinate al
pascolo del bestiame manso (cap. CLIII), i campi cerealicoli (cap. CXCIV) o in
genere i terreni coltivati adiacenti ai villaggi (cap. CXCVI)[8].
Schematicamente potremmo suddividere la storia
del villaggio medievale sardo in tre grandi fasi:
a) La prima fase, che dall’XI secolo giunge
agli inizi del XIII, si identifica con l’esperienza storica dei Giudicati e
vede le ville, spesso insediamenti di
minuscola consistenza demografica, immerse nell’universo rurale di una società
curtense, priva di centri urbani, caratterizzata da un’economia naturale
fondata sul baratto e la permuta e da una diffusa manodopera servile; la
struttura rigidamente centralistica dell’amministrazione giudicale era
suddivisa in curatorie o partes, circoscrizioni territoriali, e
in villaggi con le loro pertinenze (campi, salti, selve, acque, etc.).
b) La seconda fase, che va dalla metà del XIII
secolo a quella del secolo successivo, vede l’inarrestabile declino delle
istituzioni giudicali e, dietro l’impulso degli scambi commerciali con Pisa e
con Genova, il sorgere delle città con i loro statuti e i loro brevi che
instaurano un nuovo rapporto col mondo delle campagne e dei villaggi,
determinando con la fine dell’economia curtense e lo sviluppo dei processi di
inurbamento una sorta di ristrutturazione demografica del territorio rurale.
c) La terza fase, infine, incomincia dalla
grave crisi demografica, economica, sociale di metà Trecento dovuta alla peste,
alla guerra, all’abbandono delle colture, e vede l’introduzione degli
ordinamenti feudali e il rigido assoggettamento delle ville al rapace sistema
annonario espressione del diritto privilegiato urbano di matrice catalana:
l’organizzazione giudiziaria e amministrativa del villaggio – disciplinata
dalle norme della Carta de Logu –
rimase in vigore sino alla riforma nel Parlamento del 1602-03 dei giudizi di
corona e sino a quella dei Consigli comunitativi del 1771.
La storiografia più recente, come emerge dallo
studio di Gian Giacomo Ortu, ha voluto individuare, all’interno di una
ricostruzione complessiva della vicenda delle comunità rurali, gli elementi di
“continuità” che avrebbero caratterizzato la storia e le istituzioni del
villaggio sardo dall’età giudicale al Settecento sabaudo[9].
I primi documenti dei Giudicati risalenti
all’XI secolo (la cui autenticità resta peraltro controversa) ci offrono
l’immagine di una società rurale frazionata e atomizzata nei villaggi (villas) con le loro circoscrizioni e
delimitazioni territoriali. Nella donazione del giudice Torchitorio
all’arcivescovo di Cagliari dei villaggi di Sant’Agata di Sulcis e di
Sant’Agata di Rutilas (1080 circa) si legge ad esempio: «damus illas custas
villas cum fundamentus et saltus aquas et padrus et domestigas et semidas et
vineas quantu se apartenet apusti custas villas …»[10].
In sostanza il giudice concedeva le due ville con il relativo patrimonio base
delle due comunità (fundamentu), con
i salti, i corsi d’acqua, i pascoli, le unità di coltivazione e di allevamento
dipendenti dalla signoria fondiaria, fattorie o casali (domestias), i terreni seminativi, le vigne e tutto il territorio di
pertinenza. Non è difficile scorgere nel sistema rurale e negli istituti agrari
sardi dei secoli XI-XIII l’eredità del mondo tardo-antico e della dominazione
bizantina, in particolare nelle reliquie dei latifundia e dei compascua,
nelle ville rustiche che compongono le grandi proprietà fondiarie giudicali ed
ecclesiastiche[11].
La villa
e la domus costituiscono le due
principali forme di insediamento umano nel territorio rurale dell’età dei
Giudicati. Silvio De Santis, in una innovativa tesi di dottorato sulle
strutture agrarie sarde dei secoli XI-XIV, ha parlato molto opportunamente di
un «sistema domus», cioè di un
articolato sistema di proprietà signorili fondato sulle piccole e grandi
aziende agrarie espressione di una rete di relazioni e sostegni che traeva la
sua vitalità dalla complessità della sua organizzazione produttiva[12].
Gli elenchi di beni, che nelle donazioni descrivono le domus (o domos), mettono
in evidenza le diverse dimensioni delle aziende e la loro diversificazione
produttiva. La domus di Soliu nel
Giudicato di Torres, donata intorno al 1122 da Furato de Gitil e da sua moglie
Susanna de Thori ai monaci di Montecassino, si componeva di 4 vigneti, 3
seminativi, 2 domestias (casali), 1 iscla (terreno paludoso ma fertile), 1
salto, 42 unità servili, divise in 18 gruppi familiari, che danno un’idea
dell’estensione dell’azienda, e un discreto patrimonio zootecnico (50 cavalle,
20 cavalli domiti, 100 vacche, 300 porci, 1.200 pecore, 50 capre, 15 gioghi)[13].
Più piccola appare la domus di Barì
in Ogliastra, donata intorno al 1131 e formata da servi e serve, «binias et
domesticas, saltu e aqua et semidas»; «duos ortus d’abis» (alveari) e «duas
masonis [ovili] dde cabras et una de porcus»[14]. E
gli esempi potrebbero continuare.
In conclusione, il «sistema domus», grazie anche alla grandezza
considerevole di queste aziende fondiarie, avrebbe cercato di superare gli
originari limiti strutturali, che affondavano le radici nella dimensione
angusta della società curtense, nell’autosufficienza economica e nella pratica
del baratto e della permuta, riuscendo a operare, nonostante la scarsezza di
manodopera e i limiti tecnologici, sino a soddisfare il fabbisogno interno e
insieme a porre il surplus a
disposizione dei mercati esterni[15].
La grande espansione del XIII secolo non
sarebbe dunque soltanto il frutto di un’apertura “esterna” dell’economia sarda
dovuta alle iniziative pisane e genovesi per la produzione di materie prime
agricole e derrate alimentari destinate all’esportazione nei mercati della Terra Manna, ma anche il portato del
«sistema domus» che avrebbe posto le
premesse per uno sviluppo economico “interno”, grazie al dissodamento e alla bonifica
dei terreni incolti, alla colonizzazione dei territori spopolati, alle attività
produttive differenziate tra cerealicoltura e allevamento, alle embrionali e
timide forme di urbanesimo che nascevano proprio dalle ville giudicali (Santa
Igia, Sassari, Oristano) e si proiettavano al di fuori del mondo curtense[16].
Nelle schede dei condaghes – i cartulari monastici e giudicali dei secoli XI-XIII
nei quali venivano registrati i più importanti negozi giuridici (donazioni,
compravendite, permute, confinazioni, divisioni, concessioni, etc.), specchio
delle attività economiche delle aziende fondiarie – la villa appare spesso confusa con la domus[17]. Ad
esempio, in un atto della fine dell’XI secolo donna Tocoele, moglie del giudice
Comita, nel risistemare la domus e la
chiesa di San Pietro decide di trasferire per intero alla domus le prestazioni degli uomini che abitano la villa di Miili Picinno in Arborea[18].
Un processo inverso è quello della domus
di Bosove nel Giudicato di Torres, donata nel 1120 da Comita de Athen e da sua
moglie Muscha de Thori ai monaci di Montecassino, che nei primi decenni del XIV
secolo troveremo elevata allo stato di villaggio[19].
Ad esempio, alla metà del XII secolo vivevano
nella villa di Kelemule i fratelli Seltas, Janne armentariu (amministratore) di Caputabbas, Gosantine porcariu et armentariu della domus di Sabren: entrambi erano servi
proprio presso l’azienda di Sabren, ma le loro attribuzioni amministrative e,
probabilmente, la loro condizione sociale gli permettevano di abitare all’interno
del villaggio[20].
Alla luce dei documenti si potrebbe dunque supporre che se la domus, erede della villa rustica
tardoantica e sottoposta a un diretto dominio signorile, fosse abitata nel
complesso da manodopera servile, a sua volta il villaggio, che all’interno
della curatoria godeva di una relativa autonomia amministrativa, fosse abitato
prevalentemente da liberi o comunque da una popolazione mista, di liberi e di
servi[21].
Nei condaghes
e nelle altre fonti medievali sarde l’immagine del villaggio appare spesso
sfocata. Riscontriamo la presenza di ville indonnicate
di fondazione signorile, soggette ad uno stretto controllo da parte del donnu (il cui status non doveva essere dissimile da quello della domus). Talvolta le donnicalias o curtes (concessioni
che prevedevano per il concessionario ampie immunità economiche, tributarie e
personali) riuscivano a trasformarsi in villaggi: è il caso delle donnicalie di
Astia e di Sipollo, donate nel 1108 all’Opera di Santa Maria di Pisa dal
giudice Mariano-Torchitorio II di Cagliari, che troviamo menzionate come villae in un inventario del 1339[22].
In sostanza, il villaggio sardo dell’XI-XII secolo sembrerebbe sottoposto,
tramite le curatorie, al rigido accentramento giudicale di matrice bizantina e
soggetto al rapace fiscalismo signorile laico ed ecclesiastico. Uno dei limiti
della storiografia sarda del Novecento è stato quello di sovrapporre alla
realtà della villa altogiudicale l’immagine del villaggio due-trecentesco,
espressione delle trasformazioni sociali ed istituzionali dovute alla crisi
dell’economia curtense[23].
Anche nelle prime, pur importanti ricognizioni toponomastiche dell’habitat
medievale si è spesso fatta confusione tra la villa e le altre entità
antropiche degli insediamenti rurali[24].
Nelle schede dei condaghes non c’è alcun cenno al sistema comunitario e alla
rotazione delle colture, fenomeni che in Sardegna si sarebbero affermati molto
tardivamente. Anche i diritti collettivi degli abitanti del villaggio sui
salti, sui boschi e sui corsi d’acqua appaiono nella società rurale dei secoli
XI-XII assai sfumati e talvolta addirittura controversi. Anzi, dai cartulari
sardi emerge una forte presa signorile sui salti – quasi sempre proprietà di
privati, a titolo individuale o in condominio, o di enti –, oggetto di
concessioni giudicali o di permute, donazioni, compravendite, segno
dell’importanza del pascolo nell’economia pastorale del tempo.
Dall’attività di una grande azienda fondiaria
come quella del monastero benedettino femminile di San Pietro di Silki (nei
pressi di Sassari), che aveva un vasto e cospicuo patrimonio agricolo nelle
regioni nordoccidentali dell’isola, possiamo renderci conto dell’importanza dei
salti nelle scelte e nelle acquisizioni del convento. In uno dei primi atti,
risalente al 1065 circa, a proposito della donazione del salto di Petra de
ponte e di quello di Calkinata vengono stabilite accuratamente le delimitazioni
e le confinazioni[25]. A
metà del XII secolo la badessa Massimilla acquista da Gunnari de Thori la metà
del salto d’Arave pagandolo due libbre d’argento e da Comita de Thori Gardis il
salto del fiume Turthebi, che era in regime di concessione, per mezza libbra
d’argento e col conguaglio di un bue domito[26]. In
genere le acquisizioni avvengono per permuta o per baratto: così intorno al
1126 la badessa Theodora acquista l’omonimo salto per 40 maiali e 80 pecore
dagli homines di Tigesi, liberi e
servi (il documento non chiarisce se si tratta di una comunità), pupillos dessu saltu, detentori del
bene: fra i testi, a simboleggiare la rilevanza dell’atto, figurano il
curatore, donnu Petru de Serra, e il maiore d’iscolca, Petru Thankis[27].
Alla fine dell’XI secolo, in seguito alla donazione di Dorgotori de Bosove
della sua quota-parte del salto di Ersitali, il monastero decise di rafforzare
il proprio dominio su questo territorio, cui probabilmente attribuiva grande
importanza economica, acquistando dai figli di Furatu Cambella un terreno in
località Sa petrosa presso Silki in
cambio della loro proprietà: tre donazioni successive permisero al monastero di
acquisire tutto il salto di Ersitali[28].
Anche il giudice Barisone II di Torres, nella seconda metà del XII secolo,
acquistò dai vari condomini tutto il salto di Iani per donarlo all’ospedale di
Bosove («domo dess’ispitale», cioè azienda dell’ospedale): la quota di Comita
de Martis de Gulpis, presso la «villa di Tilickennor», venne acquistata per 25
capre e mezza libbra d’argento; quella di Ithocor de Martis e dei suoi figli
venne permutata per 8 maiali a testa; un’altra quota venne donata al giudice da
Ianne Bardeiu e dai suoi eredi; un’altra, di Mariane de Martis pisanu e dei suoi nipoti, venne
scambiata con 8 maiali; quelle ancora di proprietà di Comita de Martis fu
permutata con un cavallo valutato una libbra d’argento. Le restanti sette quote
furono acquisite dai singoli proprietari per due maiali a testa. All’indomani
della ricomposizione del fondo Barisone si preoccupò di ridefinire i confini
del salto alla presenza del curatore, Torchitorio de Kerki, e del maiore d’iscolca, Gosantine d’Enticlas[29].
Alcuni salti erano in regime di concessione
attraverso il meccanismo della secatura
de rennu: si trattava dello stralcio di una quota di terra dal demanio e
dal patrimonio del fisco (appunto su
rennu) e della sua attribuzione a enti o a privati come godimento
beneficiario[30].
In taluni casi era una concessione perpetua, in altri casi il giudice la
revocava riappropriandosi dei beni demaniali («pro torrare sos saltos ki furun
seccatos a seccatura de regnu», si legge in un atto di Gonario di Torres del
1153) per riassegnarli ad un altro concessionario, probabilmente nel momento in
cui veniva meno la destinazione economica per cui erano stati elargiti[31].
Il regime di concessione ricorre spesso nelle schede del condaghe di San Pietro
di Silki: tra il 1073 e il 1082 il giudice Mariano I di Torres fece dono di
alcuni salti al monastero con la formula «do ki los adpat c’a seccatura de
rennu». La terra arativa d’Iscala de Fustes venne acquistata alla metà del XII
secolo, specificando che si trattava di un fondo elargito dal giudice al
proprio figlio Comita come concessione beneficiaria quando aveva ricoperto la
carica di curatore della Romangia. Il salto di Cleu venne acquistato e quello
di Bubui donato nel momento in cui – come viene annotato nel condaghe, «ki fuit
de secatura de rennu» – il diritto di reversione dei terreni al fisco si era
estinto. Formule analoghe si riscontrano negli altri cartulari, come ad esempio
in quello del monastero camaldolese di San Nicola di Trullas[32].
Contrariamente all’opinione di Arrigo Solmi e
di Raffaele Di Tucci, anche i domini collettivi esercitati dai villaggi
(diritto di pascolo, di raccolta delle ghiande, di coltivazione a debbio, di
legnatico, etc.) erano nel complesso di modesta entità e venivano spesso
usurpati dalle aziende signorili o dal fisco[33]. La
partecipazione del villaggio ad un importante negozio giuridico è ad esempio
registrata nel condaghe di San Pietro di Silki a proposito della donazione,
alla metà del XII secolo, del salto di Murtetu. Nella quotizzazione del fondo
un tempo soggetto agli usi collettivi del villaggio («ki fuit populare dessa
villa»), il curatore della Romangia, donnu
Dorgotori de Kerki, assegnò un lotto (una fune,
perché la terra da dividere si misurava con una corda) al monastero. Nell’atto
figuravano come testi, oltre allo stesso curatore e al maiore d’iscolca, i fratelli Curcas, forse in rappresentanza della
comunità, e l’insieme degli abitanti del villaggio («et totta villa»)[34].
Nel medesimo periodo – cioè in un arco di tempo
compreso tra il 1154 e il 1191 – «sos omines dessa villa de Puthu Passaris»
(forse i liberi, gli agricoltori, i membri più ragguardevoli o gli
amministratori del villaggio) erano in lite con San Pietro per il salto di
Putzu Rubiu, sul quale rivendicavano l’esercizio dei diritti collettivi da
parte della comunità. La controversia venne portata in giudizio nella corona (cioè nella curia) del curatore
di Caputabbas, donnu Comita d’Athen
Arcatu: la badessa Massimilla fece deporre i testimoni che, sotto giuramento,
confermarono come il monastero avesse acquistato il salto dagli omines del villaggio di Thiesi.
Ovviamente, la villa di Puthu Passaris perse la causa[35].
Si trattava però di una comunità agguerrita che intendeva difendere gli usi
civici e i diritti sul territorio di propria pertinenza. Negli stessi anni la
villa entrò in conflitto anche col monastero di San Nicola di Trullas a
proposito del salto di Uras. Il priore Giovanni, contrario all’uso collettivo
del pascolo, sosteneva che il salto fosse ancora di proprietà della nobile
famiglia degli Athen. Nel giudizio di corona
del curatore di Caputabbas il villaggio ribadì con forza i propri diritti: «Est
populare nostru». Ma la corona diede
ragione al priore che aveva presentato testimoni che, sotto giuramento, avevano
confermato la proprietà originaria. Fra i testi dell’atto, oltre il curatore e
il maiore de iscolca, Petru de
Marthis, figurava anche Furatu de Sorso, mandatore
de liveros, cioè probabile procuratore della villa nel processo[36].
I salti, vaste estensioni di terre incolte,
facevano parte del demanio pubblico (saltus
de rennu), del patrimonio del giudice (saltus
donnicu) o delle terre delle comunità (saltus
populare), oppure appartenevano con pieno diritto ai proprietari laici ed
ecclesiastici e venivano indicati col termine di peguliari. Alla metà del XII secolo si profila un netto contrasto
tra le aziende fondiarie monastiche e le comunità a proposito delle terre
migliori dei salti incolti e spesso mal delimitati che i conventi intendevano
accaparrarsi e sulle quali i villaggi rivendicavano su populare per
sfruttarle a pascolo o per metterle a coltura. Il priore di San Nicola di
Trullas ingaggiò ad esempio un lungo braccio di ferro con la villa di Cheremule
nel Meilogu per impedirle l’uso dei diritti collettivi sul salto di Iugale, e
la badessa di San Pietro di Silki si scontrò con gli omines delle ville di Sabren e d’Ibili per il salto di S’Aginariu
«ka lu kerean a populare»[37]. Si
inquadra in questo contesto la lunga controversia sviluppatasi nella prima metà
del XII secolo per il salto di Planu-Piretu tra l’abate vallombrosano di San
Michele di Salvenor e il vescovo di Ploaghe: la vicenda è particolarmente
intricata perché il salto (in realtà in origine erano due) era stato prima
demaniale, quindi dato in concessione dal giudice tramite secatura alla nobile famiglia dei de Thori, e poi rientrato nel rennu, era stato ripartito e ceduto ai
villaggi di Salvenor e Ploaghe per finire sotto il controllo dell’abbazia
vallombrosana. Il vescovo sosteneva che l’abate aveva usurpato il salto che era
populare del villaggio di Salvenor; a
sua volta l’abate replicava che proprio gli omines,
liberi e servi, della villa avevano volontariamente venduto il salto a San
Michele. La vertenza, assai intricata per le ambiguità e la confusione dei
diritti sul fondo rivendicati dalle parti, e per la litigiosità dei condomini,
si concluse con la vittoria processuale degli abitanti del villaggio di
Salvenor, che finiranno poi per vendere all’abate i loro domini collettivi sul saltus contestato[38].
È evidente comunque, in questi tre casi, la forte pressione delle aziende
monastiche nei confronti dei villaggi, a cui veniva frequentemente impedito
l’esercizio dei diritti comuni e spesso ostacolata l’iniziativa economica tesa
alla valorizzazione e alla colonizzazione dei terreni incolti.
Dai condaghes
apprendiamo inoltre che nei secoli XI-XII la villa era sottoposta a due
istituzioni amministrative – la curatorìa
e la scolca – che caratterizzavano
gli ordinamenti pubblici dei quattro Giudicati. La curatoria era un istituto
altomedievale di derivazione romana e bizantina che nella sua articolazione era
in qualche misura debitrice all’organizzazione territoriale delle diocesi. Si
trattava di circoscrizioni amministrative di differente estensione (16
curatorie nel Giudicato di Cagliari, 19 in quello di Torres, 11 in quello di
Gallura e 13 in quello di Arborea), formate da un complesso di scolcas e di ville dipendenti dal
capoluogo della curatoria, dove risiedeva il curatore che era l’ufficiale posto
sotto la diretta autorità del giudice, espressione del ceto dei maiorales e spesso imparentato con la
famiglia regnante, incaricato del governo complessivo del distretto. In qualità
di governatore e di supremo ufficiale amministrativo provinciale, il curatore
sovrintendeva infatti all’esazione dei tributi, esercitava il controllo
sull’attività degli agenti giudicali (armentarii, maiores de scolca, mandatores de rennu, etc.), regolava l’esercizio degli usi privati
sulle terre demaniali, assisteva alle operazioni di confinazione dei salti
contestati, esercitava la giurisdizione ordinaria in materia civile e criminale
nei villaggi della sua circoscrizione, assistito dal suo tribunale (corona) composto da notabili locali[39].
L’istituto della scolca ha fatto discutere a lungo la storiografia: alcuni hanno
ipotizzato che fosse un distretto amministrativo minore, altri, invece, hanno
ritenuto che fosse una «guardia, una custodia»,
posta alla difesa dei campi, dei coltivi, del bestiame contro i furti e i
danneggiamenti; alcuni hanno ravvisato in essa un’origine longobarda, altri una
matrice bizantina[40]. In
sostanza, come osserva Ennio Cortese, «il termine designa semplicemente una
guardia giurata secondo il significato originario della parola nel linguaggio
militare greco (skoúlka), dal quale
la lingua sarda l’aveva ereditata»[41]. In
questo senso va letto ad esempio un atto del condaghe di Santa Maria di
Bonarcado risalente al 1110-30 a proposito di un giudizio di corona nel quale
l’azienda monastica fece causa a Mariano Catello per aver sottratto l’ovile (sa masone): fra i testi figurava «Petru
Loke maiore de scolca cun tota scolca sua»[42].
Alla scolca e al suo maiore venivano
denunciati i reati contro le proprietà, i furti campestri, l’abigeato e i danni
provocati alle coltivazioni arboree, alle vigne e agli orti: il maiore aveva competenze giurisdizionali
e presiedeva la corona de iscolca[43].
Secondo l’«usansa antigua» di Sassari recepita
nello statuto trecentesco (I, 16), la scolca era il giuramento (iura de iscolca) che i diversi
consociati, dai quattordici ai settanta anni, facevano reciprocamente ogni anno
nel mese di marzo «de non facher dannu alcunu cun persone over bestias in
arvos, vignas, over cosas azenas», cioè di non arrecare danni ai coltivi e alle
proprietà e di denunciare coloro che violassero questa normativa[44].
Nel contado sassarese il giuramento era ad esempio prestato (I, 148) anche dai
«maiores et iuratos de Flumenargiu, et dessa iscolca de Cherqui», che erano
tenuti a «provare tottu sas furas et dampnos qui sean facher in ecussas
iscolcas»[45].
È evidente come nel reciproco patto di autotutela e di vigilanza lo Statuto di
Sassari riformulasse antiche consuetudini dell’età giudicale: è anche probabile
che questa iura consorziasse in
principio non soltanto i villaggi ma anche i piccoli agglomerati rurali delle
curatorie e poi dell’agro cittadino. Besta aveva acutamente colto come la
scolca avesse come base naturale della propria azione il villaggio, ma aveva
anche osservato che «colla villa non si confuse perché vi poterono essere ville
senza scolca e scolche senza ville»[46]. Ciò
spiega perché negli statuti trecenteschi, a proposito della delimitazione del
«territoriu over iscolca» (I, 34) della città, si ricorre ancora una volta a
questo antico termine che, avendo ormai perso il suo significato originario di
presidio militare campestre, aveva assunto quello di circoscrizione
territoriale minore, come eredità delle vecchie iscolcas dell’età giudicale che, nella difesa delle terre
coltivate, aveva consorziato ville, domus
e casali. In questo senso va dunque interpretato il testo statutario quando
parla dell’«iscolcha dessas villas de Murusu, Innoviu et Enene» all’interno
«dessas confines et iscolchas de Sassari»: il termine è qui adoperato nel senso
di contado, che comprendeva tre villaggi in via di estinzione di fatto
fagocitati dalla forza d’attrazione della nuova città. In un registro pisano
degli inizi del XIV secolo relativo alle rendite nel Giudicato dei Cagliari –
coevo quindi all’edizione in volgare degli Statuti sassaresi – la scolca
corrisponde all’aggregato di quattro ville vicine unite ai fini fiscali e per
la salvaguardia del territorio («Ville dicte Orrea, Ulmus, Ygali et Cortinia
que simul unite ad unum datium dicantur Scolcha de Orrea …)[47].
La scolca di Sepollu era costituita da tre villaggi[48].
E così via. In questa accezione il termine venne fatto proprio dalla
toponomastica successiva, come è confermato dall’omonimo villaggio, Escolca,
della curatoria di Siurgus ed in seguito della provincia di Isili[49].
A questo punto è necessario trarre alcune
conclusioni sul ruolo del villaggio nella società giudicale sarda dei secoli
XI-XII:
1) Innanzitutto non è del tutto chiara la
differenza tra la villa e le altre entità dell’universo agrario isolano (domus, curtes, donnicalias, domestias):
nei condaghes infatti la distinzione
non sempre è netta e definita. Ad esempio, nei tre condaghes – quelli di San Gavino (pervenutoci in una trascrizione
di età spagnola edita nel 1620), di Barisone II (1170 circa-1190) e di San
Pietro di Silki, che insistono in una medesima area geografica del Sassarese,
delimitata a est dalla curatoria di Romangia, a ovest dalle curatorie di
Flumenargia e di Coros e a nord dal porto di Torres, una zona con
un’agricoltura assai redditizia, caratterizzata da un’irrigazione diffusa e
dalla presenza di molini, casali (domestia),
vigneti, terre recintate (cuniatu) e
persino da attività artigianali, come il teulariu,
il tegolaio di Bosove, la tipologia degli insediamenti rurali appare nel
complesso contraddittoria.
L’insediamento di Tilickennor, definito villa
nel condaghe di Barisone e in quello di Salvenor, non è considerato tale dagli
altri cartulari; Kerki o Cherchi, villa nel condaghe di San Gavino, figura come
semplice toponimo rurale in quello di San Pietro e come domus in quello di San Nicola di Trullas; Otau (Ottava) è
considerato villaggio nel condaghe di San Gavino e corte in quello di San Pietro; Sorso domus nel condaghe di San Pietro viene definita villa nella
duecentesca cronaca nota come Libellus
Iudicum Turritanorum, che ci racconta come il giudice Mariano II di Torres
(morto intorno al 1232) venisse sepolto nel villaggio, «sou intro de sa
ecclesia de Santu Pantaleu»[50]. E
gli esempi potrebbero continuare.
2) Non è mai ben specificata la natura e la
composizione degli organi di governo del villaggio. A capo della villa stava
probabilmente un maiore – come emerge
dalle fonti trecentesche –, affiancato nell’amministrazione da iuratos o da probi homines[51]. In
un atto di donazione del 1190 a Paulo, vescovo di Suelli, compaiono come
testimoni alcuni «maiori de villa»[52]. Il
condaghe di San Gavino accenna ai «bonos homines de Otau», cioè ai maggiorenti
o ai giurati della corona giudicale del villaggio di Ottava[53].
In un atto della fine del XII secolo del condaghe di San Nicola di Trullas
figura come teste Gantine Lassu «maiore de villa»[54].
Talvolta nei negozi interviene tutta la comunità, «tota sa villa», composta forse
da pochi uomini liberi[55]. Il
villaggio dei secoli XI-XII non aveva dunque attribuzioni giurisdizionali: la
cognizione delle cause (kertus) era
demandata ai maiores delle scolche,
ai curatori e naturalmente al giudice. La tesi di Di Tucci secondo cui il maiore de villa non era altro che il «maiore de scolca» dell’epoca precedente»[56]
non appare del tutto convincente. È evidente però che la definizione della
struttura amministrativa della villa, dei suoi organi di governo e delle sue
competenze giurisdizionali appartiene ad una fase storica successiva, quella
legata al passaggio dall’habitat disperso, tipico dei piccoli agglomerati
rurali dell’economia curtense, ad una ristrutturazione demografica del
territorio agricolo, espressione dell’urbanesimo e dello sviluppo dei villaggi
più grossi.
3) Non sono ben delineati i diritti collettivi
delle comunità sui salti, sui pascoli e sui boschi, a differenza dei successivi
diritti ademprivili, introdotti dai catalano-aragonesi nel XIV secolo, che
costituiranno, sino alla loro abolizione nel 1865, la tradizionale forma di usi
civici del villaggio sardo. Nel fundamentu,
cioè l’insieme dei territori destinati alla coltura e al pascolo di pertinenza
della villa, sono in genere compresi i salti, i boschi e i corsi d’acqua. Si
riferisce appunto a questo nucleo patrimoniale la donazione della domestia di Padru de Sisini alla chiesa di San Giorgio di Suelli da parte della
giudicessa Benedetta di Cagliari (10 luglio 1225), quando accenna a «totu su
fundamentu dessa billa erema», cioè abbandonata o spopolata, di Jana Jossu de
Liurus (il nome della località «Jana inferiore dei liberi» suggerisce un
precedente tentativo di colonizzazione, sicuramente fallito) concessa «cun totu
sas pertinentias suas, plazas et terras aradorias, et saltu et aqua»[57].
È la formula tradizionale degli atti giudicali che ritroviamo anche nei
documenti più antichi, come la già menzionata donazione di Torchitorio I di
Cagliari del 1080 circa («cum fundamentus et saltus, aquas et padrus»)[58].
Sebbene il villaggio sia il titolare del fundamentu
e delle sue pertinenze, non è affatto chiaro il ruolo delle comunità nell’uso
della terra e soprattutto nel godimento dei diritti collettivi. L’ipotesi di
Ortu secondo cui il salto sarebbe il «prodotto spontaneo dei primi insediamenti
collettivi» e i suoi confini, «benché soltanto naturali», definirebbero «un dentro della comunità rispetto ad un fuori», per quanto affascinante, suscita
perplessità[59].
Dalle fonti dei secoli XI-XII i salti appaiono in genere di proprietà signorile
o di dominio privato: «Et saltu de Petra
de Kavallat ki appo a solus», si legge nella donazione del giudice
Torchitorio II del 1106 a Santa Maria di Pisa[60]. Nei
condaghes gli atti relativi ai salti
sono spesso più numerosi di quelli riguardanti le terre aratorie o i cuniatus[61].
Anzi, si assiste al netto predominio della grande proprietà laica ed
ecclesiastica e talvolta ad una vera e propria reazione latifondista del ceto
dei maiorales e delle aziende
monastiche nei confronti delle comunità per impossessarsi dei salti contestati
nei quali vigeva su populare, i
diritti collettivi della villa sui pascoli e sui terreni incolti[62].
Ancora nel 1228 nella donazione fatta dal giudice Pietro II d’Arborea al monastero
benedettino di San Martino di Oristano di otto salti, con tutti i terreni
coltivati ed incolti di pertinenza, si faceva esplicito divieto ai singoli e
alle comunità di esercitare su di essi gli usi civici senza pagare i relativi
diritti[63].
Il Libellus
Iudicum Turritanorum ci racconta che alla morte del giudice Costantino I di
Torres, avvenuta nel 1127, poiché suo figlio ed erede Gonario non aveva ancora
raggiunto la maggiore età il tutore, Ittocorre Cambellas, temendo che il
ragazzo potesse essere ucciso dai nemici del padre (le potenti famiglie degli
Athen e dei Trabunas), lo condusse in segreto nel porto di Torres, «habitadu et
pobuladu de mercantes pisanos, homines de bene et ricos»[64].
Ittocorre consegnò Gonario ad alcuni di essi, che lo portarono a Pisa e lo presentarono
al Comune, che lo accolse volentieri e gli diede ospitalità.
L’anonima cronaca duecentesca mette
emblematicamente in rilievo i due momenti fondamentali della penetrazione
pisana in Sardegna: il primo, durante il quale i mercanti della città toscana
si limitarono a controllare le attività commerciali e a gestire in regime di
monopolio le esportazioni di materie prime soprattutto agricole e di derrate
alimentari; il secondo, che coincide con le sempre maggiori ingerenze pisane
nella vita interna e nelle vicende politiche dei Giudicati porterà la città
dell’Arno ad acquisire, alla fine del XIII secolo, tutti i territori ex
giudicali del Cagliaritano, della Gallura e del Logudoro. Ovviamente non è
questa la sede per analizzare le peculiarità del dominio pisano in Sardegna: il
dibattito, incominciato agli inizi del Novecento con le posizioni antagoniste
di Enrico Besta, che riservava grande attenzione alle forme originali della
civiltà locale, e di Arrigo Solmi, che invece preferiva insistere sulla funzione
«civilizzatrice» esercitata dalla città toscana, è proseguito anche negli
ultimi decenni con le tesi di John Day, che ha posto l’accento soprattutto
sulla natura «coloniale» e sullo «scambio ineguale impoverente» tipici della
dominazione delle repubbliche italiane, e di Marco Tangheroni che, viceversa,
ha evidenziato la formazione nell’isola di una società sardo-pisana o
sardo-genovese, suscettibile di prendere in mano le redini dell’economia
dell’isola[65].
