N. 3 – Maggio 2004 – In Memoriam – Bussi

 

 

Emilio Bussi

 

L’elemento volgare nella storia del diritto italiano*

 

 

1. – Un tema su cui gli storici del diritto italiano non sono tuttora d’accordo è quello del diritto volgare entro il sistema della storia del diritto italiano.

E non è davvero questione da poco. Poiché si tratta di dover decidere se, tra i fattori che hanno determinato il nascere del nostro diritto si debba pure annoverare quest’altro elemento. E dopo questo problema, diremo così pregiudiziale, un altro, di carattere subordinato, si presenta: quale influenza esso abbia potuto dispiegare.

Non solo, dunque, si tratta di rispondere al quesito del an sit, ma altresì del quantum valeat.

 

 

2. – E’ noto come è sorta la questione.

Il Brunner nel suo studio “Zur Geschichte der römischen und germanischen Urkunden[1], scriveva che:

 

«Già nelle età delle leggi popolari i tedeschi accettarono e fecero propri singoli istituti giuridici romani. Essi però nel far questo attinsero, più che al diritto scritto, a quello della pratica di quel tempo, usato dai provinciali dell’impero. Poiché come accanto alla lingua latina scritta si parlava nelle singole provincie di Occidente il latino volgare, che fu appunto quello adoperato dai Germani per scrivere le loro leggi ed i loro documenti, così si era accolto fra gli stessi provinciali romani un diritto volgare, rispondente più che alla logica giuridica, ai bisogni pratici della vita, presentandosi come uno svolgimento o, se così si vuole, come una degenerazione del diritto romano puro».

 

Il Brunner, cioè, attraverso lo studio dei documenti della parte occidentale dell’Impero decadente, essendo giunto ad avvertire delle pratiche che, pur non derivando dalla giurisprudenza, tuttavia non potevano ricondursi all’opera di fattori estranei, venne nella determinazione di considerare tali pratiche come un complesso di erronee applicazioni della legge o, meglio, un forzato adattamento delle stesse alle esigenze concrete della vita.

E poiché ogni diritto, a detta del Brunner, si doveva ricondurre agli imperatori, così queste deviazioni dovevansi considerare come una modificazione del diritto imperiale, quindi romano. Romane perciò sarebbero state queste modificazioni.

La diffusione delle idee del Brunner fu rapida, ed il favore con cui venne discussa e accolta la sua teoria dimostrò come lo scrittore d’oltre Alpe avesse toccato uno dei punti nevralgici del campo storico-giuridico.

In Italia, dove la dottrina del Brunner venne ricevuta, gli studiosi l’ampliarono e la esagerarono giungendo ad asserire che non solo il diritto romano ebbe una degenerazione popolare, ma non riuscì mai a far cadere in desuetudine i diritti provinciali preesistenti al diritto di Roma.

E così il Pais in “Gli elementi italioti” (1900)[2] afferma, come dato di fatto indiscutibile,che tutti i popoli che vennero soggetti alle aquile romane poterono mantenere usi e costumi loro propri, principi di diritto locale e nazionale, non di rado in lotta col diritto romano ufficiale.

Il Mitteis invece, nella sua celebre e giustamente vantata opera “Reichsrecht und Völksrecht in den östlichen Provinzendes römisches Kaiserreichs”(1901)[3], studiando per le provincie orientali dell’Impero queste deviazioni della pratica dal diritto ufficiale, giunse alla conclusione che le stesse fossero da reputarsi come un complesso di sopravvivenze dell’antico diritto indigeno, non soppresso dinanzi alle leges ed ai mores della patria comune. Scrive anzi, distinguendo le deviazioni studiate dal Brunner da quelle da lui esaminate:

 

«Quello è diritto romano degenerato, mentre questo in genere non è diritto romano: tutti e due possono coesistere sullo stesso territorio e trovarsi sovente l’uno accanto all’altro poiché le divergenze locali del diritto romano a volte erano deviazioni di questo diritto, a volte erano deviazioni di diritto locale.

Non di rado si può verificare che, per una unione di diritto romano e di diritto consuetudinario locale si formino principi giuridici, miscuglio di diritto romano e provinciale. Ché, anzi se non erro, una simile figurazione è molto frequente; giacché mentre è piuttosto raro il caso di incontrare il diritto popolare nella sua purezza, lo si vede spesso in uso in una forma modificata del diritto romano».

