Professore
aggregato di Diritto romano
Università di Sassari
Pace,
guerra e religio Romana: Augustinus, De civ. Dei 1.6
Sommario: 1. La memoria agostiniana e la religio Romana: alcune premesse. – 2. Parcere subiectis et debellare
superbos (Vergilius, Aen. 6.853),
quod accepta iniuria ignoscere quam
persequi malebant (Sallustius, Cat. 9.5): la pax Romana (e la guerra). – 3. L’edictus
di Marco Marcello. – 4. Fabio e le statue degli dèi irati. – 5. Il
rispetto per le divinità e i loro templi. – 6. I templa come luoghi inviolabili – 7. Conclusioni. – Abstract.
Agostino d’Ippona[1],
nel VI caput del primo libro del De civitate Dei[2],
offre lo spunto per una rinnovata riflessione sui principi giuridico-religiosi
degli scontri (e degli incontri) tra i Romani e gli hostes.
Lo scopo dei
primi dieci libri dell’opera, più volte espresso dal vescovo di Ippona, è
quello di confutare gli errori dei pagani[3], i
quali, come è noto, incolpavano i cristiani della rovina di Roma[4]; sotto
questo profilo Agostino si sofferma sovente sulla religione politeista romana[5],
e offre in tal modo numerosi spunti e motivo di analisi agli studiosi
dell’esperienza giuridico-religiosa di Roma antica.
Nel capitolo
dell’opera che con questo contributo intendo analizzare, il vescovo affronta
l’argomento del rispetto dei vinti rifugiatisi nelle sedi delle proprie
divinità, come si apprende dal breviculus:
Quod nec Romani quidem ita ullas ceperint
civitates, ut in templis earum parcerent victis[6].
L’argomento trattato è collegato con quanto esposto nel primo caput dello stesso libro, quando
Agostino, nell’evocare l’episodio del saccheggio di Roma del 410 a opera dei
Visigoti[7], sotto
la guida di Alarico, ricorda come anche gli alieni
furono accolti e salvati nei luoghi di culto cristiano[8].
Sicuramente vi fu una certa «esitazione dei barbari davanti alle chiese dove
cristiani e pagani avevano cercato rifugio»[9], ma
nella patristica si richiama una disposizione del condottiero visigoto: secondo
Paolo Orosio, infatti, Alarico dettò un praeceptum
per il rispetto dei luoghi di culto cristiani (sancta loca), specialmente delle basiliche di S. Pietro e di S.
Paolo, considerando questi spazi come inviolabili e sicuri per coloro che vi si
erano riparati[10].
Lo scopo di questa ricerca, sebbene riguardi i rapporti
tra Romani e stranieri, argomento già ampiamente discusso in letteratura[11], è quello di comprendere se effettivamente il principio,
discusso da Agostino, fosse o meno presente nell’esperienza giuridico-religiosa
romana, a fronte dell’esistenza di una incompatibilità tra le atrocità del bellum e il sacrum.
L’efferatezza della guerra era avvertita profondamente
dai Romani: come ricorda Paolo Diacono[12], i soldati, nel rientrare a Roma durante la processione
trionfale, dovevano purificarsi recando dell’alloro[13]. Grazie alle proprietà di questa pianta[14], usata in antiche cerimonie religiose[15], si superava la condizione di impiatus del miles,
connessa allo spargimento di sangue umano[16]. La pianta dell’alloro è
definita pacifera nella Naturalis historia pliniana, sentita
quindi in antitesi rispetto al bellum,
e perciò utilizzata per segnalare una tregua durante la campagna militare[17]: è del tutto evidente, così,
l’esistenza di regole che scandivano il bellum
tra le popolazioni antiche. Devo segnalare nella
glossa di Paolo Diacono la presenza dell’espressione caedes humana per indicare il massacro di esseri umani compiuto dai
milites, senza quindi il ricorso a hostis, vocabolo proprio del linguaggio
giuridico-religioso romano[18], termine che, dall’originale significato di straniero,
era ormai inteso nel senso di nemico, cioè l’appartenente a un popolo con cui
sussisteva un bellum iustum[19]. Non vi sono però tracce dell’uso dell’espressione caedes
hostium nell’epitome di Sesto Pompeo Festo (o già nel De verborum significatu di Verrio Flacco[20]), mentre essa si ritrova,
invece, in Plinio, il quale riporta l’opinione del giurista Masurio Sabino[21] per cui l’alloro è usato nei trionfi in
quanto suffimentum atto a purgare[22] dall’uccisione dei nemici[23], seppure il naturalista manifesti un
certo dissenso dalla affermazione del giusperito[24]. Un’ulteriore
evenienza della glossa di Paolo Diacono è l’utilizzo dell’avverbio quasi accostato a purgati, uso che denuncia l’esistenza di una cerimonia specifica, i
cui effetti erano rivolti alla purificazione dell’esercito. Al termine della
stagione della guerra, in ottobre, si procedeva infatti a una serie di riti,
come quello dell’armilustrium con cui si purificavano le armi[25].
La situazione di impurità dell’esercito trova un’eco in
una antichissima interdizione prevista per il flamen Dialis[26], testimoniata
dalle fonti. In una glossa di Sesto Pompeo Festo, dove si ricorda l’atto di testare nelle file della
milizia pronta per la battaglia, nonostante le evidenti lacune, si legge come
per questo sacerdote non fosse lecito vedere
l’esercito armato[27]. Il divieto per il flamen
Dialis di vedere la procincta classis
è annoverato, fra le tante interdizioni a lui imposte, sia nei libri de sacerdotibus publicis, sia nel primo
libro di un’opera[28] di Fabio Pittore[29], stando alla testimonianza di Aulo Gellio[30]:
Noct. Att. 10.15.4: [item religio
est] classem procinctam extra pomerium, id est exercitum armatum, videre;
idcirco rarenter flamen Dialis creatus consul est, cum bella consulibus
mandabantur.