Il XIII secolo segna un momento di svolta nella
storia della Sardegna medievale, caratterizzato dal declino politico dei
Giudicati e delle loro dinastie regnanti, dalla crisi dell’economia curtense e
dai rilevanti mutamenti nella società e nelle stesse forme di vita associativa
delle campagne. La «felice congiuntura» è dovuta ad una serie di fattori
concomitanti quali l’affermazione di un’«economia di mercato» e di una timida
circolazione monetaria, l’incremento della popolazione rurale grazie
all’estensione delle colture ed alla colonizzazione dei territori disabitati,
la graduale, ed in seguito, tumultuosa, espansione del mondo urbano,
l’attrazione di quelli che Day ha definito «nuovi poli di sviluppo coloniali», come le ricche miniere
piombo-argentifere dell’Iglesiente o le saline di Cagliari[66].
La penetrazione mercantile pisana e, in misura minore, quella genovese erano
favorite in particolare dall’estrema appetibilità del mercato sardo, con i suoi
prodotti eccezionalmente a buon mercato per i bassi costi di produzione dovuti
alla carenza persistente di denaro contante e all’impiego di manodopera servile[67].
L’arretratezza del sistema economico sardo era strettamente funzionale allo
sviluppo mercantile delle città italiane: d’altra parte Pisa considerava la
Sardegna come un immenso contado da potere sfruttare e da cui era dipendente
per l’approvvigionamento annonario e alimentare, per il sale, i metalli, i
prodotti della pastorizia, i cuoi e i pellami[68].
In sostanza, venivano poste le premesse per il
definitivo superamento del tradizionale modello produttivo basato sulle grandi
aziende signorili laiche ed ecclesiastiche e sul lavoro di servi e di liberi,
che al loro interno comprendevano salti, terre aratorie, vigneti, chiusi, curtes, domus e domestias, dislocati
spesso in località assai distanti fra loro – De Santis non a torto ha parlato
di una «complessa rete di distribuzione territoriale del proprio patrimonio»[69]
– che imponevano la gestione di risorse diversificate, dalla pastorizia
all’allevamento del bestiame domito, dalla cerealicoltura alla viticoltura,
alle coltivazioni arboree, alla pesca, sino ad embrionali attività artigianali
esercitate dai cosiddetti liberos de
paniliu. Ad eccezione dei dati fornitici dai condaghes monastici e da quello di Barisone II non sappiamo quasi
nulla delle grandi proprietà fondiarie delle famiglie giudicali e dei ricchi e
potenti maiorales, l’aristocrazia
terriera dei secoli XI-XII. Assistiamo nel corso del Duecento alla crisi del
«sistema domus», dovuta non soltanto ad
una generalizzata anarchia politica che durò per tutto il secolo, ma a fattori
strutturali più profondi, come la nascita delle città, che hanno assolto un
ruolo di attrazione e di drenaggio di risorse umane dalle campagne, e
soprattutto alla crisi del servaggio, con la spinta all’emancipazione e al
miglioramento della propria condizione sociale ed economica, documentata già
nelle fonti del XIV secolo: il declino del «sistema domus» è dunque speculare al declino dell’uso massiccio della
manodopera servile[70]. Non
dimentichiamo che fino ai primi decenni del XIII secolo una quota consistente
della popolazione sarda restò servile. Il declino del «sistema domus» coincide inoltre anche col
declino della conduzione diretta dei beni da parte delle grandi aziende signorili:
non a caso, alla metà del XIII secolo, il monastero di San Nicola di Trullas
optò per una gestione indiretta delle sue vaste proprietà terriere, che vennero
appunto date in locazione[71].
Alla crisi delle aziende tradizionali
corrisponde l’ascesa di nuove realtà volte allo sfruttamento delle risorse
locali: gli enti ecclesiastici come l’Opera di Santa Maria di Pisa e il
Capitolo della cattedrale di San Lorenzo di Genova, che avevano già goduto di
ampie donazioni da parte dei giudici nei secoli XI-XII, o i nuovi insediamenti
signorili che avevano saputo utilizzare la disgregazione delle istituzioni
giudicali, come le famiglie dei Malaspina, originari della Lunigiana, e dei
Doria, genovesi, che controllavano estesi territori dell’ex Giudicato di Torres
(le curatorie di Coros e di Figulinas, la Planargia, la Nurra e l’Anglona), e
la famiglia pisana dei Donoratico della Gherardesca che, a sua volta,
controllava i territori dell’Iglesiente dell’ex Giudicato di Cagliari. A questi
voraci commensali bisogna aggiungere il Comune di Pisa che dal 1258, dopo la
fine del Giudicato, esercitò un controllo diretto sui territori del
Cagliaritano e dal 1296 su quelli della Gallura, dopo che era riuscito ad
impadronirsi dell’ex Giudicato spodestando la famiglia Visconti[72].
Il dominio dei nuovi signori si sovrappose a quello delle antiche famiglie
giudicali: nulla o quasi venne mutato. Le attività produttive agropastorali
continuarono a basarsi sul servaggio e sulle arcaiche forme di conduzione; i
tributi e i diritti signorili restarono nel complesso quelli del periodo
precedente[73].
Si può quindi affermare che le nuove signorie interessate soprattutto al
controllo, all’esportazione delle produzioni locali e al prelievo fiscale,
mostravano scarso interesse per le innovazioni.
Si è discusso a lungo sulla presenza o meno di
elementi feudali nella Sardegna del XII-XIII secolo. Il dibattito era stato
alimentato anche dal controverso documento noto come la «donazione della
Trexenta», datato da Solmi al 1119 e da Besta al 1219, nel quale il giudice
Torchitorio di Cagliari cedeva al proprio figlio Salusio l’incontrada «cun sas villas populadas e senza populari, et saltos,
terminis, vassallus, hominis et feminas, domus, rius, mizas, funtanas, pardos,
montis et pasturas, silvas […] et totu ceteros dretus et pertinentias» e «cun
totu sa iurisdictioni alta et baxa, civili e criminali […] cun meru et mixtu
imperiu»[74].
Si trattava di un evidente falso diplomatistico, attribuibile, secondo Era,
alla seconda metà del XV secolo[75].
D’altra parte, era stato Castruccio Castracani, già signore di Lucca, a
consigliare all’infante Alfonso d’Aragona nel 1324-25 – cioè oltre un secolo
dopo la donazione della Trexenta – di adottare come ordinamento feudale per il
Regno di Sardegna anziché il mos
Cathaloniae il mos Italiae, che
permetteva di esercitare la giurisdizione alta a bassa con il mero et mixto imperio[76].
Anche le stesse donnicalie, le vecchie concessioni giudicali di terre
demaniali, curtes, servi, bestiame, –
che al principio del Duecento entrarono in una fase di declino – prevedevano
ampie immunità nel campo commerciale e tributario, ma non in quello
giurisdizionale[77].
Il Breve
Consulum pisano del 1164 negava esplicitamente che in Sardegna potessero
essere instaurati legami di tipo feudale, parafeudale o anche patrimoniale ad personam[78].
La struttura amministrativa, di matrice bizantina dei Giudicati, basata su curatorie rette da ufficiali di nomina
giudicale cui erano demandate anche le competenze giudiziarie, non prevedeva
alcuna forma di immunità o di giustizia delegata. La convenzione tra il giudice
Comita di Torres e i consoli del Comune di Genova, stipulata nel 1216,
consentiva alla curia consolare di esercitare la giurisdizione esclusivamente
sui liguri («causas et lites quod inter eos vertuntur»), ma faceva esplicito
divieto di giudicare le cause dei sardi o le liti tra sardi e genovesi[79].
Solmi e Di Tucci, in polemica con Besta e Mondolfo, erano convinti che il
feudalesimo fosse già sostanzialmente presente, anche se in forma incompleta, in fieri, nel periodo giudicale e
incrementato dalle influenze pisane e genovesi: nel dibattito storiografico più
recente, che ha preferito porre l’accento sulle strutture del potere signorile,
è prevalsa nettamente la tesi che gli ordinamenti feudo-vassallatici sarebbero
stati un’«importazione» della conquista catalano-aragonese[80].
Domandandosi se sia mai esistita in Sardegna una signoria territoriale,
Tangheroni afferma che l’analisi delle donazioni giudicali sembrerebbe
escluderlo: infatti «non si trovano riconoscimenti di immunità giurisdizionali
o fiscali, sin verso la fine del XII secolo; ed anche allora, ed in seguito, si
trattò, se vi furono, di riconoscimenti limitati. Se per signoria rurale è sufficiente riconoscere il possesso di estesi
territori e la disponibilità del lavoro dei servi che ad essi erano legati,
allora – conclude – di essa è riconoscibile la presenza in Sardegna»[81].
Negli ultimi decenni del XIII secolo si assiste
nelle campagne sarde ad un processo di lenta trasformazione, tanto negli
insediamenti, quanto nelle strutture amministrative: il villaggio inizia a
prendere definitivamente il sopravvento non soltanto rispetto alla tradizionale
domus, ma anche a tutte le altre
forme organizzative della realtà economico-sociale locale (curtes, donnicalie, scolche). Come si evince dalle fonti scompaiono
tutte quelle classificazioni delle entità rurali e tutta quella terminologia
sulle diverse forme di insediamento che avevano caratterizzato la
documentazione dei secoli XI-XIII: «rimane soltanto il termine villa (bidda in sardo) – ha osservato Day – per indicare un centro di
insediamento a volte frazionato, spesso microscopico, ma dotato di personalità
giuridica propria e di un territorio delimitato, composto secondo la formula
consueta, dal centro di abitazione, da campi, prati, vigne, saltus, corsi d’acqua e domestias»[82].
I registri pisani dei primi decenni del XIV
secolo, noti come composizioni, cioè
i censimenti dei beni e delle entrate dei territori amministrati dal Comune
toscano negli ex Giudicati di Cagliari e Gallura, gli inventari delle proprietà
dell’Opera di Santa Maria di Pisa, i compartiments
fiscali di impianto statistico predisposti dopo la conquista dai nuovi
dominatori catalano-aragonesi, la ripartizione delle decime ecclesiastiche tra
tutte le diocesi e le parrocchie dell’isola, sono fonti estremamente ricche di
dati e di informazioni sul numero delle ville, sulla loro composizione demografica
e sociale, sulle loro attitudini produttive e talvolta sulle loro pertinenze
territoriali[83].
Se nei condaghes e negli atti di
donazione giudicali i villaggi apparivano ai margini dei grandi domini fondiari
signorili, costituiti soprattutto da domus
abitate in prevalenza da manodopera servile, ora dalla documentazione del XIV
secolo si evince non soltanto che la villa ha definitivamente soppiantato la domus, ma anche che la comunità rurale è
detentrice di un proprio territorio, non solo di fatto ma di diritto, composto
di arativi, pascoli, salti e spesso domestias
preposte alla colonizzazione dei terreni incolti (una sorta di insediamento ad
habitat disperso che nei secoli successivi prenderà il nome di stazzo, boddeu, furriadroxiu).
Con questo scopo, ad esempio, troviamo cinque domestias nel territorio del villaggio di Posada nell’ex Giudicato
di Gallura[84].
In Trexenta nel 1219 si registravano 38 ville, probabilmente assai piccole, e
numerose domestias disseminate nei
salti; un secolo dopo non restavano che 25 villaggi, quasi tutti microscopici,
e le domestias erano tutte scomparse[85].
Nelle composizioni pisane per la
Gallura le domestias sono ormai un
ricordo del passato, giacché vengono menzionate soltanto come toponimi di designazione
catastale[86].
Emergono già in questo periodo due costanti di
«lunga durata» della storia agraria della Sardegna: il sottopopolamento rurale
e l’estremo frazionamento della proprietà terriera. Day ha calcolato per i
primi del Trecento una densità abitativa di un «fuoco» fiscale per km. quadrato
(le ville erano allora più di 800): un insediamento umano irrisorio in una
regione dove il 96% della superficie era considerato potenzialmente produttivo[87].
L’estrema precarietà del popolamento rurale emerge anche dal numero degli
abitanti di ogni villaggio. Dal registro delle rendite pisane del 1316 sappiamo,
ad esempio, che la villa di Gelosuli (Girasol o Girasuli) in Ogliastra aveva 20
capifamiglia contribuenti, cioè 18 «fuochi», per un totale di circa 100
abitanti. Le proprietà terriere registrate, destinate alla coltura del grano e
dell’orzo, oscillavano fra gli otto starelli (pari a 3,189 ettari) e il mezzo
starello (0,199 ettari) di estensione: due proprietari possedevano otto
starelli, tre ne possedevano due, due ne possedevano uno e mezzo, tre uno e
cinque mezzo[88].
Nel 1359 – in un periodo profondamente segnato dal calo demografico dovuto alle
guerre e alle pestilenze – l’appezzamento medio in Sardegna non superava due
starelli di semina, cioè circa 0,8 ettari. Le ville di Muravera e Petrera nel
Sarrabus avevano insieme solo dodici contribuenti[89].
Nel 1349-51 i tre villaggi di Sepollu, Sanvetrano e Pirri, nei pressi di
Cagliari, avevano cinquantasei contribuenti[90]. Dal
Liber Fondachi pisano (1317-19)
relativo alla curatoria di Galtellì sappiamo che la villa di Panane aveva 10
contribuenti, pari a 6 fuochi fiscali, quella di Tamarispa 5 contribuenti, pari
a 4 fuochi, quella di Fillari 4, pari ad 1 fuoco, quella di Lula 4, quella di
Gutuofo 10, pari a 10 fuochi fiscali[91].
I dati fiscali vanno presi tuttavia con largo
beneficio d’inventario e non considerati come valori assoluti. Le stesse
imposizioni tributarie del periodo pisano, come il datium (dadu in sardo),
di origine giudicale, che gravava sui liberi e sui servi di ogni villa e veniva
corrisposto da ciascuno sulla base del proprio reddito, era ripartito spesso in
misura diseguale tra i diversi villaggi. Le composizioni
trecentesche ci fanno intravvedere inoltre tante aziende contadine e pastorali
spesso di piccole proporzioni, ignote alla documentazione dei secoli
precedenti: l’unità di misura della produttività aziendale, e quindi
dell’imposizione tributaria, era il giogo
(la capacità arativa di un contadino operante con un giogo – una coppia – di
buoi) per l’agricoltore, e il segno
(il gregge o la mandria che costituisce l’unità normale di conduzione,
contraddistinto dallo stesso marchio) per il pastore o l’allevatore. I liberi et terrales ab equo, cioè i
liberi maggiorali (vale a dire la piccola aristocrazia del villaggio), erano
tenuti a pagare il donamentum,
tributo che costituiva una sorta di ricognizione dell’autorità. Si assiste ad
una “monetarizzazione” del prelievo fiscale: i tributi vengono infatti indicati
sempre col loro corrispettivo monetario in soldi, lire e denari aquilini, ad
eccezione dei tributi in natura, come il laore
per i cereali e il pegus per il
bestiame[92].
Le antiche prestazioni d’opera servili e le corvées,
anche sotto forma di tributi in denaro, erano pressoché scomparse nella maggior
parte dei villaggi sardi: nelle rendite pisane del 1316-23 i diritti di roatia, gimilioni, trattitura, silva, tipici dell’età giudicale,
costituivano soltanto il 3,4% delle entrate[93].
In questa fase si accentua in modo vertiginoso
la fine del servaggio, provocata dalle trasformazioni economiche e sociali e
dalla crisi del sistema curtense. Si tratta di un processo contraddittorio,
destinato a durare sino agli ultimi decenni del XIV secolo. La lotta per
l’emancipazione dei servi assume toni aspri, spesso radicali: «Omnes dicunt se
non esse servos et sunt rebellati et nolentes servire»[94],
si legge nell’inventario del 1339 dei beni sardi dell’Opera di Santa Maria di
Pisa. Non è da escludere che nella realtà sarda abbia inciso il riverbero di
quel forte movimento per le «affrancazioni» collettive che, alla metà del Duecento,
aveva investito i Comuni dell’Italia centro-settentrionale[95].
La vistosa diminuzione tra XIII e XIV secolo della popolazione servile sarda
andrebbe posta in relazione sia con l’estinzione delle famiglie, sia con i
riscatti singoli e collettivi, sia con il crescente spostamento dei servi verso
i nuovi poli di sviluppo urbano. Ma uno dei fattori principali della disgregazione
di un servaggio fondato esclusivamente sulla nascita furono probabilmente i
matrimoni misti. Agli inizi del XIII secolo l’abate di San Michele di Salvenor
lamentava che le serve dell’abbazia sposavano uomini liberi, i servi donne
libere e così l’azienda monastica non riusciva a ottenere i figli («y la
yglesia […] no tenia de los hijos»)[96].
Secondo i calcoli di Day nella Gallura del 1317-19
i servi di Pisa, sottoposti cioè alle prestazioni di lavoro obbligatorio
stabilite dal Comune, non costituivano ormai più dell’11% della popolazione
maschile soggetta a imposta[97]. Ai
primi del Trecento nella villa di Posada vi erano 104 contribuenti liberi e 22
servi; a Galtellì 50 contribuenti liberi e 10 servi; a Locoe 22 contribuenti
liberi e 4 servi affrancati; a Surpe 20 liberi e 1 servo; a Loculi 16 liberi e
3 servi; ad Orosei, un villaggio che grazie ai traffici portuali iniziava ad
assumere una sorta di configurazione cittadina, vi erano 197 contribuenti
liberi, pari a 183 fuochi, e 11 servi; a Ossie 22 contribuenti liberi e 2 servi
affrancati[98].
E così via.
Dal Liber
Fondachi emerge dunque un quadro assai nitido secondo cui la maggior parte
della popolazione attiva dei villaggi era costituita oramai da individui
liberi; i servi affrancati pagavano un tributo specifico pro servitute, una sorta di censo cum obsequio, per riconoscimento di obbedienza nei confronti dei
vecchi domini[99]. Nello stesso periodo era praticamente
già scomparso il servaggio pubblico: fra i 161 centri censiti nel 1320 nell’ex
Giudicato di Cagliari i 4/5 non avevano più un solo servo del fisco[100].
Nella seconda metà del Duecento si accentua l’esodo – una vera e propria fuga –
dei servi dai fondi, favorito da un lato dalla fine del sistema curtense, e
dall’altro dall’attrazione sempre maggiore esercitata dalle città con i loro
traffici e le loro attività commerciali. Spesso vengono prese contromisure per
bloccare l’emorragia di manodopera servile. Nella convenzione stipulata nel
1287 tra i Doria e il Comune di Genova, i signori di Calstelgenovese si
impegnano solennemente a non accettare nelle loro terre servi fuggitivi o
liberi, d’ambo i sessi, provenienti dai territori circonvicini, e di
restituirli o di espellerli[101].
L’urbanesimo in Sardegna ha assunto caratteri
del tutto propri. Si potrebbe infatti affermare che le città sarde del Medioevo
(forse con la sola eccezione di Cagliari) sono tutte città di nuova fondazione:
a differenza dell’Italia bizantina, non vi è alcuna continuità né di sito, né
di istituzioni municipali, tra la città romana e quella medievale. Dopo l’VIII
secolo si assiste alla definitiva scomparsa delle civitates costiere dell’antichità, a causa dell’insicurezza dei
mari e del degrado ambientale dovuto all’impaludamento delle pianure e
all’endemia malarica. Solo i centri di Karalis e di Turris conobbero una
qualche continuità di frequentazione, favorita dalla permanenza delle sedi
diocesane: anche se Cagliari giudicale (la villa/città di Santa Igia) e pisana
(Castel di Castro) non è strettamente coincidente con l’insediamento romano,
Turris si era trasformata in un modesto scalo portuale alle cui spalle
sorgevano l’imponente basilica dedicata al culto dei martiri turritani (fatta
costruire dal 1063-65 da Barisone I) e il palazzo giudicale. Terranova, invece,
come suggerisce d’altra parte il toponimo, è una ripresa insediativa medievale
presso l’antico sito di Olbia romana[102].
La società sarda dell’XI e XII secolo viveva
ripiegata nelle campagne e nei villaggi. In genere la stessa corte dei giudici
aveva sede in una villa: «su Palatu de Ardari fuit cabu de su Regnu de
Cabudoro»[103],
si legge a questo proposito nel Libellus
dei giudici di Torres; anche la capitale del Giudicato di Cagliari era nella
villa di Santa Igia. Eppure proprio dall’interno del mondo giudicale emergeva
una pur timida e contraddittoria vocazione per la fondazione di città. È il
caso, ad esempio, di Santa Igia, che agli inizi del XIII secolo da villa
iniziava ad assumere fattezze urbane, come è confermato dai resti delle mura,
delle chiese e dei palazzi. Questa trasformazione venne interrotta nel 1258
dalla sua distruzione ad opera dei pisani, che coincise con la fine del
Giudicato di Cagliari[104]. È
il caso soprattutto di Oristano (Aristanis),
dove nel 1070 il giudice Orzocco I d’Arborea trasferì la sede della diocesi e
della corte, abbandonando la decaduta ed insicura antica città di Tharros[105].
Nel 1216 venne fondato dai pisani Castel di
Castro, poi Cagliari (che in sardo non a caso è chiamata Casteddu). La costruzione del castello su un colle che dominava il
mare e la pianura del Campidano rappresentò per il Comune di Pisa non soltanto
la nascita di una rilevante piazza commerciale mediterranea, ma costituì anche
la base politica e militare per un’ulteriore espansione nell’isola: «in damnum
et occupationem non solum terrae ipsius [cioè giudicali], sed totius Sardiniae»[106],
scriveva preoccupata nel 1217 la giudicessa Benedetta di Massa al pontefice
Onorio III. Al centro del Castello vi era la plata comunis, il centro della vita politica e civile della città.
Nella ruga mercatorum erano situate
le botteghe e le abitazioni dei mercanti pisani. Nel 1305-07 il Castello veniva
munito delle imponenti torri di San Pancrazio, dell’Elefante e del Leone,
costruite da tal Giovanni Capula, sardo-pisano, «architector optimus». Alle
pendici del Castello il porto di Bagnaria
o Lapola era fornito, sin dal XIII
secolo, di tutti gli impianti (darsena, moli, magazzini) necessari per le
attività commerciali e marinare[107]. La
nuova città rappresentò un polo di enorme attrazione per l’entroterra agricolo
e favorì un forte movimento di inurbamento. Nel 1314-24, secondo le generose
stime di Day, l’ex Giudicato di Cagliari poteva contare, tra Castel di Castro
con i suoi borghi e Villa di Chiesa, una popolazione cittadina di 22.000
persone, con un tasso di inurbamento del 27%; un tasso simile a quello
dell’intera Sardegna, dove ad una popolazione rurale di circa 100.000 abitanti si
opponeva una popolazione cittadina di circa 50.000 abitanti[108].
A differenza di Cagliari, città nuova per
eccellenza, Sassari percorse tutta la scala evolutiva che da curtis monastica e da villa della curatoria di Romangia la
portò allo stato di città e, quindi, di comune autonomo pazionato con Pisa e
successivamente con Genova. La città, abitata da una popolazione promiscua di
sardi, di persone provenienti dalla Terra
manna e di corsi, svolse un ruolo decisivo nella definitiva crisi del
Giudicato di Torres[109]. In
occasione della suddivisione in cinque parrocchie (1278), la sua struttura
urbanistica appare pienamente definita: la città è circondata da mura ed è
attraversata dalla platha, la via che
collega le due porte principali, su cui si aprono le botteghe dei mercanti e
sorge il palazzo civico. Prima della conquista catalano-aragonese la sua
popolazione ammontava probabilmente a circa 10.000 abitanti[110].
Soltanto verso la metà del XIII secolo il conte
Ugolino della Gherardesca fondò Villa di Chiesa, che nel 1285 risulta governata
da un podestà con piena autorità sull’Argentiera,
cioè sulle miniere piombo-argentifere[111].
Anche la fondazione ad opera dei Doria delle due città-fortezza di Alghero e
Castelgenovese risale alla seconda metà del Duecento, sebbene l’umanista
cinquecentesco Giovanni Francesco Fara ne retrodati la nascita al 1102[112].
La dissoluzione del Giudicato di Torres e lo smembramento dei territori del
Logudoro portò alla formazione di vasti possedimenti signorili come quelli dei
Doria e dei Malaspina, che nella seconda metà del XIII secolo costruirono il
Castello di Serravalle che sovrastava il borgo, poi città, di Bosa (mentre il
primo insediamento sorgeva accanto alla chiesa di San Pietro)[113].
Sempre alla fine del Duecento si afferma in Gallura il borgo fortificato
(«quasi civitas», come viene definito nei documenti pisani) di Terranova, posto
a ridosso dell’antico insediamento giudicale di Civita[114].
In competizione con Terranova si sviluppa negli stessi anni l’altro importante
scalo portuale della Gallura pisana, il borgo mercantile di Orosei[115].
La grave crisi demografica del Trecento, con la
scomparsa di circa la metà dei villaggi rurali della Sardegna, ha sempre
attirato l’attenzione degli storici. Negli anni ottanta del Cinquecento Fara,
nel secondo libro della sua Chorographia,
compilava un lungo e dettagliato elenco, diocesi per diocesi, dei villaggi
scomparsi, diruti e abbandonati[116].
Nel 1826 Giuseppe Manno, enumerando nella Storia
di Sardegna ben seicento villaggi e cinquattotto castelli abbandonati dopo
il Medioevo, ne attribuiva i motivi alle «pestilenze che travagliarono» l’isola
e alla guerra che per lungo tempo «imperversò» ed «involvette nei suoi disastri
le provincie più fiorenti e popolose»[117].
Nelle numerose voci “sarde” compilate da Vittorio Angius per il Dizionario geografico-statistico degli
Stati sardi (1833-57) di Goffredo Casalis, redatte attraverso una verifica
diretta dei luoghi, delle città e dei paesi, viene fatta sempre menzione dei
villaggi distrutti e abbandonati, spesso con l’indicazione delle cause della
loro scomparsa. Il binomio pestilenze-guerre, l’introduzione del feudalesimo,
la rapacità fiscale del governo catalano-aragonese venivano tradizionalmente
indicati come i fattori principali del tracollo demografico tardomedievale:
soltanto dalla seconda metà del Novecento si sono valutate con maggiore
attenzione le cause strutturali dell’abbandono dei centri abitati, come i
condizionamenti ambientali (paludi malariche, siccità, aridità dei terreni,
etc.), la fragilità dell’insediamento rurale, la presenza già nelle fonti dei
secoli XI-XII di ville eremas, cioè
spopolate[118].
È stato soprattutto merito di John Day aver
collegato la modesta crescita della popolazione in Sardegna al mancato
miglioramento delle condizioni di vita dei contadini e dei pastori, sottoposti
a pesanti oneri economici e fiscali. L’insediamento rurale rimase quindi rado e
precario sino alla fine del XIII secolo: l’inurbamento provocò di conseguenza
il calo della popolazione delle campagne e l’estinzione di numerosi piccoli
centri già molto prima della catastrofe demografica trecentesca. «A noi pare –
afferma Day – [...] che la spaccatura socioeconomica fra campagne e città sia
andata avanti di pari passo con lo stesso processo di inurbamento “selvaggio”
che caratterizza gli ultimi decenni del XIII secolo. Le relazioni fra le due economie,
che seguivano le stesse regole dello scambio ineguale da cui erano caratterizzate
le relazioni fra la Sardegna e il continente, erano ben lontane da una condizione
d’equilibrio e di vantaggio reciproco»[119].
Certo, ai lavori di Day possono essere rivolte
diverse critiche sulla spesso eccessiva fiducia concessa ai dati seriali
(elaborati talvolta su fonti e repertori con informazioni errate o imprecise),
sul peso attribuito alla «lunga durata» – tipico della storiografia francese
del secondo dopoguerra – a proposito di una presunta immobilità delle strutture
agrarie sarde dal Medioevo al XVIII secolo, sul troppo rigido modello economico
dello «scambio ineguale impoverente»: tuttavia bisogna riconoscere nel contempo
che i suoi studi sono stati davvero pioneristici non soltanto per la mole di
informazioni sulle variazioni demografiche, sulle dinamiche della società e
dell’economia, sulle peculiarità del prelievo fiscale, sulla circolazione monetaria,
ma anche e soprattutto per l’apertura storiografica e per la problematicità
delle sue tesi che hanno finito per innovare le ricerche storiche sulla
Sardegna[120].
Anzi, si può affermare che dopo i contributi di Day la storia del villaggio e degli
insediamenti rurali in Sardegna ha fatto dei significativi passi in avanti[121].
La Sardegna medievale non ha mai conosciuto
Comuni rurali, cioè quelle forme di organizzazione giuridica ed economica della
vita comunitaria dei villaggi, delle pievi e delle valli che si sviluppò
nell’Italia centro-settentrionale e in genere nell’occidente europeo. La
comunità rustica, composta in prevalenza da piccoli proprietari terrieri,
artigiani e coloni, era in genere dotata di organi di governo, di un’assemblea,
talvolta di statuti, ed esercitava la propria autonomia amministrativa
disciplinando gli usi collettivi nel territorio di pertinenza, limitando
l’invadenza della signoria fondiaria e proteggendo i boschi e le proprietà con
guardiacaccia e guardie campestri. Ovviamente la sfera di autonomia dei Comuni
rurali variava a seconda dell’eventuale grado di soggezione a un signore o a
una città[122].
In un acuto studio del 1908 Gioacchino Volpe,
in polemica con le opere sui comuni rurali di Romolo Caggese, si domandava come
fosse possibile analizzare con un unico metro interpretativo le complesse
origini e le caratteristiche di un istituto che nasceva in un’«età di
sminuzzamento territoriale» e di «particolarismo», «enormi addirittura in
Italia, per le ragioni sempre immanenti della sua configurazione orizzontale e
verticale e per le ragioni storiche che misero accanto una Italia longobarda ed
una Italia bizantina; regioni di conquista franca, ed altre non tocche da
eserciti e da istituzioni carolingie; principati e monarchie accentratori e
vigorosi e rilassate signorie feudali; isole improntate dall’Islamismo […], ed
altre lasciate fino all’XI-XII secolo in isolamento profondo, capaci perciò di
svolgere originalmente germi loro propri antichissimi (Sardegna e Corsica)»[123].
In effetti, l’impronta bizantina costituisce il
nucleo originario occulto della storia della comunità rurale sarda del
Medioevo, giacché la struttura amministrativa e giudiziaria rigorosamente
centralistica dei Giudicati non prevedeva immunità o poteri delegati di tipo
feudale. Dalla disgregazione delle istituzioni giudicali sino alla conquista
catalano-aragonese, cioè dalla seconda metà del XIII secolo alla prima metà del
XIV, il villaggio sardo attingeva vita giuridica da: 1) le consuetudini vigenti
ab antiquo, precedenti la normativa
statutaria, definite nell’età dei giudici «sos ordinamentos de sa terra et de
su Regnu»[124];
2) gli statuti territoriali, cioè le cosiddette Carte de Logu, quella cagliaritana, quella d’Arborea nelle due
redazioni di Mariano IV e di Eleonora, quella del Goceano, quella della villa
di Gippi nella Trexenta, il Breve vicarii
Regni Gallurii, la Carta de Logu
gallurese[125];
3) gli statuti municipali (Statuti di Sassari, Breve delli castellani del Castello di Cagliari, Breve di Villa di
Chiesa, Statuti di Terranova e di Orosei), che disciplinavano non solo il
rapporto tra la città e le ville del districtu
suburbano ma anche quello con i villaggi soggetti alle curatorie amministrate
da ufficiali civici; 4) gli statuti signorili concessi alle città e alle ville
dai Doria (Castelgenovese, Alghero, Casteldoria), dai Malaspina (Bosa, Osilo),
dai Donoratico (Domusnovas).
Purtroppo, a causa della dispersione delle
fonti, sappiamo assai poco sul rapporto che legava Cagliari pisana ai villaggi
dell’entroterra campidanese. È probabile, ad esempio, che il Breve dei
castellani di Cagliari, di cui Solmi ha tentato di ricostruire il contenuto,
avesse vigenza soltanto per i pisani che abitavano il Castello: le attività
mercantili e marinare erano invece disciplinate dal Breve Portus Kallaretani (1317-18)[126]. Il
territorio di pertinenza della città a nord si estendeva sino alla villa di
Decimo, che non faceva parte dell’agro comunale, a ovest era delimitato dallo
stagno di Santa Gilla e ad est dai villaggi di Selargius, Pirri e Quartucciu,
compresi nel districtu cagliaritano[127].
Il 9 ottobre 1331 in una carta reale di poco successiva alla conquista Alfonso
IV d’Aragona fissava i limiti della giurisdizione criminale esercitata dal veguer (vicarius) di Cagliari sui borghi e sulle ville immediatamente
adiacenti, in concorrenza con la giurisdizione baronale dei villaggi infeudati[128].
I conflitti di competenza dovevano essere
numerosi se il 19 ottobre dello stesso anno il sovrano sanciva la multa cui
andavano incontro le ville nel caso del mancato arresto dei delinquenti; a
proposito di questo antico istituto consuetudinario (incarica) Alfonso richiamava il Breve
Regni Callari, noto anche come Carta
de Logu cagliaritana[129]. In
un’altra carta reale del successivo 2 dicembre, confermando la validità
dell’antico Breve pisano e delle consuetudini vigenti nei villaggi e nelle
terre del Cagliaritano, il re imponeva al veghiere della città di giudicare
nelle cause relative alle ville poste sotto la sua giurisdizione secondo le
norme della Carta de Logu[130].