 

 

3. – Queste teorie, del Mitteis e del Brunner, sono i due grandi capisaldi della materia di cui ci occupiamo, intorno ai quali si polarizzano – con differenze però l’una dall’altra – le teorie di tutti gli altri scrittori.

Prima di passare all’esame e alla critica delle quali, nonché all’esposizione del nostro punto di vista sull’argomento, fa d’uopo richiamarsi ai principi sicuri delle fonti romane, che purtroppo non vengono spesso richiamate.

E’ da queste, infatti, che occorre partire, in quanto il problema dell’esistenza del diritto volgare italico è in funzione dell’altro di carattere prettamente romanistico: quale sia stata nella legislazione di Roma l’importanza e l’influenza della consuetudine.

E’ diffuso, in proposito l’insegnamento seguito, fra gli altri, dal Girard (Manuel élémentaire du droit romain, p. 55)[4], che nei primi tempi almeno di Roma, l’usus, il mos, la consuetudo sia stato fonte di diritto ugualmente atto a creare un diritto nuovo ed a cancellarne un altro.

L’insegnamento non è però esatto poiché, per quanto ci risulta da un passo del “De oratore” di Cicerone (3,124) e da Festo, la più antica fonte di diritto romano non sono le consuetudini, ma le sentenze ed i provvedimenti dei primi magistrati e dei pontefici.

Da queste sentenze e da questi provvedimenti, ripetuti uniformemente e costantemente, vennero poi estratte le prime norme di diritto per opera dei pontefici che riuscirono così a creare un primo embrionale sistema giuridico.

La consuetudine acquista importanza nell’epoca classica, quando il diritto romano allarga la sua sfera di applicazione in tutta l’Italia ed anche, per quanto parzialmente, nelle province, poiché nuovi rapporti entrano in discussione, specialmente in materie di importanza locale. Allora, la consuetudine acquista importanza come prima non aveva, ed i giuristi si sforzano di trovarle un posto accanto alla legge.

E poiché quello che decide della obbligatorietà di una norma qualsiasi è la volontà del popolo, non il modo col quale questa sua volontà viene manifestata, così sorge la teoria di Giuliano di cui al fr. 32,§1, Dig.1,3:

 

Inveterata consuetudo pro lege non immerito custoditur, et hoc est ius quod dicitur moribus constitutum. nam cum ipsae leges nulla alia ex causa nos teneant, quam quod iudicio populi receptae sunt, merito et ea, quae sine ullo scripto populus probavit, tenebunt omnes: nam quid interest suffragio populus voluntatem suam declaret an rebus ipsis et factis?

 

Per quanto sia stato acutamente osservato che la teoria altisonante di Giuliano, seguita da Paolo, forse non è in relazione con l’importanza della consuetudine dell’epoca classica, purtuttavia va rammentato che Giuliano parla in un’epoca in cui l’imperialismo romano era ancora rispettoso delle autonomie locali. E’ logico pensare che, essendo esso dominato dall’intendimento di rispettare lo svolgimento dei diritti locali, dovesse essere portato a dare grande importanza alle consuetudini, sia di fronte ai veri e propri provinciali, specie nelle materie amministrative, sia di fronte ai cittadini romani di origine provinciale e residenti nelle province. Non vi era nessun plausibile motivo di combattere le consuetudini provinciali quando non avessero urtato contro la coscienza giuridica romana o, come noi diremmo, contro l’ordine pubblico romano.

La questione si fa grave dopo due secoli, e precisamente quando Antonino Caracalla estende nel 212 a tutti i sudditi la cittadinanza romana e con la cittadinanza il diritto altresì.

La teoria di Giuliano e di Paolo, allora, diventava pericolosa poiché apriva l’adito ad una reazione dei molteplici e svariati diritti provinciali contro il diritto romano, disfacendo quella unità che Caracalla aveva creato.

Gli Imperatori, perciò, tentano di negare ogni valore alla teoria stessa, e si giunge così alla famosa costituzione di Costantino del 319:

 

Const. A. ad Proculum. Consuetudinis ususque longaevi non vilis auctoritas est, verum non usque adeo sui valitura momento, ut aut rationem vincat aut legem (Cod. 8, 52 [53]).

 

Dobbiamo insistere su questa legge che è di capitale importanza anche da un punto di vista dogmatico.

Il Mitteis, giustamente, vi ha visto uno degli episodi più salienti della lotta che, fatalmente, si ingaggiò fra i diritti nazionali delle province e il diritto romano.