Va ricordata
anche l’esistenza di prescrizioni giuridico-religiose relative alla
convocazione dell’esercito, in quanto esso doveva essere radunato fuori dal pomerium[31]: ... exercitum extra urbem imperari oporteat,
intra urbem imperari ius non sit[32]. Il
divieto coinvolgeva principalmente le attività legate all’esercizio dell’imperium militiae, cioè dell’imperari, che si poteva esercitare
esclusivamente extra urbem, al di
fuori della linea di demarcazione giuridico-religiosa della città[33]. Questo
limite spaziale si collega con un ulteriore veto, ricordato da Livio, per il flamen Dialis votato alla adsiduitas[34]: flamini Diali noctem unam manere extra urbem
nefas est, in cui compare come termine spaziale l’urbs[35].
La proibizione di lasciare la città, se non per uno stretto arco di tempo,
porta alla considerazione che in antico l’unico modo per contravvenire alla
prescrizione di non vedere la classis
procincta fosse di allontanarsi di poco dal pomerium. Qui si sarebbe trovato stanziato un esercito che, sebbene
non avesse ancora combattuto, poteva con la sua immagine in qualche modo
colpire la sacralità del sacerdote[36]. Punto
centrale è proprio il pomerium che
segna il confine tra l’urbs demilitarizzata[37] e l’imperium militiae. La procincta classis doveva restare esterna
dall’urbs per tutta la durata del
conflitto bellico; al termine della guerra, con il rientro dell’esercito[38], si
chiudevano le porte del tempio posto nell’Argileto dell’antiquissimus[39] dio Giano[40].
Che la guerra producesse impurità, o una
condizione incompatibile con la sfera del sacro, si evince anche dalla
disposizione, ricordata da Macrobio, per cui durante la festa dei Saturnali[41] il bellum sumere rientrava nell’ambito del nefas[42]. Questo divieto è
accostato dall’erudito a quello, concernente sempre l’uccisione di un essere
umano, di poenas a nocente, per cui
si prevedeva un piaculum, nel caso di
non ottemperanza - il che fa trasparire una sopravvenuta interpretatio sacerdotale - mentre non si accenna ad alcuna
espiazione nel caso si disattendesse la prescrizione relativa al bellum sumere: questa circostanza
denuncia una insuperabile antinomia tra guerra e religio[43].
L’onnipresente ricorso a concetti giuridico-religiosi
propri del sistema romano segnava il periodo bellico in modo capillare[44], specialmente attraverso il complesso rituale del bellum iustum[45], che permetteva, aggirando l’antinomia descritta supra, di intraprendere un conflitto
senza scatenare l’ira divina. La
concezione romana della guerra, e della pace, così, era connessa alla religio
e, in particolare, alle riflessioni teologiche, secondo una prospettiva per cui
sussisteva un nesso di causa ed effetto tra la nascita e lo sviluppo
spazio-temporale di un popolo e gli dèi, insieme ai loro culti.
Nell’immaginario romano, infatti, sussisteva l’idea di una societas a
cui partecipavano uomini e divinità, come ben esplicitato nel De legibus ciceroniano[46]; ma i Romani si ritenevano talmente rispettosi della religio da distinguersi dagli altri popoli[47], tanto da credere
di essere sostenuti dagli dèi già all’atto della fondazione della città[48]. Fu proprio nell’istante della
nascita del popolo Romano che avrebbe avuto luogo l’instaurazione della pax deorum, cioè la condizione di
armonica intesa con le divinità[49]. Il primato romano del
rispetto minuzioso dei rituali, su cui si concretizzava la religio[50] al fine del mantenimento della
pax deorum, comportava l’espansione
spazio-temporale dell’imperium[51]. Questa concezione è ascritta dalle
fonti letterarie alle stesse origini dell’Urbe: i legati inviati da Romolo ai
popoli vicini, al fine di concludere matrimoni data la penuria di donne nella
nuova città, sostenevano che gli dèi erano stati propizi alla nascita di Roma,
il cui valore le avrebbe permesso, sempre con l’assistenza divina, di
guadagnarsi potenza e fama[52].
Anche la storiografia greca conosceva questa visione
romana: secondo Dionigi di Alicarnasso, ad esempio, Servio Tullio reclamava per
i Romani la direzione di tutti i Latini, sia per l’ampiezza della loro città e
per la rilevanza negli affari, sia per la protezione divina che aveva permesso
loro di raggiungere una elevata gloria[53],
esaltando, così, una supremazia spaziale, economica, militare e religiosa di
Roma. Gli dèi, quindi, erano sentiti come i fautori della nascita e
della prosperità della civitas Romana, a cui era stato affidato, come espresso nei famosi versi
virgiliani, un imperium sine fine[54].
I Romani, così, perseguirono, confidando nell’aiuto
degli dèi, l’ampliamento della civitas;
questa estensione non riguardava soltanto l’aspetto spaziale[55], ma concerneva al contempo uno sviluppo di tipo
demografico. Secondo la tradizione, la politica di superamento dei limiti spaziali e demografici della città fu
perseguita in primo luogo dai reges,
i quali mirarono all’ampliamento e al
rinvigorimento del popolo Romano: come
sostiene Sallustio, il potere del re ... initio conservandae libertatis atque
augendae rei publicae fuerat ...[56]. Cicerone ascrive a Romolo la volontà di aprirsi anche ai
nemici, al fine di estendere la civitas[57].
L’esempio del fondatore fu seguito attraverso una ampia politica di concessione
della cittadinanza[58]. Secondo Livio, i predecessori di Tarquinio il Superbo fondarono alcune
parti dell’urbs: si trattava, spiega
lo storico, di novae sedes per
accogliere la crescita demografica da loro voluta[59]. Il concetto di ampliamento demografico si rinviene anche nella
giurisprudenza classica, dove Pomponio utilizza la «felice espressione»[60] di civitas augescens in relazione all’età repubblicana[61].
Oltre alla iniziale tendenza
all’ampliamento della civitas, i
Romani miravano all’incremento del proprio pantheon[62];
il loro rispetto era rivolto a tutte le divinità, in quanto il loro culto era
potenzialmente aperto, poiché improntato al pluralismo religioso e all’universalismo. Per questo era importante che anche i riti di origine peregrina, accolti
nella civitas[63],
fossero continuati sotto l’attento controllo dei pontifices, i sacerdoti a cui era riconosciuta la cura dei sacra[64].