Si trattava dunque di uno statuto territoriale concesso a tutti i villaggi
dell’ex Giudicato di Cagliari amministrati dai pisani («concessae Sardis
habitantibus et habitaturis infra regnum Callari»): in una provvisione degli
anziani del Comune di Pisa del 1319 l’autorità dei castellani di Cagliari era
stata infatti estesa a tutto l’ex regno giudicale, ad eccezione di Villa di
Chiesa e di Domusnovas (che godevano di brevi propri), «secundum formam huius
et horum ordinamentorum pisani communis et secundum formam cartam loci»[131].
In una lettera del 4 agosto 1346 di Pietro IV al governatore è riportato il
caso del maiore della villa
campidanese di Serrenti accusato dal feudatario di malversazioni: il barone lo
voleva far giudicare «per coronam iuxta Sardinie consuetudinem, usaticum et
secundum cartam de logo»[132].
La Carta
de Logu cagliaritana assume inoltre un ruolo importante nelle deliberazioni
del primo Parlamento convocato a Cagliari nel 1355 da Pietro il Cerimonioso.
Innanzitutto i sudditi sardi dell’ex Regno giudicale chiesero al sovrano di
poter apportare correzioni in «alguns capitols» della «Carta de Loch als dits
Sarts atorgada» con il consenso regio: Pietro IV respinse la proposta, riservandosi
di realizzare in prima persona le modifiche necessarie[133].
Nella seconda delle Constitutiones
approvate dal Parlamento, volendo reprimere le ribellioni che serpeggiavano
contro la Corona, gli ufficiali regi, i feudatari e i signori delle ville, si specifica
che i rei devono essere puniti per il delitto di lesa maestà secondo il
«capitulum carte de loco omnis sardus quisvis alius habeatur» che prevedeva la
pena di morte e la confisca di tutti i beni mobili ed immobili[134].
Sulla natura giuridica della Carta de Logu cagliaritana si è
sviluppato un intenso dibattito: secondo Solmi si trattava di uno statuto di
origine pisana, «creato da Pisa sulla traccia delle esperienze degli ufficiali
inviati in Sardegna», che aveva dato luogo a «una raccolta legislativa delle
consuetudini indigene, sapientemente coordinate alle nuove esigenze civili»[135].
Besta all’opposto riteneva che «fosse d’iniziativa locale e contenesse essenzialmente
il diritto già praticato nella regione per legge o per consuetudine»[136].
La storiografia si è divisa sulle tesi dei due insigni maestri, avanzando
ipotesi e congetture su un testo sempre richiamato dalle fonti, ma del cui
contenuto concreto non si conosceva nulla[137].
Nel 1986 Tangheroni annunciava di aver rintracciato tra le carte dell’Archivio
della Corona d’Aragona di Barcellona un quadernetto con la scritta Questa sie Carta di Luogo in el giudicato di
Kallari in su l’isula di Sardignia per lo re d’Aragona[138]
e nel 1992, in occasione del congresso sulla Carta de Logu d’Arborea promosso dalle Università di Cagliari e di
Sassari, presentava una prima trascrizione dei 16 capitoli pervenutici (su
forse un centinaio), che sarebbero stati pubblicati due anni dopo[139].
Dalla scoperta emergono alcuni elementi nuovi:
innanzitutto che si tratta effettivamente della Carta de Logu del Giudicato di Cagliari e non del breve del vicario
di Cagliari o di altri statuti pisani; l’uso del volgare italiano, anziché di
quello sardo, confermerebbe le tesi di Solmi sulla forte matrice pisana
nell’elaborazione di un testo normativo pur estremamente attento alla recezione
delle consuetudini locali; i pochi, frammentari capitoli superstiti
suggerirebbero l’idea di un background
consuetudinario che apparenta la Carta
cagliaritana alle altre fonti statutarie sarde e, in particolare, a quella
arborense, come emerge dalle disposizioni sui «tradimenti e cospiratione» (I),
sugli incendi dolosi (VIII), sull’incarica
(VII, XCV), sulle violenze carnali (XXXI, XXXII, XLVIII), sui mercanti falsi
(LXXII), sugli omicidi (XCV), sulla compravendita dei cuoi (XCVIII).
Dallo statuto – anche se non dobbiamo
dimenticare che il diritto nasce “vecchio” e non conosciamo la datazione della Carta, attribuibile forse alla fine del
XIII o ai primi del XIV secolo – emerge una società a forte connotazione
servile appena uscita, come evidenzierebbero le disposizioni sulla
compravendita dei cuoi, da un’economia curtense. Il dominio di Pisa si era
sovrapposto al governo dei giudici, facendo propri consuetudini e ordinamentos dei territori cagliaritani,
così come poi la Corona di Aragona si sovrappose all’amministrazione pisana,
riconfermando per le curatorie rurali brevi, statuti e carte locali vigenti in
precedenza. Fa sorridere comunque il fatto che i notai e gli scrivani della
cancelleria barcellonese abbiano diligentemente sostituito nei capitoli della
Carta «lo re d’Aragona» ai castellani di Cagliari in un testo normativo che a
metà del Trecento doveva apparire irrimediabilmente anacronistico e superato
dai tempi e dalle trasformazioni sociali.
Nella Carta
de Logu cagliaritana l’organizzazione amministrativa e giudiziaria locale
appare pienamente strutturata: il «magiore» del villaggio era incaricato di
accertare i reati con «tre iurati deli migliori de la villa cum loro iuramento»
nelle effrazioni (VII), nelle molestie sessuali (XXX), negli stupri e negli
adultèri (XXXI, XXXII, XLVIII), nei furti (LXXV), negli omicidi (XCV). Venivano
disciplinati i conflitti di competenza tra ville e curatorie (LXXVI). La
compravendita dei cuoi doveva essere esercitata dinanzi a «tre buoni homini de
la dicta villa» e il maiore avrebbe
dovuto marchiare le pelli per evitare la vendita di materiali di provenienza
furtiva. Il capitolo XCVIII richiamava la consuetudine, cioè quello che era
«usato et sub Carta di Luogo, et usansa sardischa, et ordinamenti suoi»[140].
Il testo statutario più antico pervenutoci
integralmente è quello degli Statuti di Sassari, la cui prima redazione di
epoca pisana risale probabilmente agli anni ottanta del Duecento: nel Breve pisani communis del 1286 si legge,
infatti, «pacta que sunt inter commune pisanum et commune de Sassaris»[141].
Nella convenzione stipulata il 24 marzo 1294 tra la città di Sassari e la
Repubblica di Genova, che segnava il definitivo passaggio del comune sardo
sotto la sfera di influenza genovese, non soltanto si richiamavano di continuo
le «antiquas consuetudines sassarienses et constitutiones eurundem», ma si
riconfermava anche la giurisdizione sassarese sulle curatorie di Romangia,
Fluminargia, Nurra e Nulauro (quest’ultima, forse per la presenza dei Doria,
non viene mai menzionata nel testo statutario)[142]. Se
l’originaria gestazione pisana del complesso normativo risale ad un periodo
compreso tra il 1282 e il 1294, il testo sardo degli statuti pervenutici è del
1316, quando essi vennero «exemplata in vulgari», cioè trascritti in volgare, e
promulgati dal podestà genovese Cavallino degli Onesti[143].
Il rapporto tra il Comune di Sassari e i
villaggi del suo entroterra agricolo è estremamente interessante: gli Statuti
distinguono sempre tra il discrictu,
cioè il territorio di pertinenza, e le curatorie amministrate dalla municipalità.
In sostanza coesistevano due tradizioni giuridiche di matrice diversa che si
integravano a vicenda: da un lato le antiche istituzioni giudicali che il
Comune aveva fatto proprie nell’amministrazione e nell’esercizio della
giurisdizione delle tre curatorie confinanti; dall’altro, il «territoriu over
iscolcha de Sassari» (I, 34) che costituiva una sorta di enclave ben delimitata su cui far gravare le immediate prerogative
cittadine. Il Comune di Sassari aspirava a dominare una quota consistente delle
regioni agricole dell’ex Giudicato di Torres e, in particolare, l’ampia
circoscrizione territoriale, comprendente il discrictu e le tre curatorie, un vasto comitatus, un esteso
contado nei confronti del quale gli Statuti fissavano norme volte al
mantenimento dell’ordine pubblico, alla lotta contro la criminalità rurale,
alla sicurezza delle coltivazioni (in particolare la viticoltura), alla difesa
dei predi e delle proprietà, all’assoggettamento delle ville alle esigenze
commerciali ed alimentari della città dominante[144].
Questo rapporto rivela un’evidente ascendenza comunale
italiana e, in particolare, pisana. Nella precisa delimitazione dei confini
dell’agro sassarese (I, 34) gli Statuti elencavano alcune scolche – iscolcha di Taverru, Octavu, Eristola,
Domos novas – a testimonianza che il territorio di pertinenza cittadina si era
formato progressivamente attraverso l’accorpamento di micro-distretti rurali,
composti da fattorie, casali, piccole ville, originariamente consorziati per la
difesa dei predi e dei coltivi. Era questo il senso della iura de ischolcha (I, 16), che richiamava appunto un’«usanza
antigua» recepita in termini nuovi dal diritto statutario. Del contado facevano
parte anche tre villaggi, ormai definitivamente integrati nell’agro cittadino:
«Et intendat se su territoriu – si legge negli Statuti (I, 34) –, et issa
iscolcha dessas villas de Murusas, Innoviu et Enene esser dessus confines et
iscolchas de Sassari»[145].
Il Comune vietava (I, 41), sotto la pena di
pesanti multe, di esercitare gli usi civici all’interno di «su territoriu et
confines» della città, e, in particolare, di tagliare legna nella iscolcha di Sassari, come di «ponner
fogu» (I, 42) per disboscare la macchia o concimare un terreno in su
«discrictu» e nelle curatorie di Romangia e di Fluminargia. Gli Statuti
prevedevano inoltre una sorta di risarcimento, entro un mese dalla denuncia,
per tutti i danni procurati da ignoti alle case, alle masserizie, agli arnesi
agricoli, alle vigne, agli orti e ai molini posti «infra sas confines de Sassari,
cio est infra sa iscolca de Sassari» (I, 79). Questa disposizione veniva applicata
non solo alle ville del territorio comunale (Marusa, Innoviu) ma anche ai
villaggi di Bosove, Chitarone, Silki e Cleu, siti nelle vicinanze della città
ma non facenti parti del districtu.
Per i danni commessi nelle curatorie di Romangia e di Fluminargia si applicava
l’istituto dell’incarica, fondato sul
principio della responsabilità collettiva della villa nel cui territorio era
stato commesso il reato e i cui iuratos
non avessero arrestato il colpevole. Un’altra norma consuetudinaria, la
cosiddetta machizia, cioè la
possibilità di uccidere o macellare il bestiame domito sorpreso (tentura) a pascolare in una vigna o in
un terreno recintato (cuniatu), era
applicata dagli Statuti (I, 106) soltanto all’interno del distretto sassarese:
nei territori delle curatorie ci si atteneva alla consuetudine («ivi se
observet si comente est usadu»).
Sostanzialmente diverso era il rapporto che
legava la città alle curatorie sottoposte alla sua giurisdizione: Sassari si
era sostituita al potere giudicale nell’amministrazione e nello sfruttamento
delle risorse agricole di questi territori attraverso la nomina di ufficiali
comunali che di fatto avevano le stesse attribuzioni degli antichi curatores. La città quindi esercitava il
controllo sui villaggi e sulle circoscrizioni rurali attraverso i maiores e gli offitiales della Romangia e della Fluminargia: essi, secondo gli
Statuti (I, 17, 121), avrebbero dovuto vigilare sulla sicurezza delle campagne
e denunciare i furti e i danneggiamenti nei territori delle ville e consegnare
i colpevoli al podestà entro tre mesi dalla denuncia; in caso contrario il
danno sarebbe stato risarcito dal maiore
del villaggio nel cui territorio era stato commesso il reato. Ogni anno inoltre
il podestà, di concerto con gli organi consiliari, avrebbe designato due bonos homines col compito di verificare
l’entità del danno, stabilire il risarcimento in denaro che la comunità avrebbe
dovuto versare e controllarne l’effettivo pagamento (I, 108). Gli Statuti
dedicano ampio spazio alla nomina del massaiu
(amministratore, tesoriere o camerlengo) della Romangia, la più fertile e ricca
delle tre curatorie. La carica era annuale e riservata ai cittadini sassaresi
iscritti nella lista dei contribuenti (I, 110), l’elezione avveniva nel Consiglio
maggiore con votazione segreta alla presenza del notaio civico; alla fine del
proprio mandato, il massaiu,
sottoposto a sindacato della sua attività, doveva lasciare l’incarico e poteva
essere rieletto soltanto dopo sei anni (I, 140)[146].
Figura simile era quella del massaiu
o curatore della Nurra (I, 135).
I villaggi soggetti alla giurisdizione del
Comune godevano di una relativa autonomia amministrativa e giudiziaria: «sos
maiores et iuratos dessas villas de Eristola, Octavu e Septupalmas – afferma il
testo statutario (I, 155) – provare deppian sas furas et dampos factos in sas
iscolchass issoro»: a capo del villaggio stava un maiore con funzioni amministrative e di polizia, affiancato da un
collegio di iuratos o boni homines scelti tra gli uomini più
rappresentativi della comunità[147].
La dicotomia città-campagna emerge inoltre da
alcune disposizioni restrittive nei confronti dei villici delle curatorie. Gli
Statuti sassaresi, come del resto gli statuti dell’Italia
centro-settentrionale, regolamentavano il diritto di cittadinanza: le norme ne
stabilivano le modalità di acquisizione (I, 36), in particolare attraverso il
matrimonio (pro coiuantia) con un
uomo o una donna di cittadinanza sassarese; il riconoscimento avveniva con atto
pubblico e chi non osservava la norma decadeva dal diritto acquisito[148].
Coloro che dai villaggi si recavano in città per commerci o per affari, detti intrathitos, avrebbero dovuto iscriversi
con atto notarile in «su libru dessos sindacos» per godere «sa dicta libertate
de Sassari et istare» all’interno della cinta muraria. Per entrare in città gli
abitanti della Romangia erano tenuti al pagamento di una gabella: l’importo
annuale del pedaggio era di 200 lire genovesi per gli abitanti di Sassari e di
500 lire genovesi per quelli della Romangia.
Se da un lato disciplinavano una dinamica
società urbana fondata sul mercato e sulle attività commerciali, dall’altro gli
Statuti rispecchiavano ancora l’eredità del sistema curtense ed il peso
economico della manodopera servile. La normativa sanciva infatti una netta
discriminazione tra liberi e servi, sia nei diritti civili, sia soprattutto
nelle sanzioni penali. Un capitolo statutario (III, 24) reprimeva il ratto con
frode di servi e ancelle, prevedendo una multa di 50 lire genovesi per il
rapitore (25 spettavano al Comune e 25 al padrone dei servi) e la loro
restituzione, entro 10 giorni, al legittimo proprietario. Nel caso della
violenza carnale nei confronti di una donna vergine e libera il violentatore
era condannato dal podestà (III, 31) ad una multa che oscillava dalle 50 alle
100 lire a seconda della condizione sociale della vittima (una metà veniva
corrisposta al Comune e l’altra metà alla donna): nel caso in cui il
violentatore non fosse stato in grado di pagare veniva condannato alla
decapitazione. Se la donna violentata era una serva l’ammenda era di sole 10
lire a favore del Comune. Nel caso del taglio delle trecce, l’assalitore veniva
condannato ad una multa di 20 lire se la donna era libera e di 5 se era serva
(III, 34); per il taglio delle vesti a fini di libidine la multa imposta era di
10 lire nel caso in cui l’aggredita fosse una donna libera e di 2 per la serva.
E così via. Una disposizione chiaramente vessatoria era quella che vietava agli
abitanti della Romangia di trasferirsi stabilmente in un’altra località «foras
dessu districtu de Sassari», pena il sequestro di «tottu sos benes suos mobiles
et istabiles» (I, 36): alla comunità veniva attribuito l’importo dei tributi
che il fuggitivo avrebbe dovuto pagare. Infine, gli statuti (I, 113, 135)
costringevano i villici a partecipare alle silvas,
le cacce collettive dell’età dei giudici, che rappresentavano un’iniqua corvée per gli abitanti del contado.
Molti istituti consuetudinari compresi negli
Statuti di Sassari li ritroviamo in un altro frammento statutario di un’area
territoriale limitrofa: si tratta degli Statuti di Castelgenovese (l’attuale
Castelsardo), concessi intorno al 1334 da Galeotto Doria signore della rocca, e
redatti anch’essi in volgare sardo logudorese[149].
Sono evidenti le numerose analogie tra il testo castellanese, gli Statuti
sassaresi e la Carta de Logu
d’Arborea, in particolare per quanto attiene alla normativa sulla chiusura dei
fondi, la responsabilità per lo sconfinamento del bestiame nei campi recintati,
la tutela delle attività agricole e in particolare la viticoltura, la
repressione degli incendi dolosi[150]. A
capo dell’amministrazione civica stava il podestà di nomina signorile, cui
spettava anche la giurisdizione quale presidente delle corone. La città era divisa in contrade
e la campagna in habitaciones che
godevano di una certa autonomia attraverso la nomina di maiores che avrebbero dovuto proteggere le vigne e i campi chiusi (cunjados) dai danneggiamenti del
bestiame[151].
Tuttavia, a differenza del discrictu
di Sassari in quello di Castelgenovese non vi erano villaggi (ad eccezione
forse del borgo di Casteldoria o della villa di Coquinas) o scolche, ma
soltanto un insediamento disperso che attingeva vita giuridica dallo statuto
cittadino che disciplinava dettagliatamente tutti gli aspetti della vita
campestre[152].
Il 13 maggio 1321 Branca Doria aveva concesso
terre demaniali e franchigie agli abitanti (burgenses)
del borgo fortificato di Casteldoria, disponendo che ognuno dei beneficiari,
titolare della propria quota di terreno, non la dovesse alienare a persone non
residenti nel castello e, in caso di necessità, fosse obbligato a consegnare i
prodotti agricoli al castellano[153].
Nello stesso giorno il castellano Pietro de Barra assegnava in piena proprietà
a un gruppo di coloni le terre coltivabili e gli orti che si trovavano
all’interno della cinta muraria del borgo[154].
Casteldoria assolveva dunque a una duplice funzione: da un lato quella di
presidio e di controllo del vasto territorio agricolo della valle del Coghinas
e dell’Anglona orientale, dall’altro quello di nuovo insediamento di coloni,
dotato di terre (la località di Gorgoiosa) e favorito con franchigie e
privilegi signorili.
Una concessione simile doveva essere quella
relativa al borgo e al castello di Osilo nei pressi di Sassari: nel 1347,
infatti, Pietro IV d’Aragona, in seguito alle proteste dei «probi homines» del
villaggio, riconfermava quei «privilegia, libertates et capitula» che accordati
dai marchesi Malaspina, fossero stati violati dagli ufficiali regi[155].
È probabile che il rapporto tra Bosa, la
curatoria e le ville della Planargia fosse regolato da un testo statutario (di
cui ci sono pervenuti soltanto alcuni frammenti), che disciplinava tutti gli
aspetti della vita economica e civile della città e del contado[156].
Nel Parlamento del 1421 i rappresentanti della municipalità chiesero ad Alfonso
V il rispetto del privilegio concesso da Ferdinando I, secondo il quale la
città, il castello e il territorio della Planargia non potevano essere
scorporati dal demanio regio, e la convalida delle antiche franchigie
economiche accordate ai «prohomens e ciutadans» di Bosa dai giudici d’Arborea.
Tra le richieste avanzate si sollecitava inoltre la riconferma del testo
statutario, dei «capitols» e delle «ordinacions», non a caso definiti «carta de
loch de la dita ciutat» a dimostrazione che, analogamente agli Statuti di
Sassari, al Breve di Villa di Chiesa e alla Carta
de Logu cagliaritana, avevano vigenza anche nella Planargia e nei villaggi
del distretto agricolo di pertinenza[157].
Il Breve di Villa di Chiesa (l’attuale
Iglesias), redatto in volgare italiano negli anni 1302-04 e revisionato nel
1327, di diretta derivazione pisana, pur soffermandosi in prevalenza sulle
attività estrattive nelle miniere piombo-argentifere, la cosiddetta Argentiera, comprendeva numerose
disposizioni di diritto agrario che recepivano le consuetudini locali[158].
Il Comune si proponeva infatti di incentivare la colonizzazione del contado
attraverso la concessione temporanea di «casalini et orti et terra agresta» e
la possibilità «de potere arare et seminare» per «beneficari l’argentiera». Tre
probiuomini («che siano sindichi et arbitri»), nominati dal capitano (podestà)
della città, avrebbero dovuto periodicamente verificare «le confine» di «alcuna
possessione» (I, 34). Ad ogni «habitatore» era permesso di «arare et seminare
ortora et vigne rare, in del territorio, districto et salto di Villa di Chiesa»
(I, 50), di poter «tenere et pascere ogni bestiame in tucti terri et salti di
Sigerro» (I, 51), di esercitare gli usi civici (I, 52) e, in particolare, il
diritto di legnatico nei «boschi et salti [...] de lo regno de Callari» (I,
53).
È probabile che lo sviluppo urbano iglesiente,
in un processo non dissimile da quello sassarese, avesse progressivamente
assorbito nel proprio districto ville
e microentità rurali dell’età giudicale: un capitolo del Breve (IV, 8), a
proposito dei diritti collettivi degli abitanti della città su «montagne,
boschi, valle et acque» chiariva infatti che «anticamente» questi territori
erano appartenuti ai villaggi di «Villa di Chiesa, e di Domusnova, Ghiandili,
Sigulis, Antasa, Barecha, et Baratuli, et Bagniargia»[159].
Il villaggio di Domusnovas nella curatoria di Sigerro aveva un proprio breve –
andato perduto –, di matrice signorile, riformato poi dal Comune di Pisa con a
capo un rettore inviato dalla città toscana per l’amministrazione della giustizia[160].
Il capitano di Villa di Chiesa esercitava la
propria giurisdizione nelle curatorie di Sigerro e del Sulcis, come emerge dai
privilegi concessi il 1° febbraio 1355 da Pietro IV alla città dopo le
devastazioni belliche. Le mura e le torri sarebbero state ricostruite grazie
alla riscossione dei diritti di machizia
nel contado circostante: si faceva esplicito riferimento ai villaggi di
Villamassargia, Domusnovas, Gonnesa[161].
Dalla documentazione del tempo si evince che i villaggi del contado iglesiente
avevano i propri organi di governo e le proprie curie: in un atto del 1362 del
governatore generale del Regno, Asberto Çatrillas, si richiamano le «aliarum
villarum capitanie» e si accenna ai consiglieri e ai probi homines di Villamassargia, villaggio dotato anche di una scribania necessaria per
l’amministrazione della giustizia[162].
L’unica esperienza istituzionale sarda che può
essere in qualche modo posta in relazione con gli ordinamenti giuridici dei
comuni rustici italiani, almeno per le franchigie economiche e per l’assetto
del territorio destinato alle attività agricole e agli usi collettivi, è l’atto
di fondazione (emanato tra il 1338 e il 1346 o, secondo Casula, nel 1339 e
confermato nel 1353) del villaggio di Burgos da parte di Mariano, conte del
Goceano e futuro giudice di Arborea. Rispetto alle vecchie concessioni
giudicali dei secoli precedenti, Mariano mostrava di tener conto della realtà
feudale e delle trasformazioni economiche e sociali del mondo rurale sardo
introdotte dalla conquista catalano-aragonese; ordinando la costituzione del
borgo annesso al castello del Goceano con venticinque famiglie di coloni e con
i popolatori che vi si sarebbero trasferiti dai territori circostanti («terras
non nostras»), definiva i privilegi e gli incentivi alla colonizzazione, il
sistema amministrativo della villa e le sue pertinenze territoriali.
Concedeva ai coloni lo sfruttamento esclusivo
del Saltu novu, ad eccezione di una
quarta parte riservata agli «ateros subtitos nostros et servitores»: con questo
termine non si definivano gli individui di condizione servile (servos), ma i servi pastori, i
cosiddetti zerakkus. Nell’atto di
fondazione si delineava l’organizzazione produttiva del futuro villaggio,
simile a quella delle altre ville sarde del tempo: essa avrebbe dovuto
comprendere e integrare l’area per costruire le case («logu pro faguiri
domos»), i predi e i chiusi per le vigne e le colture orticole («terras pro vingias
et ortos faguiri et plantari»), le terre destinate alla cerealicoltura («terras
aratorgias») e i salti adibiti al pascolo («saltos pro retenner et mantenner su
bestiamini»). Oltre la concessione di terreni in proprietà individuale o
comune, Mariano accordava ai coloni franchigie ed esenzioni da ogni servizio
reale e personale («in perpetuum dae ognia serviciu et factione et gravicias
realis et personales et mixtas») e dal pagamento per un decennio delle
«gabellas over dirictu de neuna condicione», e l’amnistia per ogni reato, ad eccezione
dei delitti di lesa maestà e di azioni contro l’integrità territoriale del
Giudicato. Veniva inoltre confermata al borgo l’esenzione dalla prestazione,
salvo alcuni casi specifici, della garanzia collettiva per i furti e i danni ai
villaggi vicini (cioè l’incarica),
dalla cui responsabilità per gli indennizzi i giurati venivano sollevati. I
nuovi abitatori avrebbero dovuto rispettare «sa carta nostra de logu de Gociani
cum sos capidulos ad icussa adiunctos»: il testo statutario, purtroppo perduto,
emanato appositamente per la contea, regolava le materie criminali, reprimeva i
«furtos et damnos» e, in genere, i reati campestri, come emerge a proposito di
«sas maquicias secundo qui si contenet in sa dicta Carta de Logu»[163].
Nel 1355, nel corso dei lavori del primo
Parlamento sardo, presieduto dal re Pietro IV, si costituì un vero e proprio
quarto braccio, o «braccio dei sardi», formato dai rappresentanti di 84
villaggi, compresi quelli infeudati, appartenenti in maggioranza alle curatorie
meridionali dell’isola, che si affiancò ai tre tradizionali estaments ecclesiastico, militare e
reale per esporre le difficoltà delle comunità, formulare proposte ed ottenere
risposte. Era stato d’altra parte lo stesso sovrano, forse per cooptare nelle
nuove strutture istituzionali del Regnum
Sardiniae i ceti dirigenti rurali, a convocare le ville, chiedendo loro di
nominare «dos prohomens ab plen poder» per partecipare all’assise. Gli atti
delle Corti generali ci hanno trasmesso i verbali di elezione dei due
rappresentanti nominati dai maiores,
dagli homines, dagli habitatores, la «maior et sanior pars» del
villaggio, riuniti nella curia della villa. Si tratta di un nuovo
“protagonismo” delle comunità che, in una fase di difficile transizione,
vollero far giungere al sovrano le loro rivendicazioni e proporre capitoli
volti a limitare lo strapotere feudale, a regolamentare il prelievo fiscale, ad
imporre ai baroni la residenza nell’isola, a rivendicare, date le condizioni di
povertà e di prostrazione per la guerra e le epidemie, l’esenzione dal
pagamento dei diritti signorili[164].
Nella seconda metà del XIV secolo si
definiscono meglio gli ordinamenti amministrativi e le pertinenze territoriali
dei villaggi sardi, sia di quelli delle regioni sottoposte all’autorità della
Corona catalano-aragonese, sia di quelli dei dominî dei giudici d’Arborea. La
cosiddetta ultima pax Sardiniae, cioè
l’accordo di pace stipulato nel 1388, dopo lunghe e snervanti trattative, tra
la giudicessa Eleonora d’Arborea e il re d’Aragona, Giovanni I, ci fornisce
infatti elementi nuovi sulla realtà sociale e istituzionale delle ville dell’isola.
Il trattato venne approvato, secondo gli ordinamenti pubblici giudicali, dai
«sindaci, actores et procuratores» delle città, delle curatorie e delle
incontrade, «congregati» ad Oristano nell’assemblea magnatizia della Corona de Logu, l’istituzione abilitata
a discutere e a sanzionare i capitoli di pace. Al testo del trattato erano
allegate le ratifiche che i rappresentanti delle città e dei villaggi, sia
quelli giudicali, sia quelli dei territori incorporati, sottoscrivevano alle
condizioni fissate, e l’elenco degli abitanti o dei capifamiglia che riuniti in
assemblea avevano dato al loro sindacus
e procuratore la potestà di firmare l’atto. Il trattato costituisce un
documento davvero unico per la conoscenza dell’onomastica (circa 3.500 nomi e
cognomi) e della toponomastica (oltre 300 toponimi) della Sardegna
tardo-trecentesca[165].
L’ultima
pax, che riconosceva ai sudditi giudicali e a quelli regi di qualsiasi
condizione sociale la possibilità di poter cambiare residenza tra i rispettivi
dominî, conservando i propri beni e la propria integrità personale, sanciva di
fatto la fine del servaggio[166]. La
Carta de Logu d’Arborea avrebbe fatto
proprio questo principio (XCVI), disponendo però che chi avesse voluto godere
di questo diritto, lasciando una curatoria per un’altra, avrebbe dovuto essere
libero da oneri tributari nel luogo d’origine: l’accertamento dell’effettivo
pagamento delle imposte era demandato al curatore della nuova residenza.
Il trattato del 1388 lascia intravvedere non
soltanto le istituzioni di governo del Giudicato, ma anche un’organizzazione
assai articolata dell’amministrazione delle città e talvolta dei villaggi. A
Bosa, ad esempio, l’atto viene sottoscritto dal podestà, Sisinnio de Lacon, da
tutti i cittadini e i residenti («omnibus civibus et habitatoribus civitatis»)
e anche da un’«alia multitudine hominum», ad eccezione dei «pastores
bestiaminum» (forse impegnati nella transumanza), raccolti in assemblea,
secondo le consuetudini della città, nella chiesa della Beata Vergine.
L’assemblea di Castelgenovese, di cui era podestà Paulo Savio, si riunisce
insieme agli abitanti della villa di Coquinas nella loggia del palazzo
municipale alla presenza della solita «moltitudine» di abitanti che si affianca
all’élite civica («majorem ac saniorem partem universitatis»). I cittadini di
Terranova, di cui è podestà Expiloso de Horru, si riuniscono in assemblea nella
curia podestarile insieme agli abitanti dell’appendice (cioè della frazione) di Fundi Monti. I villaggi sono
sempre retti da maiores, di cui l’atto
riporta un nutrito elenco. Figurano spesso anche i giurati della villa
(«habitatoribus et juratis ville de Sindia»). Gli abitanti dell’incontrada di
Monreale nel Campidano si radunano nel villaggio di Sardara nella casa del
curatore. Nel castello di Ardara si congregano i rappresentanti dell’incontrada
del Meilogu e dei suoi villaggi[167]. Il
maiore e i giurati esercitano la
rappresentanza politica delle comunità rurali, comparendo come procuratori
delle ville nell’approvazione dell’atto e nella stipula della pace tra la
giudicessa e il re. Per la prima volta le ville, un tempo mortificate e
defraudate degli usi civici da parte dei poteri signorili e monastici, fanno
sentire con chiarezza la propria voce su una deliberazione decisiva per il loro
futuro.
Uno stretto rapporto lega la Carta de Logu all’ultima pax Sardiniae: lo statuto territoriale arborense venne
infatti emanato dalla giudicessa Eleonora in un periodo di pace, forse nel 1392
secondo Besta, o nel 1390-91 come ritiene Cortese[168].
Nel proemio Eleonora richiamava il testo della precedente Carta de Logu promulgata, probabilmente negli anni
sessanta-settanta, «cum grandissimo provedimento», da suo padre Mariano IV, che
non era stata emendata e riformata da oltre sedici anni e necessitava pertanto
di una revisione «per multas varietatis de tempus». La giudicessa enunciava i
principî che avevano ispirato la riforma del testo statutario: l’«acrescimentu
et altamentu dessas provincias», delle regioni e delle terre discendevano e
derivavano dalla giustizia; per mezzo dei buoni capitoli veniva raffrenata la
superbia dei rei e dei malvagi. Dichiarava quindi di emanare la sua Carta affinché i buoni, i puri e gli
innocenti potessero vivere in pace protetti dalle leggi[169].
La Carta
de Logu, come ha posto in evidenza Francesco Calasso, esprime la «decisa
volontà di svecchiare la coscienza giuridica sarda, staccandola da certe sue
primitive pratiche, sotto l’influsso dei diritti continentali»[170].
In essa si possono ravvisare gli influssi del diritto canonico, della tradizione
statutaria italiana, delle regole romane e delle consuetudini sarde. Il
richiamo alla lege o alla ragione, che si riferisce certamente al
diritto giustinianeo, rivela, secondo Cortese, un’«importante apertura al mondo
della romanità continentale» e costituisce «un primo passo verso l’ingresso
della Sardegna nel sistema del Diritto comune»[171].
Per questi motivi la Carta de Logu si
differenzia da quell’estesa fioritura statutaria dell’Italia
centro-settentrionale nella quale sovente il «particolarismo» si identifica col
«localismo giuridico»[172].