Ma mentre il Mitteis considera la costituzione di Costantino come rivolta a combattere le consuetudini locali, risorgenti contro il diritto romano che le aveva abrogate, lo Scialoja[5] la interpreta come rivolta in generale contro quelle consuetudini che, abrogate da una legge, perdurino in onta ad essa tentando di sopraffarla nuovamente.

L’interpretazione dello Scialoja, ove fosse accettata, sarebbe di un’importanza eccezionale, poiché tutte le consuetudini sarebbero rimaste in vigore eccetto quelle che non fossero state abolite espressamente da una legge particolare.

Ma a noi pare che la costituzione di Costantino dica di più.

L’autorità della consuetudine e del lungo uso, dice in essa l’Imperatore, è certo grande (e così facendo rende un platonico omaggio alla teoria di Giuliano) ma non può tuttavia essere considerata così grande da superare la ratio juris o la legge, vale a dire i principi fondamentali dell’ordinamento etico-giuridico e le disposizioni del diritto imperiale. In altre parole: la consuetudine potrà dunque ancora creare nuovo diritto locale, non però contro ma solo oltre il diritto romano imperiale e i supremi principi etici sui quali esso riposa.

È in diritto giustinianeo che le cose si complicano. Poiché, mentre nel Digesto vengono accolti i frammenti di Giuliano e di Paolo, nel Codice viene inserita la costituzione di Costantino.

E non è a dire che la ricezione dei passi relativi alla teoria classica sia dovuta a svista dei compilatori.

A questi ultimi infatti, l’importanza dei passi stessi non può essere sfuggita, poiché come bene ha rilevato il Puchta, “Das Gewonheitsrecht” (2voll., Erlangen, 1828-1837, p. 80) vi ha in fine al passo di Giuliano quelle parole “suffragio legislatoris” che rivelano chiaramente la mano dei compilatori.

In diritto giustinianeo, pertanto, il quesito si risolve col trovare la formula con cui l’Imperatore intendeva conciliare i termini legge e consuetudine.

Testi diretti non abbiamo che possano aiutarci, e perciò è giuocoforza ricorrere ad argomenti di carattere generale.

Poiché Giustiniano espressamente dichiara di volere un ordinamento basato sulla legge ( l.13 Cod.7, 45), poiché dichiara altresì di avere voluto unificare il diritto, e di avocare a sé la funzione di sciogliere i dubbi che dovevano sorgere nell’opera di interpretazione, non è esagerato ritenere che alla consuetudine egli volesse riserbato un compito accessorio, il compito cioè di svolgere meglio la potenzialità e di colmare le lacune della vigente legislazione.

 

 

4. – Un compito dunque, lasciato alla consuetudine nel diritto giustinianeo, esiste, se pure è ristretto.

In altre parole: i diritti o le consuetudini locali non vennero mai negati, sia nella legislazione classica e postclassica, sia nella legislazione giustinianea. Si tratta ora di apprezzare e valutare ai fini della storia del diritto italiano questo nostro accertamento.

A questo fine occorre però accertare altresì ove esistevano tali diritti o tali consuetudini.

Bisogna richiamare a questo punto quanto sopra esponemmo circa le ricerche del Mitteis e del Brunner. Poiché la differenza fra i luoghi sui quali essi hanno eseguito le loro ricerche offre la chiave del problema.

Mentre il Mitteis ha rivolto le proprie ricerche soprattutto nei riguardi dell’Oriente, il Brunner ha fatto oggetto delle proprie indagini le regioni occidentali dell’Impero,

Orbene, laddove in Oriente anche prima della conquista romana eranvi civiltà antiche e fiorenti, città popolose e attive, commerci floridi, e con tutto ciò ordinamenti giuridici costituiti e viventi forse da millenni, in Occidente, avanti la conquista romana, nessun ordinamento giuridico esisteva, mentre scarse erano le popolazioni, con poche città, ove si faccia eccezione per le colonie greche e per l’Etruria. Ma queste non contano ai nostri fini, perché le colonie greche erano evidentemente costituite da popolazioni che seguivano principi giuridici greci, mentre dell’ordinamento giuridico etrusco nulla affatto ci è permesso di dire.

Ne consegue, secondo noi, che allorquando si parla di un diritto volgare italico quale elemento fondamentale del diritto italiano, si deve intanto escludere che lo stesso sia costituito, in parte almeno, dall’antico diritto dei popoli italici.