La vita del populus
Romanus Quirites[65],
quindi, dipendeva dai rapporti di amicizia con le divinità, richiedenti una attenzione e una precisione
meticolose; per questo i veteres Romani
erano castissimi cautissimique[66].
Non a caso Valerio Massimo pone in correlazione lo sviluppo e la custodia dell’imperium con la minuziosa cautela dei
Romani nella sfera religiosa:
1.1.8: Non mirum igitur, si pro
eo imperio augendo custodiendoque pertinax deorum indulgentia semper excubuit,
quo tam scrupulosa cura parvula quoque momenta religionis examinari videntur,
quia numquam remotos ab exactissimo cultu caerimoniarum oculos habuisse nostra
civitas existimanda est.
Era quindi importante che, anche in
guerra, i Romani, per non perdere la loro supremazia in campo militare, non
incrinassero la loro superiorità nel culto degli dèi; per questo essi dovevano rispettare i riti e
le prescrizioni previsti per poter intraprendere un bellum, inteso al contempo pium e iustum[67],
rispondente a requisiti formali e sostanziali[68],
poiché, come illustrato da Cicerone, adeo
summa erat observatio in bello movendo[69]. Non è
un caso che le norme fossero oggetto
di interpretatio da parte del collegio sacerdotale dei feziali[70], il cui compito è descritto da Varrone[71], quando illustra l’etimologia del loro nome:
De ling. Lat. 5.86: Fetiales, quod fidei publicae inter populos
praeerant: nam per hos fiebat ut iustum conciperetur bellum et inde desitum, ut
f<o>edere fides pacis constitueretur. Ex
his mittebantur, ante quam conciperetur, qui res repeterent, et per hos etiam
nunc fit foedus, quod fidus Ennius scribit dictum.
Il punto focale di questo testo
varroniano[72] è la
fides[73],
principio che trae fondamento nel ius sacrum[74],
presente costantemente nell’esperienza giuridica religiosa dei Romani. Dal
brano è tangibile come la fides publica fosse intesa vigente tra i
popoli[75],
sotto l’attenta vigilanza e l’interpretazione del collegio sacerdotale dei fetiales.
Qui inoltre emerge con forza la necessità per i Romani di intraprendere
esclusivamente guerre “giuste”; del resto, come evidenzia Cicerone, spesso si
devono osservare nei confronti del nemico...
ius etiam bellicum fidesque iuris iurandi ...[76]. Con il nemico giusto e legittimo, infatti,
vi è compartecipazione non solo del diritto feziale, ma anche di molti iura[77].
Una testimonianza in tal senso si ritrova anche nel racconto di Livio su un
esemplare episodio relativo all’assedio di Falerii. Furio Camillo[78], nel
respingere la proposta di un precettore che voleva consegnare ai Romani i
rampolli dei Falisci più illustri, affermava l’esistenza di norme, sia in tempo di guerra sia in quello di
pace, regolanti i rapporti tra i popoli e con gli stessi nemici[79].
La liturgia giuridico-religiosa della guerra evidenzia come per i
Romani vi fosse la necessità di riportare i conflitti armati su un piano religioso
per impedire ritorsioni da parte degli dèi[80].
Tuttavia, l’aver intrapreso un bellum
iustum non dava la certezza assoluta ai Romani di una vittoria sul campo.
Devo qui riportare le attente riflessioni di F. Zuccotti, il quale sottolinea come
nella visione romana la vittoria fosse «determinata in ultima analisi dalla
sola volontà divina»[81].
Numerose fonti, alcune delle quali puntualmente richiamate dall’A.[82],
testimoniano una relazione tra l’inadempienza relativa al diritto sacro da
parte dei Romani e un loro insuccesso bellico[83]. Essi
erano consci che, nonostante rimanesse fermo il carattere pio e giusto del bellum[84],
qualcosa poteva incrinare il pacifico rapporto con gli dèi. Il favore delle
divinità per la civitas romana non
doveva sussistere solo al momento della dichiarazione di guerra, ma doveva
essere onnipresente, anche nei periodi di pace.
In questo contesto appare chiaro che, al fine di
assicurarsi la vittoria militare, per i Romani un affronto ai luoghi sacri,
contestato da Agostino, sarebbe apparso un grave atto contro la religio. Il timore di una punizione
divina per tutta la comunità romana, come la disfatta militare, è già un
fondato indizio per screditare la posizione agostiniana. Eppure l’elaborazione
giuridico-teologica romana della guerra
era conosciuta dal vescovo d’Ippona, il quale rielabora il concetto di bellum iustum[85], con particolare riguardo alle
posizioni ciceroniane[86], attraverso una rilettura
basata su principi cristiani[87]. Per Agostino la guerra di
carattere offensivo deve essere considerata “giusta” se ha come fine ultimo una
giusta pace[88]. In tal modo il vescovo
d’Ippona supera l’acceso antimilitarismo presente nel
pensiero di alcuni padri della Chiesa[89], e le sue
riflessioni in materia saranno alla base del pensiero dell’Occidente[90]: «L’incontro/scontro della cultura romana con il
cristianesimo, che rappresentò una delle scintille della civiltà occidentale,
avviò un profondo e travagliato processo di indagine etico-giuridica sull’uso
della forza bellica e sulla sua disciplina de jure»[91].
Nell’incipit di De civ. Dei 1.6, Agostino
si chiede, denunciando una certa insofferenza, del perché egli debba
concentrare le sue riflessioni sui popoli quae
inter se bella gesserunt et nusquam victis in deorum suorum sedibus pepercerunt.
Così, il vescovo concentra la sua attenzione sui Romani e sul loro sistema
giuridico-religioso:
De
civ. Dei 1.6: Romanos ipsos videamus: ipsos, inquam, recolamus
respiciamusque Romanos, de quorum praecipua laude dictum est, ‘Parcere subiectis,
et debellare superbos’. et ‘quod accepta iniuria ignoscere, quam persequi
malebant’ ... (PL 41, coll. 18 s.).