La Carta
de Logu assume inoltre, almeno per la società sarda, un’importanza
“rivoluzionaria” giacché, rispetto agli statuti della prima metà del secolo,
definisce e disciplina un mondo rurale nel quale è scomparso il servaggio. Era
stato Mariano IV nel 1353 ad abolire la servitù nei territori giudicali ed in
quelli incorporati per far fronte con uomini liberi e affrancati alla guerra
contro l’Aragona: il giudice infatti, come si legge nei documenti del tempo,
«infranquabat et liberabat ad imperpetrum omnes servos sardos, et omnes alios
qui nunc erant servi faciebat immunes ab omnibus serviciis»[173].
Probabilmente per questa ragione Mariano promulgò, fra gli anni 1367 e il 1376,
una prima redazione dello statuto arborense, da cui erano già state espunte
tutte le norme consuetudinarie riferite ai servi e alla servitù[174].
Si trattava di una riforma di enorme portata per i villaggi giudicali, che
stravolgeva gerarchie sociali consolidate da tempo immemorabile. Basta pensare
che nella prima metà del Trecento la popolazione servile dell’Arborea era il
doppio di quella dei lieros: Carlo
Livi ha calcolato che su circa 120.000 abitanti, 40.000 erano liberi ed 80.000
servi[175].
Nel cosiddetto Codice rurale, emanato da Mariano IV negli anni cinquanta o
sessanta del XIV secolo (ed inserito poi nell’incunabolo della Carta de Logu del 1480 circa), in un
periodo di abbandono delle campagne e di devastazione delle colture da parte
del bestiame brado incustodito, si disponeva (CXXXIII) che ogni anno il
curatore dovesse far «ellegere personas de bona fama et conditioni», come jurados dei villaggi, otto nella «villa
manna», cioè nel villaggio grande, sei in quella «metzana», quattro in quella
«picinna», per controllare le recinzioni delle vigne e degli orti[176].
Al villaggio erano dunque demandati compiti di vigilanza sul territorio agricolo:
i maiores della villa avrebbero
dovuto registrare in un apposito quaderno l’omologazione della cungiadura e punire i proprietari
negligenti (CXXXIV-CXXXV).
La trattazione più organica dell’ordinamento
amministrativo e giudiziario locale è ovviamente quella della Carta de Logu, che delineava un
villaggio dotato di una relativa autonomia, composto esclusivamente da sudditi
e vassalli lieros, e classificato in
due categorie principali: la villa manna,
con più di duecento famiglie o «fuochi» fiscali (tra 800 e 1000 abitanti), e la
villa picinna, con meno di duecento
«fuochi» (VI)[177].
Il villaggio era governato dal maiore,
un ufficiale giudicale posto alle dirette dipendenze del curatore: egli
sovraintendeva all’amministrazione, godeva di competenze in materia fiscale,
provvedeva alla sicurezza del territorio, verificava i danni causati alle
coltivazioni e alle persone, esercitava attività giurisdizionale (VII). Accanto
al maiore operavao i jurados, scelti annualmente dal curatore
tra i lieros della villa (XVI), in
numero di dieci per il villaggio grande e di cinque per quello piccolo – il
loro elenco, villaggio per villaggio, doveva essere trasmesso alla curatoria –,
con funzioni di vigilanza sull’agricoltura e di polizia giudiziaria. Essi erano
incaricati di indagare in diversi casi di reato (omicidio, furto,
favoreggiamento, abigeato, incendio doloso, distruzione di vigne, orti e
frutteti, abbattimento di recinzioni, etc.) e di denunciare, arrestare e
tradurre in carcere o alle corti di giustizia della villa o della curatoria i
presunti colpevoli. Dovevano eseguire periodicamente una serie di attività di
prevenzione: perquisire le abitazioni alla ricerca della refurtiva, coordinare
le operazioni di marchiatura del bestiame, verificare lo stato delle chiusure,
stimare i danni alle colture e ai predi. Erano inoltre sottoposti a sindacato (pregontu) per la loro attività, le indagini
effettuate e i diritti di machizia
riscossi[178].
Sia il maiore,
sia i giurati erano soggetti all’antico istituto consuetudinario dell’incarica (VI, VII, XIII, XVI, XVII,
XVIII, XXX, XXXIII, etc.), che faceva gravare con multe sugli amministratori e
talvolta sulla comunità locale la responsabilità collettiva per i delitti e per
i danni patrimoniali commessi nel territorio (habitacioni e saltu) del
villaggio nel caso in cui entro un mese non si fossero scoperti o catturati i
colpevoli[179].
L’incarica, che nell’età spagnola
iniziò a trasformarsi in una sorta di tributo ordinario percepito dal barone,
rimase in vigore sino alla promulgazione nel 1827 delle Leggi civili e criminali del Regno di Sardegna[180].
Per l’ordinamento giudiziario la Carta de Logu da un lato si rifaceva
all’antica tradizione consuetudinaria «sardesca», tenendo soprattutto conto
delle altre esperienze statutarie che avevano recepito l’istituto della corona (la Carta de Logu cagliaritana, ovviamente quella di Mariano, gli
Statuti di Sassari e di Castelgenovese) e avevano disciplinato l’attività delle
curie col concorso dei probi homines,
dall’altro si accostava al modello processuale romano-canonico in base al quale
la definizione dei rapporti giuridici controversi era riservata agli organismi
giusdicenti, istituiti e riconosciuti dallo Stato giudicale[181].
Non è questa la sede per affrontare le numerose questioni poste dal diritto
processuale arborense: il nostro obiettivo è quello di analizzare la giustizia
nell’ambito del villaggio, un tema su cui la Carta de Logu si mostra in verità piuttosto reticente. Non sono
infatti ben definite le attribuzioni giurisdizionali della corona de villa, erede secondo alcuni studiosi dell’antica corona de iscolca, documentata dai
condaghi e dalle fonti dei secoli XI-XIII[182]. È
probabile infatti che l’organismo giudiziario del villaggio presieduto dal maiore, affiancato da un collegio
composto da dieci giurati nel caso di una villa grande e da cinque in quella
piccola (la corona non poteva
giudicare con meno di cinque membri presenti), godesse di cognizioni nel
complesso modeste nell’ambito dei reati minori (XXI). I documenti processuali e
i giudizi dell’età spagnola che ci sono pervenuti non chiariscono del tutto le
competenze della corona del maiore
nel XIV secolo[183].
Non è infatti chiaro se dalla corona del maiore ci si potesse appellare in seconda
istanza a quella del curatore, che sin dai tempi più antichi costituiva
l’istituzione giudiziaria più importante a livello provinciale e che secondo
Solmi aveva la «giurisdizione ordinaria del distretto» in «tutte le cause
civili e penali, senza limitazione di competenza»[184].
La Carta de Logu menziona altre
corone: quella de portu (LIII),
presieduta dall’omonimo maiore,
probabilmente con competenze in materia commerciale e doganale[185];
la corona de chida de berruda (LII),
forse un tribunale di appello che, in base a un rigido calendario giudiziario,
coinvolgeva le curatorie e i villaggi che a turno (muda) si dovevano recare ad Oristano per la celebrazione dei
processi[186];
infine, la corona de logu, alta corte
di giustizia di ultima istanza, presieduta dall’armentariu de logu in rappresentanza del giudice, cui
periodicamente erano avocate le cause più importanti (LII)[187].
I membri del collegio giudicante della corona
del villaggio (jurados) venivano
scelti dal curatore, come si legge nel cap. XVI della Carta, fra i megius homines,
cioè tra i notabili della comunità: dovevano ovviamente essere lieros, non soggetti a limitazioni di
sorta, e di calidadi, vale a dire
dotati di elevate qualità personali che permettessero loro di assumere delicate
responsabilità giudiziarie. Rispetto agli statuti precedenti, condizionati
dalla presenza della servitù, la Carta
di Eleonora non poneva come unico requisito per poter ricoprire la carica di
giurato il censo e la condizione sociale, ma, anzi, richiedeva esplicitamente
doti morali ed esperienza per essere scelto come membro della corona. Ai ceti
emergenti della società post-servile erano dunque attribuite le funzioni
giudiziarie del villaggio. Non giustizia delegata, però, giacché il governo
giudicale esercitava un rigido controllo sulle curie attraverso la scelta e la
selezione dei giurati da parte dei curatori[188].
D’altronde i lieros della corona
avrebbero dovuto giudicare secondo coscienza e giustizia «non juigando pero
contra a sa carta de logu» (LXXI): nella curia di ogni curatoria doveva essere
conservata una copia dello statuto che, in caso di necessità, i giurati
avrebbero potuto facilmente consultare (CXXIX).
Il sistema giudiziario disciplinato dalla Carta de Logu rimase in vigore sino alla
riforma introdotta dal capitolo di corte approvato nel 1602 nel Parlamento Elda
nel quale, considerando il «variarse y mudarse» delle leggi secondo i costumi e
la «varietat del temps», lo Stamento militare riteneva un «gran inconvenient
iudicar las causas en las villas ab los iudicants de fora personas idiotas»,
cioè illetterati, che molto spesso non erano in grado di capire «los capitols
de carta de lloch» soprattutto in materia penale: chiedeva quindi che i baroni,
nonostante le antiche disposizioni, potessero nominare un «consultor» al posto
dei boni homines della corona. Il
sovrano approvava la richiesta secondo la quale «los señors de lochs conforme
als limits de sa jurisdictiò judiquen totes les causes criminals ab consell de
un consultor perit en dret», senza alcun aggravio ulteriore per le comunità[189].
Certo, il livello di alfabetizzazione dei probi homines del villaggio doveva essere,
al di là delle facili mitizzazioni, assai basso per quello che richiedeva una
corretta amministrazione della giustizia. D’altra parte le fonti dell’età
spagnola non si stancano di denunciare la collusione degli abitanti delle ville
con i malfattori, la corruzione degli ufficiali di giustizia, le false
testimonianze, i delitti impuniti, le vendette e gli scontri di fazioni,
l’abigeato e il contrabbando, le quadrillas
di banditi che controllavano vasti territori[190]. Ma
è anche vero che con questa innovazione la feudalità finiva per acquisire,
tramite il consultor di nomina
baronale, un pieno controllo sulla giustizia inferiore a scapito ovviamente
della funzione e della relativa autonomia dei notabili del villaggio.
Alcuni studiosi hanno ravvisato nell’istituto
dei probi homines la lunga permanenza
di eredità consuetudinarie giunte addirittura sino all’età contemporanea.
Pigliaru, ad esempio, ha considerato la Carta
de Logu come una «vicenda» legislativa «tutta interna alla storia sarda» e
«perciò naturalmente più vicina all’ordinamento consuetudinario [...] del quale
spesso non costituisce che una elaborazione scritta»[191].
Gli antropologi e i sociologi del diritto hanno voluto stabilire un nesso di
continuità tra gli antichi giudizi di corona e l’attività di individui con
funzioni di arbitri a livello della comunità di villaggio: gli homines che dirimono le vertenze in
materia ereditaria o compongono le faide del paese. Secondo Marinella Carosso
l’«arbitrato si è conservato in Sardegna sul modello dell’ordinamento della Carta de Logu, facendo fronte ai diversi
governi che hanno retto l’isola dal XV secolo ai nostri giorni, resistendo
quindi ai passaggi dalla consuetudine orale all’ordinamento giuridico scritto e
di nuovo, infine, alla consuetudine»[192].
L’estensione della Carta de Logu a tutti i territori feudali del Regno di Sardegna,
decretata nel Parlamento del 1421, è un’ulteriore conferma della “duttilità” di
questo testo normativo che, pur in un quadro istituzionale assai diverso da
quello della sua promulgazione – caratterizzato ora dal potere monarchico e
dagli ordinamenti feudo-vassallatici –, riuscì comunque, rispetto agli altri
statuti sardi, a calarsi agevolmente in una realtà segnata da innovazioni
rilevanti[193].
La Carta
de Logu si era confrontata con i nuovi ordinamenti presenti nei territori
incorporati (XCIII), per i quali si disponeva che i signori titolari di
villaggi infeudati («chi hant villas in feu») fossero tenuti a nominare il maiore e i giurati tra «sos megius dessa
villa» e a trasmettere i loro nomi alla Cancelleria giudicale. Aveva disciplinato
anche (XCII) il sistema delle concessioni beneficiarie presenti all’interno dei
territori arborensi per le quali si stabiliva che i lieros e i fittavoli (terrales
de fittu) di un villaggio affeadu
(soggetto a concessione) non dovessero pagare i tributi al fideli (al beneficiario) ma «assa corti», cioè all’erario
giudicale. Insomma, la Carta de Logu
diveniva oggettivamente garante della “continuità” degli ordinamenti
amministrativi e giudiziari locali dal Giudicato d’Arborea alla nuova realtà
istituzionale feudale del Regnum
Sardiniae.
Si sbaglierebbe però a considerare la
“continuità” come parametro esclusivo delle vicende storiche della Sardegna
tre-quattrocentesca: vi sono infatti anche lacerazioni e contrasti col passato
che caratterizzano la vita dei villaggi infeudati nella prima metà del XV
secolo. Fra queste si distingue il rigido assoggettamento delle ville alle
esigenze annonarie delle città attraverso lo stoccaggio urbano di una
consistente quota-parte della produzione cerealicola delle campagne. Si
trattava di un’eredità della prima fase della conquista catalano-aragonese: non
a caso la quarta costituzione approvata nel Parlamento del 1355 imponeva ai
villici di immettere «totum triticum et ordeum» nei «castris et fortalicis
ordinatis» controllati dalla Corona[194]. Il
1° marzo 1357 Pietro IV concedeva alla città di Cagliari, avamposto della
conquista, il privilegio di poter immagazzinare all’interno delle mura fino a
20.000 starelli di grano (pari a 984.000 litri)[195]. Il
13 gennaio 1362 accordava a Sassari il privilegio di immagazzinare 6.000
rasieri (pari a 885.600 litri), di cui 400 gravavano (in linea di continuità
con gli statuti) sulle quattro ville della Romangia, Sorso, Sennori, Geridu e
Taniga[196].
Anche ad Alghero – la città-fortezza integralmente ripopolata da coloni
catalani, alla quale negli anni 1355-68 era stato assegnato un nuovo distretto
territoriale comprendente le ville di Olmedo e di Manuçades e il castello di
Bonvehì – Pietro IV concedeva, il 27 dicembre 1363, il privilegio (rinnovato il
15 aprile 1388) dello stoccaggio di 2.000 rasieri di grano (pari a 295.200
litri)[197].
L’obbligo del conferimento alla città di Alghero del grano di scrutinio
destinato all’ensierro annonario si
estenderà, dopo il 1501, ai lontani villaggi delle Barbagie (Bitti, Orune,
Orani, Oniferi, etc.) obbligati a trasportare a proprie spese sui carri, per un
centinaio di miglia, le granaglie fin dentro della fortezza del Capo di
Logudoro[198].
Vi erano inoltre alcune corvé che le città
praticavano nei confronti dei villaggi del proprio territorio: ad esempio, sin
dall’epoca pisana le ville del circondario di Cagliari (Quartu, Quartucciu,
Cepolla, Pirri, San Vetrano) erano obbligate a fornire la manodopera per
l’estrazione del sale dagli stagni, imposizione riconfermata nel 1420 da
Alfonso il Magnanimo[199]. Il
villaggio di Quartu era tenuto a trasportare con propri carri il sale dalle
saline al Castello di Cagliari: soltanto con l’editto del 5 aprile 1836 Carlo
Alberto decretò la soppressione dell’iniqua consuetudine[200].
Con la conquista catalano-aragonese inizia a
mutare anche il rapporto delle comunità con i terreni soggetti agli usi civici,
in passato frequentemente usurpati dai signori laici ed ecclesiastici. Il
cosiddetto privilegio del Ceterum,
concesso il 25 agosto 1327 ai primi coloni e abitatori catalani del Castello di
Cagliari, che comunicava al nuovo insediamento il diritto privilegiato della
città di Barcellona, permetteva ai pobladors
di esercitare «ademprivia venacionum, pescuorum, nemorum, ribagiorum, acquarum»
nei territori del distretto, estendendo questi diritti collettivi su tutti gli
ademprivi della Sardegna («habeatis enim in tota insula Sardinia ademprivia
illa que ibi habent cives et habitatores civitatum et cillarum insulae
Sardiniae supradicte»)[201].
Con un provvedimento analogo l’8 dicembre 1361 Pietro IV concedeva ai coloni di
Alghero «opus et ademprivium» del diritto di pascolo («erbagium») nei territori
compresi tra la fortezza e il rio di Lunafras[202].
Anche i giudici di Arborea concessero alle ville terreni demaniali per gli usi
collettivi: nel 1338-39 Mariano concedeva il Saltu novu ai coloni di Burgos ed il 10 maggio 1385 Eleonora donava
agli «homines habitatores» del villaggio di Santu Lussurgiu il salto di Padru maiore e di Ferquillas[203].
Nel XV secolo il diritto di ademprivio si configura come un diritto d’uso
goduto dai villaggi infeudati sopra le parti del demanio baronale destinate a
soddisfare le esigenze comuni della vita rurale: la dottrina giuridica sarda
del XVII secolo classificherà sotto la categoria di communia publica (Vico) e di demanialia
feudi (Quesada Pilo) i beni soggetti agli usi collettivi, necessari alla
sussistenza economica delle comunità di villaggio[204].
Con l’introduzione del sistema feudale gli
ordinamenti amministrativi della villa rimangono sostanzialmente inalterati: il
signore si sostituisce al giudice nella designazione del maiore e dei giurati e nella nomina degli altri ufficiali baronali:
continuità che si riscontra anche nei tributi feudali (ad esempio le analogie
tra il dadu giudicale, tributo
fondiario quasi sempre pagato in natura, trasformatosi col tempo in imposta
fissa corrisposta in denaro allo Stato da tutti i sudditi, e il feu, tributo personale in moneta
attinente alla condizione di vassallo e alla ricognizione della giurisdizione
baronale) e nei comandamenti dominicali[205].
Così, ad esempio, l’8 giugno 1418 il procuratore reale del Regno, Bartolomeo
Vidal, ordinava agli ufficiali regi, ai maiores
e ai giurati dell’incontrada campidanese di Monreale di far pagare agli
abitanti dei villaggi i diritti «que en temps passats avian acostumat pagar
interament»; per dare maggiore rilevanza all’ordine, Vidal faceva riportare
integralmente i capitoli disposti in precedenza dal governatore Pietro
Torrellas, in cui erano specificati i tributi feudali che gli «homens de la
dita econtrada» erano obbligati a versare sulle produzioni agricole, vinicole e
pastorali e le prestazioni dominicali sulle terre del signore. I capitoli
costituiscono un emblematico e dettagliato “catalogo” dei diritti feudali che
gravavano sui ceti rurali dei villaggi[206].
Nella Sardegna del primo Quattrocento non vi
era però nessuna determinazione precisa dei tributi feudali che il barone
poteva riscuotere dai vassalli, diritti che trovavano giustificazione nella
consuetudine e negli abusi invalsi: nonostante i tributi-tipo (feu, llaor
de corte, deghino, etc.) comuni a
tutti i feudi, vi erano differenze sensibili da feudo a feudo sia nelle
aliquote, sia nelle prestazioni, come emerge dagli atti di riscatto delle delegazioni
che, tra il 1835 e il 1837, le presero in esame e ne discussero la legittimità[207].
Nel XV secolo si afferma la prassi signorile di
concedere ai villaggi capitoli e carte di franchigia, sia per evitare lo
spopolamento di numerose ville con la conseguente perdita delle rendite
feudali, sia per chiedere ai vassalli, in cambio di concessioni fiscali ed
economiche, aiuti e contributi straordinari. L’isola non era estranea a questo
tipo di concessioni: basta pensare alle franchigie signorili accordate agli
abitanti di Burgos, Casteldoria ed Osilo, assai simili per certi aspetti alle
norme di alcuni statuti rurali dell’Italia centro-settentrionale. L’origine dei
capitoli quattrocenteschi era però squisitamente iberica. L’archetipo andrebbe
infatti ricercato nell’esperienza della Reconquista
e nel ripopolamento dell’VIII-IX secolo della Valle del Duero, dove le terre abbandonate
dai musulmani vennero considerate, secondo il principio romano dei bona vacantia, di proprietà del sovrano,
che poteva incorporarle nel demanio regio o cederle ai sudditi perché le
colonizzassero e le coltivassero[208].
Ciò presupponeva ovviamente la disponibilità di gruppi di coloni a trasferirsi
nei territori conquistati, dove li attiravano le esenzioni fiscali, gli
incentivi economici, l’amnistia dei reati e i guidatici individuali.
Nei regni della Corona catalano-aragonese la
politica di ripopolamento interessò principalmente la Catalogna nuova e la
bassa Aragona nei secoli XII-XIII e gran parte delle regioni valenzane nei
secoli XIII-XIV[209].
Anche in questo caso, analogamente all’esperienza castigliano-leonese, gli
strumenti istituzionali del ripopolamento furono le cartes de poblament, o cartas-pueblas,
con la concessione enfiteutica di terre e la ripartizione dei frutti tra il
signore e il colono, le cartes de
franqueses, con l’esenzione da numerosi tributi, gravami e prestazioni
feudali. Questo complesso di concessioni conferiva ai pobladors sottoposti al potere signorile uno statuto speciale,
appunto un fuero (dal latino forum), termine che nella Spagna
medievale veniva adoperato, con accezioni diverse, per designare diritti,
privilegi e libertà[210].
Vi sono numerosi aspetti giuridici e sociali
che apparentano le cartas-pueblas
iberiche alle prime concessioni di franchigie e di grazie nel Regno di
Sardegna. Innanzitutto il collegamento è costituito, come ha osservato Day, dal
grave e diffuso spopolamento delle campagne provocato in grande misura dalle
devastazioni e dalle distruzioni di lunghi anni di guerra: l’esigenza del
ripopolamento delle ville rurali e dello sfruttamento di vaste estensioni di
terreni abbandonati – si trattava di una vera e propria «caccia all’uomo» o,
meglio al colono – erano un obiettivo per il baronaggio che poteva essere
raggiunto soltanto con la ricontrattazione dei diritti e con l’esenzione, per
un arco di tempo determinato, dai gravami feudali[211].
Si sviluppava in taluni casi una sorta di «pattismo rurale»: i capitoli
concessi dal signore, giurati e registrati in un atto notarile, prevedevano il
consenso esplicito delle parti, obblighi reciproci e convenzioni concordate[212].
Le concessioni avevano valore esclusivo per i vassalli a cui erano state
accordate e non differivano pertanto dal diritto privilegiato municipale. Anche
in Sardegna l’accordo tra il barone e la comunità di villaggio si concretizzava
in sgravi ed incentivi fiscali, in concessioni enfiteutiche ad meliorandum di terre eremas, nel sostegno concreto alla
colonizzazione di territori spopolati a causa delle guerre e delle epidemie.
Una delle prime carte di franchigia che ci sono
pervenute è quella del 17 maggio 1416 concessa da Berengario Carroç, conte di
Quirra, signore del Giudicato di Ogliastra e della Baronia di San Michele nel
Capo di Cagliari, ai vassalli («fideles nostros incolas seu habitatores») delle
ville campidanesi di Uta, Settimo, Sestu, Sinnai, Mara, Calagonis e delle altre
esistenti nel feudo, danneggiate durante la guerra («tanta tempora propter guerram,
que in ibi diucius fuerunt distructe …»). La concessione mirava ad incrementare
il numero degli abitanti della baronia e, di conseguenza, lo stato economico
del feudo («capitulos et ordinamentos […] ad bene colendum et seu meliorandum
possessiones seu proprietates per nos eis concessas»). Nell’atto, redatto in
volgare sardo, venivano specificate le prestazioni e stabiliti i tributi che i bonos homines dei villaggi erano tenuti
a «pagari» alla «corte de su signori»[213]. In
contropartita dei tributi concordati i vassalli ottenevano il riconoscimento di
alcuni diritti considerati fondamentali («a causa ragionivili»), quali la
dispensa dal trasporto dell’orzo e del grano nella casa del signore nel Castello
di Cagliari (in futuro sarebbero stati pagati) e dal lavoro nelle terre
dominicali. Il barone, in virtù delle concessioni elargite, vietava ai vassalli
di abbandonare le ville della baronia per andare a popolare altre regioni (la
libertà di cambiare domicilio fu approvata solo nel 1448), sotto pena di morte
e della confisca dei beni («sots pena de perdre la persona y bens»). Disponeva
inoltre che tutti coloro che si fossero stabiliti in quei villaggi sarebbero
stati franchs di diritti per un anno[214].
Carattere simile assume la carta puebla concessa il 13 novembre 1421 da Luis Aragall agli habitadors dei villaggi semi-spopolati
di Villamassargia e Domusnovas. Anche in questo caso si tratta di una «gràcia
special» concessa ai vassalli delle due comunità: da un lato il signore accetta
per un triennio la sospensione del pagamento del feu o focatico in denaro e stabilisce che «tots los habitants qui
ara habiten e que d’aqui avant habitaran en dites viles sien franchs de
comandaments», dall’altro ristabilisce, secondo l’«acostumat», i tradizionali
diritti feudali (fra tutti la mezza
portadia sui cereali) e impone numerose corvé, dalla roadìa di tre giorni di lavoro gratuito nelle terre dominicali al
trasporto, sempre gratuito, delle derrate agricole nella casa del barone, dal
conferimento, ancora gratuito, della xerda
di paglia e del carro di legna ai regali di bestiame e di «gallines e polls»[215].
Di segno opposto sono invece le franchigie
concesse il 16 luglio 1422 dalla marchesa di Oristano, Quirica Deiana, al
villaggio di Santa Giusta: in questa occasione, infatti, le parti si invertono
giacché non è la signora ad accordare i capitoli, ma sono i «pàgos et pòveros
homines» della villa a richiederli. Essi domandano di essere esentati dal
pagamento dei tributi feudali («francos et liberos de certas mungias et
angarias») per poter ricostruire, riadattare ed ampliare il ponte, rilevante
snodo tra i due Campidani distrutto nelle guerre, di vitale importanza per i commerci,
le comunicazioni e l’economia dell’Oristanese. La marchesa, prendendo in seria
considerazione la richiesta della comunità e constatando che le cattive condizioni
economiche della villa le impedivano di trarne alcuna rendita, concesse agli
abitanti di essere in perpetuo «francos de non paguri» tributi (il feu, la mezza portadia, il deghino,
il diritto sul vino) ed esentati dalle corvé e dai comandamenti dominicali, ad
eccezione della cavalcata, obbligo
militare della cavalleria miliziana baronale[216].
Estremamente interessanti appaiono le
franchigie concesse il 1° novembre 1440 da Gonario Gambella, signore
dell’incontrada della Romangia, agli habitatores di Sorso e Sennori, due ville
con un’economia agraria per certi versi evoluta, caratterizzata
dall’orticoltura e soprattutto dalla viticoltura. Rispetto alle altre carte di
franchigia condizionate dallo spopolamento o dal sottopopolamento dei villaggi
e dall’abbandono delle colture, l’accordo tra Gambella e i suoi vassalli è
l’espressione di una realtà produttiva assai articolata e dinamica. Tra i
rappresentanti dei due villaggi compaiono nell’atto numerosi esponenti della
piccola nobiltà rurale («donno Johanne de Cupeddu, maiore de Sosso, donno
Gahingiu Corço, maiore de Sennori, donno Pantaleo de Riu, donno Leonardo Mannu,
donno Pedrutxu de Atzen, donno Johanne de Martis», etc.) e del ceto artigiano
(«mastru Johanne de S’Alighera», «mastru Preganciu», «mastru Annicu de Ante»,
«mastru Cathalazu», etc.).
Il testo dell’accordo, redatto in volgare
sardo, è il frutto della liberalità del signore e della lungimiranza dei
vassalli: essi, chiedendo di essere esentati in perpetuo dal pagamento del feu, sono convinti di «istare cum plus
bonu animu» e di poter aumentare le loro capacità produttive. I villici del
circondario «videndo custa franchicia […], sa quale non est in atera villa de
Sardignia», sarebbero venuti «plus volenterimente ad habitare ad icustas
villas», con grande «avantagiu» per Sorso, Sennori e per i loro abitanti. Non
potevano mancare ovviamente precise richieste di incentivi alla viticoltura
(«specialmente in plantare vignas») con la bonifica e il dissodamento dei
terreni incolti, sgravi fiscali per favorire la produzione e il commercio
vinicolo, la costituzione di un corpo di guardie campestri per «vighilare tocta
sa nocte» a protezione dei vigneti. Il barone, accettando la sfida lanciata
dagli homines della villa, coglieva
come in prospettiva le rendite feudali sarebbero cresciute con l’aumento della
produzione agricola e del benessere dei vassalli: decise pertanto che «sempre
et perpetuo» i villici fossero «franchos et exentes» dal pagamento del feu e decretò «de annullare su drittu de
sa ixida» imposto a chi venisse ad acquistare vino nei due villaggi. L’unica
condizione imposta come ricognizione della signoria feudale era il versamento
di mezzo rasiere (pari a 86,1 litri) di grano e di orzo per ogni giogo di buoi
posseduto[217].
Gli homines
dei villaggi di Gavoi e di Ovodda dell’incontrada della Barbagia di Ollolai
stipularono il 13 maggio 1443 con Leonardo de Alagón, marchese di Oristano,
conte del Goceano e signore delle Barbagie, una convenzione con la quale i
vassalli delle due comunità si dividevano in parti uguali «iures et saltos»
della villa abbandonata di Oleri, e come contropartita si impegnavano a versare
nelle casse baronali la rendita di 20 lire annue che un tempo gravava sul
centro spopolato. Dall’atto si delinea la trama pattizia che stava alla base
dell’accordo tra il barone e le comunità: il marchese convocò infatti in
«audiençia sos homines» per formulare la proposta; seguì la consultazione
dell’assemblea dei villaggi, che l’approvarono all’unanimità («sos principales
et populu de sas ditas villas totu a una voce e concordantes»)[218].
Il villaggio di Serramanna dell’incontrada di
Parte Gippis nel Campidano di Cagliari riuscì a strappare il 29 maggio 1455
generose concessioni da donna Aldonça Besora, vedova di don Jaime e reggente
del feudo come tutrice dei figli. Nell’atto, sottoscritto dalle parti, la
nobildonna accordava ai vassalli come «special gratia franquesa y llibertat»
l’esenzione da tutti i «servicis, commanaments y treballs reals y personals»,
ad eccezione della cavalcata. Nei
capitoli era inoltre previsto l’aiuto reciproco tra gli abitanti della villa
nella costruzione di case e nell’impianto di vigneti. Il maiore doveva far rispettare il principio, punendo con una multa di
10 lire chi si fosse rifiutato di «ajudar» i propri compaesani. Donna Aldonça
prevedeva per i vassalli un’ampia e libera disponibilità dei propri beni: «lo
dit poble e habitadors – si legge nella concessione – […] puxen liberament e
sens licenzia ne contradicciò alguna […] vendre, lexar, donar o en altra manera
alienar a qui volran […] tots lurs bens, bestiars, mercaderies, bous, cavalls,
forment, ordi, cases, vinyes e altre possessions …»[219].
Il meccanismo pattista del do ut des emerge chiaramente nei capitoli concessi nel 1455 dal
conte di Quirra, Giacomo Carroç, ai vassalli delle ville del Giudicato di
Ogliastra: da un lato il signore ribadiva che le grazie concesse e giurate
sarebbero state «roborades e fortificades plenament» dai vassalli e dai propri
successori «ab tenor del present contracte per perpetualmente valedor de grat»,
cioè con valore di privilegio esclusivo; dall’altro i vassalli si sarebbero
impegnati con un sostanzioso donativo a contribuire all’acquisto da parte del
barone delle incontrade di Marmilla e di Monreale; se entro due mesi non avesse
ricevuto la somma, Carroç avrebbe revocato le grazie concesse e ripristinato lo
stato precedente all’accordo («e tornar vos en lo primer stat»), caratterizzato
dall’indeterminatezza dei diritti signorili[220]. A
questo proposito i vassalli avevano posto come prima richiesta l’esenzione dal feu e da «munges, drets, costums» che
pagavano sulle proprie «possessions». Le rivendicazioni delle ville
dell’Ogliastra, regione grande produttrice ed esportatrice di formaggi, riguardavano
soprattutto l’allevamento e le attività pastorali: la «francha libertat» del
commercio del sale, la possibilità per i vassalli di poter «comprar totes
aquelles mercaderies» di cui avrebbero avuto necessità senza «pagar alcun
dret», la limitazione degli abusi delle guardie campestri («majors de pardos e
de padrajos»), il libero pascolo nei salti di Castiadas col pieno godimento
degli usi collettivi da parte delle comunità, la definizione dei confini dei
salti dei diversi villaggi, la libertà del cambio di domicilio, la
regolamentazione della macellazione del bestiame[221].
Non è un caso che nel settecentesco Libro de todas las gracias (l’unica
organica raccolta di capitoli e concessioni signorili pervenutaci a stampa) si
riporti per esteso una precedente carta reale di Alfonso V (Napoli, 31 ottobre
1452) nella quale il sovrano, sanzionando i capitoli di corte approvati nella
riunione dello Stamento militare e presentati da Giacomo Carroç e da Pietro
Joffre, proponeva come antidoto alle vessazioni e alle angherie nei confronti
dei vassalli la concessione da parte dei baroni di «beneficia ac privilegia» e
si impegnava a limitare gli abusi dei governatori e degli ufficiali regi[222].
