N. 3 – Maggio 2004 – In Memoriam – Bussi
L’elemento volgare
nella storia del diritto italiano*
1. – Un
tema su cui gli storici del diritto italiano non sono tuttora d’accordo è
quello del diritto volgare entro il sistema della storia del diritto italiano.
E non è
davvero questione da poco. Poiché si tratta di dover decidere se, tra i fattori
che hanno determinato il nascere del nostro diritto si debba pure annoverare
quest’altro elemento. E dopo questo problema, diremo così pregiudiziale, un
altro, di carattere subordinato, si presenta: quale influenza esso abbia potuto
dispiegare.
Non solo,
dunque, si tratta di rispondere al quesito del an sit, ma altresì del quantum
valeat.
2. – E’ noto come è sorta la questione.
Il Brunner nel suo studio “Zur Geschichte der römischen
und germanischen Urkunden“[1],
scriveva che:
«Già nelle età delle leggi
popolari i tedeschi accettarono e fecero propri singoli istituti giuridici
romani. Essi però nel far questo attinsero, più che al diritto scritto, a
quello della pratica di quel tempo, usato dai provinciali dell’impero. Poiché
come accanto alla lingua latina scritta si parlava nelle singole provincie di
Occidente il latino volgare, che fu appunto quello adoperato dai Germani per
scrivere le loro leggi ed i loro documenti, così si era accolto fra gli stessi
provinciali romani un diritto volgare, rispondente più che alla logica
giuridica, ai bisogni pratici della vita, presentandosi come uno svolgimento o,
se così si vuole, come una degenerazione del diritto romano puro».
Il Brunner, cioè, attraverso lo studio dei documenti della parte
occidentale dell’Impero decadente, essendo giunto ad avvertire delle pratiche
che, pur non derivando dalla giurisprudenza, tuttavia non potevano ricondursi
all’opera di fattori estranei, venne nella determinazione di considerare tali
pratiche come un complesso di erronee applicazioni della legge o, meglio, un
forzato adattamento delle stesse alle esigenze concrete della vita.
E poiché ogni diritto, a detta del Brunner, si doveva ricondurre
agli imperatori, così queste deviazioni dovevansi considerare come una
modificazione del diritto imperiale, quindi romano. Romane perciò sarebbero
state queste modificazioni.
La diffusione delle idee del Brunner fu rapida, ed il favore con
cui venne discussa e accolta la sua teoria dimostrò come lo scrittore d’oltre
Alpe avesse toccato uno dei punti nevralgici del campo storico-giuridico.
In Italia, dove la dottrina del Brunner venne ricevuta, gli
studiosi l’ampliarono e la esagerarono giungendo ad asserire che non solo il
diritto romano ebbe una degenerazione popolare, ma non riuscì mai a far cadere
in desuetudine i diritti provinciali preesistenti al diritto di Roma.
E così il Pais in “Gli elementi italioti” (1900)[2]
afferma, come dato di fatto indiscutibile,che tutti i popoli che vennero
soggetti alle aquile romane poterono mantenere usi e costumi loro propri,
principi di diritto locale e nazionale, non di rado in lotta col diritto romano
ufficiale.
Il Mitteis invece, nella sua celebre e giustamente vantata opera “Reichsrecht
und Völksrecht in den östlichen Provinzendes römisches Kaiserreichs”(1901)[3],
studiando per le provincie orientali dell’Impero queste deviazioni della
pratica dal diritto ufficiale, giunse alla conclusione che le stesse fossero da
reputarsi come un complesso di sopravvivenze dell’antico diritto indigeno, non
soppresso dinanzi alle leges ed ai mores della patria comune.
Scrive anzi, distinguendo le deviazioni studiate dal Brunner da quelle da lui
esaminate:
«Quello
è diritto romano degenerato, mentre questo in genere non è diritto romano:
tutti e due possono coesistere sullo stesso territorio e trovarsi sovente l’uno
accanto all’altro poiché le divergenze locali del diritto romano a volte erano
deviazioni di questo diritto, a volte erano deviazioni di diritto locale.