Qui
Agostino cita un verso dell’Eneide[92], parcere subiectis et debellare superbos, inserito nel famosissimo
discorso di Anchise, rivolto al figlio Enea, durante il loro incontro
nell’Elisio, con cui si annuncia il compito dei Romani: regere imperio populos[93]. L’intero passo
rappresenta la testimonianza che «illumina, forse più di ogni altro testo
antico, la nozione “romana” della pace, intesa nei suoi aspetti essenziali
religiosi e giuridici»[94]. Non a caso il vescovo in
De
civ. Dei 1.6 assembla nella medesimo periodo il verso dell’Eneide
con una citazione di Sallustio in cui
si esaltava le antiche virtù romane[95] e sintetizzava il
comportamento degli stessi Romani tenuto durante il tempo di pace[96].
Dall’unione di queste due citazioni, Agostino concentra l’essenza della pax Romana. Le molteplici
implicazioni, innanzitutto giuridico-religiose e politiche[97],
non sono sfuggite ai lettori moderni, i quali hanno rinvenuto nei versi di
Virgilio, la stretta connessione tra l’ampliamento dell’imperium del Popolo Romano romano[98] e la volontà divina. La
poetica virgiliana riflette la tradizionale concezione per cui gli dèi hanno
attribuito l’incarico al populus Romanus
di regere imperio populos per imponere la pax: si tratta di una missione, come spesso è definita in
letteratura, diretta, attraverso l’arte romana della guerra, all’armonica
unificazione dei popoli[99].
Agostino
conosce a fondo questa concezione, nota anche agli altri scrittori
ecclesiastici[100],
e, mosso dal proposito di confutazione[101], ricorre spesso a
citazioni virgiliane per esplicitare meglio l’idea della grandezza e della
gloria di Roma legata al culto degli dèi. In particolare, nel quinto libro del De civitate Dei il vescovo inserisce
alcuni versi dell’Eneide (1.279-285) dove Giove prevede anche il favore di
Giunone per i Romani (rerum domini
gensque togata), con il fine dichiarato di mostrare come la dominatio era intesa dai Romani ut
in eorum magnis laudibus poneretur, e quindi cita, non a caso, Aen. 6.847-853, poiché Virgilio ipsas proprias Romanorum
artes regnandi atque imperandi et subiugandi ac debellandi populos anteponeret[102]. Agostino in De civ. Dei 1.6
sottolinea proprio come il verso parcere
subiectis et debellare superbos sia enunciato praecipua laude nei confronti dei Romani, e, mostrando di
comprenderne le potenzialità, lo cita altre volte nella stessa opera.
Nella praefatio, il vescovo riporta dapprima un principio della legge divina[103] (deus
superbis resistit, humilibus autem dat gratiam[104]),
piuttosto somigliante a quanto espresso da Virgilio, poi considera il verso parcere subiectis, et debellare superbos
espressione di un’anima superba che
vuole si riconosca in laudibus il concetto proprio
del dio dei cristiani[105]. Appare quindi evidente
come nel richiamo agostiniano al verso dell’Eneide trovi una posizione
privilegiata il concetto di superbia,
sentimento già illustrato dagli autori antichi, come Seneca, il quale lo
annovera tra i mali dell’animo[106]. Altre testimonianze
letterarie intendono il termine come manifestazione di un dominio sprezzante[107], dell’esercizio di un
potere crudele[108], motivo ideologico
specialmente nell’ambito della lotta politica tra gli ordini sociali[109].
L’esecrazione
della superbia acquista una valenza
politica[110]
nell’essere attribuita come caratteristica all’ultimo re dei Romani[111]. Valerio Massimo afferma
chiaramente che fu la superbia di Tarquinio a porre fine al potere regio[112]. In seguito alla
cacciata dei re, i Romani, ottenuta la libertas[113], si proposero di
sopprimere tutti i governi stranieri tacciabili di superbia[114]. Lo stesso Agostino
collega la volontà di svincolarsi dal potere regio al desiderio, proprio dei
Romani, di governare gli altri popoli: la “cupidigia” dei veteres ... primique Romani di gloria spinse loro a liberarsi dalla
dominatio regia, poiché vollero che
la loro patria prius omni studio liberam,
deinde dominam esse concupierunt.
Infatti, il fastus regius non fu
ritenuto come disciplina regentis, o come benevolentia consulentis, ma superbia dominantis[115]. Queste concezioni si
collegano al verso di Virgilio parcere
subiectis et debellare superbos, dove la superbia a cui si fa riferimento è attribuita a quei nemici di Roma
che hanno tenuto un atteggiamento degno di vendetta dopo essere stati sconfitti[116]. In un altro luogo del
poema, Ilioneo[117], maximus tra i naufraghi troiani, così supplicava Didone:
Aen.
1.522-529: O regina, novam cui condere Iuppiter urbem / iustitiaque dedit
gentis frenare superbas, / Troes te miseri, ventis maria omnia vecti, / oramus:
prohibe infandos a navibus ignis, / parce pio generi et propius res aspice
nostras. / Non nos aut ferro Libycos populare penatis / venimus aut raptas ad
litora vertere praedas; / non ea vis animo nec tanta superbia victis[118].
In
questi versi si profila la concezione romana, che deriva da principi
giuridico-religiosi, per cui è Iuppiter
a concedere la fondazione delle città e a conferire la missione di contrastare,
per mezzo della giustizia, i popoli superbi.
Così,
l’avversione dei Romani verso la superbia,
tangibile nei versi virgiliani, derivata dal comportamento dell’ultimo
Tarquinio, fu riprodotta come tema ideologico nell’archetipo di espansione.
L’idea della missione di regere imperio populos dei
Romani espressa da Virgilio, e percepita da Agostino, si collega a quanto detto
da Cicerone nel De officiis, per cui il compito di Roma si svolgeva
attraverso la guerra, al fine di costituire e mantenere un periodo di pace e di
sicurezza:
1.34 s.: Sunt autem quaedam officia
etiam adversus eos servanda a quibus iniuriam acceperis. Est enim ulciscendi et
puniendi modus atque haud scio an satis sit eum qui lacessierit iniuriae suae
paenitere ut et ipse ne quid tale posthac et ceteri sint ad iniuriam tardiores.
Atque in re publica maxime conservanda sunt iura belli. Nam cum sint duo genera
decertandi unum per disceptationem alterum per vim cumque illud proprium sit
hominis hoc belvarum confugiendum est ad posterius si uti non licet superiore.