In effetti con i Parlamenti di Alfonso il Magnanimo si chiudeva – diciamo così
– la fase “selvaggia” di un feudalesimo legato soprattutto alla dimensione
militare della conquista. Con la convocazione delle Corti e le riunioni del
solo Stamento militare il sovrano volle gettare le fondamenta per la
costruzione, su nuove basi sociali ed istituzionali, del Regnum Sardiniae[223].
Pur all’interno di una visione che ribadiva il
netto predominio della nobiltà feudale nella vita sociale, civile ed economica,
alcuni capitoli approvati nelle due assise erano volti al miglioramento delle
condizioni dei vassalli: nella riunione del 1448 erano state approvate norme
relative allo sconfinamento del bestiame, all’applicazione della Carta de Logu, al trasferimento di
domicilio da un feudo all’altro; in quella del 1452 erano stati sanzionati i
capitoli sull’esenzione dei vassalli dal pagamento delle collette, sul divieto
di imporre altri dazi, gabelle e sussidi, sulla definitiva ratifica del diritto
di cambio di residenza, sulla restituzione delle somme di denaro indebitamente
riscosse dagli ufficiali regi[224].
Infine, una prammatica di Giovanni II dell’8 gennaio 1459 avrebbe imposto al
viceré di punire i baroni e gli ufficiali delle curie feudali che maltrattavano
con violenze ed estorsioni i propri vassalli[225]. La
prassi della concessione signorile di franchigie e grazie alle comunità
proseguì nella seconda metà del XV secolo – nuovi capitoli del Giudicato
d’Ogliastra (1467-83), i privilegi reali della villa di Cabras (1479), le convenzioni
del Sarrabus (1480-81) – e si consolidò nell’età spagnola, sino alle capitulaciones di fondazione del
villaggio di Fluminimaggiore (1704), sia nella forma di accordi pattuiti tra le
parti, sia in quella di cartas pueblas
accordate per il ripopolamento di ville abbandonate o per la nascita di nuovi
insediamenti[226].
Gli ordinamenti amministrativi del villaggio
sardo, disciplinati dalla Carta de Logu,
rimasero sostanzialmente in vigore sino all’emanazione dell’editto del 24
settembre 1771 sullo «stabilimento» dei consigli delle comunità che, nel quadro
della politica di riforme attuata dal ministro Bogino, finì per sottrarre
definitivamente il governo delle ville al controllo della feudalità, favorendo
l’emergere di un nuovo ceto dirigente rurale posto sotto la diretta protezione
del sovrano[227].
* Il presente lavoro, realizzato col contributo del MIUR, fondi
PRIN (ex 40%), che riprende e sviluppa una relazione al convegno «Le comunità
rurali e i loro statuti (secoli XI-XV)», Viterbo, 30 maggio-1° giugno 2002,
promosso dal Comitato italiano per gli studi e le edizioni delle fonti
normative, è frutto di uno stretto rapporto di collaborazione tra i due autori.
Tuttavia i paragrafi 5, 6, 7 sono di Carla Ferrante e i paragrafi 1, 2, 3 di
Antonello Mattone. Il paragrafo 4 è di entrambi. Gli autori ringraziano gli
amici Italo Birocchi, Manlio Brigaglia, Franco G. Campus, Silvio De Santis,
Giuseppe Meloni, Pinuccia F. Simbula, Alessandro Soddu, Marco Tangheroni per le
indicazioni e i suggerimenti forniti.
[1] A. Pigliaru, La vendetta barbaricina come ordinamento
giuridico, Milano 1959, ora in Il
banditismo in Sardegna. La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico,
Milano 1970, 169. Per una biografia del filosofo del diritto sardo cfr. M. Puliga, Antonio Pigliaru. Cosa vuol dire essere uomini, Sassari 1996.
[2] Cfr. a questo proposito I.
Birocchi, La consuetudine nel
diritto agrario sardo. Riflessioni sugli spunti offerti dagli Statuti sassaresi,
in Gli Statuti Sassaresi. Economia,
società, istituzioni a Sassari nel Medioevo e nell’età moderna, a cura di
A. Mattone e M. Tangheroni, pref. di P. Toubert, Cagliari 1986, 335-354. Per il
dibattito sull’autonomia degli ordinamenti, cfr. P. Grossi, Scienza
giuridica italiana. Un profilo storico 1860-1950, Milano 2000, 102-103, 109-117,
120-123. Cfr. più in generale N. Bobbio,
Consuetudine e fatto normativo, in Contributi a un dizionario giuridico,
Torino 1994, 17-57.
[3] F.I. Mannu, Su patriota sardu a sos feudatarios, a
cura di L. Carta, Cagliari 2002, 18. Cfr. anche il vecchio, ma stimolante
studio di R. Garzia, Canto d’una rivoluzione. Appunti di storia e
di storia letteraria sarda, Cagliari 1899. La data della composizione
dell’inno si evince da G. Manno, Storia moderna della Sardegna dall’anno 1773
al 1799, II, Torino 1842, 94. Per la biografia di Mannu cfr. V. Del Piano, Giacobini, moderati e reazionari in Sardegna. Saggio di un dizionario
biografico 1793-1812, Cagliari 1996, 274-276 (è errata la datazione
dell’inno). Cfr. in generale A.
Mattone-P. Sanna, La «crisi
politica» del Regno di Sardegna dalla rivoluzione patriottica ai moti
antifeudali (1793-96), in Folle
controrivoluzionarie. Le insorgenze popolari nell’Italia giacobina e
napoleonica, a cura di A.M. Rao, Roma 1999, 37-70.
[4] F. Gemelli, Rifiorimento della Sardegna proposto nel
miglioramento di sua agricoltura, I, Torino 1776, 110-111. Cfr. a questo
proposito F. Venturi, Francesco Gemelli, in Illuministi italiani, III, 2, Riformatori delle antiche repubbliche, dei
ducati, dello Stato pontificio e delle isole, a cura di G. Giarrizzo, G.
Torcellan e F. Venturi, aggiornamenti a cura di F. Torcellan, Milano-Napoli
1998, 891-905, e la modesta voce di G.G. Fagioli
Vercellone, Gemelli Francesco,
in Dizionario biografico degli italiani,
LIII, Roma 1999, 40-42. Cfr. anche M. Da
Passano, Le discussioni sul
problema della chiusura dei campi nella Sardegna sabauda, in Materiali per una storia della cultura
giuridica X, 1980, n. 2, 417-435; P.
Grossi, Per la storia della
legislazione sabauda in Sardegna: il Censore dell’agricoltura, in Annali della Università di Macerata
XXVI, 1963, 171-240.
[5] Ivi, I, 122. Per la
descrizione del sistema comunitario sardo cfr. anche A. Ferrero della Marmora, Voyage
en Sardaigne, ou description statistique, physique et politique de cette île,
II, Paris 1839, cfr. ora Viaggio in
Sardegna, trad. it. a cura di M. Brigaglia, I, Nuoro 1995, 140-142. Cfr.
inoltre A. Centelli, La proprietà collettiva in Italia,
Milano 1920 (I ediz. Roma 1890), 70-83, e più in generale P. Grossi, “Un altro modo di possedere”. L’emersione di forme alternative di
proprietà alla coscienza giuridica postunitaria, Milano 1977, 191 ss.; sul
sistema comunitario medievale cfr. R. Hoffman,
Medieval origins of the common fields,
in European peasants and theire markets,
edited by V.M. Parker and E.L. Jones, Princeton 1975.
[6] Cfr. Testi e documenti per
la storia del diritto agrario in Sardegna, pubblicati e coordinati con note
illustrative sotto la direzione di A. Era, Sassari 1938, 213-220, 293. Nelle Ordinacions emanate dal Consiglio civico
di Alghero nel 1587 a proposito della colonizzazione dei terreni del Salto major si auspicava che venisse
fatta a «videtoni» (p. 427). Il «laore a vidazzone» nella Nurra, vasta pianura
spopolata nei dintorni di Sassari, si affermò dal 1571: cfr. G. Doneddu, La Nurra. Microstoria di un territorio, in Gli Statuti Sassaresi, cit., 399. L’immutabilità del sistema
comunitario sardo era stata sostenuta da M. Le
Lannou, Pastori e contadini di
Sardegna, a cura di M. Brigaglia, Cagliari 1979 (I ediz. Tours 1941),
113-136. Di opinione contraria J. Day,
Uomini e terre nella Sardegna coloniale
XII-XVIII secolo, Torino 1987, 11-14, 17-48, secondo cui in Sardegna nel
XII-XIV secolo, «al punto culminante dell’espansione demografica,
l’individualismo agrario non predominava ancora. Non soltanto i vigneti, gli
orti e i frutteti […] ma anche gli arativi e spesso perfino i saltus erano proprietà private libere da
ogni ingerenza collettiva. Il sistema comunitario prese radici nell’isola solo
verso la fine del Medioevo dopo un lungo periodo di spopolamento e di
contrazione dei coltivi» (12); G.
Doneddu, Ceti privilegiati e
proprietà fondiaria nella Sardegna del secolo XVIII, Milano 1990, 13-22.
[7] J. Dexart, Capitula sive acta Curiarum Regni Sardiniae,
Calari 1645, lib. VIII, tit. VII,
cap. V, 1334; F. De Vico, Leyes y pragmaticas reales del Reyno de
Sardeña, Sasser 1781 (I ediz. Napoles 1640), lib. II, tit. XLIV, cap. VII, 271-272; cfr. inoltre I.
Birocchi, Verso la proprietà
perfetta nella Sardegna sabauda, in La
proprietà e le proprietà, a cura di E. Cortese, Milano 1988, 543-568; A. Mattone, Le vigne e le chiusure: la tradizione vitivinicola nella storia del
diritto agrario della Sardegna (XIII-XIX secolo), in Storia della vite e del vino in Sardegna, a cura di M.L. Di Felice
e A. Mattone, Roma-Bari 1999, 74-98.
[8] Nel 1567 Girolamo Olives, avvocato fiscale del Consiglio
d’Aragona, nelle sue glosse alla Carta de
Logu così definiva il termine vidazzone:
«Aydatio villae est quaedam clausura, quae fit circa terras in quibus seminatur
illo anno, propter bestias ne intrent in eas […], comprehendit tam locum istum
ubi seminatur, quam etiam pratum vetitum ipsius villae …»: H. Olives, Commentaria et glosa in Cartam de Logum, Calari 1708 (I ediz.
Madriti 1567), cap. XVI, gl. pr., 47; M.T.
Atzori, Glossario di sardo antico.
Documenti dei secoli XI-XIV, Parma 1953, 181; M.L. Wagner, Dizionario
etimologico sardo, Heidelberg 1958, 203; cfr. anche C.G. Mor, Sul commento
di Girolamo Olives giureconsulto sardo del sec. XVI alla Carta de Logu d’Arborea,
in Testi e documenti, cit., 55-68.
[9] Cfr. G.G. Ortu, Villaggio e poteri signorili in Sardegna.
Profilo storico della comunità rurale medievale e moderna, Roma-Bari 1996,
che resta in questo ambito l’opera di riferimento.
[10] P. Tola, Codex Diplomaticus Sardiniae («Historiae
Patriae Monumenta», X), I (d’ora in poi CDS), Augustae Taurinorum 1861, diplomi
e carte del secolo XI, n. VIII, 155. Cfr. a questo proposito E. Cau, Peculiarità e anomalie della documentazione sarda tra XI e XIII secolo,
in Giudicato d’Arborea e Marchesato
d’Oristano: proiezioni mediterranee e aspetti di storia locale, a cura di
G. Mele, I, Oristano 2000, 313-421; G.
Paulis, Falsi diplomatistici: il
caso delle Carte Volgari
dell’Archivio Arcivescovile Cagliaritano, in Officina linguistica I, 1997, n. 1, 133-139.
[11] Cfr. le osservazioni di A.
Solmi, La costituzione sociale e
la proprietà fondiaria in Sardegna avanti e durante la dominazione pisana,
in Archivio Storico Italiano, serie
V, XXXIV, 1904, 265-349; R. Di Tucci,
“Cicero pro Scauro”. Elementi giuridici
romani e consuetudini locali nella società medievale sarda, in Archivio Storico Sardo XXI, 1938, n. 2,
26-49; A. Mastino, La romanità della società giudicale in
Sardegna: il Condaghe di San Pietro
di Silki, in La civiltà giudicale in
Sardegna nei secoli XI-XIII. Fonti e documenti scritti, a cura
dell’Associazione “Condaghe S. Pietro in Silki”, Sassari 2000, 23-61.
[12] Cfr. S.
De Santis, «Qui regant… et
ordinent et lavorent et edificent et plantent ad honorem dei». La Sardegna rurale al passaggio tra
l’età giudicale e il Regno di Sardegna (secc. XI-XIV), Università di Cagliari, Dottorato di ricerca in Storia medievale
XII ciclo (2001), 114-134, che si propone l’obiettivo di ricostruire i
cambiamenti che investirono le campagne sarde dall’apogeo della società
giudicale all’affermazione di forme di controllo economico, politico,
amministrativo introdotte dall’esterno dell’isola (Pisa, Genova, Aragona).
[13] CDS, I, diplomi e carte del XII secolo, n. XVI, 189. Per la data
si è adottata quella proposta da E.
Besta, Rettificazioni cronologiche
al primo volume del Codex Diplomaticus Sardiniae, in Archivio Storico Sardo I, 1905, n. 3-4, 248.
[14] A. Solmi, Le carte volgari dell’Archivio Arcivescovile
di Cagliari. Testi campidanesi dei secoli XI-XIII, in Archivio Storico Italiano, serie V, XXXV, 1905, doc. n. 6, 286-287.
Su queste tematiche cfr. F. Cherchi Paba,
Lineamenti storici dell’agricoltura sarda
nel secolo XIII, in Studi storici in
onore di Francesco Loddo Canepa, II, Firenze 1959, 119-216; A. Boscolo, Aspetti della vita curtense in Sardegna nel periodo alto-giudicale,
in Fra il passato e l’avvenire. Saggi
storici sull’agricoltura sarda in onore di Antonio Segni, Padova 1965,
49-63; Ortu, Villaggio e poteri signorili, cit., 5-15.
[15] Cfr. De
Santis, «Qui regant …, cit., 115-116. A suo avviso la società giudicale non deve essere considerata come
una realtà immobile e statica. Fu animata da numerosi fermenti: il ceto
dominante, i cosiddetti maiorales,
non furono in grado però di reggere la sfida con la più coesa e organizzata
penetrazione mercantile e politica pisana e genovese. L’incapacità di dare una
risposta alle nuove esigenze e la mancanza di coesione portarono, soprattutto
nel XIII secolo, i ceti dirigenti non solo a rinunciare al potere politico, ma
anche a perdere quel ruolo sociale ed economico che avevano avuto fino ad
allora. Nella descrizione del «sistema domus» De Santis tiene necessariamente
conto delle tesi storiografiche di P. Toubert,
Les structures du Latium médiéval. Le
Latium méridional et la Sabine du IXe siecle à la fin du XIIe siècle, Rome
1973, I, 50 ss., II, 1355-1360, e di A. Verhulst,
La genèse du régime domanial classique en
France au haut moyen âge, in Agricoltura
e mondo rurale in Occidente nell’alto Medioevo, Atti della XIII Settimana
del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 1966, 135-160, che
hanno rivendicato, a volte con eccesso, il ruolo di motore dello sviluppo delle
grandi aziende curtensi. Il dibattito sul “sistema curtense” era stato aperto
già negli anni settanta del XIX secolo col volume di K.T. Inama-Sternegg, Die ausbildung der grossen grundherrschaften in Deutschland während der
Karolingerzeit, Leipzig 1878: le diverse posizioni sono ricostruite da S. Pivano, Sistema curtense, in Bullettino
dell’Istituto Storico Italiano XXX, 1909, 91-145. Cfr. anche il quadro
molto più pessimistico tracciato da J.
Day, La Sardegna e i suoi
dominatori dal secolo XI al secolo XIV, in J. Day, B. Anatra, L. Scaraffia, La Sardegna medioevale e moderna («Storia d’Italia», diretta da G.
Galasso, X), Torino 1984, 38 ss.
[16] Cfr. a questo proposito M.
Tangheroni, Nascita ed
affermazione di una città: Sassari dal XII al XIV secolo, in Gli Statuti Sassaresi, cit., 45-63; A. Castellaccio, Sassari medioevale, 1, Sassari 1996, 57-95; il volume collettaneo Sassari le origini, Sassari 1989; quello
promosso dall’Istituto di Storia medievale dell’Università di Cagliari, S. Igia. Capitale giudicale, Pisa 1986; P.F. Simbula, La capitale giudicale, in La
provincia di Oristano. L’orma della storia, a cura di F.C. Casula,
Cinisello Balsamo 1990, 74-80; M.G. Mele,
Oristano giudicale. Topografia e
insediamento, Cagliari 1999, 25-46; R.
Zucca, L’Aristiane dei bizantini,
in Quaderni oristanesi, n. 13-14,
1987, 47-56; P.G. Spanu, La Sardegna bizantina tra VI e VII secolo,
Oristano 1998, 60-65.
[17] Sui condaghi cfr. E. Besta,
Nuovi studi sulle origini, la storia e
l’organizzazione dei giudicati sardi, in Archivio Storico Italiano, serie V, XXVII, 1901, 26-30; Id., Condaghi sardi, in Bullettino
bibliografico sardo III, 1903, 104-109; A.
Era, Lezioni di storia delle
istituzioni giuridiche ed economiche sarde, Roma s.a. (ma 1934), 85-95. Fra
gli studi più recenti cfr. G. Meloni,
La Sardegna rurale in un importante
documento del XII secolo, in G.
Meloni-A. Dessì-Fulgheri, Mondo rurale e Sardegna del XII secolo. Il
Condaghe di Barisone II di Torres, pref. di M. Luzzati, Napoli 1994, 15-22;
B. Fois, I condaghi: fonti per la
storia del Medioevo sardo, in Rivista
di storia dell’agricoltura XXXIV, 1994, n. 1, 3-40; F.C. Casula, Condaghi,
in Dizionario storico sardo, Sassari
2001, 449-453.
[18] Il Condaghe di Santa Maria
di Bonarcado (d’ora in poi CSMB), a cura di M. Virdis, Cagliari 2002, n. 1;
cfr. ora la recentissima traduzione italiana de Il condaghe di Santa Maria di Bonarcado, a cura di M. Virdis, Nuoro
2003 («Bibliotheca Sarda», n. 88).
[19] CDS, I, diplomi e carte del secolo XII, n. XLVI, 210-211.
[20] Il Condaghe di San Pietro di
Silki testo logudorese inedito dei secoli XI-XIII (d’ora in poi CSPS), a
cura di G. Bonazzi, Sassari 1979 (I ediz. Sassari-Cagliari 1900), nn. 306, 208,
79-80. Cfr. anche la traduzione italiana di I. Delogu che, nonostante alcune
inesattezze, permette di accedere al testo, talvolta ermetico, del cartulario
medievale (Sassari 1997), ed il glossario generale e l’indice a cura di A.
Satta, Sassari 1982. Cfr. inoltre V.
Tetti, Il patrimonio dell’abbazia
di S. Pietro di Silki con indice e repertorio toponomastico, in Sesuja. Quadrimestrale di cultura 17-18,
1995-96, 87-117.
[21] Cfr. Ortu, Villaggio e poteri signorili, cit.,
28-36; De Santis, «Qui regant …, cit., 109-114.
[22] Cfr. F. Artizzu, Un inventario dei beni sardi dell’Opera di
Santa Maria di Pisa (1339), in Archivio
Storico Sardo XXVII, 1961, 78-80. Sull’istituto delle donnicalias cfr. E. Cortese,
Donnicalie. Una pagina dei rapporti tra
Pisa, Genova e la Sardegna nel sec. XII, in Scritti in onore di Dante Gaeta, Milano 1984, 487-520, ora in Scritti, a cura di I. Birocchi e U.
Petronio, II, Spoleto 1999, 809-840, secondo cui esse erano divenute centri di
governo del territorio, confondendosi in qualche caso con le curatorie. Nella
donazione da parte di Torbeno giudice di Cagliari nel maggio 1103 di quattro
donnicalie all’Opera di Santa Maria di Pisa si specifica: «Ita tamen […] neque
aliqua persona magna vel parva easdem donnicalgias alicui in feudum vel in
beneficium donare presumat»: B. Fadda,
Le pergamene relative alla Sardegna nel
diplomatico della primaziale dell’Archivio di Stato di Pisa, in Archivio Storico Sardo XLI, 2001, n. I,
58, che fornisce una trascrizione filologicamente corretta rispetto al CDS.
[23] In questo senso cfr. A. Boscolo,
La Sardegna bizantina e alto-giudicale,
Sassari 1978, 161-163; Id., La Sardegna dei Giudicati, Cagliari
1979, 11-12.
[24] Cfr. a questo proposito A.
Terrosu Asole, L’insediamento
umano medioevale e i centri abbandonati tra il secolo XIV ed il secolo XVII,
supplemento al fasc. II dell’Atlante
della Sardegna, Roma 1972, studio che comunque ha fornito le basi per la
conoscenza del popolamento e dello spopolamento bassomedievale.
[25] Sull’attività economica del monastero cfr. la precisa
ricostruzione di De Santis, «Qui regant …, cit., 138-170; per le
questioni cronologiche cfr. E. Besta,
Appunti cronologici sul condaghe di San
Pietro in Silchis, in Archivio
Storico Sardo I, 1905, 53-61; R.
Turtas, Un tentativo di riordino cronologico
delle schede del condaghe di San Pietro di Silki dagli inizi del Giudicato di
Torres fino all’abdicazione del giudice Gunnari I (1154), in La civiltà giudicale in Sardegna, cit.,
85-95.
[26] CSPS, nn. 19, 189.
[27] CSPS, n. 98. Sull’importanza delle confinazioni cfr. anche A. Cadinu, Villaggio e confine. La lunga durata, in G. Angioni, A. Sanna, Sardegna
(«L’architettura popolare in Italia», dir. E. Guidoni), Roma-Bari 1988, 27-35.
[28] CSPS, nn. 113, 114, 115, 116, 118, 119.
[29] Meloni, Dessì Fulgheri, Mondo rurale, cit., 169-175.
[30] CDS, I, diplomi e carte del XII secolo, n. LX, 218-219. Sulla secatura de rennu cfr. E. Besta, La Sardegna medioevale, II, Le
istituzioni politiche, economiche, giuridiche, sociali, Palermo 1909 (rist.
anast. Bologna 1966), 84-85, 191-192; P.S.
Leicht, Appunti sull’ordinamento
della proprietà ecclesiastica in Sardegna, in Archivio Storico Sardo II, 1906, n. 2-3, 144-145; F. Brandileone, Note sull’origine di alcune istituzioni giuridiche in Sardegna durante
il Medioevo, in Archivio Storico
Italiano, serie V, XXX, 1902, 291; E.
Cortese, Un aspetto della politica
economica di Mariano d’Arborea. Rilievi e congetture, in Appunti di storia giuridica sarda,
Milano 1964, 36-41; Ortu, Villaggio e poteri signorili, cit., 13-15; M. Tangheroni, La
Sardegna prearagonese una società senza feudalesimo?, in Structures féodales et féodalisme dans
l’Occident mediterranéen (Xe-XIIIe siècles), Roma 1980, 523-550, ora in Sardegna mediterranea («Fonti e studi
del Corpus membranarum italicarum», I serie, XXIII), Roma 1983, 57-84, che
considera questo istituto anticipatore di forme giuridiche feudali.
[31] CSMB, n. 1/b; CDS, I, diplomi e carte del secolo XII, n. LX, 218.
Cfr. anche Solmi, La costituzione sociale, cit., 293.
[32] CSPS, nn. 4, 61, 62, 186, 189, 206, 294, 309, 367; Il condaghe di San Nicola di Trullas, a
cura di P. Merci (d’ora in poi CSNT), Sassari 1992, nn. 65, 301. Di questo
condaghe cfr. anche la precisa traduzione italiana e la penetrante premessa di
P. Merci, Nuoro 2001 («Bibliotheca sarda», n. 62). Cfr. anche G. Zanetti, I Camaldolesi in Sardegna, Cagliari 1974, 38 ss., 205 ss., con
stime francamente eccessive sui possedimenti terrieri del priorato di San
Nicola di Trullas, a suo avviso, di oltre cinquanta o sessantamila ettari solo
nel Nuorese, e sull’azienda fondiaria di San Nicola di Trullas, De Santis, «Qui regant …, cit.,
171-205.
[33] Cfr. A. Solmi, Ademprivia. Studi sulla proprietà fondiaria
in Sardegna, in Archivio giuridico
LXII, 1904, 411-448, LXIII, 1904, 3-64, ora anche in Il feudalesimo in Sardegna, a cura di A. Boscolo, Cagliari 1967
(«Testi e documenti per la storia della Questione sarda», 4), 49-144; R. Di Tucci, La proprietà fondiaria in Sardegna dall’alto medio evo ai nostri
giorni. Studi e documenti di storia economica e giuridica, Cagliari 1928
(rist. anast. Bologna 1979), 7-40. Sul dibattito cfr. anche Ortu, Villaggio e poteri, cit., 36-41; P.F.
Simbula, Il bosco in Sardegna nel
Medioevo, in Anuario de Estudios
Medievales XXIX, 1999, 1067-1080, e soprattutto S. De Santis, Il
salto. La frontiera dello spazio agrario
nella Sardegna medioevale, in Rivista
di storia dell’agricoltura XLII, 2002, n. 1, 3-48.
[34] CSPS, n. 221.
[35] CSPS, n. 310.
[36] CSNT, nn. 269, 271. Cfr. anche E.
Besta, L’attribuzione del cognome
nella Sardegna medioevale, in Studi
di storia e di diritto in onore di Carlo Calisse, Milano 1940, 479-484.
[37] CSNT, nn. 179, 330; CSPS, n. 305. Cfr. B. Fois, Territorio e
paesaggio agrario nella Sardegna medioevale, Pisa 1990, 108-112, a
proposito di un’ipotetica (ma non confermata) rotazione triennale delle colture
che si sarebbe svolta nel populare.
Cfr. la messa a punto di Birocchi,
La consuetudine, cit., 344, e di Day, La Sardegna e i suoi dominatori, cit., 33-35.
[38] R. Di Tucci, Il condaghe di S. Michele di Salvenor. Testo
inedito, in Archivio Storico Sardo
VIII, 1912, nn. 257, 299; Il condaghe di
S. Michele di Salvenor, a cura di V. Tetti, Sassari 1997, 238-240; sulle
schede sarde del condaghe cfr. R. Brown,
The Sardinian Condaghe of Michele di
Salvennor in the sixteenth century, in Papers
of the British School at Rome LI, 1983, 248-257. Cfr. inoltre E. Besta, Postille storiche al condaghe di S. Michele di Salvennor, e P.E. Guarnerio, Intorno ad un antico condaghe sardo tradotto in spagnolo nel sec. XVI,
di recente pubblicato, entrambi in Rendiconti
del Regio Istituto lombardo di scienze e lettere, serie II, XLVI, 1913,
rispettivamente pp. 1065-1085, 258-274. L’edizione di riferimento è ora quella
de Il Condaghe di San Michele di
Salvennor, edizione critica a cura di P. Maninchedda e A. Murtas, Cagliari
2003, apparsa purtroppo quando questo saggio era già in bozze. Sulle proprietà
fondiarie dell’abbazia cfr. G. Zanetti,
I Vallombrosani in Sardegna, Sassari
1966, 183-184, De Santis, «Qui regant …, cit., 206-230. La vicenda del salto di Planu-Piretu è
dettagliatamente ricostruita in Ortu,
Villaggio e poteri signorili, cit.,
37-39, e in De Santis, Il salto, cit., 18.
[39] Cfr. Besta, La Sardegna medioevale, cit., II, 69-79;
A. Solmi, Studi storici sulle istituzioni della Sardegna nel Medio Evo,
Cagliari 1917, 114-124: entrambi gli autori dedicano ampio spazio all’origine
dell’istituto. Cfr. inoltre A. Marongiu,
Aspetti della vita giuridica sarda nei
condaghi di Trullas e di Bonarcado, in Studi
economico-giuridici della regia Università di Cagliari XXVI, 1938, ora in Saggi di storia giuridica e politica sarda,
Padova 1975, 21-25; F.C. Casula, Giudicati e curatorie, in Atlante della Sardegna, a cura di R.
Pracchi e A. Terrosu Asole, II, Roma 1980, 94-109, con l’indicazione di tutti i
villaggi facenti parte delle curatorie; Id.,
Curatore e Curatoria, in Dizionario
storico, cit., 499-501; E. Cortese,
Il diritto nella storia medievale,
II, Il basso Medioevo, Roma 1995, 344-345.
Cfr. in generale P. Corrao, Funzionari e ufficiali, in La società medievale, a cura di S.
Collodo e G. Pinto, Bologna 1999, 177-215.
[40] Cfr. lo studio, in gran parte superato, di G. La Corte, La scolca
e il suo maiore. I Buiakesos. Note di diritto sardo nel Medio Evo, Sassari
1899, 7-27; Besta, La Sardegna medioevale, cit., II, 80-82,
era arrivato alla conclusione che la scolca costituisse un distretto minore
entro la curatoria; sulla funzione di guardia campestre aveva insistito
soprattutto Solmi, Studi storici, cit., 126-128, Id., La costituzione sociale, cit., 41-43, Id., Ademprivia,
cit., 69-70; le discutibili tesi di R.
Di Tucci, Il diritto pubblico
della Sardegna nel Medio Evo, in Archivio
Storico Sardo XV, 1924, 51-53, che ipotizza all’origine della scolca
un’organizzazione agraria di tipo comunistico; Boscolo, La Sardegna
bizantina, cit., 168; F. Artizzu,
La Sardegna pisana e genovese,
Sassari 1985, 64-66; F.C. Casula, Scolca o iscolca, in Dizionario storico, cit., 1631; S. Orunesu, Dalla scolca giudicale ai barraccelli. Contributo a una storia agraria
della Sardegna, Cagliari 2003, 11-92.
[41] Cortese, Il diritto nella storia, cit., II, 344.
[42] CSMB, n. 65. La formula figura anche nella scheda n. 43 («Trobini
Gaciella, maiore de scolca de Domos novas cun iscolca sua») e in quella n. 76
del CSPS («Cristofore Iscarpa cun iscolca sua, e Petru Canbella cun iscolca
sua»).
[43] L’attività giurisdizionale del maiore
si evince dal CSNT, n. 306, dove si menziona una lite tra il monastero e
Gitilesu Melone giudicata in «corona dessu maiore d’iscolca de Semeston
[Semestene], in sa sacra de sanctum Nicola», nella ricorrenza di S. Nicola, dal
CSPS, n. 241, «in corona de Gosantine de Martis maiore d’iscolca», da quello di
S. Michele di Salvenor, n. 94, «en corona de Pedro Gunale que era mayor de
iscolca» (Di Tucci, Il condaghe, cit., 278). Cfr. anche Marongiu, Aspetti della vita giuridica sarda, cit., 22-23; Orunesu, Dalla scolca giudicale, cit., 45-50.
[44] Per gli Statuti di Sassari si è preferito adoperare la trascrizione
di V. Finzi, Gli Statuti della Repubblica di Sassari, Cagliari 1911, rispetto a
quelle di P.E. Guarnerio, Gli statuti della repubblica sassarese,
Torino 1892, e di P. Tola, Codice degli Statuti della Repubblica di
Sassari, Cagliari 1850.
[45] Cfr. Besta, La Sardegna medioevale cit., II, 81, che
cita erroneamente alcuni maiores de
scolca di singoli villaggi: in realtà nel CSPS non vi è una precisa
identificazione territoriale dei maiores
a differenza del CSMB, n. 92, che cita un «Orçoco de Martis, ki fudi maiore de
scolca de Miili», e del CSNT, n. 65, a proposito di «Malu, maiore d’iscolca de
Birore», di «Ithoccor de Thori, maiore d’iscolca de Usune» (Usini), e via
dicendo. Nel condaghe di S. Antioco di Bisarcio, anteriore al XII secolo, il
vescovo Nicodemo scrive «ego piscopu Nichodemu cum tota iscolca mea» (CDS, I,
diplomi e carte del secolo XI, n. XIII, 158). Tola non a torto interpreta «con
gli uomini da me dipendenti, ovvero abitanti nel circondario, nel luogo della
mia giurisdizione».
[46] Ivi, II, 80. Cfr. in
generale Birocchi, La consuetudine, cit., 335 ss.
[47] F. Artizzu, Rendite pisane nel Giudicato di Cagliari
agli inizi del secolo XIV (registro del 1316), in Archivio Storico Sardo XXV, 1958, n. 3-4, 42-43.