Non
di rado si può verificare che, per una unione di diritto romano e di diritto
consuetudinario locale si formino principi giuridici, miscuglio di diritto
romano e provinciale. Ché, anzi se non erro, una simile figurazione è molto
frequente; giacché mentre è piuttosto raro il caso di incontrare il diritto
popolare nella sua purezza, lo si vede spesso in uso in una forma modificata
del diritto romano».
3. – Queste teorie, del Mitteis e del Brunner, sono i due grandi
capisaldi della materia di cui ci occupiamo, intorno ai quali si polarizzano –
con differenze però l’una dall’altra – le teorie di tutti gli altri scrittori.
Prima di passare all’esame e alla critica delle quali, nonché
all’esposizione del nostro punto di vista sull’argomento, fa d’uopo richiamarsi
ai principi sicuri delle fonti romane, che purtroppo non vengono spesso
richiamate.
E’ da queste, infatti, che occorre partire, in quanto il problema
dell’esistenza del diritto volgare italico è in funzione dell’altro di
carattere prettamente romanistico: quale sia stata nella legislazione di
Roma l’importanza e l’influenza della consuetudine.
E’ diffuso, in proposito l’insegnamento seguito, fra gli altri, dal
Girard (Manuel élémentaire du droit romain, p. 55)[4], che
nei primi tempi almeno di Roma, l’usus, il mos, la consuetudo
sia stato fonte di diritto ugualmente atto a creare un diritto nuovo ed a
cancellarne un altro.
L’insegnamento non è però esatto poiché, per quanto ci risulta da
un passo del “De oratore” di Cicerone (3,124) e da Festo, la più antica
fonte di diritto romano non sono le consuetudini, ma le sentenze ed i
provvedimenti dei primi magistrati e dei pontefici.
Da queste sentenze e da questi provvedimenti, ripetuti
uniformemente e costantemente, vennero poi estratte le prime norme di diritto
per opera dei pontefici che riuscirono così a creare un primo embrionale
sistema giuridico.
La consuetudine acquista importanza nell’epoca classica, quando il
diritto romano allarga la sua sfera di applicazione in tutta l’Italia ed anche,
per quanto parzialmente, nelle province, poiché nuovi rapporti entrano in
discussione, specialmente in materie di importanza locale. Allora, la
consuetudine acquista importanza come prima non aveva, ed i giuristi si
sforzano di trovarle un posto accanto alla legge.
E poiché quello che decide della obbligatorietà di una norma
qualsiasi è la volontà del popolo, non il modo col quale questa sua volontà
viene manifestata, così sorge la teoria di Giuliano di cui al fr. 32,§1,
Dig.1,3:
Inveterata consuetudo pro lege non
immerito custoditur, et hoc est ius quod dicitur moribus constitutum. nam cum
ipsae leges nulla alia ex causa nos teneant, quam quod iudicio populi receptae
sunt, merito et ea, quae sine ullo scripto populus probavit, tenebunt omnes:
nam quid interest suffragio populus voluntatem suam declaret an rebus ipsis et
factis?
Per quanto sia stato acutamente osservato che la teoria altisonante
di Giuliano, seguita da Paolo, forse non è in relazione con l’importanza della
consuetudine dell’epoca classica, purtuttavia va rammentato che Giuliano parla
in un’epoca in cui l’imperialismo romano era ancora rispettoso delle autonomie
locali. E’ logico pensare che, essendo esso dominato dall’intendimento di
rispettare lo svolgimento dei diritti locali, dovesse essere portato a dare
grande importanza alle consuetudini, sia di fronte ai veri e propri
provinciali, specie nelle materie amministrative, sia di fronte ai cittadini
romani di origine provinciale e residenti nelle province. Non vi era nessun
plausibile motivo di combattere le consuetudini provinciali quando non avessero
urtato contro la coscienza giuridica romana o, come noi diremmo, contro l’ordine
pubblico romano.