35. Quare suscipienda quidem bella sunt ob eam causam ut sine iniuria in pace
vivatur parta autem victoria conservandi ii qui non crudeles in bello non
inmanes fuerunt ut maiores nostri Tusculanos Aequos Volscos Sabinos Hernicos in
civitatem etiam acceperunt at Karthaginem et Numantiam funditus sustulerunt
nollem Corinthum sed credo aliquid secutos oportunitatem loci maxime ne posset
aliquando ad bellum faciendum locus ipse adhortari. Mea quidem sententia paci
quae nihil habitura sit insidiarum semper est consulendum. In quo si mihi esset
obtemperatum si non optimam at aliquam rem publicam quae nunc nulla est
haberemus. Et cum iis quos vi deviceris consulendum est
tum ii qui armis positis ad imperatorum fidem confugient quamvis murum aries
percusserit recipiendi. In quo tantopere apud nostros iustitia culta est ut ii
qui civitates aut nationes devictas bello in fidem recepissent earum patroni
essent more maiorum[119].
Nel brano l’incipit è chiaro: vi sono dei doveri
anche nei confronti di coloro che hanno offeso, e quindi questi officia, previsti dagli iura belli,
sussistono perfino nei riguardi dei nemici di Roma. Come nei versi virgiliani,
qui la pace è strettamente collegata con la guerra, in quanto si prescrive di
intraprendere un bellum quando non si
può vivere tranquillamente in pace. Cicerone sostiene, inoltre, che dopo la
vittoria si devono risparmiare coloro che durante il periodo bellico non furono
crudeli o spietati, anche se egli non fa riferimento alla presenza della superbia, ma a un comportamento brutale
durante il conflitto. Per l’oratore, quindi, i vincitori non devono perdonare
la condotta dei vinti quando questa sia contraria ai iura belli[120]; l’indulgenza, invece, è collegata a
un regime di sicurezza e di pace. Cicerone procede poi a fare esempi del
passato di città sconfitte a cui addirittura si attribuì la cittadinanza
romana, e di altre che, sulla base di opportunità politiche, furono
completamente distrutte.
L’atteggiamento
di clemenza e di profonda apertura nei confronti dei vinti è testimoniato, e
sottolineato, anche da numerose fonti[121], e
riferito spesso alle scelte dei maiores[122]. I
Romani non infierivano sugli inermi, come nel caso dei Tuscolani, i quali
ebbero una condotta pacifica anche quando le truppe romane fecero ingresso nel
loro territorio. I senatori romani furono colpiti dal mesto comportamento di
questo popolo, tanto far entrare come ospiti, e non come nemici, coloro che si
erano presentati all’ingresso della curia; fu così garantita per essi la pace[123].
Ovviamente le scelte romane erano dettate da vari fattori, e, come si
sottolinea in De off. 1.35, non si
attribuivano a tutti i popoli le medesime condizioni. Per questo nel 353
a.C., i Romani decisero di non punire Cere, colpevole di aver consentito il
passaggio di truppe di Tarquinia e di Falerii nel 358. Cere, come ricordato dai
suoi legati, aveva dato rifugio alle Vestali, insieme al fuoco e agli arredi sacri,
durante il sacco di Roma del 390 a.C. da parte dei Galli Senoni[124]; per
questo le fu concessa la pace e si stabilì, attraverso un senatoconsulto, una
tregua di cento anni[125].
Un ulteriore
esempio, di scelta fatta di volta in volta da parte di Roma rispetto alle
condizioni da dettare ai vinti, si rinviene alla fine della guerra con i Latini
nel 338 a.C., quando si decise di esaminare singolarmente tutte le situazioni,
in quanto il trattamento da riservare doveva modellarsi sui meriti di ciascun
popolo: si tratta quindi della concreta applicazione del principio che verrà
poi espresso dal verso virgiliano, anche se mitigato da ponderate scelte
politiche[126].
Agostino, nel continuo del brano qui in esame, partendo dal
presupposto per cui i Romani, al fine di ampliare il proprio dominio,
saccheggiavano le città espugnate e conquistate, si chiede quali fossero i
templi che essi excipere solebant, ut ad
ea quisquis confugisset, liberaretur. La domanda riguarda, in questo caso,
non gli spazi sacri dove di solito non si poteva uccidere il nemico, ma solo i
luoghi in cui era costume romano non catturare coloro che vi si erano riparati.
Il vescovo, quindi, afferma l’assenza di notizie storiche in tal senso, a
fronte del fatto che gli scriptores rerum
gestarum ricercavano imprese da lodare, presupponendo quindi che il
rispetto romano dei nemici rifugiati nei templa
fosse degno di elogio[127].
Dopo aver sottolineato l’assenza di testimonianze scritte di
esenzione dei templi, Agostino procede a ricordare due casi emblematici. Il
primo esempio addotto dal vescovo d’Ippona riguarda Marcus Claudius Marcellus
(270 ca.-208)[128]
di cui, per la sua importanza[129],
Plutarco tratteggiò la biografia[130]. Il
personaggio è citato anche nell’Eneide nei versi che seguono immediatamente il
verso citato da Agostino[131],
quando Anchise, nel mostrare al figlio le anime dei futuri illustri
protagonisti di Roma, prevede la conquista da parte di Marcello delle terze spolia opima[132]. Nel
222 a.C., infatti, Marcello uccise Virdumaro, duce dei Galli Insubri, e ne
dedicò le spoglie a Giove Feretrio[133],
ottenendo in tal modo dagli dèi un dono[134],
attribuito in passato soltanto altre due volte[135].
Agostino sottolinea la fama raggiunta da Marcello con
l’attribuirgli il titolo di egregius:
De civ. Dei 1.6: Egregius Romani
nominis Marcus Marcellus, qui Syracusas, urbem ornatissimam, cepit, refertur
eam prius flevisse ruituram, et ante eius sanguinem suas illi lacrymas
effudisse. Gessit et curam pudicitiae, etiam in hoste servandae. Nam priusquam
oppidum victor iussisset invadi, constituit edicto, ne quis corpus liberum
violaret. Eversa est tamen civitas more bellorum, nec uspiam legitur ab imperatore
tam casto atque clementi fuisse praeceptum, ut quisquis ad illud vel illud
templum fugisset, abiret inlaesus. Quod utique nullo modo praeteriretur, quando
nec eius fletus, nec quod edixerat pro pudicitia minime violanda, potuit taceri
(PL 41, col. 19).