[48] Cfr. F. Artizzu, L’Aragona e i territori pisani di Trexenta e
Gippi, in Annali della Facoltà di
Lettere, Filosofia e Magistero dell’Università di Cagliari XXX, 1966-67,
350, ora in Pisani e catalani nella
Sardegna medioevale, Padova 1973, 133-146. I tre villaggi, o meglio casali,
consociati della scolca di Sepollu, costretti ad abbandonare il salto comunale
del vicino villaggio di Samassi, nominarono nel 1345 un procuratore per
reclamare dal Comune di Pisa l’uso gratuito di una porzione del saltus demaniale: M. Tangheroni, Due documenti sulla Sardegna non aragonese nel Trecento, in Sardegna mediterranea, cit., 264-268; A. Terrosu Asole, Le sedi umane medievali nella Curatoria di Gippi (Sardegna
sud-occidentale), Firenze 1974, 348-349. I casali della scolca di Sepollu
non sopravviveranno all’ondata di abbandoni della fine del XIV secolo: J. Day, Villaggi abbandonati in Sardegna dal Trecento al Settecento: inventario,
Paris 1973, 18. Da un documento pisano del 1211 si evince che in quel tempo
Sepollu era una domus («sa domu de
Sanctu Jorgi de Sebollu»): B. Fadda,
Le pergamene relative alla Sardegna nel
Diplomatico Coletti dell’Archivio di Stato di Pisa, in Archivio Storico Sardo XLII, 2002, n. VI, 124.
[49] Cfr. V. Angius, Escolca, in G. Casalis, Dizionario geografico-storico-statistico-commerciale
degli Stati di S.M. il re di Sardegna, VI, Torino 1840, 386-388.
[50] Cfr. G. Meloni, Il condaghe di San Gavino, in Dal mondo antico all’età contemporanea. Studi
in onore di Manlio Brigaglia offerti dal Dipartimento di Storia dell’Università
di Sassari, Roma 2001, 219-226, e in particolare le Schede dei villaggi di A. Soddu, 231-241; Meloni, Dessì Fulgheri, Mondo
rurale, cit., 97-122, e le schede del CSPS, nn. 198, 404, 120, 200; CSNT,
nn. 51, 72, 124, 148; Di Tucci, Il condaghe, cit., nn. 9, 10, 11; A. Boscolo, A. Sanna, Libellus Iudicum Turritanorum, Cagliari
1957, 52; Anonimo del XIII secolo,
Cronaca medievale sarda. I sovrani di
Torres, a cura di A. Orunesu e V. Pusceddu, Quartu S. Elena (Cagliari)
1993, 50-51.
[51] Cfr. Besta, La Sardegna medioevale, cit., II, 81-82, che si riferisce però
ad una fase successiva.
[52] Solmi, Le carte volgari, cit., n. IX, 289-290:
figurano i nomi di Comida Dezori maiore
della villa di Enoni, Trogotori Dezori maiore
della villa di Sestu, Comida de Pira maiore
di Marzu, Mariano de Orru.
[53] Meloni, Il condaghe di San Gavino, cit., 221.
Che il villaggio di Ottava fosse sede di corona giudicale si evince da CSPS, n.
98, «iudicande su kertu in sa corte d’Ottave»; n.120, «iudike […] fakeat corona
in Ottave»; n. 200, «in corona dessu donnu meu iudike Gunnari de Lacon, in
Ottave».
[54] CSNT, n. 322. In un atto di compravendita del CSPS, n. 434,
figurano «Comita pisanu, et donnu Comita de Serra qui fuit maiore» (de iscolca? de villa?).
[55] CSMB, n. 105.
[56] R. Di Tucci, L’organismo giudiziario sardo: la corona,
in Archivio Storico Sardo XII,
1916-17, 101. Sull’organizzazione giudiziaria cfr. anche Besta, La Sardegna medioevale, cit.,
II, 95-103; A. Checchini, Note sull’origine delle istituzioni
processuali della Sardegna, L’Aquila 1927 (estratto da «Studi medievali»),
ora in Scritti giuridici e
storico-giuridici, II, Storia del
processo, Padova 1958, 207 ss. In uno studio di poco successivo, R. Di Tucci, Nuove ricerche e documenti sull’ordinamento giudiziario e sul processo
sardo nel Medio Evo, in Archivio
Storico Sardo XIV, 1923, 280, considera la scolca come il «consorzio
territoriale del villaggio», identificando quindi la scolca con la villa.
[57] Solmi, Le carte volgari, cit., n. XIX, 313. Olives, Commentaria et glosa, cit.,
cap. LVII gl. pr., 110, a proposito del termine fundamentu riferito dalla Carta de Logu osserva: «dicit textus
quod si quis possideat domum vel aliam rem immobilem, nam ibi “fundamentu
alcunu” vult dicere rem soli», interpretando la parola nel senso di bene
immobile o, meglio, bene terriero. A questo proposito cfr. E. Cortese, La partecipazione funzionale della proprietà alla vita del titolare. Il
«fundamentu», in Appunti di storia
giuridica, cit., 65-79, a cui si fa riferimento e si rinvia. Cfr. inoltre Di Tucci, Il diritto pubblico, cit., 3-5; Solmi,
Ademprivia, cit., 60-74; Marongiu, Aspetti della vita giuridica, cit., 38-39; Day, Uomini e terre, cit., 35-54; Ortu, Villaggio e
poteri, cit., 39-42, Id., Comunità e territorio in Sardegna, in Il luogo, la memoria, l’identità. Saggi
sulle nuove pratiche storiografiche, Cagliari 1999, 89-98; Id., Il corpo umano e il corpo naturale. Costruzione dello spazio agrario e
pretese sulla terra nella Sardegna medioevale e moderna, in Quaderni storici XXVII, 1992, n. 3,
653-685.
[58] CDS, I, diplomi e carte del secolo XI, n. VIII, 155.
[59] Ortu, Comunità e territorio, cit., 92.
[60] CDS, I, diplomi e carte del secolo XII, n. XXV, 198. Questa
tendenza emerge anche dalla «carta arborense» dei primi del XII secolo in cui
donna Nibata dota le due domus di
Nurage Nigellu e di Masone di Cabras (oggi Cabras), col consenso del figlio, il
giudice Torbeno di Arborea, di salti (ben cinque per la prima) e di terreni
arativi (semitas), vincolando alle
aziende i servi che vi lavorano: CDS, I, diplomi e carte del XII secolo, n.
XXI, 164-165. Una nuova edizione e uno studio paleografico del documento sono
in F.C. Casula, Onciale e semionciale in Sardegna nel secolo
XII, in Studi di paleografia e
diplomatica, Padova 1974, 119-135. Cfr. anche E. Besta, Intorno ad
alcune pergamene arborensi, in Archivio
Storico Sardo II, 1906, 423-433; P.F.
Simbula, Storia e forme di un
insediamento medioevale, in Cabras
sulle sponde di Mar’e Pontis, a cura di G. Camboni, Cinisello Balsamo 1995,
104-105.
[61] Cfr., ad esempio, la lite giudiziaria tra l’abate di San Michele
di Salvenor e un tal Florisone de Gusalla a proposito della porzione del salto
di Kankellos che questi aveva disboscato e messo a coltura rivendicandone la
proprietà per averlo posseduto per più di trent’anni. Il giudizio di corona
diede ragione al monastero («por tiempo de treinta años no pierde su derecho la
carta sellada»): Di Tucci, Il condaghe, cit., nn. 301, 320, 327,
332. Tra il 1220 e il 1230 una lite oppose l’azienda monastica di Santa Maria
di Bonarcado a un tal Guantino Formiga, che aveva usurpato una parte del salto
di proprietà del monastero per costruirsi una casa e piantarvi un orto, un vigneto
e degli alberi (prefigurando, si potrebbe affermare, il successivo istituto
della cussorgia): CSMB, n. 24. Le
donazioni dei salti alle aziende monastiche avevano spesso lo scopo di favorire
il dissodamento e la messa a cultura degli incolti. Così la donazione della
metà del XII secolo del giudice Barisone I a Bonarcado del salto de Rennu in Anglona col diritto di
goderne «de pastu et de aqua et de glande et de aratorium, castigandollu
[coltivare l’incolto col vigneto] co et ateros saltos de regnum». CSMB, N. 144.
Sulle proprietà private dei salti cfr. anche CSNT, nn. 59, 61, 71, 163, 164;
CSPS, nn. 4, 6, 12, 87, 191, 256, 287, 294, 351, 356, 420. Nel testamento di
Gottifredo, figlio del giudice Pietro I d’Arborea, redatto il 19 ottobre 1253,
vi è un preciso inventario dei beni pisani e sardi del nobiluomo fra cui
figurano diversi salti e alcune domestias
nei territori arborensi: F. Artizzu,
Il testamento di Gottifredo di Pietro
d’Arborea, in Pisani e catalani,
cit., 37.
[62] Era possibile, secondo Solmi, che «nel saltus si provvedesse alla coltivazione e sorgesse o continuasse la
proprietà privata, onde si formavano i nuclei abitati, senza che l’organismo
fondiario dimettesse la natura sua fondamentale di saltus dove un proprietario aveva il dominio di una vasta plaga di
territorio, prevalentemente boscosa o rude, e dove non giungeva pertanto a
costituirsi una organizzazione autonoma di villaggio»: Solmi, Ademprivia,
cit., 74. Cfr. inoltre Di Tucci, La proprietà fondiaria, cit., 7-14; De Santis, «Qui regant
…, cit., 49-61; Id., Il salto, cit., 23-26.
[63] CDS, I, diplomi e carte del secolo XIII, n. XLVII, 340-341.
[64] Boscolo, Sanna, Libellus Iudicum Turritanorum, cit., 47;
Cronaca medioevale, cit., 38-39. Cfr.
inoltre Genealogie medievali di Sardegna,
a cura di L.L. Brook, F.C. Casula, M.M. Costa, A.M. Oliva, R. Pavoni, M.
Tangheroni, Cagliari-Sassari 1984, tav. V, 82-83; F. Artizzu, Pisani in
Logudoro nel secolo XII (spigolature dal Condaghe di San Pietro di Silki),
in Medioevo. Saggi e rassegne n. 3,
1977, 27-38.
[65] Gran parte della storiografia ha sottolineato gli aspetti
ampiamente positivi della colonizzazione pisano-genovese. In chiave
nazionalista Solmi, Studi storici, cit., 190, 215, 258, e
negli altri lavori minori, ha parlato di una «missione civilizzatrice» e di una
«gloriosissima impresa»; Besta, La Sardegna medioevale, cit., II,
160-161, 260, ha confutato l’idea della finalità civilizzatrice, sostenendo che
l’azione di Pisa fu «organizzatrice solo dove l’elemento locale era stato
addirittura soffocato». Per lo studioso lombardo l’illusione che Pisa e Genova
fungessero da «gentili intermediarie di rinascita» tra il mondo comunale
italiano e l’arretrata Sardegna «può essere dolce ed è senza dubbio patriottica»:
ma è solo «un’illusione». In tal senso Besta ha criticato i lavori di Solmi,
come Solmi ha polemizzato con la Sardegna
medioevale di Besta: entrambi in Archivio
Storico Sardo, rispettivamente II, 1906, 95-104, IV, 1908, 56-96. Già negli
anni trenta iniziava ad emergere una lettura disincantata delle forme di
sfruttamento “coloniale”, sia dall’ampia rilevazione di documenti pisani
realizzata dall’archivista Clemente Lupi (cfr. Era, Lezioni di storia,
cit., 117-123), sia da B. Fascetti,
Aspetti dell’influenza e del dominio
pisano in Sardegna nel Medio Evo, in Bollettino
storico pisano IX, 1939, 1-32, X, 1940, 1-72; sia da G. Rossi Sabatini, L’espansione di Pisa nel Mediterraneo fino alla Meloria, Firenze
1938. Nel secondo dopoguerra è riemersa la tesi del rinnovamento «in senso
italiano, e mediterraneo, e vorremmo dire, moderno» della dominazione pisana:
cfr. F. Artizzu, L’Opera di Santa Maria di Pisa e la Sardegna,
Padova 1974, 118. Day, La Sardegna e i suoi dominatori, cit.,
153 ss.; Id., Uomini e terre, cit., ha descritto in
termini foschi le «strategie coloniali», a differenza della più problematica
lettura di M. Tangheroni, Medioevo Tirrenico. Sardegna, Toscana e Pisa,
Pisa 1992, le sue critiche a Uomini e
terre di Day sono in The Journal of
European Economic History XVIII, 1989, n. 1, 211-214, e soprattutto in I diversi sistemi economici: rapporti e
interazioni. Considerazioni generali e analisi del caso sardo, in Le Italie del tardo Medioevo, a cura di
S. Gensini, Pisa 1990, 291-320, Id., Sardinia and Corsica from the Mid-Twelfth to the Early Fourteenth Century,
in The New Cambridge Medieval History,
V, c. 1198-1300, edited by D.
Abulafia, Cambridge 1999, 447-457, in linea con Tangheroni anche S. Petrucci, Re in Sardegna, a Pisa cittadini. Ricerche sui «domini Sardiniae»
pisani, Bologna 1988. Questa linea era stata già anticipata in parte da B.R. Motzo, Un progetto catalano per la conquista definitiva della Sardegna, in
Studi storici in onore di F. Loddo Canepa,
I, Firenze 1959, 163-181. Cfr. infine il catalogo della mostra Pisa e il Mediterraneo. Nomi, merci, idee
dagli Etruschi ai Medici, a cura di M. Tangheroni, Milano 2003, in particolare
i contributi di Tangheroni, O. Vaccari, L. Galoppini e D. Igual Luis.
[66] Day, La Sardegna e i suoi dominatori, cit.,
5.
[67] Il servaggio in Sardegna era un’istituzione originale che si
concretizzava in un regime obbligato di giornate di lavoro, assai diversa dalla
servitù della gleba che implicava un vincolo personale fra il signore e il
servo. Bisogna ricordare comunque che il servo sardo non era uno schiavo,
poiché godeva di diritti sulla propria persona e sulle proprie cose. I servos e le ankillas sardi erano obbligati a prestare quattro giorni di lavoro
alla settimana nelle terre e nelle domus
del signore. Non è questa la sede per trattare delle caratteristiche del lavoro
servile nell’isola: si rinvia ai vecchi lavori di P. Amat di San Filippo, Della
schiavitù e del servaggio in Sardegna. Indagini e studi, in Miscellanea di storia italiana, serie
III, II, 1895, 3-15, dell’estratto; U.G.
Mondolfo, Terre e classi sociali
in Sardegna nel periodo feudale, in Rivista
italiana per le scienze giuridiche XXXVI, 1903, n. 1-2, ora in Il feudalesimo in Sardegna, cit.,
296-311; Besta, La Sardegna medioevale, cit., II, 46-55;
R. Carta Raspi, Le classi sociali nella Sardegna medievale,
Cagliari 1938, integralmente dedicato al rapporto tra liberi e servi, e agli
studi di Marongiu, Aspetti della vita giuridica sarda,
cit., 29-42; Cortese, Un aspetto della politica economica,
cit., 41-49; A. Unali, La servitù in Sardegna dall’XI al XIII
secolo, in Critica storica X,
1973, 222-242; Day, La Sardegna e i suoi dominatori, cit.,
83-104; Meloni, La Sardegna rurale, cit., 70-79; G. Borghini, Le prestazioni di manodopera dei servi nei condaghi sardi, in Le prestazioni d’opera nelle campagne
italiane del Medioevo, IX Convegno storico di Bagni di Lucca (1-2 giugno
1984), Bologna 1987, 157-186; F. Artizzu,
Alcune peculiarità della condizione servile
nella Sardegna giudicale, in Annali
della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Cagliari,
nuova serie, XXIII, 2000, 5-24; Ortu,
Villaggio e poteri signorili, cit.,
15-27; De Santis, «Qui regant ..., cit., 346-370. I servi
sardi quando lasciavano l’isola erano considerati alla stregua degli schiavi.
La tratta era particolarmente praticata nei secoli XII e XIII: cfr. G. Pistarino, Schiave e schiavi sardi a Genova (secc. XII-XIII), in Archivio Storico Sardo di Sassari VIII,
1982, 17-29; C. Livi, Sardi in schiavitù nei secoli XII-XV,
Firenze 2002, 13-20. Per un inquadramento generale cfr. F. Panero, Schiavi
servi e villani nell’Italia medievale, Torino 1999, con una parte, 64-70,
dedicata al servaggio sardo; per gli aspetti giuridici cfr. E. Conte, Servi medievali. Dinamiche del diritto comune, Roma 1996, 37 ss.
[68] Cfr. Rossi Sabatini,
L’espansione di Pisa, cit., 44 ss.; i
significativi documenti pubblicati da F.
Artizzu, Documenti inediti
relativi ai rapporti economici tra la Sardegna e Pisa nel Medioevo, 2
volumi, Padova 1961-62; Id., Società e istituzioni nella Sardegna
medievale, Cagliari 1995; alcuni dati sulle importazioni cerealicole pisane
sono in M. Tangheroni, Aspetti del commercio dei cereali nei paesi
della Corona d’Aragona, 1, La Sardegna,
Cagliari 1981, 13-19, 63-65; C. Manca,
Aspetti dell’espansione economica
catalano-aragonese nel Mediterraneo occidentale. Il commercio internazionale
del sale, Milano 1966, 42-46, sulla dipendenza di Pisa dalle saline di
Cagliari; Id., Nuove prospettive sulla storia economica
della Sardegna pisana dalla fine del sec. XI all’inizio del XIV, in Economia e Storia X, 1963, n. 2,
179-200; L. Galoppini, Importazione di cuoio dalla Sardegna a Pisa
nel Trecento, in Il cuoio e le pelli
in Toscana: produzione e mercato nel tardo Medioevo e nell’età moderna, a
cura di S. Gensini, Pisa 1999, 93-117; per un quadro generale cfr. M. Tangheroni, L’economia e la società della Sardegna (XI-XIII secolo), in Storia dei Sardi e della Sardegna, a
cura di M. Guidetti, 2, Il Medioevo, dai Giudicati agli Aragonesi,
Milano 1987, 157-191.
[69] De
Santis, «Qui regant
..., cit., 115. Riflettendo sulle fonti altomedievali, P. Toubert, Le strutture produttive nell’Alto Medioevo: le grandi proprietà e
l’economia curtense, in La Storia. I
grandi problemi dal Medioevo all’Età Contemporanea, diretta da N.
Tranfaglia e M. Firpo, I, Il Medioevo,
1, I quadri generali, Torino 1988,
60, ha osservato che «la grande proprietà era molto dispersa e poteva
comprendere curtes a volte molto
lontane le une dalle altre. Tali vasti patrimoni, per dispersi che fossero,
erano nondimeno organizzati in complessi fondiari la cui unità di base era
senz’altro la villa; ed è a livello
della villa che occorre collocarsi
per studiare il funzionamento del sistema». Cfr. anche le considerazioni di B. Andreolli, M. Montanari, L’azienda curtense in Italia. Proprietà
della terra e lavoro contadino nei secoli VIII-XI, Bologna 1985, 15-24.
[70] Cfr. Day, La Sardegna e i suoi dominatori, cit.,
38 ss.; Ortu, Villaggio e poteri signorili, cit.,
47-53, a proposito della crisi dell’economia curtense e della domus. Significativi sono ad esempio i
documenti falsificati, che avrebbero dovuto consentire l’emancipazione dei
servi, menzionati in CSMB, n. 132, e CSPS, n. 205.
[71] Cfr. R. Brown, L’Opera di Santa Maria di Pisa e la Sardegna
nel primo Trecento, in Bollettino
storico pisano LVIII, 1988, 173; De
Santis, «Qui regant ..., cit.,
177-180, 270-271.
[72] Sull’Opera di Santa Maria di Pisa cfr. Artizzu, L’Opera di
Santa Maria, cit., e Brown, L’Opera, cit.; sul Capitolo di San
Lorenzo cfr. G. Pistarino, Genova e la Sardegna nel secolo XII, in La Sardegna nel mondo mediterraneo, 2, Gli aspetti storici, a cura di M.
Brigaglia, Sassari 1981, 33-125; A.
Soddu, Il castello Malaspina di
Bosa. Fonti cronachistiche e documentarie, in Santu Antine I, 1996, 91-100; L.
Balletto, Studi e documenti su
Genova e la Sardegna nel secolo XIII, in Saggi e documenti II, 1981, n. 2, 7-246; M. Tangheroni, La città
dell’argento. Iglesias dalle origini alla fine del Medioevo, con
un’appendice di C. Giorgioni Mercuriali, Napoli 1985, 69-86; Petrucci, Re in Sardegna, cit., 93-129; e ancora De Santis, «Qui regant
..., cit., 263-286, innovativo anche in questo campo.
[73] La tesi della continuità è fortemente sostenuta da Day, La Sardegna e i suoi dominatori, cit., 164 ss., Uomini e terre, cit., 17 ss.
[74] CDS, I, diplomi e carte del secolo XIII, n. XLIII, 334-337.
[75] Cfr. A. Solmi, Origine e natura del feudo in Sardegna,
in Rivista italiana di sociologia X,
1906, 1-34 dell’estratto, ora in Il
feudalesimo in Sardegna, cit., 145-178; E.
Besta, La donazione della Tregenta
alla luce di un’ipotesi solmiana, in Studi
di storia e diritto in onore di Arrigo Solmi, I, Milano 1941, 385-391, e la
recensione di A. Era in
Archivio Storico Sardo XXIII,
1941-45, 405-412; F. Artizzu, Indagine sulla Trexenta. Un territorio
rimasto a Pisa dopo la pace del 1326, in Annali della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di
Cagliari, nuova serie, XXI, 1998, 119-140.
[76] Cfr. M. Tangheroni, Una lezione di diritto di Castruccio
Castracani all’Infante Alfonso d’Aragona e il feudalesimo secondo il mos
Italiae nella Sardegna aragonese, in Società, istituzioni, spiritualità. Studi in
onore di Cinzio Violante, II, Spoleto 1994, 932-942.
[77] CDS, I, diplomi e carte del XII secolo, nn. I, III, V, VI; cfr.
anche Day, La Sardegna e i suoi dominatori, cit., 154-157, Cortese, Donnicalie, cit., 536-537; S.
Petrucci, Aspetti della distribuzione
commerciale in Sardegna: secoli XII-XIV, in Mercanti e consumi. Organizzazione e qualificazione del commercio in
Italia dal XII al XX secolo, Atti del I Convegno Nazionale di storia del
commercio in Italia, Bologna 1986, 624.
[78] Lo statuto prevedeva per i consoli in carica un obbligo
particolare: «nullorum namque Sardinee iudicum, eorumve filiorum aut uxorum vel
fratrum, sum vel ero fidelis vel vassallus aut donnicaliensis toto tempore mei
consolatus; nec alicui predictorum speciali sacramento vel pactione teneor» (F. Bonaini, Statuti inediti della città di Pisa dal XII al XIV secolo, I,
Firenze 1854, 34).
[79] CDS, I, diplomi e
carte del XIII secolo, n. XXXI, 326-328.
[80] Cfr. E. Besta, La Sardegna feudale, in Annuario dell’Università di Sassari,
a.a. 1899-1900, ora in Il feudalesimo in
Sardegna, cit., 179-198; Id.,
La Sardegna medioevale, cit., I, 145
ss.; U.G. Mondolfo, Gli elementi del feudo in Sardegna prima
della conquista aragonese, in Rivista
italiana per le scienze giuridiche XXXII, 1902, 1-52 dell’estratto; Id., Regime giuridico del feudo in Sardegna, in Archivio giuridico III, 1905, n. 1, 73-153, ora anche in Il feudalesimo in Sardegna, cit.,
201-282; Solmi, La costituzione sociale, cit., 59-63; Id., Studi storici, cit., 229-234; Id.,
Origine e natura, cit., 147-178; F. Loddo Canepa, Ricerche ed osservazioni sul feudalesimo sardo dalla dominazione
aragonese, in Archivio Storico Sardo
VI, 1910, n. 1-3, 1-36, XI, 1915, 37-68, XIII, 1926, 1-26; R. Di Tucci, L’origine del feudo sardo in rapporto con l’origine del feudo
nell’Europa occidentale, Cagliari 1927. Fra gli studi più recenti cfr. M. Tangheroni, Il feudalesimo in Sardegna in età aragonese, in Annali della Scuola Normale Superiore di
Pisa, serie III, III, 1973, 3, 861-892; Id.,
La Sardegna prearagonese: una società
senza feudalesimo? , cit., entrambi ora in Sardegna mediterranea, cit., rispettivamente 21-54, 57-84; J. Lalinde Abadía, La Corona de Aragón en el Mediterraneo medieval (1229-1479),
Zaragoza 1979, 112-122, ha sostenuto che il feudalesimo costituiva la
«struttura politico-sociale» dell’espansione catalana; F.C. Casula, La
Sardegna aragonese, 1, La Corona
d’Aragona, Sassari 1990, 188-199; Id.,
Feudalesimo, in Dizionario storico, cit., 606-611; B. Anatra, Dall’unificazione
aragonese ai Savoia, in Day, Anatra,
Scaraffia, La Sardegna, cit.,
191 ss.; La Corona d’Aragona: un
patrimonio comune per Italia e Spagna (secc. XIV-XV), a cura di G. Olla
Repetto, Arese (Milano) 1989, 164-173.
[81] M. Tangheroni, Strutture curtensi, signorie, feudalesimo
nella Sardegna medievale, in La
signoria rurale nel Medioevo italiano, II, a cura di A. Spicciani e C.
Violante, Pisa 1998, 85. Cfr. anche F.C.
Casula, La storia di Sardegna,
Sassari-Pisa 1992, 169-180, che a proposito dei caratteri generali delle
istituzioni giudicali insiste soprattutto sulla «statualità», negando di fatto
l’esistenza nell’isola di una signoria rurale. I recenti studi di Alessandro
Soddu riaprono la problematica sull’effettiva penetrazione di forme signorili e
feudali nella società giudicale: A.
Soddu, Istituzioni e dinamiche di
potere nella Sardegna medioevale: Oschiri e i distretti di Ogianu e Monteacuto,
in Oschiri, Castro e il Logudoro
orientale, a cura di G. Meloni e P.G. Spanu, Sassari 2003, 81-93, che
stabilisce un nesso tra l’istituto del maiore
de pane, ufficiale di nomina signorile, presente nel XIV secolo nell’ex
Giudicato di Torres, e l’apanage
francese. Su questa figura cfr. E. Basso,
A. Soddu, L’Anglona negli atti del notaio Francesco Da Silva (1320-1326),
Perfugas (Sassari) 2001, n. 46, 147-148.
[82] Day, La Sardegna e i suoi dominatori, cit.,
65; cfr. Ortu, Villaggio e poteri, cit., 53-61; De Santis, «Qui regant ..., cit., 290-292.
[83] Cfr. F. Artizzu, Liber Fondachi. Disposizioni del comune
pisano concernenti l’amministrazione della Gallura e rendite della curatoria di
Galtellì, in Annali della Facoltà di
Lettere e Filosofia e Magistero dell’Università di Cagliari XXIX, 1961,
215-299; Id., Rendite pisane, cit. (registri del 1316
e del 1323); Id., Un inventario dei beni sardi, cit.; Id., Il registro 1352 dell’Archivio di Stato di Pisa (Opera del Duomo),
in Annali della Facoltà di Magistero
dell’Università di Cagliari, nuova serie, VI, 1982, n. 2, 5-93; Id., L’Aragona e i territori pisani, cit.; Id., Le composizioni
pisane per la Sardegna, ora in Società
e istituzioni nella Sardegna medioevale, cit., 59-72; Fascetti, Dominio pisano, cit., II, 48-72; P.
Bofarull y Mascarò, Compartiment
de Sardenya («Colección de documentos ineditos de l’Archivo general de la
Corona de Aragón», XI), Barcelona 1856, 660-861; Rationes decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV. Sardinia, a cura
di P. Sella, Città del Vaticano 1945.
[84] Artizzu, Liber Fondachi, cit., 257. La funzione
colonizzatrice del casale è espressamente evidenziata: «domestica terre posita
in salto de foce propre castrum Posatae».
[85] Cfr. J. Day, Insediamento, colture e regime fondiario in
Trexenta dal XIII al XIX secolo, in Uomini
e terre, cit., 42-44.
[86] Artizzu, Liber Fondachi, cit., 257, 258, 259,
264, 268, 271, 276. Un esempio anche in F.
Artizzu, Rendite pisane, cit.
(1316), 85: «Et quoddam alterum petium terre aratorie quod dicitur Domestica de
Gonnari postura ordei».
[87] J. Day, L’insediamento precario nei secoli XII-XVIII,
ora in Uomini e terre, cit., 127.
[88] Artizzu, Rendite pisane, cit. (1316), 82-86.
[89] Ivi, 41-42. Vi erano tre
proprietari di terre aratorie e cinque zappatori.
[90] Day, Villaggi abbandonati, cit., 18-19.
[91] Artizzu, Liber Fondachi, cit., 221.
[92] Sui tributi cfr., oltre Artizzu,
Rendite pisane, cit., 12-26, Ortu, Villaggio e poteri signorili, cit., 55-61, e Day, La Sardegna e i suoi dominatori, cit., 98-112, con un’analisi assai
dettagliata del prelievo fiscale pisano. Per un raffronto col sistema
tributario del periodo giudicale, di cui peraltro si sa assai poco, cfr. il
sempre illuminante Besta, La Sardegna medioevale, cit., II, 83-94;
J. Day, Economia e finanza nello Stato giudicale, in Società e cultura nel Giudicato d’Arborea e nella Carta de Logu, a
cura di G. Mele, Oristano 1995, 225-230, a proposito del datium.
[93] Day, La Sardegna e i suoi dominatori, cit.,
89-90, 78-79 (tab. IV); F. Artizzu,
Su due prestazioni personali nella
Sardegna giudicale e sulla loro trasformazione in epoca successiva
(roatia-gimilioni), in Archivio sardo
del movimento operaio contadino e autonomistico n. 11-13, 1980, 339-349; E. Putzulu, Sul contenuto giuridico del vocabolo medievale «gimilioni», in Studi Sardi XX, 1968, 240-269. Sulla silva cfr. L. D’Arienzo, La caccia
in Sardegna nel periodo giudicale e pisano-genovese, in Medioevo. Saggi e rassegne, n. 6, 1981,
27-60.
[94] Artizzu, Un inventario, cit., 80; Id., Notizie su Astia, in Pisani e
catalani, cit., 115-116.
[95] Cfr. i vecchi, solidi studi di P.
Vaccari, L’affrancazione dei servi
della gleba nell’Emilia e nella Toscana, Bologna 1926; Id., Le affrancazioni collettive dei servi della gleba, Milano 1940. Per
i decreti del Comune di Bologna che nel 1257 riscattò da 406 feudatari 5.682
servi, pagando per la loro affrancazione 50 mila lire, cfr. Liber paradisus con le riformazioni e con gli atti connessi,
a cura di F.S. Gatta e G. Plessi, Bologna 1956. Cfr. inoltre L.A. Kotel’nikova, Mondo contadino e città in Italia dall’XI al XIV secolo. Dalle fonti
dell’Italia centrale e settentrionale, Bologna 1975 (I ediz. Moskva 1967),
143-229; Panero, Schiavi, servi e villani, cit., 261-295,
a cui si rinvia anche per la bibliografia aggiornata.
[96] Di Tucci, Il condaghe, cit., n. 24, 266-267. Non
era sicuramente semplice per i proprietari di servi gestire i matrimoni misti:
negli anni trenta del Trecento nella corte di Fanari nel Cagliaritano, di
proprietà dell’Opera di Santa Maria di Pisa, dall’unione di un servo con una
donna libera nacquero un servo intero, una serva intera, una serva per metà e
probabilmente altri due figli liberi. Sempre nella stessa curte Domenico Marca era «servus trium partium», Rosa Marca era
serva «pro medietate» e aveva «filios tres et non sunt divisi quia parvi»: Artizzu, I beni sardi, cit., 78.
[97] Cfr. J. Day, Alle origini della povertà rurale, ora
in Uomini e terre, cit., 23.
[98] Artizzu, Liber Fondachi, cit., 255-256, 276-278,
288, 290-291, 295-296.
[99] Cfr. Ortu, Villaggio e poteri signorili, cit., 57.
[100] Fascetti, Dominio pisano, cit., II, 48-72.
[101] CDS, I, diplomi e carte del XIII secolo, n. CXX, 400.
[102] Cfr. M.
Tangheroni, Habitat et peuplement
en Sardaigne pisane, in État et
colonisation dans le Moyen Age, sous la direction de M. Balard, Lyon 1989,
319-330; Day, La Sardegna e i suoi dominatori, cit.,
148-152; M. Cadinu, Urbanistica medievale in Sardegna, Roma
2001, 15-53.
[103] Boscolo, Sanna, Libellus Iudicum Turritanorum, cit., 46.
[104] Cfr. B. Fois, Introduzione alla problematica sul centro
medioevale di Santa Igia, S.
Petrucci, Tra S. Igia e Castel di
Castro di Cagliari: insediamenti, politica, società pisani nella prima metà del
XIII secolo, P.F. Simbula, P. Fabbricatore, La caduta di Santa Igia, tutti in S. Igia. Capitale giudicale, cit., 215 ss.
[105] Simbula, La capitale giudicale, cit., 74-80, Mele, Oristano giudicale, cit., 31-34; S. Sedis, R. Zucca,
Aristiane, in Quaderni della Soprintendenza Archeologica di Cagliari e Oristano IV,
1987, n. 2, 125-150; Oristano capitale
giudicale, a cura di R. Zucca, Roma 1995.
[106] CDS, I, diplomi e carte del XIII secolo, n. XXXV, 330.