La questione si fa grave dopo due secoli, e precisamente quando
Antonino Caracalla estende nel 212 a tutti i sudditi la cittadinanza romana e
con la cittadinanza il diritto altresì.
La teoria di Giuliano e di Paolo, allora, diventava pericolosa
poiché apriva l’adito ad una reazione dei molteplici e svariati diritti
provinciali contro il diritto romano, disfacendo quella unità che Caracalla
aveva creato.
Gli Imperatori, perciò, tentano di negare ogni valore alla teoria
stessa, e si giunge così alla famosa costituzione di Costantino del 319:
Const. A. ad Proculum. Consuetudinis ususque longaevi non vilis
auctoritas est, verum non usque adeo sui valitura momento, ut aut rationem
vincat aut legem (Cod. 8, 52 [53]).
Dobbiamo insistere su questa
legge che è di capitale importanza anche da un punto di vista dogmatico.
Il Mitteis, giustamente, vi ha
visto uno degli episodi più salienti della lotta che, fatalmente, si ingaggiò
fra i diritti nazionali delle province e il diritto romano.
Ma mentre il Mitteis considera
la costituzione di Costantino come rivolta a combattere le consuetudini locali,
risorgenti contro il diritto romano che le aveva abrogate, lo Scialoja[5]
la interpreta come rivolta in generale contro quelle consuetudini che, abrogate
da una legge, perdurino in onta ad essa tentando di sopraffarla nuovamente.
L’interpretazione dello
Scialoja, ove fosse accettata, sarebbe di un’importanza eccezionale, poiché tutte
le consuetudini sarebbero rimaste in vigore eccetto quelle che non fossero state
abolite espressamente da una legge particolare.
Ma a noi pare che la
costituzione di Costantino dica di più.
L’autorità della consuetudine
e del lungo uso, dice in essa l’Imperatore, è certo grande (e così facendo
rende un platonico omaggio alla teoria di Giuliano) ma non può tuttavia essere
considerata così grande da superare la ratio juris o la legge, vale
a dire i principi fondamentali dell’ordinamento etico-giuridico e le
disposizioni del diritto imperiale. In altre parole: la consuetudine potrà dunque
ancora creare nuovo diritto locale, non però contro ma solo oltre
il diritto romano imperiale e i supremi principi etici sui quali esso riposa.
È in diritto giustinianeo che
le cose si complicano. Poiché, mentre nel Digesto vengono accolti i frammenti
di Giuliano e di Paolo, nel Codice viene inserita la costituzione di
Costantino.
E non è a dire che la
ricezione dei passi relativi alla teoria classica sia dovuta a svista dei
compilatori.
A questi ultimi infatti,
l’importanza dei passi stessi non può essere sfuggita, poiché come bene ha
rilevato il Puchta, “Das Gewonheitsrecht” (2voll., Erlangen, 1828-1837,
p. 80) vi ha in fine al passo di Giuliano quelle parole “suffragio
legislatoris” che rivelano chiaramente la mano dei compilatori.
In diritto giustinianeo,
pertanto, il quesito si risolve col trovare la formula con cui l’Imperatore
intendeva conciliare i termini legge e consuetudine.
Testi diretti non abbiamo che
possano aiutarci, e perciò è giuocoforza ricorrere ad argomenti di carattere
generale.
Poiché Giustiniano
espressamente dichiara di volere un ordinamento basato sulla legge ( l.13
Cod.7, 45), poiché dichiara altresì di avere voluto unificare il diritto, e di
avocare a sé la funzione di sciogliere i dubbi che dovevano sorgere nell’opera
di interpretazione, non è esagerato ritenere che alla consuetudine egli volesse
riserbato un compito accessorio, il compito cioè di svolgere meglio la
potenzialità e di colmare le lacune della vigente legislazione.