Qui si ricorda l’espugnazione da parte delle truppe romane
guidate da Marcello, in qualità di proconsole, della ricchissima città di
Siracusa[136],
schierata con i Cartaginesi durante la seconda guerra punica[137].
Secondo le fonti, la città resistette a un lungo assedio romano grazie alla
natura geofisica del sito e alle ingegnose macchine di Archimede[138], così
da far decidere ai Romani di limitare l’azione al solo embargo delle
vettovaglie[139].
L’occasione per l’offensiva romana fu data dalla notizia che i Siracusani
avrebbero svolto, lungo l’arco di tre giorni, le celebrazioni in onore di Diana
e quindi bevuto vino a profusione[140].
Marcello approfittò così di questa preziosa informazione e riuscì, nel 212 a.C.[141], a
entrare a Siracusa dall’Hexapylon, la principale porta della città[142].
Il vescovo d’Ippona riporta la tradizione per cui Marcello pianse
sia quando la città stava per cadere, sia alla vista del sangue, intendendo
così riferirsi a quello versato dai Siracusani durante l’assalto[143]. Le lacrime
del generale romano sono ricordate anche da altre testimonianze. Livio descrive
puntualmente l’episodio, concentrandosi particolarmente sul profilo psicologico
del personaggio. Secondo lo storico, nell’introdursi a Siracusa Marcello forse
vide la più bella città del tempo; qualcuno, ma Livio non ricorda il nome della
sua fonte, narrò che egli si mise a piangere, sia dalla felicità per l’impresa
compiuta, sia vetusta gloria urbis[144]. Anche Plutarco, nel riportare la notizia, si
sofferma su quanto provato interiormente da Marcello, partecipe della disgrazia
della città siciliana[145]:
è chiaro quindi come la tradizione connoti il personaggio sotto il profilo
della clemenza[146].
Agostino, nel proseguo della sua
disquisizione, sostiene che Marcello ebbe cura
della pudicitia[147] dell’hostis, dato che prima di
ordinare l’invasione, il victor
stabilì, tramite editto, che ne quis corpus
liberum violaret. Di questo ordine parla
anche Livio, quando descrive l’articolata conquista della città. Con il
proposito di espugnare il forte dell’Eurialo[148],
Marcello si accampò in alcune parti di Siracusa (Neapolis e Tycha[149]);
qui ricevette alcuni legati siciliani che lo imploravano di astenersi dalle
stragi e dagli incendi. Il generale, dopo un consilium, ex omnium
sententia, ordinò ai propri soldati
di non offendere il corpo degli uomini liberi, assicurando così loro la vita e
la libertà. Nel racconto liviano si ritrova la medesima formulazione
dell’editto riportata dal vescovo d’Ippona (ne quis liberum corpus violaret), con l’aggiunta di un’ulteriore disposizione: ceterae, riferendosi così agli uomini ridotti in schiavitù e alle res che erano da considerarsi praedae[150].
Come nelle altre
testimonianze circa l’ordine impartito da Marcello, in Livio non si rinviene il richiamo alla pudicitia presente invece nella memoria
agostiniana, dove inoltre si attribuiscono al generale
gli aggettivi di casto e clemente[151]. Il termine pudicitia è spesso legato alla
sfera sessuale, come è attestato da numerosi
richiami nelle fonti[152],
specialmente per indicare la castità e l’onore delle donne[153]
(la cui violazione, secondo la tradizione fu fattore scatenante di
momenti politico-costituzionali salienti, come la violenza subita da Lucrezia[154], e
l’episodio di Virginia[155]), dei figli[156]
e in generale dei giovani[157].
Il termine presenta inoltre una accezione relativa ai costumi[158],
legata alla fama e alla reputazione[159],
e s’intende una importante virtù[160]
e un valore del cittadino[161].
In questo caso, sebbene si rinvenga nelle fonti una differenza tra la salus e la pudicitia[162],
è evidente l’uso agostiniano in riferimento all’integrità fisica e morale.
Agostino non accenna al celebre
episodio della morte di Archimede avvenuta durante la presa di Siracusa. Si
tratta di ulteriore caso connesso all’umanità e alla clemenza di Marcello
ricordato dalle fonti[163]. Valerio
Massimo evidenzia la profonda stima provata dal proconsole nei confronti dello
scienziato, tanto da impartire l’ordine specifico (edixit) al fine di risparmiargli la vita. Tuttavia, Archimede fu
ucciso da un soldato, perché il suo atteggiamento, dovuto alla concentrazione
negli studi, fu inteso come noncuranza verso gli ordini del vincitore (quasi neglegens imperii victoris)[164]. Nel
brano appare l’antitesi tra la scienza (di Archimede) e l’ignoranza (del
soldato, che gli chiedeva il nome[165]), e
quella tra la clemenza di Marcello e la brutalità dell’uccisore quando pose in
essere l’imperium del victor. È evidente come tale imperium non avesse limiti, pur potendo
essere temperato da una scelta del generale vincitore. Agostino, puntualmente,
dopo aver ricordato l’editto di Marcello,
sottolinea la distruzione di Siracusa secondo il mos bellorum[166].
Sebbene le fonti letterarie pongano in risalto il sentimento di
compassione e misericordia provato da Marcello, conservano memoria di un
ingente bottino ottenuto dalla città[167].
Cicerone, in riferimento alle opere d’arte, sostiene che Marcello contemperò i
diritti di vincitore con i suoi sentimenti di umanità[168], e
l’oratore sottolinea inoltre che Syracusis
autem permulta atque egregia reliquit. Deum vero nullum violavit, nullum
attigit[169].
Come specifica Livio si trattava di spolia
hostium acquistate belli iure,
anche se lo storico sottolinea la
novità dell’azione del generale, poiché si trattava di un primum initium per Roma non solo di ammirare le opere
d’arte greche, ma anche della licentia di spogliare sacra profanaque[170].