In altre parole noi dobbiamo aderire alla teoria già esposta dal Brandileone[6] il quale, nelle sue lezioni tenute all’Università di Roma, ritiene appunto che la teoria del Mitteis sia perfettamente giusta riguardo all’Oriente, che si presenta in condizioni tutte particolari di fronte all’invadente romanesimo, ma che per l’Occidente le cose debbano essere andate diversamente, poiché le armi romane, quando vinsero i nemici, trovarono i popoli in uno stato di sviluppo spesso primitivo.

 

            «Se Celti e Iberi si lasciarono romanizzare come nella lingua così nel resto della loro vita l’Italia, culla e centro del Romanesimo, dovette assorbire il diritto romano non solo assai più presto dei Paesi di fuori, ma anche più completamente e facilmente per le esistenti affinità tecniche».

 

Col Brandileone, quindi, noi riteniamo che il particolarismo italiano dovette sparire senza quasi fare resistenza e, quando più tardi la potenza di Roma declinò di fronte ai Barbari, non poterono i diritti locali italici risollevarsi, poiché erano già da un pezzo scomparsi.

E’ vero che Giuliano e Paolo vogliono l’osservanza e il rispetto della consuetudine, ma essi appartengono ad un’epoca (II secolo a. C.) in cui già tutta l’Italia era da un pezzo sottoposta al dominio romano, di guisa che essi non possono che riferirsi alle province extra italiane e precisamente all’Africa (di cui Giuliano era originario) ed all’Oriente.

E’ tanto vero quanto noi affermiamo che i passi delle fonti che, mediante ragionamento a contrario, ci permettono di vedere questa lotta fra diritto romano e diritti locali, si riferiscono tutti ai paesi dell’Oriente.

Così è, per esempio, della legge 3 Cod. 7, 20 in tema di collazione di beni avuti dai figli emancipati.

Così è, come ha dimostrato il Mitteis (al cap. 15 [Die Fiscalmulten], pag. 528, della sua opera), per le multe che le parti solevano apporre a favore del fisco insieme con la penale a vantaggio del creditore, od anche senza di essa, pel caso di inadempimento o di evizione. L’uso contrattuale di stabilire che il contraente inadempiente paghi una somma al fisco, uso creatosi per sollecitare l’aiuto dello Stato in caso di inadempienza, e combattuto dalla legislazione imperiale, si rinviene nei paesi greci ed egiziani, e si riproduce poi, già nel secolo VII, nei documenti italiani.

Così è pel diritto di cui alla l. 3 Cod. 2, 17:

 

Abhorret a saeculo nostro sub praetextu debiti procurationem contra privatos fiscum praestare.

 

Così è per gli altri due casi non intravisti dal Mitteis in tema di nomina di tutore personae incertae di cui alla l. 1, Cod. 6, 18, ed al fr. 61 D. 28,5 in tema di diseredazione della figlia che avrebbe dovuto ritenersi paga della dote.

Noi non possiamo così aderire al Besta, pel quale non vi è ragione perché il concetto svolto dal Mitteis riguardo all’Oriente non possa applicarsi all’Occidente, ivi compresa l’Italia[7].

La cittadinanza romana era ambita dagli italici: e diventar cittadino romano significava abbandonare il diritto proprio (dato ma non concesso che esistesse) per seguire quello romano.

Insomma, secondo noi, mentre in Oriente è ammissibile una lotta tra diritti consuetudinari e diritto romano, lotta fattasi palese dalle deviazioni cui già accennammo, non v’ha dubbio che le deviazioni che si avvertono in Occidente siano dovute non già al riaffiorare degli antichi diritti italici, ma al processo di involuzione del diritto romano o, per meglio dire, alle esigenze della vita pratica.

Se noi vediamo che queste deviazioni si spingono tutte alla semplicità, per esser più esatti alla grossolanità delle concezioni giuridiche; se noi vediamo che in esse minore è l’ossequio al rigorismo, ciò è dovuto al fatto che al cadere dell’Impero i rapporti sociali si erano semplificati ed i rapporti giuridici ridotti a quelli più elementari.

Gli stessi costumi erano tornati primitivi, tanto che, come noi possiamo desumere dal Codice Teodosiano, si era diffusa la moda tra i romani di vestire alla foggia dei barbari, con pelli ferine, con l’uso di brache etc. Cose tutte che le leggi reprimono e puniscono[8].