4. –
Un compito dunque, lasciato alla consuetudine nel diritto giustinianeo, esiste,
se pure è ristretto.
In altre parole: i diritti
o le consuetudini locali non vennero mai negati, sia nella
legislazione classica e postclassica, sia nella legislazione giustinianea. Si
tratta ora di apprezzare e valutare ai fini della storia del diritto italiano
questo nostro accertamento.
A questo fine occorre però
accertare altresì ove esistevano tali diritti o tali consuetudini.
Bisogna richiamare a questo
punto quanto sopra esponemmo circa le ricerche del Mitteis e del Brunner.
Poiché la differenza fra i luoghi sui quali essi hanno eseguito le loro
ricerche offre la chiave del problema.
Mentre il Mitteis ha rivolto
le proprie ricerche soprattutto nei riguardi dell’Oriente, il Brunner ha fatto
oggetto delle proprie indagini le regioni occidentali dell’Impero,
Orbene, laddove in Oriente
anche prima della conquista romana eranvi civiltà antiche e fiorenti, città
popolose e attive, commerci floridi, e con tutto ciò ordinamenti giuridici
costituiti e viventi forse da millenni, in Occidente, avanti la conquista
romana, nessun ordinamento giuridico esisteva, mentre scarse erano le
popolazioni, con poche città, ove si faccia eccezione per le colonie greche e
per l’Etruria. Ma queste non contano ai nostri fini, perché le colonie greche
erano evidentemente costituite da popolazioni che seguivano principi giuridici
greci, mentre dell’ordinamento giuridico etrusco nulla affatto ci è permesso di
dire.
Ne consegue, secondo noi, che
allorquando si parla di un diritto volgare italico quale elemento fondamentale
del diritto italiano, si deve intanto escludere che lo stesso sia costituito,
in parte almeno, dall’antico diritto dei popoli italici.
In altre parole noi dobbiamo
aderire alla teoria già esposta dal Brandileone[6] il
quale, nelle sue lezioni tenute all’Università di Roma, ritiene appunto che la
teoria del Mitteis sia perfettamente giusta riguardo all’Oriente, che si
presenta in condizioni tutte particolari di fronte all’invadente romanesimo, ma
che per l’Occidente le cose debbano essere andate diversamente, poiché le armi
romane, quando vinsero i nemici, trovarono i popoli in uno stato di sviluppo
spesso primitivo.
«Se
Celti e Iberi si lasciarono romanizzare come nella lingua così nel resto della
loro vita l’Italia, culla e centro del Romanesimo, dovette assorbire il diritto
romano non solo assai più presto dei Paesi di fuori, ma anche più completamente
e facilmente per le esistenti affinità tecniche».
Col
Brandileone, quindi, noi riteniamo che il particolarismo italiano dovette
sparire senza quasi fare resistenza e, quando più tardi la potenza di Roma
declinò di fronte ai Barbari, non poterono i diritti locali italici
risollevarsi, poiché erano già da un pezzo scomparsi.
E’ vero che Giuliano e Paolo vogliono l’osservanza e il rispetto
della consuetudine, ma essi appartengono ad un’epoca (II secolo a. C.) in cui
già tutta l’Italia era da un pezzo sottoposta al dominio romano, di guisa che
essi non possono che riferirsi alle province extra italiane e precisamente
all’Africa (di cui Giuliano era originario) ed all’Oriente.
E’ tanto vero quanto noi affermiamo che i passi delle fonti che,
mediante ragionamento a contrario, ci permettono di vedere questa lotta
fra diritto romano e diritti locali, si riferiscono tutti ai paesi dell’Oriente.
Così è, per esempio, della legge 3 Cod. 7, 20 in tema di collazione
di beni avuti dai figli emancipati.