[107] Cfr., oltre alla viva conferenza di A. Solmi, Cagliari
pisana, Cagliari 1904; A. Boscolo,
Profilo storico della città di Cagliari,
Cagliari 1952, 4-9; E. Putzulu, Il problema delle origini del Castellum
Castri de Kallari, in Archivio
Storico Sardo XXX, 1976, 91-146, per gli aspetti relativi alla
conformazione della città nel XIII e nei primi decenni del XIV secolo cfr. D. Scano, Forma Karalis, Cagliari 1934 (rist. anast. Cagliari 1989), 11-29; I. Principe, Cagliari («Le città nella storia d’Italia», dir. C. De Seta),
Roma-Bari 1981, 37-53; Cagliari quartieri
storici. Castello, Cagliari 1985, in particolare i contributi di F. Masala,
E. Gessa, M. Vincis; P.F. Simbula,
Il porto di Cagliari nel Medioevo:
topografia e strutture portuali, in Dal
mondo antico, cit., 287-296; M.B.
Urban, Cagliari aragonese.
Topografia e insediamento, e R. Conde
y Delgado de Molina, A.M. Aragó Cabañas, Castell de Caller. Cagliari catalano-aragonese, entrambi Cagliari,
CNR. Istituto sui rapporti italo-iberici, rispettivamente 2000 e 1984.
[108] J. Day, La ristrutturazione demografica in Sardegna
nei secoli XIV-XV, in Uomini e terre,
cit., 176. Cfr. in generale M. Ginatempo,
L. Sandri, L’Italia delle città. Il popolamento urbano tra Medioevo e Rinascimento,
Firenze 1990.
[109] J. Day, Sassari e il Logudoro nell’economia
mediterranea nei secoli XI-XV, e Tangheroni,
Nascita e affermazione di una città,
cit., entrambi in Gli Statuti Sassaresi,
cit., 37-44, 45-63; Castellaccio,
Sassari medioevale, cit., I, 57 ss.; Id., Dinamiche economiche e problematiche sociali. Sassari tra il XIII e il
XIV secolo, in Dal mondo antico,
cit., 243-285.
[110] CDS, I, diplomi e
carte del XIII secolo, n. CXIV, 393-394. Cfr. anche C. Varaldo, La
topografia medievale di Sassari. Prospettive di studio, in La Sardegna nel mondo mediterraneo, 4, La storia del mare e della terra, a cura
di M. Brigaglia, Sassari 1984, 45-57.
[111] Cfr. Tangheroni, La città dell’argento, cit., 70-79.
[112] I.F. Farae, In Sardiniae Chorographiam, a cura di E.
Cadoni e M.T. Laneri, in Opera, I,
Sassari 1992, 178: «Alguerium, insignis civitas, fuit olim oppidum [...]
cohaerente ab Auriensibus, ut Hispani referunt auctores, anno 1102 ad litus
maris inter arenam et scopulos conditum ...»; 176: «... olim ab Auriensium
Genuensi familia quae anno ferme 1102, ut Hispani referunt authores», a
proposito di Castelgenovese. La fonte di Fara è l’anonima cronaca
quattrocentesca Memoria de las cosas que
han aconteçido en algunas partes del Reino de Çerdeña, a cura di P.
Maninchedda, Cagliari 2000, 10, con l’indicazione della fondazione di Bosa
(1121) e a 9 quella di Alghero e Castelgenovese (1102). Cfr. F. Bertino, Alegerium, Sa Lighera, L’Alguer. Ipotesi sull’origine di Alghero e del
suo nome, e R. Brown, Alghero prima dei catalani, entrambi in Alghero, la Catalogna, il Mediterraneo,
cit., 37-48, 49-58. Su Castelgenovese gli atti del convegno (14-16 novembre
2002) Castelsardo 900 anni di storia,
in corso di stampa.
[113] Cfr. A. Mastino, Bosa, in La Sardegna, a
cura di M. Brigaglia, 1, La geografia, la
storia, l’arte e la letteratura, Cagliari 1982, 265-266 della sezione; Id., Bosa in età giudicale: nota sugli affreschi del castello di Serravalle,
Sassari 1999; C. Tasca, La città di Bosa e i giudici d’Arborea nel
XIV secolo, in Giudicato d’Arborea,
cit., II, 1013-1043; Soddu, Il Castello Malaspina di Bosa, cit.; A. Soddu, F.G. Campus, Le curatorìas
di Frussia e di Planargia, dal Giudicato
di Torres al Parlamento di Alfonso il Magnanimo (1421): dinamiche istituzionali
e processi insediativi, in Suni e il
suo territorio, a cura di A.M. Corda
e A. Mastino, Suni (Nuoro) 2003, 139-176.
[114] Cfr. D. Panedda, Olbia e il suo volto, Sassari 1989,
45-47; i saggi compresi in Da Olbìa ad
Olbia. 2500 anni di storia di una città mediterranea, II, a cura di G.
Meloni e P.F. Simbula, Sassari 1996; C.
Zedda, Le città della Gallura
medioevale. Commercio, società e istituzioni, Cagliari 2003, 71-104.
[115] C. Zedda, G. Santoro, Orosei. Storia di una città medioevale, Orosei (Nuoro) 1999; Zedda, Le città della Gallura, cit., 149-165; C. Zedda, G. Santoro, Libre de la camerlengìa di
Gallura. L’amministrazione di Orosei e della Gallura alla metà del Trecento,
Cagliari 1997.
[116] Farae, In Sardiniae Chorographiam, cit., 162
ss.
[117] G. Manno, Storia di Sardegna, II, Torino 1826,
410-411.
[118] Per la tesi tradizionale cfr. F.
Loddo Canepa, Lo spopolamento
della Sardegna durante le dominazioni aragonese e spagnola, in Atti del Congresso internazionale per gli
studi sulla popolazione, I, Roma 1932, 651-680; Le Lannou, Pastori e
contadini, cit., 100-109; A. Mori,
Vicende dell’insediamento umano in
Sardegna, in Bollettino della Società
geografica italiana VIII, 1948, 253-286. Per un nuovo approccio al problema
cfr. C. Klapisch Zuber, J. Day, Villages désertés en Italie. Esquisse,
in Villages désertés et histoire
économique, Paris 1965, 419-459; M.
Tangheroni, Per lo studio dei villaggi abbandonati a Pisa e in Sardegna nel
Trecento, in Bollettino storico
pisano XL-XLI, 1971-72, 55-74; Terrosu
Asole, L’insediamento umano
medievale e i centri abbandonati, cit.
[119] Day, La Sardegna e i suoi dominatori, cit.,
183. Le tesi demografiche dello storico franco-americano sono state criticate
da C. Livi, La popolazione della Sardegna nel periodo aragonese, a cui ha
risposto lo stesso Day, Quanti erano i sardi nel secolo XIV-XV?,
entrambi in Archivio Storico Sardo,
rispettivamente XXIV, 1984, n. 2, 23-130, XXV, 1986, 51-60. La tesi delle
«strategie coloniali» è stata criticata da A.
Mattone, Recensione a J. Day, B. Anatra, L. Scaraffia, La Sardegna medioevale e moderna, cit.,
in Rivista storica italiana XCIX,
1987, n. 2, 551-556, da Tangheroni,
I diversi sistemi economici, cit.,
291-320, e inoltre da De Santis, «Qui regant ..., cit., 34-36.
[120] John Day è nato a Chicago nel 1924 ed è morto a Parigi nel 2003.
Cfr. il necrologio di M. Brigaglia,
in La Nuova Sardegna, 20 febbraio 2003,
39.
[121] Fra gli studi più innovativi sull’insediamento rurale cfr. G. Meloni, Documenti demografici ed economici sulla Sardegna catalana (1350),
in La Sardegna nel mondo mediterraneo,
cit., 4, 59-107; Id., Insediamento umano nella Sardegna
settentrionale. Possedimenti dei Doria alla metà del XIV secolo, in XIV Congresso di storia della Corona
d’Aragona, II, 2, Sassari 1995, 513-593; G.
Meloni, P.F. Simbula, Demografia e
fiscalità nei territori regi del Regno di Sardegna al principio del XV secolo,
in XV Congreso de Historia de la Corona
de Aragón, III, 1, Zaragoza 1996, 155-188; J.A. Queirós Castillo,
L’architettura dell’insediamento
abbandonato postmedievale, in Archeologia
postmedievale I, 1997, 101-107, ha tracciato una sintetica rassegna degli
studi sui villaggi abbandonati in Sardegna. L’archeologia può dare infatti un
notevole apporto alla conoscenza delle cause dell’abbandono; cfr. a questo
proposito Il villaggio medievale di
Geridu (Sorso, Sassari). Campagne di scavo 1995-96, a cura di M. Milanese,
in Archeologia medievale XXIII, 1996,
477-548; G. Meloni, L’insediamento umano nella Sardegna
settentrionale nel Basso Medioevo: il villaggio medioevale di Geridu (Geriti),
in Mélanges de l’École Française de Rome.
MEFRM, CXIII, 2001, n. 1, 93-128, ed inoltre Soddu, Campus, Le
curatorìas di Frussia, cit.; più
tradizionali, benché ricchi di dati, sono i lavori di M. Maxia, Anglona
medioevale, luoghi e nomi dell’insediamento umano, S. Chessa, L’insediamento umano medievale nella curatoria di Montes, e G. Deriu, L’insediamento umano medievale nella curatoria di “Costa de Addes”,
tutti editi Sassari rispettivamente 2001, 2002 e 2000. L’archetipo ispiratore
di questi studi è la solida ricerca di D.
Panedda, Il Giudicato di Gallura.
Curatorie e centri abitati, Sassari 1978.
[122] Sul Comune rustico cfr. i classici lavori di R. Caggese, Classi e comuni rurali nel Medioevo italiano, 2 volumi, Firenze
1907-08; A. Solmi, Sulle origini del comune rurale nel Medio
Evo, in Rivista italiana di
sociologia XV, 1911, 655-673; Id.,
Comune rurale, in Enciclopedia italiana, XI, Roma 1929,
25-26; F. Schneider, Le origini dei comuni rurali in Italia,
pref. di E. Sestan, Firenze 1980 (I ediz. Berlin 1924); G. Bognetti, Studi
sulle origini del comune rurale, a cura di F. Sinatti d’Amico e C.
Violante, Milano 1978; R. Romeo, Il comune rurale di Origgio nel secolo XIII,
pres. di C. Violante, Milano 1992 (I ediz. Assisi 1970); G. Chittolini, Città e contado nella tarda età comunale, a proposito di studi recenti,
in Nuova Rivista Storica LIII, 1969,
706-719; Id., Città, comunità e feudi negli Stati
dell’Italia centrosettentrionale, Milano 1983, 105 ss., 211 ss.; Id., La formazione dello Stato regionale e le istituzioni del contado,
Torino 1979, VII-XL, 292 ss.; Cortese,
Il diritto nella storia medievale,
cit., II, 254-256.
[123] G. Volpe, Classi e comuni rurali nel Medioevo italiano,
in Medio Evo italiano, intr. di C.
Violante, Roma-Bari 1992 (I ediz. Firenze 1923), 146-147.
[124] Boscolo, Sanna, Libellus Iudicum Turritanorum, cit., 46.
Per tutto il XII secolo il diritto in Sardegna fu interamente affidato alla
consuetudine: i giudici dichiaravano, ad esempio, di rendere giustizia ai
sudditi secondo le costumanze locali. Nel 1131 il giudice Gonario di Torres nel
patto di reciprocanza giudiziaria con i mercanti pisani giurò di «iustitiam
facere pisano populo secundum usus Sardiniae Terrae» (CDS, I, diplomi e carte
del XII secolo, n. XL, 206). Nel 1191 Costantino di Torres prometteva ai
genovesi di giudicarne le controversie «secundum quod melius mihi et
racionabiliter visum fuerit secundum bonos usus terrae meae» (Ivi, I, diplomi e carte del XII secolo,
n. CXXXV, 269). Dal fatto che la promessa impegnava il giudice solo per il
giudizio relativo ai pisani o ai genovesi si evince che sino al XIII secolo il
riferimento è a consuetudini, non a leggi scritte né al diritto romano. Cfr.
inoltre Solmi, Studi storici, cit., 259-260; Cortese, Diritto romano e diritto comune in Sardegna, in Appunti di storia giuridica, cit.,
131-134; Grossi, Per la storia della legislazione, cit.,
175-177; Birocchi, La consuetudine nel diritto agrario sardo,
cit., 335-354.
[125] Cfr. A. Era, Le «Carte de Logu», in Annuario dell’Università degli studi di
Sassari, aa. 1959-60, Sassari 1960, 3-18, dell’estratto. Sulla Carta de Logu gallurese cfr. A. Argiolas, A. Mattone, Statuti
portuali e normativa sulle esportazioni. Il caso di Terranova (Olbia) in
Sardegna nei secoli XIV-XVII, in Rivista
di storia del diritto italiano LXX, 1997, 88-95.
[126] Cfr. A. Solmi, Studi storici, cit., 265-268; Artizzu, La Sardegna pisana, cit., 195-199; Id., Gli ordinamenti
pisani per il porto di Cagliari. Breve Portus Kallaretani («Fonti e studi
del Corpus membranarum italicarum», Fonti,
V), Roma 1979; G. Astuti, Breve Portus Kallaretani, in Tradizione romanistica e civiltà giuridica
europea. Raccolta di scritti, a cura di G. Diurni, III, Napoli 1984,
1559-1572. In generale sulla tradizione statutaria cfr., oltre Era, Lezioni, cit., 188 ss., L.
D’Arienzo, Influenze pisane e
genovesi nella legislazione staturaria dei comuni medievali della Sardegna,
in Genova, Pisa e il Mediterraneo tra Due
e Trecento, Atti del convegno (Genova, 24-27 ottobre 1984), Genova 1984,
451-469; L. Galoppini, Tradizioni normative delle città della Sardegna
(secoli XIII-XV), in Legislazione e
prassi istituzionale nell’Europa medievale. Tradizioni normative, ordinamenti,
circolazione mercantile (secoli XI-XV), a cura di G. Rossetti, Napoli 2001,
401-417.
[127] Alfonso IV, nel definire alcune controversie sorte tra i feudatari
e la municipalità cagliaritana, confermava i termini e i confini tradizionali
della città: «assegnavit, dedit et limitavit perpetuo – si legge nella carta
reale – pro termino dicto Castro et villa de Bonayre exsclusive usque ad
terminos villae de Decimo et inclusive loco de Sancta Gilla, Pirri, Sanvetrano,
Paduli, Palma, Serargii, Cartacoqui, Cepolla, Caput de Sancto Elia et terminos
eurundem locorum»: M. Pinna, Indice dei documenti cagliaritani del regio
Archivio di Stato dal 1323 al 1720, Cagliari 1903, n. 4, 14-15. La
giurisdizione dei consiglieri si estendeva ai sobborghi e ai confini indicati
dalla carta reale. La villa di Quartu fu incorporata nel 1467.
[128] R. Di Tucci, Il Libro Verde della Città di Cagliari,
Cagliari 1925, n. LXXIII, 193-194.
[129] «Decernimus insuper – si legge nella carta reale – quod pene
statute per Chartam de Logu vel Breve Regni Callari contra universitates
villarum que non ceperint criminosos in ipsis villis vel eorum terminis
delinquentes cum sint civiles spectant et sint dominorum villarum isparum neque
vicarius vel alius officialis noster se de his aliquatenus intromittat»: Ivi, n. LXXXIII, 206. Una testimonianza
ancora più antica figura in un documento del 7 giugno 1327 nel quale si legge
«iuxta cartam loci et morem sardorum»: L.
D’Arienzo, San Saturno di Cagliari
e l’ordine militare di San Giorgio de Alfama, in Archivio Storico Sardo XXXIV, 1983, n. 1, doc. n. I, 62.
[130] «… in aliquo Chartae de logo concessae sardis habitantis et
habitaturis in villis seu locis constitutis infra terminos dicti Castri –
afferma la carta reale a proposito della giurisdizione del veghiere nel
distretto di Cagliari –, vel etiam infra regnum Callari vel consuetudinibus eis
hactenus observantis. Idcirco dicimus et mandamus quatenus in casibus in quibus
cognitio, seu punito in dictis chartis ad nos secundum dictam Chartam de logo
pertinere debeat judicetis eis secundum Chartam de logo, sive Breve et alias
iuxta eorum consuetudines»: Pinna,
Indice, cit., n. 87, 21. Cfr. anche Solmi, Studi storici, cit., 272.
In una carta reale di Pietro IV del 19 agosto 1338 si trova menzione dello
statuto dell’età pisana, quando si afferma che le pene stabilite «per Chartam
de logo vel Breve regni Callari contra universitates villarum, quae non
coeperint criminosos in ipsis villis vel in earum terminis delinquentes»
spettino ai baroni in materia civile, e al veghiere cagliaritano in materia
criminale: Archivio di Stato di Cagliari
(d’ora in poi ASC), Antico Archivio Regio (d’ora in poi AAR), B. 5, c.
66.
[131] «… secundum formam huius brevis – affermano i priori pisani – et
horum ordinamentorum pisani communis et secundum formam carta loci; ita quod
cartam loci servare teneatur in casibus in quibus loqueretur breve et alia
ordinamenta pisani comunis in illis in quibus carta loci non loqueretur»: Fascetti, Aspetti, cit., I, 32.
[132] M. Tangheroni, È utile studiare i documenti di cancelleria?
Un interessante esempio sardo, in Sardegna,
Mediterraneo e Atlantico tra Medioevo ed Età Moderna. Studi storici in memoria
di Alberto Boscolo, a cura di L. D’Arienzo, I, La Sardegna, Roma 1993, 280-282. Cfr. anche il verbale di corona convocata «juxta Cartam Loci et
usanciam sardischam», sempre del 1346, del villaggio campidanese di Cepolla
pubblicata da Di Tucci, “Cicero pro Scauro”, cit., 43-45.
[133] Il Parlamento di Pietro IV
d’Aragona, a cura di G. Meloni («Acta Curiarum Regni Sardiniae», 2),
Cagliari 1993, n. 57, 246.
[134] Ivi, n. 61, 288; cfr.
anche A. Solmi, Le Costituzioni del primo Parlamento sardo
del 1355, in Archivio Storico Sardo
VI, 1910, n. 1-3, 245.
[135] Solmi, Studi storici, cit., 277; Id., Sulla «Carta de Logu» cagliaritana, in Studi giuridici in onore di Carlo Fadda,
I, Napoli 1906, 181-197.
[136] Besta, La Sardegna medioevale, cit., II, 155; Id., Il diritto sardo nel Medioevo, Bari 1898, 29 ss.
[137] Cfr. Di Tucci, Il diritto pubblico, cit., 12-16, che
ritiene erroneamente che il termine Carta
de Logu fosse stato utilizzato per la prima volta dai catalano-aragonesi; F. Loddo Canepa, Note sulla Carta de Logu cagliaritana e su un giudizio di corona del
secolo XVI, in Annali della Facoltà
di Filosofia e Lettere dell’Università di Cagliari IV, 1933, 3-28; Era, Lezioni di storia, cit., 257-265; Id.,
Le «Carte de Logu, cit., 3-9; Artizzu, La Sardegna pisana, cit., 199-202; Id., Carte de Logu o
Carta de Logu?, in Società e
istituzioni, cit., 83-97.
[138] Cfr. M. Tangheroni, Di alcuni ritrovati capitoli della «Carta de
Logu» cagliaritana: prima notizia, in Archivio
Storico Sardo XXXV, 1986, 35-50.
[139] Cfr. M. Tangheroni, La Carta de Logu del regno giudicale di Cagliari. Prima trascrizione, in Medioevo. Saggi e rassegne, n. 19, 1994,
29-37.
[140] Ivi, 32-37.
[141] Bonaini, Statuti inediti della città di Pisa,
cit., I, 332; cfr. Era, Lezioni di storia, cit., 190-192;
sull’ascendenza pisana delle istituzioni municipali sassaresi cfr. la puntuale
ricerca di P. Satta Branca, Il Comune di Sassari nei secoli XIII e XIV,
Roma 1885 (rist. anast. Bologna 1980), 51 ss., oltre naturalmente E. Costa, Sassari, I, Sassari 1992 (I ediz. Sassari 1885), 51-119. Sugli
statuti cfr. i saggi compresi in Gli
Statuti Sassaresi, cit.
[142] CDS, I, diplomi e carte del XIII secolo, n. CXXXV, 448-458.
[143] Cfr. L. D’Arienzo, Gli Statuti sassaresi e il problema della
loro redazione, in Gli Statuti
Sassaresi, cit., 107-117.
[144] Sull’assoggettamento del contado e dei villaggi rurali alla città,
la cosiddetta comitatinanza, ha
dedicato diversi studi di riferimento G.
De Vergottini, Scritti di storia
del diritto italiano, I, a cura di G. Rossi, Milano 1977, in cui sono stati
riuniti; cfr. inoltre M. Ascheri,
Istituzioni medievali, 2a ed.,
Bologna 1992, 281-286.
[145] Finzi, Gli Statuti della Repubblica di Sassari,
cit.
[146] Il salario del massaiu
era di 25 lire genovesi e quello del suo scrivano di 8 lire: «sos quales feos
pacare deppian sos homines de Romagna», cioè a carico degli abitanti della
Romangia.
[147] Cfr. a questo proposito G.
Olla Repetto, I «boni homines»
sassaresi ed il loro influsso sul diritto e la società della Sardegna medievale
e moderna, in Gli Statuti Sassaresi,
cit., 355-364, a cui si rinvia. Cfr. inoltre i capitoli I, 148, II, 13, 17,
degli Statuti. Una ridefinizione dei confini territoriali della città è nel
privilegio concesso a Sassari il 7 aprile 1323 dall’infante Alfonso: E. Costa, Archivio del Comune di Sassari, Sassari 1902, 49.
[148] Sulla configurazione giuridica della cittadinanza nel Medioevo
cfr. i saggi compresi in Dentro la città.
Stranieri e realtà urbane nell’Europa dei secoli XII-XVI, a cura di G.
Rossetti, 2a ed., Napoli 1999; l’opera di riferimento resta quella di P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, I, Dalla civiltà comunale al Settecento,
Roma-Bari 1999, 3-50, a cui si rinvia anche per l’imponente bibliografia.
[149] Cfr. a questo proposito in generale G. Petti Balbi, Castelsardo
e i Doria all’inizio del secolo XIV, in Archivio
Storico Sardo XXX, 1976, 187-202; A.
Soddu, I Doria in Anglona: potere
e territorio, in Basso, Soddu,
L’Anglona negli atti del notaio Francesco
Da Silva (1320-1326), cit., 20-58. Cfr. inoltre E. Besta, Intorno ad
alcuni frammenti di un antico statuto di Castelsardo, in Archivio giuridico n.s., III, 1899,
281-332, edizione da preferire a quelle di D. Ciampoli,
Gli Statuti di Galeotto d’Oria per Castel
Genovese ne’ frammenti di un codice sardo del sec. XIV, in La bibliofilia VIII, 1906; e di G. Zirolia, Statuti inediti di Castelgenovese, Sassari 1898.
[150] Cfr. V. Piergiovanni,
Il diritto genovese e la Sardegna, in
Gli Statuti Sassaresi, cit., 213-219;
Id., Gli influssi del diritto genovese sulla Carta de Logu, in Rivista di storia del diritto italiano
LXIX, 1996, 17-28; più in generale, R.
Savelli, Gli Statuti della
Liguria. Problemi e prospettive di ricerca, in Società e storia XXI, 1999, 3-33; Repertorio degli statuti della Liguria (secc. XII-XVIII), a cura di
R. Savelli («Fonti per la storia della Liguria», XIX), Genova 2003.
[151] Besta, Intorno, cit., passim; G. Paulis, La recinzione dei terreni nello statuto di Castelgenovese,
in Officina linguistica, I, 1997, n. 1,
127-129.
[152] Non è facile identificare il territorio di pertinenza della città.
A proposito de «sas terras dessos segnores» (i Doria) il capitolo 63 indicava i
borghi e le località di Casteldoria, Anglona e Coquinas.
[153] Basso, Soddu, L’Anglona negli atti, cit., n. 57, 166-167; il documento era stato
segnalato da A. Ferretto, Codice diplomatico delle relazioni fra la
Liguria, la Toscana e la Lunigiana ai tempi di Dante (1265-1321), in Atti della Società Ligure di Storia Patria
XXXI, 1901, 1, n. 11, 6, e da Besta, La Sardegna medioevale, cit., I, 275, e
Era, Lezioni di storia, cit., 233. Cfr. inoltre E. Basso, Alla
conquista di un regno: l’azione di Brancaleone Doria fra la Sardegna, Genova e
l’Oltregiogo, in Medioevo. Saggi e
Rassegne, n. 20, 1996, 135-160. Sugli aspetti terminologici cfr. F. Artizzu, Civis e burgensis nella
terminologia giuridica sardo pisana, in Ricerche
sulla storia e le istituzioni della Sardegna medievale («Fonti e studi del
Corpus membranarum italicarum», XXIV), Roma 1983, 39-45.
[154] Basso, Soddu, L’Anglona, cit., n. 59, 169-170. Sulle vicende successive del borgo
fortificato cfr. inoltre G. Meloni,
Casteldoria: processo per una resa,
in Archivio Storico Sardo XXXV, 1986,
101-114, con ampia bibliografia, e P.F. Simbula,
Casteldoria dote matrimoniale di Eleonora
d’Arborea, in Medioevo. Saggi e
rassegne, n. 16, 1991, 117-134, che nell’appendice pubblica un documento
del 27 maggio 1313 nel quale si fa riferimento all’atto d’infeudazione del
borgo a Poncio de Altarippa del 15 marzo 1361, concesso «iuxta morem Italiae
[...] cum aliis villis, mansis, stagiis, masoneriis ac hominibus e feminis
intra limites et terminos dictorum castri et villarum [...] cum terminis,
saltibus, molendinis et furnis redditibus, daciis, proventibus maquiciis ...» (131).
[155] Soddu, Campus, Le curatorìas di Frussia, cit., 145.
[156] Cfr. A. Era, Capitoli editi per Bosa nell’anno 1338,
in Studi sassaresi XXVII, 1937, n.
3-4, 105-107, che costituivano probabilmente un ordinamento portuale emanato
dai giudici d’Arborea. Il frammento di un testo statutario più organico ed
ampio (nel documento si accenna alla correzione di uno statuto più antico,
definito «breve vecchio»), di cui ci sono pervenuti i capitoli 157-160 relativi
alle disposizioni sui tutori e sui curatori testamentari, redatto in volgare
italiano, è stato pubblicato da G. Todde,
Alcuni capitoli degli Statuti di Bosa,
in Medioevo. Saggi e rassegne, n. 2,
1976, 21-26.
[157] I Parlamenti di Alfonso il
Magnanimo (1421-1452), a cura di A. Boscolo, aggiornamenti, apparati e note
a cura di O. Schena («Acta Curiarum Regni Sardiniae», 3), Cagliari 1993,
144-152. Cfr. inoltre C. Ferrante, A.
Mattone, I privilegi e le
istituzioni municipali del Regno di Sardegna nell’età di Alfonso il Magnanimo,
in XVI Congresso di storia della Corona
d’Aragona. Atti, a cura di G. D’Agostino e G. Buffardi, I, Napoli 2000,
303-307; Soddu, Campus, Le curatorìas di Frussia e di
Planargia, cit., 148-151. Nella carta reale del 23 settembre 1468 con la quale
Giovanni II concedeva in feudo Bosa e la Planargia a Giovanni de Vilamarì sono
indicati i villaggi (Suni, Sagama, Tresnuraghes, Sindia, Magomadas, Tinnura,
Modolo) che facevano parte dell’antico districtu
bosano: C. Tasca, Titoli e privilegi dell’antica città di Bosa,
Oristano 1999, n. 10, 30.
[158] C. Baudi di Vesme, Breve di Villa di Chiesa nel Sigerro, in
Codex diplomaticus Ecclesiensis
(«Historiae Patriae Monumenta», XVII), Augusta Taurinorum 1877 (d’ora in poi
CDE), coll. 5-246; cfr. inoltre L.
D’Arienzo, Il codice del «Breve»
pisano-aragonese di Iglesias, in Medioevo.
Saggi e rassegne, n. 4, 1978, 72-80; G.
Zanetti, Prefazione alle
disposizioni di diritto agrario del Breve di Villa di Chiesa, in Studi sassaresi XVII, 1940, n. 4,
400-418; Id., Brevi cenni sul diritto agrario nel
territorio di Villa di Chiesa, in Fra
il passato e l’avvenire, cit., 87-107; Era,
Lezioni, cit., 280-297; A. Boscolo, Villa di Chiesa e il suo «Breve», in Studi storici e giuridici in onore di Antonio Era, Padova 1963,
73-80; F. Artizzu, Aspetti della vita economica e sociale di
Villa di Chiesa attraverso il «Breve», in Pisani e catalani, cit., 77-95; Id.,
La Sardegna pisana, cit., 170-181; Tangheroni, La città dell’argento, cit., 211-246; i saggi compresi in Studi su Iglesias medioevale, Pisa 1985.
[159] Cfr. F.C. Casula, Il territorio medioevale di Villa di Chiesa,
in Studi su Iglesias, cit., 29-37,
con un censimento delle ville del Sigerro, e Tangheroni,
La città dell’argento, cit., 146-154,
sui sobborghi e sul territorio extraurbano. Dai capitoli del Breve (I, 3, 17;
IV, 8, 17, 82) si evince che il territorio di pertinenza delle città era
formato dalle località e dalle ville di Domusnovas, Villamassargia, Villa di
Prato, Canadonica, Conese, Chiandili, Sigulis, Antasa, Barecha, Baratuli e
Bagnargia.
[160] «Rectoribus Ville Ecclesie et Domus Nove – si legge nel Breve del Comune e del Popolo di Pisa
del 1313 – qui suam iurisdictionem exercere possint secundum formam sui
Brevis»: Bonaini, Statuti inediti della città di Pisa,
cit., II, 89. Cfr. anche R.L. Costa, E.
Canavera, Domusnovas dalle origini
al ’900. Ricerca storica documentaria, bibliografica e sul territorio, Iglesias
2001, 60-64; Solmi, Studi storici, cit., 282; Era, Lezioni, cit., 305.
[161] CDE, II, secolo XIV,
n. LXV, coll. 432-439.
[162] CDE, II, secolo XIV, nn. LXXXVII, LXXXIX, coll. 472-475.
[163] CDS, I, diplomi e carte del XIV secolo, n. XCIII, 762-764, edito
anche in R. Carta Raspi, Mariano IV d’Arborea, Cagliari 1934,
176-181. Cfr. a questo proposito R. Di
Tucci, Sulla natura giuridica
delle voci «Paperos» e «Paberile», in Archivio
Storico Sardo IX, 1914, n. 1-3, 134-136; E.
Besta, Legislazione medievale di
Sardegna, in Rivista di legislazione
comparata 1908, 5; Id., La Sardegna medioevale, cit., II, 153; Era, Lezioni, cit., 309-311; Le
Lannou, Pastori e contadini,
cit., 116-117; Anatra, Dall’unificazione, cit., 231; Day, Uomini e terre, cit., 66; Ortu,
Villaggio e poteri, cit., 81, 85-86; Id., Zerakkus e zerakkas sardi, in Quaderni
storici XXIII, 1988, n. 68, 113-135; Orunesu,
Dalla scolca giudicale, cit.,
311-314; F.C. Casula, Carta di franchigia del Goceano, in Dizionario, cit., 352.
[164] Cfr. Il Parlamento di Pietro
IV, cit., nn. 4-26, 166-204, n. 57, 240-249, ed il saggio introduttivo di G.
Meloni, 111-120.
[165] CDS, I, diplomi e carte del XIV secolo, n. CL, 817-861, che
pubblica la copia estratta dall’ASC del 12 novembre 1495, su cui cfr. la scheda
di G. Catani in Archivio di Stato di Cagliari, Guida all’utente, Cagliari 1996, 2.
Un’altra copia del 10 dicembre 1390 (un rotolo di pergamena di diciassette
fogli cuciti, lungo nove metri) è nell’Archivio Comunale di Cagliari (cfr. la
scheda di M.L. Di Felice in La Corona d’Aragona: un patrimonio comune,
cit., n. 85, 84). Manca ancora una moderna edizione critica di questo
fondamentale documento del Medioevo sardo: la trascrizione ottocentesca
dell’archivista Ignazio Pillito, pubblicata da Tola, presenta infatti numerose
mende. Sul trattato di pace cfr. F.C.
Casula, Sardegna
catalano-aragonese. Profilo storico, 2a ed., Sassari 1984, 46-52; G. Meloni, Genova e Aragona all’epoca di Pietro il Cerimonioso, III (1361-1387), Padova 1982, 163-186; F.C. Casula, La Sardegna aragonese, 2, La
Nazione Sarda, Sassari 1990, 440-448; Id.,
Corona de Logu, in Dizionario storico, cit., 470-471; B. Fois, Su un trattato di pace mai siglato fra Eleonora d’Arborea e Pietro IV
d’Aragona: valutazioni e consigli di un contemporaneo, in Medioevo. Saggi e rassegne, n. 18, 1993,
53-90; Anatra, Dall’unificazione, cit., 288-294.