In molti casi di deviazioni, anzi, noi possiamo affermare che le stesse non siano altro che il prodotto di una spontanea evoluzione del diritto romano od una conseguenza delle disposizioni di questo.

Lo Schupfer[9], per esempio, fa il caso del titolo de donationibus della lex romana Burgundionum e sostiene che il principio ivi sancito che le donazioni di monili[10], vesti, metalli, animali ed altre cose fungibili fossero valide senza bisogno di insinuazione, sia un frutto del diritto volgare[11].

Ma qui lo Schupfer dimentica che già dal 420 Teodosio e Valentiniano avevano praticamente dichiarato superfluo l’uso della scrittura nelle donazioni (l. 29, C. 28.54) e che Teodosio aveva esentato dall’obbligo dell’insinuazione le donazioni sponsalizie non superiori ai 200 solidi.

Il diritto volgare italico è perciò, secondo noi, quello che si venne formando sul tardo impero nel secolo antecedente la caduta di Roma ed immediatamente dopo di esso.

Esso è costituito da consuetudini che germogliarono spontaneamente sia perché, essendo andato rotto il possente ordinamento giudiziario romano, l’applicazione del diritto di Roma era venuta meno, sia perchè in quei tempi fortunosi l’autorità della legge era malferma ed incerti si era sulla sua esistenza.

Come esempi pertanto di questo diritto volgare possiamo ricordare:

 

A.   La tutela legittima della madre che la lex romana Wisigothorum e la lex romana Burgundionum antepongono a tutte. Le due leggi dei Burgundi e la legge visigota consacrano anche la tutela legittima della madre che non fosse passata a nuove nozze, anteponendola a tutti; ma la legge romana non andava tanto avanti: essa accordava alla madre il diritto di chiedere la tutela e ottenerla dal giudice, ma non la chiamava senz’altro ad assumerla. Il che è ben diverso. Pensiamo che si tratti di un uso estraneo alla legge ufficiale, di cui i codici barbarici rivelano l’esistenza.

 

B.    La defensa, cioè l’uso di invocare il nome del sovrano contro le minacce in danno delle persone o degli averi, è un istituto del diritto volgare romano, il quale non mancherà di essere accolto dalla pratica medievale specie nella bassa Italia e anche altrove.

 

C.   Altrettanto è da dirsi della tradizione che nel M.E. si faceva con la tradizione della carta, scritta o non scritta. Si trattava di un simbolo, e la sua funzione, come simbolo, la compiva egualmente: se non fosse stata scritta prima, si sarebbe scritta dopo, e qualche documento la presenta addirittura come pratica romana. Lo Schupfer ricorda un documento del 979: Lex praecipit romana ut quicumque rem suam in alicumque transfundere voluerit, potestatem per paginam testamenti eam infundat.

La stessa formula post traditam complevi et dedi che ricorre comunemente nei documenti sia longobardi che franchi non può dirsi germanica: gli uni e gli altri non fanno che riprodurne una di cui si cercherebbe invano il riscontro nel diritto ufficiale.

 

D.   Anche la solemnis introductio locorum che seguiva la tradizione dell’immobile e la compiva appartiene alla pratica romana e può trovarsi già in taluni documenti ravennati degli anni 489 e 541, mentre altri dicono addirittura che si faceva secundum legem romanam.

 

E.     Un altro esempio. La legge romana dei Burgundi, trattando della vendita, contempla il caso che il venditore avesse già fatta la tradizione corporale della cosa al compratore e questi, dopo alcuni mesi o giorni che la possedeva, l’avesse tornata al venditore a titolo precario. La legge continua: documenti professio firmitatem precariae possessionis obtineat. Bastava che il venditore se ne fosse fatto rilasciare un documento dal compratore perché la precaria potesse aversi per ferma. Anche qui abbiamo a che fare con una pratica del diritto volgare e con una pratica importante che doveva trascinare a lungo la sua esistenza nel Medio Evo. In fondo si trattava del precarium, una concessione dipendente affatto dal beneplacito del concedente anche se fatta a termine; ma nella pratica si era convertita già, mercè la scrittura, in un rapporto che, se non proprio stabile, dava diritto al precarista di godere il fondo senza che il concedente lo potesse riprendere a capriccio prima che il termine fosse trascorso.