Così è, come ha dimostrato il Mitteis (al cap. 15 [Die Fiscalmulten], pag. 528, della sua
opera), per le multe che le parti solevano apporre a favore del fisco insieme
con la penale a vantaggio del creditore, od anche senza di essa, pel caso di
inadempimento o di evizione. L’uso contrattuale di stabilire che il contraente
inadempiente paghi una somma al fisco, uso creatosi per sollecitare l’aiuto dello
Stato in caso di inadempienza, e combattuto dalla legislazione imperiale, si
rinviene nei paesi greci ed egiziani, e si riproduce poi, già nel secolo VII,
nei documenti italiani.
Così è pel diritto di cui alla l. 3 Cod. 2, 17:
Abhorret a saeculo nostro sub praetextu debiti procurationem contra
privatos fiscum praestare.
Così è per gli altri due casi non intravisti dal Mitteis in tema di
nomina di tutore personae incertae di
cui alla l. 1, Cod. 6, 18, ed al fr. 61 D. 28,5 in tema di diseredazione della
figlia che avrebbe dovuto ritenersi paga della dote.
Noi non possiamo così aderire al Besta, pel quale non vi è ragione
perché il concetto svolto dal Mitteis riguardo all’Oriente non possa applicarsi
all’Occidente, ivi compresa l’Italia[7].
La cittadinanza romana era ambita dagli italici: e diventar
cittadino romano significava abbandonare il diritto proprio (dato ma non
concesso che esistesse) per seguire quello romano.
Insomma, secondo noi, mentre in Oriente è ammissibile una lotta tra
diritti consuetudinari e diritto romano, lotta fattasi palese dalle deviazioni
cui già accennammo, non v’ha dubbio che le deviazioni che si avvertono in
Occidente siano dovute non già al riaffiorare degli antichi diritti italici, ma
al processo di involuzione del diritto romano o, per meglio dire, alle esigenze
della vita pratica.
Se noi vediamo che queste deviazioni si spingono tutte alla
semplicità, per esser più esatti alla grossolanità delle concezioni giuridiche;
se noi vediamo che in esse minore è l’ossequio al rigorismo, ciò è dovuto al
fatto che al cadere dell’Impero i rapporti sociali si erano semplificati ed i
rapporti giuridici ridotti a quelli più elementari.
Gli stessi costumi erano tornati primitivi, tanto che, come noi
possiamo desumere dal Codice Teodosiano, si era diffusa la moda tra i romani di
vestire alla foggia dei barbari, con pelli ferine, con l’uso di brache etc.
Cose tutte che le leggi reprimono e puniscono[8].
In molti casi di deviazioni, anzi, noi possiamo affermare che le
stesse non siano altro che il prodotto di una spontanea evoluzione del diritto
romano od una conseguenza delle disposizioni di questo.
Lo Schupfer[9], per
esempio, fa il caso del titolo de
donationibus della lex romana
Burgundionum e sostiene che il principio ivi sancito che le donazioni di
monili[10],
vesti, metalli, animali ed altre cose fungibili fossero valide senza bisogno di
insinuazione, sia un frutto del diritto volgare[11].
Ma qui lo Schupfer dimentica che già dal 420 Teodosio e
Valentiniano avevano praticamente dichiarato superfluo l’uso della scrittura
nelle donazioni (l. 29, C. 28.54) e che Teodosio aveva esentato dall’obbligo
dell’insinuazione le donazioni sponsalizie non superiori ai 200 solidi.
Il diritto volgare italico è perciò, secondo noi, quello che si
venne formando sul tardo impero nel secolo antecedente la caduta di Roma ed
immediatamente dopo di esso.
Esso è costituito da consuetudini che germogliarono spontaneamente
sia perché, essendo andato rotto il possente ordinamento giudiziario romano,
l’applicazione del diritto di Roma era venuta meno, sia perchè in quei tempi
fortunosi l’autorità della legge era malferma ed incerti si era sulla sua
esistenza.