[166] «E que totes aquelles personese que volran
partir de les terres de la dita Madona Eleonor per anar star en terra del Señor
Rey lo pusquen fer – si legge nel trattato –, e mes pusquen de fer de llurs
robes tot co que volran sens tot constrast. E que aximateix totes aquelles
persones de la terra del Señor Rey que volran star o venir star en terra de la
dita Madona Elienor quell posquen fer e semblantment pusquen fer de llurs bens
co que volran axicom demunt es dit»: ivi,
819. Cfr. inoltre Day,
Uomini e terre, cit., 65; Ortu, Villaggio e poteri, cit., 76; B.
Anatra, Di barone in barone,
in Almanacco della Sardegna 1973,
9-13, e soprattutto il vecchio, ma penetrante Solmi,
Sull’abolizione del servaggio, cit.,
35, che polemizza a questo proposito con U.G.
Mondolfo, Abolizione del servaggio
in Sardegna. Nota, in Bullettino
bibliografico sardo IV, 1904, 4-7; la libertà di trasferimento da un feudo
all’altro dei vassalli («franchs e liberes homens») venne definitivamente
decretata nelle riunioni dello Stamento militare del 1448 e del 1452: I Parlamenti di Alfonso il Magnanimo,
cit., 185-200.
[167] Ivi, 830-832, 839-840.
[168] Cfr. E. Besta, La Carta de Logu quale monumento
storico-giuridico, in Studi sassaresi,
sez. I, III, 1905, 3-67; E. Cortese, Nel ricordo di Antonio Era. Una proposta per la datazione della «Carta
de Logu» di Arborea, in Quaderni
sardi di storia, n. 3, 1981-83, 45-50, ora in Scritti, cit., II, 803-808; B.
Fois, Sulla datazione della Carta
de Logu, in Medioevo. Saggi e
rassegne, n. 19, 1994, 133-148, che ignora le tesi di Cortese; E. Blasco Ferrer, Annotazioni ecdotiche e linguistiche sulla Carta de Logu, in Rivista di studi testuali I, 1999,
29-52, che data lo statuto intorno al 1392, ma lo considera frutto di una lunga
gestazione dai tempi di Mariano, ed anche F.
Artizzu, Alcune considerazioni
sulla legislazione statutaria e sulla Carta de Logu, in Archivio Storico Sardo XLII, 2002,
236-237, che sintetizza i termini del dibattito.
[169] Per la Carta de Logu
cfr. la riproduzione anastatica dell’incunabolo della fine del XV secolo: Carta de Logu, a cura di A. Scanu,
Cagliari 1991; la traduzione italiana di G.M.
Mameli de’ Mannelli, Le
costituzioni di Eleonora giudicessa d’Arborea intitolate Carta de Logu,
Roma 1805 (rist. anast., Cagliari 1974), e quella di F.C. Casula, La “Carta
de Logu” del Regno di Arborea. Traduzione libera e commento storico,
Sassari 1995, con un utile e stimolante commento, permettono di accedere
agevolmente al testo. Per un quadro succinto ed ulteriori referenze
bibliografiche cfr. A. Mattone, Eleonora d’Arborea, in Dizionario biografico degli italiani,
XLII, Roma 1993, 410-419.
[170] F. Calasso, Medio Evo del diritto, I, Le fonti, Milano 1954, 449-450.
[171] Cortese, Il diritto nella storia medievale, cit.,
II, 353; Id., Appunti di storia, cit., 119 ss. Cfr. a
questo proposito, oltre Besta, La Carta de Logu quale monumento, cit., 61-63, M. Bellomo, La “Carta
de Logu” di Arborea nel sistema del diritto comune del tardo Trecento, in Rivista internazionale di diritto comune
V, 1994, 7-21, e in particolare F. Sini,
Comente comandat sa lege. Diritto romano
nella Carta de Logu d’Arborea,
Torino 1997, specialmente 81 ss.
[172] P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, Roma-Bari
1995, 224.
[173] F.C. Casula, Cultura e scrittura nell’Arborea al tempo
della Carta de Logu, in Il mondo
della Carta de Logu, Cagliari 1979, 75, il documento tratto dal Proceso contra los Arborea racconta di
come Mariano, attraverso il suo maggiordomo Giovanni Ligia, affrancasse i
servi; Id., Servitù, in Dizionario
storico, cit., 1662. Cfr. anche C.
Bellieni, Eleonora d’Arborea,
Sassari 1978 (I ediz. Cagliari 1929), 56-62. Una forma di emancipazione
indiretta, maturata già nella prima metà del secolo, era quella legata alla
figura dei lieros de cavallu,
espressione dell’oligarchia del villaggio: servivano in guerra col proprio
cavallo, che non poteva essere venduto o donato (cfr. il cap. LXXXIX della Carta de Logu). A questo proposito cfr. G. Fois, L’organizzazione militare nel Giudicato d’Arborea, in Medioevo. Saggi e Rassegne, n. 13, 1988,
35-42.
[174] Il termine servu compare
ancora, con un’accezione ambigua, nel cap. CXCVII della Carta de Logu a proposito della possibilità del «pubillu», cioè del
proprietario, di rifarsi sul mandriano o sul «pastori, lieru chia siat, o
servu», in caso di danni arrecati dal bestiame. Secondo Casula, La “Carta de
Logu, cit., 279, esso costituisce un «refuso» della normativa precedente al
1353, inserito forse per errore nello statuto arborense. In effetti il termine
non appare nel contratto di soccida (cumoni),
regolato dalla Carta de Logu (CLXI,
CLXII, CLXIII, CLXIV, CLXV), dove vengono adoperati i termini donnu (padrone) e comunargiu (accomandatario). Cfr. in generale anche G.G. Ortu, L’economia pastorale della Sardegna moderna. Saggio di antropologia
storica sulla «soccida», Cagliari 1981, 17-26, e dello stesso, Ricerche sui contratti agrari e pastorali
nella Sardegna moderna, in Studi
Sardi XXIV, 1975-77, 411-507.
[175] Cfr. Livi, La popolazione della Sardegna, cit.,
26-37.
[176] Il codice rurale (Ordinamentos de vignas, de lauores e de
ortos) è stato inglobato nel XV secolo nella Carta de Logu ai capp. CXXXIII-CLIX. Cfr. Testi e documenti per la storia del diritto agrario, cit., 3-31; A. Era, Il Codice agrario di Mariano IV d’Arborea, in Archivio “Vittorio Scialoja” per le consuetudini giuridiche agrarie
V, 1938, n. 1-2, 3-11 dell’estratto; C.G.
Mor, Aspetti dell’agricoltura
sarda nella legislazione del secolo XIV, in Fra il passato e l’avvenire, cit., 125-160; Cortese, Appunti di
storia giuridica, cit., 1-63; F.
Cherchi Paba, La crisi agraria del
Giudicato d’Arborea del secolo XIV, in Il
mondo della Carta de Logu, cit., 175-224; B.
Fois, Sul «codice rurale» di
Mariano IV d’Arborea, in Medioevo.
Saggi e rassegne, n. 8, 1983, 41-69, con la traduzione italiana del testo; Ead., Territorio e paesaggio, cit., 145-198; Mattone, Le vigne e le
chiusure, 84-91.
[177] Alcuni studiosi, a torto, ad esempio Solmi, Studi storici,
cit., 125-128, hanno voluto proiettare questo perfezionato sistema di governo
anche nei secoli precedenti, quasi che fosse l’ordinamento tradizionale dei
Giudicati.
[178] Sul governo locale cfr. Besta,
La Carta de Logu, cit., 25-27, e G. Olla Repetto, L’ordinamento costituzionale-amministrativo della Sardegna alla fine
del ’300, in Il mondo della Carta de
Logu, cit., 143-162, il vecchio Di
Tucci, Nuove ricerche, cit.,
15, ed anche Ortu, Villaggi e poteri, cit., 83-87. Sul
diritto di machizia cfr. G. Paulis, La machizia nel diritto della
Sardegna medioevale e moderna, in Officina
linguistica I, 1997, n. 1, 89-105, che esclude la derivazione da mageddare (macellare) e ritiene che il
termine derivi da macchissiare
(intimare una multa): i diritti di machizia
sarebbero il prodotto, più che della macellazione per le bestie tenturate per gli sconfinamenti, dei
proventi delle multe sui reati commessi nel territorio agricolo. Cfr. a questo
proposito anche C. Bellieni, Difesa della proprietà e reati rurali in
Sardegna e in Dalmazia, in Il
Nuraghe. Rassegna sarda di cultura VII, 1929, n. 4, 13-30.
[179] A questo proposito Raffaele Di Tucci ha osservato che nella Carta de Logu «la responsabilità dei
giurati e della villa non è legata solo per i danneggiamenti arrecati alla
proprietà immobiliare e mobiliare, ma si estende in maniera generale a tutte le
necessità dell’ordine e della sicurezza pubblica» e che la «differenza
intercedente fra gli ordinamenti inclusi nella legislazione sarda più antica e
quelli codificati [...] nella Carta de
Logu [...] sta in ciò, che i primi erano un portato della difesa economica
esercitata dagli organi amministrativi della villa, per proteggere la proprietà
e i frutti del lavoro della massa e di ciascun abitante; i secondi
trasportarono le mansioni, del villaggio nella sfera della polizia
giudiziaria»: Di Tucci, Il diritto pubblico, cit., 53. Cfr.
inoltre U.G. Mondolfo, Responsabilità e garanzia collettiva per
danni patrimoniali nella storia del diritto sardo del Medioevo, in Rivista italiana per le scienze giuridiche
XXIX, 1900, n. 1-2, 3-33 dell’estratto, con una dettagliata analisi dei
capitoli della Carta, a cui si
rinvia; Olla Repetto, L’ordinamento, cit., 162-166; Ead., Per una storia degli incendi agro-forestali in Sardegna, in Archivio Storico Sardo XXX, 1976,
219-227; Orunesu, Dalla scolca giudicale, cit., 389-398.
[180] Cfr. Vico,
Leyes y pragmaticas, cit., II, tit. XXI, capp. I-V, e in particolare il commento del giurista
seicentesco che trovava sostanzialmente ingiusta la prammatica che disciplinava
la responsabilità collettiva e la rifazione del danno e la considerava di fatto
contraria al diritto divino ed umano. Nei lavori preparatori delle Leggi civili e criminali si discusse a
lungo se mantenere o meno in vigore l’istituto dell’incarica nella nuova consolidazione: cfr. in generale A. Lattes, Le leggi civili e criminali di Carlo Felice pel Regno di Sardegna,
in Studi economico-giuridici della Regia
Università di Cagliari I, 1909, 1, 187-297, ora in La Sardegna di Carlo Felice e il problema della terra, a cura di C.
Sole, Cagliari 1967, 405-509, e soprattutto M.
Da Passano, Delitto e delinquenza
nella Sardegna sabauda (1823-1844), Milano 1984, 39-41.
[181] Cfr. Besta, La Sardegna medioevale, cit., II,
228-244, Id., La Carta de Logu, cit., 29-38; Brandileone, Note sull’origine di alcune istituzioni giuridiche della Sardegna
durante il Medioevo, cit., 301-320.
[182] Cfr. Di Tucci, L’organismo giudiziario sardo, cit., 87
ss.; Id., Il diritto pubblico, cit., 65 ss. Id.,
Nuove ricerche e documenti, cit.,
5-52; Pittiu, Il procedimento giudiziario, cit.,
50-91, secondo cui la «legge di Arborea non introduce innovazioni» nella
composizione e nel funzionamento delle corone, così come vengono descritte dai
condaghi»; Era, Lezioni, cit., 321-344; Olla Repetto, L’ordinamento, cit., 143-161; Casula,
“La Carta de Logu”, cit., 255-257; Orunesu, Dalla scolca giudicale, cit., 398-407.
[183] Cfr. i documenti editi da Di
Tucci, Nuove ricerche, cit.,
38-52, e da Loddo Canepa, Note sulla Carta de Logu cagliaritana,
cit., 19-28.
[184] Solmi, Studi storici, cit., 122.
[185] Cfr. Argiolas, Mattone, Statuti portuali, cit., 37-39.
[186] Cfr. G. Paulis, Un organismo giudiziario di epoca medievale:
la corona de chida de berruda, in Officina
linguistica I, 1997, n. 1, 47-62, a cui si rinvia.
[187] Cfr. Besta, La Carta de Logu, cit., 30; F. Loddo Canepa, Armentario, in Dizionario
archivistico per la Sardegna, I, Cagliari 1926-31, 29-30; F.C. Casula, Corona de Logu o tribunale giudicale, in Dizionario storico, cit., 471.
[188] L’istituto dei bonos homines
è stato analizzato in particolare da Olla
Repetto, L’ordinamento, cit.,
144-161, secondo la quale «nell’alto Medioevo e sino alla Carta de Logu i giudici delle corone erano dei notabili, ma non dei
boni homines: boni homines lo saranno solo con la Carta de Logu» (158). Più in generale cfr. C. Giardina, I «boni
homines» in Italia, in Rivista di
storia del diritto italiano V, 1932, 28-413; Id., Boni homines,
in Novissimo Digesto Italiano, II,
Torino 1968, 501. Più in generale cfr. K.
Nehlsen-von Stryk, Die boni
homines des frühen Mittelalters unter
besonderer Berücksichtigung der Fränkischen Quellen, Berlin 1981, e i
volumi La giustizia nell’Alto Medioevo
(secoli V-VIII) e (IX-XI),
entrambi Spoleto, rispettivamente 1995 e 1997, in particolare, nel secondo, i saggi
di Jean-Pierre Poly, Paolo Delogu e Giuseppe Sergi.
[189] Il Parlamento del viceré
Antonio Coloma conte di Elda (1602-1603), a cura di G. Doneddu («Acta
Curiarum Regni Sardiniae», 13), in via di pubblicazione.
[190] Cfr. J. Day, Per lo studio del banditismo sardo nei
secoli XIV-XVII, in Uomini e terre,
cit., 245-268; G. Todde, Storia di Nuoro e delle Barbagie,
Cagliari 1971, 100-110; G. Olla Repetto,
Mezzi di lotta contro la criminalità
nella Sardegna spagnola, in Rivista
sarda di criminologia IV, 1968, 487-505; A.
Nieddu, Violenza, criminalità,
banditismo nelle campagne. Dalla giustizia baronale all’istituzione della sala
criminale nella Reale Udienza del Regno di Sardegna fra XVI e XVII secolo,
in Acta Histriae X, 2002, n. 1, 81-90;
B. Anatra, Banditi e ribelli nella Sardegna di fine Seicento, Cagliari 2002,
7-23; G. Murgia, Banditismo e amministrazione della giustizia
nel Regno di Sardegna nella prima metà del Seicento, in Banditismi mediterranei. Secoli XVI-XVII,
a cura di F. Manconi, Roma 2003, 341-358.
[191] Pigliaru, La vendetta barbaricina, cit., 176.
[192] M. Carosso, «Parola da uomo»: sulla pratica
dell’arbitrato in un paese sardo. Un contributo etnologico, in Annali della Fondazione Luigi Einaudi
XIX, 1985, 365-401, la cit. è alla p. 395; M.
Masia, «Sos omines»: osservazioni
sulla pratica degli arbitrati nella Sardegna interna, in Sociologia del diritto VIII, 1981, n. 1,
77-97.
[193] «Item senyor – si legge nella richiesta dei tre Stamenti – que la
Carta de loch sardesca del present regne, ab la qual la iusticia entre los
Sarts es administrada e exercida, sia per vos senyor ab vigor del present
capitol confirmada»: I Parlamenti di
Alfonso il Magnanimo, cit., 117. Cfr. inoltre M.M. Costa, Intorno
all’estensione della Carta de Logu ai
territori feudali del Regno di Sardegna nel 1421, in Medioevo. Saggi e rassegne, n. 19, 1994, 149-158.
[194] Il Parlamento di Pietro IV
d’Aragona, cit., n. 61, 292.
[195] Di Tucci, Il Libro Verde, cit., n. CXX, 264-265.
[196] ASC, AAR, B6, cc. 3-3v. Sull’annona cfr. B. Anatra, Per una
storia dell’annona in Sardegna nell’età aragonese e spagnola, in Quaderni sardi di storia, n. 2, 1981,
89-102; C. Sole, Città e campagna in Sardegna nella
legislazione annonaria dei secoli XIV-XVII, in Politica, economia e società in Sardegna nell’età moderna, Cagliari
1970, 11-51, e i vecchi studi di F.
Loddo Canepa, La legislazione
sull’agricoltura e la pastorizia nel Regno di Sardegna durante il periodo
spagnolo, in Cagliari economica
X, 1956, n. 7, 15-16; Id., Afforo, in Dizionario archivistico, cit., I, 12-14. Nel Parlamento Cardona
(1544) si criticò il fatto che le città avessero la consuetudine di rastrellare
il grano dai villaggi senza lasciare ai vassalli la necessaria provvista per
l’alimentazione quotidiana e la semina: P.I.
Arquer, Capitols de cort del
Stament militar de Sardenya ara novament restampats y de nou añadits,
Caller 1591, 105-106; V. Angius, Memorie de’ Parlamenti generali o Corti del
Regno di Sardegna, in Casalis,
Dizionario geografico
storico-statistico-commerciale degli Stati, cit., XVIII quater, 506.
[197] Cfr. A. Era, Le raccolte di carte specialmente di re
aragonesi e spagnoli (1260-1715) esistenti nell’Archivio del Comune di Alghero,
Sassari 1927, nn. 51, 58, 64, 68; Libre
Vell, a cura di F. Manconi («I libri dei privilegi della città di Alghero»,
1), Cagliari 1997, nn. 9, 27, 28, 39, 65, 33-34, 59-62, 78-79, 108-109; Libre Gran, a cura di B. Tavera e G.
Piras («I libri dei privilegi della città di Alghero», 2), Cagliari 1999, nn.
6, 10, 19, 23, 41-42, 49-50, 63-65, 71-74; cfr. inoltre A. Mattone, I privilegi
e le istituzioni municipali di Alghero, in Alghero, la Catalogna, cit., 281-297.
[198] Cfr. P. Sanna, Il grano delle ville e le istituzioni
annonarie nel XVIII secolo, in Alghero,
la Catalogna, cit., 527-542.
[199] Cfr. la scheda di C. Ferrante
in La Corona d’Aragona, cit.,
n. 331, 238, ed anche Ferrante, Mattone,
I privilegi e le istituzioni municipali
del Regno di Sardegna, cit., 281-290, ma soprattutto R. Di Tucci, I lavoratori nelle saline sarde dall’Alto Medioevo all’editto del 5
aprile 1836, Cagliari 1929, 24-25, ed inoltre sul sale cagliaritano Manca, Aspetti dell’espansione economica catalano-aragonese nel Mediterraneo
occidentale, cit., 217-231.
[200] Cfr. G. Todde, Le saline, in Il lavoro dei sardi, a cura di F. Manconi, Sassari 1983, 209.
[201] CDS, I, diplomi e carte del secolo XIV, n. XXXIX, 687; Di Tucci, Il libro verde, cit., n. XLI, 147. Cfr. a questo proposito Solmi, Ademprivia, cit., 96-113; Loddo
Canepa, Ademprivio, in Dizionario archivistico, cit., I, 9-12; Id., La legislazione sull’agricoltura, cit., 19-20; I. Birocchi, Per la storia della proprietà perfetta in Sardegna. Provvedimenti
normativi, orientamenti di governo e ruolo delle forze sociali dal 1839 al 1851,
Milano 1982, 223 ss. Il vocabolo è di origine catalana, empriu (Constitutions y
altres drets de Catalunya, Barcelona 1704, l. IV, tit. III, c. I),
latinizzato in ademprivium (Antiquiores Barchinonensium leges quas
vulgus Usaticos appellat, Barcelona 1544, capp. 28, 32, 120, 148). Cfr.
anche il “classico” G.M. de Brocà,
Historia del derecho de Cataluña
especialmente del civil, Barcelona 1985 (I ediz. Barcelona 1918), 109-111.
Gli emprius, disciplinati dai
capitoli approvati dalla Cort general
di Barcellona del 1283 (cfr. J. Coroleu
e Inglada, J. Pella y Forgas, Las
Cortes catalanas. Estudio jurídico y comparativo, Barcelonan 1876,
159-161), figuravano già in diverse carte di franchigia dei secoli precedenti.
[202] Era, Le raccolte di carte, cit., n. 53, 50; Libre Vell, cit., n. 40, 79-81; Libre Gran, cit., n. 15, 55-57.
[203] ASC, Museo del Risorgimento, n. 611.
[204] Cfr. Vico, Leyes y pragmaticas reales, cit., II,
tit. XLII, cap. IV, 246-247; P. Quesada
Pilo, Dissertationum quotidianarum
juris in tribunalibus turritanis controversiae, I, Neapoli 1662, diss. IV,
14 e 20. Cfr. a questo proposito Solmi,
Ademprivia, cit., 133-139; Mondolfo, Terre e classi sociali, cit., 287-313; F. Loddo Canepa, Rapporti
tra feudatari e vassalli in Sardegna, in Fra il passato e l’avvenire, cit., 278-281; Di Tucci, La proprietà
fondiaria, cit., 47 e 54; Birocchi,
Per la storia della proprietà, cit.,
341-343; Ortu, Villaggio e poteri, cit., 95-100.
[205] Sui tributi feudali, oltre Mondolfo,
Terre e classi sociali, cit.,
343-353, e Loddo Canepa, La legislazione sull’agricoltura, cit.,
16-19, cfr. ora Doneddu, Ceti privilegiati e proprietà fondiaria,
cit., 187 ss.; A. Mattone, Il feudo e la comunità di villaggio, in Storia dei Sardi e della Sardegna, a
cura di M. Guidetti, III, L’Età Moderna dagli Aragonesi alla fine del
dominio spagnolo, Milano 1989, 333-379; Ortu,
Villaggio e poteri, cit., 68-77.
[206] L’incontrada, feudo della Corona, doveva nel suo insieme la somma
di 400 lire all’anno. Per il diritto del vino si pagava 10 soldi per ogni botte
prodotta dagli agricoltori e 20 soldi per ogni botte acquistata all’esterno.
Per i diritti gravanti sul bestiame i pastori dovevano dare una pecora per ogni
sinnu (gregge) o, in alternativa, tre
montoni; lo stesso valeva per i maiali. Un altro tributo era la mezza portadia, consistente nella
prestazione della metà dei grani seminati dai vassalli nelle terre feudali o
demaniali. Vi era inoltre una serie di gravami, dalla consegna al signore di
cereali o di paglia non sempre retribuita, alle “sportule” e ai “regali” in
occasione delle festività, e via dicendo: ASC, Regio Demanio, Feudi, b. 55, n.
1. Sul procuratore reale cfr. Il primo
Liber Curiae della Procurazione Reale di Sardegna (1413-1425), a cura di G.
Olla Repetto, Roma 1974, e della stessa L’istituto
del Procurator regius Regni Sardiniae
sotto Alfonso il Magnanimo, in Medioevo.
Saggi e rassegne, n. 2, 1976, 97-108.
[207] Cfr. gli studi di U.G.
Mondolfo, Agricoltura e pastorizia
in Sardegna nel tramonto del feudalesimo, in Rivista italiana di sociologia VIII, 1904, n. 4, e L’abolizione del feudalesimo in Sardegna,
in Archivio Storico Sardo II, 1906,
ora entrambi in Il feudalesimo in
Sardegna, cit., rispettivamente 431-455, 459-506.
[208] Cfr. il fondamentale lavoro di C.
Sánchez Albornoz, Despoblación y
repoblación del Valle del Duero, Buenos Aires 1966, Id., La repoblación del
Reino astur-leonés, in Humanidades
XXXV, 1936, 37-57. Più in generale cfr. S.
de Moxó, Repoblación y sociedad en
la España cristiana medieval, Madrid 1979; L.G. de Valdeavellano, Curso
de Historia de las Instituciones españolas. De los orígines al final de la Edad
Media, 6a ed., Madrid 1982, 237-246; J.M.
Font, Carta puebla, in Diccionario de Historia de España, dir.
por G. Bleiberg, I, Madrid 1979, 739-740. Cfr. inoltre M.L. Ledesma Rubio, Las
cartas de población medievales como fuentes de investigación, in II Jornadas metodológicas de la
Investigacion Cientificas sobre Fuentes Aragonesas, Jaca 1986, 128 ss.
[209] Cfr. soprattutto J.M. Font
Rius, Cartas de población y
franquicia de Cataluña, Madrid-Barcelona 1973-83, 2 voll. in 3 tomi; M. Gual Camarena, Las cartas pueblas del Reyno de Valencia, edic. prep. por M.D.
Perez Perez, Valencia 1989 (si tratta di un testo del 1947-48); E. Guinot Rodríguez, Cartes de poblament medievals valencianes,
Valencia 1991. Ancora assai utili sono le raccolte di fonti curate da T. Muñoz y Romero, Collección de fueros municipales y cartas pueblas de los Reinos de
Castilla, León, Corona de Aragón y Navarra e la Collección de fueros y cartas pueblas de España, entrambe Madrid,
rispettivamente 1847 e 1852.
[210] Cfr. Valdeavellano, Curso de Historia, cit., 256.
[211] Cfr. Day, Villaggi abbandonati, cit., 23-27; Id., L’economia della Sardegna catalana, in Uomini e terre, cit., 65-67. Più in generale cfr. B. Anatra, El feudalisme a la Sardenya de l’antic régim, in Recerques XX, 1988, 133-149.
[212] Cfr. a questo proposito Ortu,
Villaggio e poteri signorili, cit.,
77-82.
[213] Tra questi, il feu,
nella misura di 1 lira e 10 soldi all’anno per “fuoco” da pagarsi in due rate;
il diritto sul vino, pari a 10 soldi per cuba
o botte e 20 soldi per la vendita al minuto; il pegus, una pecora per ogni signu
(non si specifica di quanti animali composto) e 3 agnelli per gregge; diritto
simile per i porci, uno ogni branco e tre «aniglos maslos»; la mezza portadia, pari a circa la metà del
grano seminato; le machizie, per ogni
multa 20 soldi all’ufficiale baronale; un regalo imprecisato per Pasqua, per
Natale e per Carnevale (carraseghari);
ogni massaiu avrebbe dovuto inoltre
consegnare una cerda (carico) di
paglia all’anno e un carro di legna per la festa di San Michele: ASC, Regio
Demanio, Feudi, b. 55, n. 1, edito anche in Di
Tucci, La proprietà fondiaria,
cit., 134-136, cfr. anche Loddo Canepa,
La legislazione sull’agricoltura,
cit., 15-16.
[214] La convenzione venne sottoscritta dai maiores dei villaggi – Antonio Xino maiore di Settimo, Comida Cotxa maiore
di Sinnai, Antonio Marcu maiore di
Mara, Furado Saragu maiore di
Calagonis, Nicola Manchossa maiore di
Uta, Perdo Castay maiore di Sestu – e
dai futuri coloni («habitatores proxime notatae villae»).
[215] J.P. Galiana Chacón,
Notas sobre el régimen señorial en
Cerdeña: las cartas pueblas de Villamassargia y Domusnovas (1421-1436), in XIV Congresso di storia della Corona
d’Aragona, cit., III, 449-464; i capitoli per Villamassargia vennero
ricontrattati il 7 gennaio 1431, con nuove condizioni rispetto alla concessione
precedente, ed il 3 maggio 1436. Cfr. anche G. Murgia, Comunità e
baroni. La Sardegna spagnola (secoli XV-XVII), Roma 2000, 53-54.
[216] P. Luzzu, Di alcune franchigie concesse al Comune di
Santa Giusta dalla prima marchesa d’Oristano, in Archivio Storico Sardo XIII, 1921, 90-140. I capitoli di Santa
Giusta vennero confermati dal governo viceregio negli anni 1480-83 e 1485-87.
Il 20 settembre 1518 la regina Giovanna riconfermava la piena immunità della
villa da ogni diritto e contribuzione feudale: cfr. V. Angius, Ordine
cronologico delle concessioni feudali delle quali restò memoria, in Casalis, Dizionario geografico, cit., XVIII quater, 216.
[217] V. Amat di San Filippo, Carte di franchigia nella Sardegna aragonese, in Medioevo. Saggi e rassegne, n. 5, 1980,
141-158. Cfr. anche Ortu, Villaggi e poteri, cit., 81, Mattone, Le vigne e le chiusure, cit., 90.
[218] ASC, Regio Demanio-Feudi, b. 55, n. 1.
[219] Il documento è stato editto da R.
Di Tucci, Serramanna e le sue
franchigie del 1405, Cagliari 1947. Di Tucci però per una cattiva lettura
del testo si è sbagliato sulla data dell’atto, rogato dal notaio Giovanni Garau,
che risulta del 1455, cioè di cinquant’anni posteriore. Delle franchigie venne
fatta copia autentica dal notaio Bonifacio Cebrià nel 1545: entrambi sono in
ASC, Atti notarili, tappa di Cagliari, Legati, G. Garau, vol. 337, cc.
120v.-122v.; nei capitoli donna Aldonça stabilì anche una sorta di tariffario
per l’acquisto dei prodotti alimentari e per il trasporto a Cagliari delle
derrate: cfr. C. Ferrante, G. Olla
Repetto, L’alimentazione a
Cagliari nel ‘400, in Gli Archivi per
la storia dell’alimentazione, Atti del convegno, Potenza-Matera, 5-8
settembre 1988, III, Roma 1995, 1498-1490.
[220] Libro de todas las gracias,
concessiones, y capitulos concedidos, y aprobados por los muy illustres
Marqueses Condes y Condessas de Quirra de feliz memoria al Judicado de
Ollastre, villas, lugares y vassallos de aquel…, Caller 1738, 27-38; la
riproduzione anastatica del Libro con
traduzione italiana (non del tutto corretta) è in Studi Ogliastrini IV, 1997; una copia del libro è anche in ASC,
Reale Udienza, Cause civili, n.405. Cfr. nello stesso numero il saggio di G. Doneddu, Feudo e feudatari dell’Ogliastra tra Medioevo e Età Moderna,
XVII-XXXII, con un esauriente quadro storico. Secondo Gian Giacomo Ortu l’atto
attesta il riconoscimento ai villaggi di «una personalità politica e giuridica»
e di «una soggettività impensabile nell’orizzonte morale e mentale della
signoria fondiaria»: Ortu, Villaggio e poteri signorili, cit., 82.
[221] All’atto di concessione sono presenti i probi homines dei villaggi di Tortolì, Girasole, Laconi, Barì,
Gairo, Osini, Ulassai, Tertenia, Strisaili: «eisdem omnibus et aliis in dicto
Iudicatu existentibus gratias infrascriptas, quae a nobis – si legge nell’atto
– requisiverunt et supliciter postularum his benignissime concessimus quarum
quidem gratiarum et omnia infra contenta et expressata tenores et series sic se
habent»: ivi, 27.
[222] Libro de todas, cit.,
20-26. La carta reale non è compresa nell’edizione degli atti parlamentari
curata da A. Boscolo.
[223] Per un inquadramento di questo periodo, cfr., fra gli studi più
recenti, Anatra, Dall’unificazione, cit., 347-364, Ferrante,
Mattone, I privilegi e le
istituzioni municipali, cit., 277-281, ad entrambi si rinvia per ulteriori
referenze bibliografiche.
[224] I Parlamenti di Alfonso il
Magnanimo, cit., 170-190, 191-210.
[225] ASC, AAR, B4, c. 80v.
[226] Oltre il vecchio Di Tucci,
La proprietà fondiaria, cit.,
127-148, e Mattone, Il feudo e la comunità, cit., 356-358,
cfr. il preciso quadro delle fonti in Ortu,
Villaggio e poteri, cit., 231-233; Id., Famiglia, comunità, istituzioni, in Paesi e città della Sardegna, I, I Paesi, a cura di G. Mura e A. Sanna, Cagliari 1998, 11-21; F. Loddo Canepa, Rapporti tra feudatari e vassalli in Sardegna, in Fra il passato e l’avvenire, cit.,
289-290. Cfr. inoltre gli studi di G.
Murgia, Capitoli di grazia e lotta
antibaronale nella Sardegna moderna, in Archivio
sardo del movimento operaio contadino e autonomistico, n. 11-13, 1980,
287-309; Id., Una fonte per lo studio della società feudale
nella Sardegna moderna: i Capitoli di grazia di Villasor, in Annali della Facoltà di Magistero
dell’Università di Cagliari, n.s., V, 1981, 2, 107-145; Id., I capitoli di grazia, in La
società sarda in età spagnola, I, a cura di F. Manconi, Cagliari 1992,
30-37; Id., Comunità e baroni, cit., 69-117.
[227] Editti, pregoni, ed altri
provvedimenti emanati pel Regno di Sardegna, II, Cagliari 1775, tit. XIII,
ord. VII, 81-93. Cfr. inoltre I.
Birocchi, M. Capra, L’istituzione dei Consigli Comunitativi in
Sardegna, in Quaderni sardi di storia,
n. 4, 1983-84, 139-158; A. Mattone,
Istituzioni e riforme nella Sardegna del
Settecento, in Dal trono all’albero
della libertà. Trasformazioni e continuità istituzionali nei territori del
Regno di Sardegna dall’Antico regime all’età rivoluzionaria, Atti del
convegno, Torino 11-13 settembre 1989, I, Roma 1991, 405-411; Ortu, Villaggio e poteri, cit., 209-212; M. Lepori, Dalla Spagna
ai Savoia. Ceti e corona nella Sardegna del Settecento, Roma 2003, 154-178.