Quando nel 210 a.C. i
Siciliani, ammessi al senato romano, criticarono l’operato di Marcello[171], si
delineò «una accusa specifica assai grave: aver cioè voluto perpetuare lo stato
di guerra allo scopo di legittimare la spoliazione della città»[172]. Tra
le lamentele, in particolare, si contestò al magistrato di aver infranto e depredato i delubra[173]
degli dèi, e asportato le stesse divinità e i loro ornamenti[174].
Marcello rispose di aver fatto il suo dovere, sostenendo di aver sottratto i
beni sulla base del ius belli, e di
aver agito nell’interesse della res
publica[175]. Il
senatoconsulto che ne seguì diede ragione a Marcello: Acta M. Marcelli quae is gerens bellum victorque egisset rata
habenda esse; in reliquum curae senatui fore rem Syracusanam, mandaturosque
consuli Laevino ut quod sine iactura rei publicae fieri posset fortunis eius
civitatis consuleret[176].
Agostino ribadisce l’assenza di notizie, evidenziando
l’inesistenza in questa occasione di un ordine ut quisquis ad illud vel illud templum fugisset haberetur inlaesus,
a fronte del fatto che le fonti avevano invece ricordato sia il pianto, sia
l’editto di Marcello. Qui, però, devo precisare che l’ordine impartito dal proconsole, per cui tutti gli uomini
liberi non dovevano essere violati durante la presa di Siracusa, non
necessitava la specifica di esentare, o considerare inviolabile, un luogo
determinato.
Il secondo aneddoto citato da Agostino, a sostegno del suo
ragionamento, riguarda Quintus
Fabius Maximus Verrucosus, detto Cunctator (275-203 a.C.)[177]:
De civ. Dei 1.6: Fabius,
Tarentinae urbis eversor, a simulacrorum depraedatione se abstinuisse laudatur.
Nam cum ei scriba suggessisset quid de signis deorum, quae multa capta fuerant,
fieri iuberet, continentiam suam etiam iocando condivit. Quaesivit enim
cuiusmodi essent, et cum ei non solum multa grandia, verum etiam renuntiarentur
armata, ‘Relinquamus’, inquit, ‘Tarentinis deos iratos’ (PL 41, col. 19).
Si tratta di un altro illustre personaggio, anche lui, come
Marcello, protagonista della seconda guerra punica[178],
distintosi, come è universalmente noto, in particolare per la sua tattica di
temporeggiare che snervò l’esercito di Annibale[179]. Le
sue lodi furono cantate da Ennio (Unus homo nobis cunctando restituit rem[180]) e la sua vita descritta da
Plutarco[181].
Agostino qui lo definisce soltanto come Tarentinae urbis eversor, menzionando quindi la riconquista nel 209
a.C. della città di Taranto, passata sotto il controllo di Annibale[182]. Il vescovo ricorda come Fabio fosse
lodato perché in tale occasione si astenne dalla depraedatio dei simulacra.
Dal racconto agostiniano si evidenzia come molti dei signa deorum della città furono
capta, e ciò è compatibile con il ius
belli. Tuttavia secondo Agostino, Fabio condivit
la propria continentia etiam iocando rispondendo al suo scriba
di lasciare Tarentinis deos iratos.
In realtà non si deve attribuire al console alcun atto volto al iocare a cui invece il vescovo d’Ippona
fa riferimento. Fabio preferì non acquistare per la res publica i simulacri degli dèi tarantini, e l’aggettivo irati attribuito alle divinità (o meglio
alle loro statue[183])
segnala una disposizione negativa[184]
contraria alla pax deorum, il
fondamento della vita stessa del popolo Romano. L’ira[185] è uno stato emotivo a volte connesso
alla guerra[186];
per i Romani l’ira degli dèi era argomento piuttosto delicato, da prevedere[187], a cui
far fronte con perizia e cautela, tanto che in Cicero, De leg. 2.22, si legge Impius
ne audeto placare donis iram deorum.
Cicerone collega la diffusa foggia dei simulacri degli dèi in tenuta militare
con lo studium bellicae gloriae dei Romani[188]:
l’attribuzione, quindi, di un significato così profondo alle immagini divine
giustifica il diniego di Fabio per l’introduzione di statue rappresentanti dèi
irati che avrebbero potuto compromettere la gloria militare romana. Livius
27.16.8 descrive la foggia di queste statue: di sunt, suo quisque habitu in modum pugnantium
formati. Quello di Fabio,
quindi, non sarebbe stato un atteggiamento scherzoso e al contempo morigerato
come descritto da Agostino (faceta
continentia), ma un comportamento di estrema cautela: le immagini degli dèi
armati potevano rappresentare una minaccia per l’Urbe[189]. Si ha
notizia, invece, che da Taranto Fabio trasportò a Roma un colosso raffigurante
Ercole. Si trattava di un’opera realizzata in bronzo da Lisippo[190], che
fu posta dal console nel Campidoglio[191],
vicino a una statua che lo raffigurava[192].
Ercole, infatti, era considerato l’antenato proprio della gens Fabia, a cui i Fabi esprimevano tradizionalmente una grande
devozione[193].
Fabio mostra un atteggiamento
rispettoso delle cerimonie sacre anche quando, subito dopo la presa di Taranto,
ricevette le lettere dei maggiorenti di Metaponto, con cui si chiedeva
l’immunità si Metapontum cum praesidio Punico prodidissent. Si trattava, in realtà, di un inganno teso da Annibale, il
quale fu laetus successu fraudis quando
seppe che Fabio si sarebbe recato a Metaponto, e preparò un agguato nei pressi
di questa città. Tuttavia, prima di lasciare Taranto, il comandante romano
trasse per due volte auspici sfavorevoli, per cui fece uccidere una vittima per
consultare gli dèi tramite un aruspice, il quale lo mise in guardia dalle
insidie del nemico[194].
L’episodio riportato da Agostino è narrato anche da Livio, dopo
aver elencato il bottino ottenuto dalla presa di Taranto[195]. In
questo racconto Fabio, posto a paragone con Marcello, è presentato con un
carattere più fermo nell’astenersi da un esteso saccheggio[196]. Un
ampio confronto tra i due personaggi si rinviene anche in Plutarco, il quale
ricorda che Marcello da Siracusa portò a Roma, dove non si possedeva né
conosceva tale lusso e raffinatezza, la maggior parte e le più belle opere
d’arte[197].