Come esempi pertanto di questo diritto volgare possiamo ricordare:
A. La tutela legittima della madre che la lex romana Wisigothorum e la lex
romana Burgundionum antepongono a tutte. Le due leggi dei Burgundi e la
legge visigota consacrano anche la tutela legittima della madre che non fosse
passata a nuove nozze, anteponendola a tutti; ma la legge romana non andava
tanto avanti: essa accordava alla madre il diritto di chiedere la tutela e
ottenerla dal giudice, ma non la chiamava senz’altro ad assumerla. Il che è ben
diverso. Pensiamo che si tratti di un uso estraneo alla legge ufficiale, di cui
i codici barbarici rivelano l’esistenza.
B. La defensa, cioè l’uso di
invocare il nome del sovrano contro le minacce in danno delle persone o degli
averi, è un istituto del diritto volgare romano, il quale non mancherà di
essere accolto dalla pratica medievale specie nella bassa Italia e anche
altrove.
C. Altrettanto è da dirsi della tradizione che nel M.E. si faceva con
la tradizione della carta, scritta o non scritta. Si trattava di un simbolo, e
la sua funzione, come simbolo, la compiva egualmente: se non fosse stata
scritta prima, si sarebbe scritta dopo, e qualche documento la presenta
addirittura come pratica romana. Lo Schupfer ricorda un documento del 979: Lex praecipit romana ut
quicumque rem suam in alicumque transfundere voluerit, potestatem per paginam
testamenti eam infundat.
La stessa
formula post traditam complevi et dedi
che ricorre comunemente nei documenti sia longobardi che franchi non può dirsi
germanica: gli uni e gli altri non fanno che riprodurne una di cui si
cercherebbe invano il riscontro nel diritto ufficiale.
D. Anche la solemnis introductio
locorum che seguiva la tradizione dell’immobile e la compiva appartiene
alla pratica romana e può trovarsi già in taluni documenti ravennati degli anni
489 e 541, mentre altri dicono addirittura che si faceva secundum legem romanam.
E. Un altro esempio. La legge
romana dei Burgundi, trattando della vendita, contempla il caso che il
venditore avesse già fatta la tradizione corporale della cosa al compratore e
questi, dopo alcuni mesi o giorni che la possedeva, l’avesse tornata al venditore
a titolo precario. La legge continua: documenti
professio firmitatem precariae possessionis obtineat. Bastava che il
venditore se ne fosse fatto rilasciare un documento dal compratore perché la
precaria potesse aversi per ferma. Anche qui abbiamo a che fare con una pratica
del diritto volgare e con una pratica importante che doveva trascinare a lungo
la sua esistenza nel Medio Evo. In fondo si trattava del precarium, una concessione dipendente affatto dal beneplacito del
concedente anche se fatta a termine; ma nella pratica si era convertita già,
mercè la scrittura, in un rapporto che, se non proprio stabile, dava diritto al
precarista di godere il fondo senza che il concedente lo potesse riprendere a
capriccio prima che il termine fosse trascorso.
Su questo diritto volgare, quanto influsso abbiano avuto le
dottrine patristiche non è dato ancora di vedere, ma per certo fu ingente. Esso
comunque si perpetua durante il Medio Evo, e darà origine alle Consuetudini e
agli Statuti, durante l’autonomia comunale.
E’ questo sopravvivere, secondo noi, che dà origine alla opinione
del Solmi[12],
pel quale il diritto volgare sarebbe una creazione del Medio evo: un diritto
nuovo la cui creazione si svolge viva e feconda soprattutto ai tempi della
autonomia comunale, che trova espressione nella scienza giuridica italiana
intesa a trasformare il diritto delle fonti romane nel diritto nuovo, si
riversa nel diritto comune ed intesse il fondamento della legislazione e delle
codificazioni dei giorni nostri. Secondo Solmi, però, il diritto volgare non
sarebbe più da considerare come una eredità del mondo antico, ma consterebbe,
come dice il Besta, di capitali di nuova formazione.