 

Su questo diritto volgare, quanto influsso abbiano avuto le dottrine patristiche non è dato ancora di vedere, ma per certo fu ingente. Esso comunque si perpetua durante il Medio Evo, e darà origine alle Consuetudini e agli Statuti, durante l’autonomia comunale.

E’ questo sopravvivere, secondo noi, che dà origine alla opinione del Solmi[12], pel quale il diritto volgare sarebbe una creazione del Medio evo: un diritto nuovo la cui creazione si svolge viva e feconda soprattutto ai tempi della autonomia comunale, che trova espressione nella scienza giuridica italiana intesa a trasformare il diritto delle fonti romane nel diritto nuovo, si riversa nel diritto comune ed intesse il fondamento della legislazione e delle codificazioni dei giorni nostri. Secondo Solmi, però, il diritto volgare non sarebbe più da considerare come una eredità del mondo antico, ma consterebbe, come dice il Besta, di capitali di nuova formazione.

Il pensiero del Solmi si avvicina a quello di Ciccaglione, che parla di un allargamento del diritto volgare al cadere dell’impero e chiama addirittura periodo del diritto volgare tutto quello che si estende da quella caduta al sec. XII. Al diritto volgare, però, il Ciccaglione contrappone prudentemente il diritto scientifico e non coinvolge con esso la giurisprudenza romanistica. Così concepita, però, la teoria del Solmi è eccessiva, poiché vi sono istituti che paiono elaborati nel diritto comune, ma che pure trovano addentellati per non dire origine nel diritto volgare italico. Per esempio, la formula embrionale dei titoli al portatore composta con la clausola di esazione: tibi aut cui te hanc cartulam dederis ad exigendum ricorre già nel secolo IX.

Nel diritto comune, poi, vedremo trattato il titolo al portatore dalla scuola olandese e napoletana.

Quella diede al pensiero giuridico una base romana e fu fedele al concetto di delegazione ed ammise solo l’azione diretta del possessore. La seconda ammise un numero indeterminato di girate, e riconobbe il possesso della fede come unico modo di disporre del credito.

Non c’è dubbio: l’ interposizione del giuramento accenna già ad una pratica romana, ma probabilmente anche il resto è romano; così, sebbene non sia detto, la clausola, che autorizza il creditore a dare la cautio a chi vuole per escutere il debitore, è già una vera e propria clausola ad exigendum.

Sicchè, in fondo, si sarebbe verificato col diritto quello stesso fenomeno che con la lingua latina, la quale aveva pure il suo strato volgare, naturalmente rozzo, ma a cui era riservato l’avvenire.

Insieme si sono conservate molte pratiche di cui si cercherebbe invano un accenno qualsiasi nelle leggi, ma che nondimeno hanno l’impronta romana. E’ quello che si suole chiamare il diritto volgare romano, che nessuna mente di legislatore aveva ancora disciplinato, ma che i bisogni pratici avevano fatto sbocciare spontaneamente e vivere più che altro nella coscienza del popolo, completando, ed anche modificando, il diritto ufficiale. E’ un fenomeno che si rivela in molte parti del diritto e che meriterebbe uno studio paziente, che non si è ancora fatto, con la scorta di documenti romani ed anche barbarici che lo rispecchino[13].

 

 

 

 

 



 

* Il 13 aprile 2004 è caduto il centenario della nascita del prof. Emilio Bussi. Lo si ricorda pubblicando la sua Lezione per la Libera Docenza, tenuta alle ore 11-12 del mattino del 13 dicembre 1933 nella Università di Roma e tuttora inedita. Il testo, un manoscritto sul quale visibilmente l’a. non è più tornato, è conservato fra le carte dell’archivio privato dello stesso, scomparso il 14 novembre 1997. La trascrizione è dovuta alla figlia dello stesso, Luisa Bussi. Alla quale sono dovute le note bibliografiche contrassegnate come N.d.e.

 

[1] H. Brunner, Zur Rechtsgeschichte der römischen und germanischen Urkunden. - Berlin, Weidmann 1880 (N.d.e.)

 

[2] Gli elementi italioti, sannitici, e campani nella più antica civiltà romana, in Memorie dell'Acc. Arch., Lett. Belle Arti Napoli XXI (1900) (N.d.e.).

 

[3] L. Mitteis, Reichsrecht und Volksrecht in den östlichen Provinzen des römischen Kaiserreichs. Mit Beitr. zur Kenntnis des griechischen Rechts und der spät-römischen Rechtsentwicklung,-Leipzig, Teubner 1891 (N.d.e).