Il pensiero del Solmi si avvicina a quello di Ciccaglione, che
parla di un allargamento del diritto volgare al cadere dell’impero e chiama
addirittura periodo del diritto volgare tutto quello che si estende da quella
caduta al sec. XII. Al diritto volgare, però, il Ciccaglione contrappone
prudentemente il diritto scientifico e non coinvolge con esso la giurisprudenza
romanistica. Così concepita, però, la teoria del Solmi è eccessiva, poiché vi
sono istituti che paiono elaborati nel diritto comune, ma che pure trovano
addentellati per non dire origine nel diritto volgare italico. Per esempio, la
formula embrionale dei titoli al portatore composta con la clausola di
esazione: tibi aut cui te hanc cartulam
dederis ad exigendum ricorre già nel secolo IX.
Nel diritto comune, poi, vedremo trattato il titolo al portatore
dalla scuola olandese e napoletana.
Quella diede al pensiero giuridico una base romana e fu fedele al
concetto di delegazione ed ammise solo l’azione diretta del possessore. La
seconda ammise un numero indeterminato di girate, e riconobbe il possesso della
fede come unico modo di disporre del credito.
Non c’è dubbio: l’ interposizione del giuramento accenna già ad una
pratica romana, ma probabilmente anche il resto è romano; così, sebbene non sia
detto, la clausola, che autorizza il creditore a dare la cautio a chi vuole per escutere il debitore, è già una vera e
propria clausola ad exigendum.
Sicchè, in fondo, si sarebbe verificato col diritto quello stesso
fenomeno che con la lingua latina, la quale aveva pure il suo strato volgare,
naturalmente rozzo, ma a cui era riservato l’avvenire.
Insieme si sono conservate molte pratiche di cui si cercherebbe
invano un accenno qualsiasi nelle leggi, ma che nondimeno hanno l’impronta
romana. E’ quello che si suole chiamare il diritto
volgare romano, che nessuna mente di legislatore aveva ancora disciplinato,
ma che i bisogni pratici avevano fatto sbocciare spontaneamente e vivere più
che altro nella coscienza del popolo, completando, ed anche modificando, il
diritto ufficiale. E’ un fenomeno che si rivela in molte parti del diritto e
che meriterebbe uno studio paziente, che non si è ancora fatto, con la scorta
di documenti romani ed anche barbarici che lo rispecchino[13].
* Il 13
aprile 2004 è caduto il centenario della nascita del prof. Emilio Bussi. Lo si
ricorda pubblicando la sua Lezione per la Libera Docenza, tenuta alle ore 11-12
del mattino del 13 dicembre 1933 nella Università di Roma e tuttora inedita. Il
testo, un manoscritto sul quale visibilmente l’a. non è più tornato, è
conservato fra le carte dell’archivio privato dello stesso, scomparso il 14
novembre 1997. La trascrizione è dovuta alla figlia dello stesso, Luisa Bussi.
Alla quale sono dovute le note bibliografiche contrassegnate come N.d.e.
[1] H. Brunner,
Zur Rechtsgeschichte der römischen
und germanischen Urkunden. - Berlin, Weidmann 1880 (N.d.e.)
[2] Gli elementi italioti,
sannitici, e campani nella più antica civiltà romana, in Memorie dell'Acc. Arch., Lett. Belle
Arti Napoli XXI (1900) (N.d.e.).
[3] L. Mitteis, Reichsrecht und Volksrecht in den östlichen Provinzen des römischen
Kaiserreichs. Mit Beitr. zur Kenntnis des griechischen Rechts und der
spät-römischen Rechtsentwicklung,-Leipzig, Teubner 1891 (N.d.e).
[4] Dell’opera esiste una versione italiana sulla quarta edizione
francese, con aggiunte dell'Autore, e con postille bibliografiche di Carlo
Longo, P.F. Girard, Manuale
elementare di diritto romano, Milano, Società Editrice Libraria, 1909
(N.d.e.).
[5] Sulla const. 2 Cod. quae sit
longa consuetudo e la conciliazione col fr. 32§1 Dig. de legibus: difesa di
un’antica opinione, in Archivio giuridico, 1880, 420 ss. (N.d.e).
[7] La persistenza del diritto
volgare italico nel Medio Evo, in Rivista
di legislazione comparata, III (1905), 5 ss. (N.d.e.)
[8] CTh. 14.10.2 Impp. Arcadius et Honorius AA. ad populum. Usum
tzangarum adque bracarum intra urbem venerabilem nemini liceat usurpare... (397
apr. 7?); CTh. 14.10.3 Idem aa.
Flaviano praefecto urbi. intra
urbem romam nemo vel bracis vel
tzangis utatur... (399 iun. 6); CTh. 14.10.4 Impp. Honorius et Theodosius aa. Probiano praefecto urbi. maiores crines, indumenta pellium etiam
in servis intra urbem sacratissimam praecipimus inhiberi, nec quisquam posthac
impune hunc habitum poterit usurpare. (416 dec. 12).
[10] Le donne romane non uscivano se non precedute e seguite da torme
di schiavi (Ammiano Marcellino, lib. XIV, cap. 6) ed avevano addosso, al dire
di Seneca, De vita beata, cap. XVII,
il patrimonio di una ricca famiglia (Quare uxor tua locupletes domus censum
auribus gerit?).
[11] R. Taubenschlag,
Le droit local dans les
constitutions prédiocletianiens, in Mélanges
de droit Romain dédiées a Georges Cornil, Paris 1926, vol. II, 499 ss.; a
pag. 512 scrive: «Les donations du droit local forment un chapitre important
des constitutions. Dans deux endroits (C. 8, 55 (56) ), 2 e 8, 55 (56), 3) nous
avons des preuves qu’elle peut être révoquée sans aucune restriction [cfr.
Riccobono Lav. 2 ss., 34,193 e Taubenschlag Privatrecht in Bulletin de
l’Académie Polonaise des Sciences et des Lettres 1919-1920, pag. 229]. Il est
superflu de dire que le droit officiel n’admet pas cette idée».
[13] Per
accennare a qualche esempio, crediamo che la disposizione dell’editto di
Teodorico che permette di vendere le terre senza i coloni che vi erano addetti,
traesse la sua origine appunto da questo diritto volgare.
Ed
anche nell’Alvernia si incontra la medesima deviazione del Codice teodosiano al
tempo di Sidonio Apollinare.
Lo
stesso dicasi della palmata, una
forma che ha pure la sua importanza nel diritto del Medio Evo e la conserva in
parte anche oggigiorno: ma d’onde è venuta? Certamente le leggi romane non ne parlano:
d’altr’onde essa era nota agli antichi, ai Persiani come ai Greci, e si trova
del pari negli usi popolari dei Romani. Né voglionsi trasandare i titoli
all’ordine e al portatore. I secoli di mezzo li conoscono sotto varie forme e
parrebbe quasi che fossero in opposizione manifesta al genio dei Romani: ma non
è vero. Una formula di quei titoli trova appunto il suo addentellato in una
pratica romana: non diciamo del diritto ufficiale, ma nel diritto volgare. Tali
erano i titoli all’ordine con la clausola di esazione (tibi aut cui tu hanc cartulam dederis ad exigendum) che ricorre già
nel secolo VI.
Una
formula visigotica che appare modellata su qualche tipo romano si riferisce ad
un mutuo di denaro che il debitore promette di restituire entro un dato tempo:
intanto darà al mutuante questo o quello in
beneficium solidorum ipsorum. Il debitore continua: se non lo farò, e
lascerò trascorrere il termine di questa mia cautio dico con giuramento quia
liceat tibi cautionem cui tu ipse volueris tradere et adibito mihi excutere
supradicta pecunia una cum beneficio suo duplicata cogar exsolvere.