 

[4] Dell’opera esiste una versione italiana sulla quarta edizione francese, con aggiunte dell'Autore, e con postille bibliografiche di Carlo Longo, P.F. Girard, Manuale elementare di diritto romano, Milano, Società Editrice Libraria, 1909 (N.d.e.).

 

[5] Sulla const. 2 Cod. quae sit longa consuetudo e la conciliazione col fr. 32§1 Dig. de legibus: difesa di un’antica opinione, in Archivio giuridico, 1880, 420 ss. (N.d.e).

 

[6] Scritti di storia del diritto privato italiano, vol. I, Bologna 1931, 21 ss. (N.d.e)

 

[7] La persistenza del diritto volgare italico nel Medio Evo, in Rivista di legislazione comparata, III (1905), 5 ss. (N.d.e.)

 

[8] CTh. 14.10.2 Impp. Arcadius et Honorius AA. ad populum. Usum tzangarum adque bracarum intra urbem venerabilem nemini liceat usurpare... (397 apr. 7?); CTh. 14.10.3 Idem aa. Flaviano praefecto urbi. intra urbem romam nemo vel bracis vel tzangis utatur... (399 iun. 6); CTh. 14.10.4 Impp. Honorius et Theodosius aa. Probiano praefecto urbi. maiores crines, indumenta pellium etiam in servis intra urbem sacratissimam praecipimus inhiberi, nec quisquam posthac impune hunc habitum poterit usurpare. (416 dec. 12).

 

[9] Schupfer, Manuale di storia del diritto italiano, Torino 1908, 34.

 

[10] Le donne romane non uscivano se non precedute e seguite da torme di schiavi (Ammiano Marcellino, lib. XIV, cap. 6) ed avevano addosso, al dire di Seneca, De vita beata, cap. XVII, il patrimonio di una ricca famiglia (Quare uxor tua locupletes domus censum auribus gerit?).

 

[11] R. Taubenschlag, Le droit local dans les constitutions prédiocletianiens, in Mélanges de droit Romain dédiées a Georges Cornil, Paris 1926, vol. II, 499 ss.; a pag. 512 scrive: «Les donations du droit local forment un chapitre important des constitutions. Dans deux endroits (C. 8, 55 (56) ), 2 e 8, 55 (56), 3) nous avons des preuves qu’elle peut être révoquée sans aucune restriction [cfr. Riccobono Lav. 2 ss., 34,193 e Taubenschlag Privatrecht in Bulletin de l’Académie Polonaise des Sciences et des Lettres 1919-1920, pag. 229]. Il est superflu de dire que le droit officiel n’admet pas cette idée».

 

[12] Storia del diritto italiano, Milano 1930, 2 ss. (N.d.e)

 

[13] Per accennare a qualche esempio, crediamo che la disposizione dell’editto di Teodorico che permette di vendere le terre senza i coloni che vi erano addetti, traesse la sua origine appunto da questo diritto volgare.

Ed anche nell’Alvernia si incontra la medesima deviazione del Codice teodosiano al tempo di Sidonio Apollinare.

Lo stesso dicasi della palmata, una forma che ha pure la sua importanza nel diritto del Medio Evo e la conserva in parte anche oggigiorno: ma d’onde è venuta? Certamente le leggi romane non ne parlano: d’altr’onde essa era nota agli antichi, ai Persiani come ai Greci, e si trova del pari negli usi popolari dei Romani. Né voglionsi trasandare i titoli all’ordine e al portatore. I secoli di mezzo li conoscono sotto varie forme e parrebbe quasi che fossero in opposizione manifesta al genio dei Romani: ma non è vero. Una formula di quei titoli trova appunto il suo addentellato in una pratica romana: non diciamo del diritto ufficiale, ma nel diritto volgare. Tali erano i titoli all’ordine con la clausola di esazione (tibi aut cui tu hanc cartulam dederis ad exigendum) che ricorre già nel secolo VI.

Una formula visigotica che appare modellata su qualche tipo romano si riferisce ad un mutuo di denaro che il debitore promette di restituire entro un dato tempo: intanto darà al mutuante questo o quello in beneficium solidorum ipsorum. Il debitore continua: se non lo farò, e lascerò trascorrere il termine di questa mia cautio dico con giuramento quia liceat tibi cautionem cui tu ipse volueris tradere et adibito mihi excutere supradicta pecunia una cum beneficio suo duplicata cogar exsolvere.