In tal modo Marcello acquistò tra
la folla una maggiore popolarità rispetto a Fabio, il quale trovava, invece,
ampio apprezzamento tra gli anziani, poiché, sebbene avesse portato da Taranto
dei tesori, aveva lasciato le statue degli dèi irati[198]. A Marcello si rimproverava di aver portato
in trionfo non solo gli uomini, ma anche gli dèi, al pari di prigionieri[199]. Il duro giudizio espresso da parte dei
cittadini più anziani, di cui Plutarco da’ conto, fa emergere chiaramente
l’antico rispetto verso il sacro.
Da questi due esempi agostiniani, tra clemenza e facezia, risulta
come il destino delle città captae dipendesse
dalle scelte del generale vittorioso e che, sebbene il ius belli consentisse azioni estreme rispetto ai beni del nemico
sconfitto, esisteva un certo ritegno al saccheggio sfrenato: sarà Marcello, non
senza critiche da parte dei nostalgici degli antichi costumi, a iniziare un
nuovo corso alla politica romana nei confronti dei vinti.
Nella chiusa del capitolo qui esaminato Agostino arriva all’epilogo del
suo ragionamento:
De civ. Dei 1.6: Cum
igitur nec illius fletum nec huius risum, nec illius castam misericordiam, nec
huius facetam continentiam, Romanarum rerum gestarum scriptores tacere
potuerint; quando praetermitteretur, si aliquibus hominibus in honorem
cuiuspiam deorum suorum sic pepercissent, ut in quoquam templo caedem vel
captivitatem fieri prohiberent? (PL 41,
col. 19).
Il vescovo sottolinea l’accuratezza della storiografia sulle gesta romane, e si chiede quale fosse il
motivo della mancanza in essa di un richiamo al principio su cui egli sta
argomentando. Agostino nega l’esistenza di luoghi considerati da Roma
inviolabili per rispetto delle divinità, dove chi si rifugiava non sarebbe
caduto in prigionia e non sarebbe stato ucciso. Nel legare l’inviolabilità dei
luoghi sacri alla deferenza cuiuspiam
deorum suorum, Agostino sagacemente pone in dubbio l’honor rivolto dai Romani ai loro dèi.
Ho già accennato all’intenso ossequio dei Romani verso gli dèi e
i loro culti (supra § 1); l’estrema
cautela usata verso il mondo del divino si manifestava anche nel meticoloso
rispetto dei beni ricadenti in ambito del diritto sacro. Questa deferenza,
attestata anche in altre civitates,
derivava dal timore religioso di una possibile vendetta divina[200]
riservata ai sacrileghi che avessero osato asportare illecitamente i beni
rientranti nel diritto divino, oggetti talvolta avvertiti, almeno nel sentire
comune, come appartenenti agli dèi[201].
Livio, in particolare, narra della razzia ordinata da Annibale nel 211 a.C.[202] ai
danni del tempio dedicato alla dea Feronia[203],
conosciuto per le celebri ricchezze[204]. Dopo
la partenza del generale cartaginese, nel santuario furono trovati consistenti
mucchi di rame, o di bronzo grezzo, abbandonato dai soldati, religione inducti, per evitare gli
effetti dell’empietà dell’atto[205]. Le
evenienze archeologiche confermano il quadro descritto da Livio, e hanno fatto concludere
che parte del bronzo saccheggiato fu lasciato nel tempio dai soldati[206].
L’utilizzo nel passo liviano del verbo iacio, connesso all’azione di scagliare[207],
tuttavia, può essere indizio di come il metallo vile fosse stato lasciato in
sostituzione di quello prezioso prelevato dal santuario[208]; si
tratta di una pratica di cui si ha testimonianza[209], che
si accosta, anche se solo per mera suggestione, alla massima simulata pro veris accipiuntur[210],
presente nel sistema giuridico-religioso romano. Dal racconto si ottiene la
misura del rispetto dei beni del tempio nell’antichità, anche se Silio Italico
non fa cenno alla sostituzione del metallo, ma si sofferma invece sulle
ricchezze del tempio e sostiene che fino ad allora fu solo il pavor a conservale[211]: resta
quindi ferma l’idea del rispetto verso i beni sacri.
Un altro episodio, relativo, anche questo, all’età della seconda
guerra punica e all’impossessamento di beni dei templi, è descritto sempre da
Livio. Nel 213 a.C., alla notizia della morte di Geronimo, i Siracusani furono
chiamati dai regicidi ... simul ad
libertatem, simul ad arma ..., così i disarmati sottrassero le spolia Gallorum Illyriorumque, dono del
popolo Romano, che erano state collocate nel tempio di Giove Olimpio dal nonno
del tiranno morto, Gerone II; coloro che prendevano le sacra arma pregavano Giove affinché fossero loro concesse pro patria, pro deum delubris, pro libertate[212]: in questa preghiera è evidente un tentativo
di giustificazione che fa trasparire l’irritualità dell’atto.
È
chiaro quindi che sussistevano delle norme religiose circa l’inviolabilità dei
luoghi sacri e dei beni a essi pertinenti. Tuttavia, si registrano delle
eccezioni in tal senso anche nella storia di Roma, dettate comunque da
necessità contingenti, poiché legate a problemi di tipo finanziario. Nel vivo
sempre della seconda guerra punica, dopo la rovinosa disfatta della battaglia
di Canne, i Romani procedettero a placare le divinità, specialmente a
fronte dello stuprum[213]
commesso da due vestali[214],
anche con sacrificia extraordinaria[215].
In questo clima di estrema cautela religiosa, nel 216 a.C., tra le misure
adottate dal dittatore M. Giunio Pera e dal magister equitum T.
Sempronio Gracco per formare un esercito, si dispose di staccare le vetera spolia hostium[216] da templa porticusque[217]. Nel riportare l’episodio, Valerio
Massimo ne evidenzia lo stato di necessità, anche se ne percepisce l’aspetto
ignominioso, poiché gli atti compiuti in tale occasione aliquid ruboris habeant[218].
Il termine tecnico per la fattispecie di furto di una res sacra in luogo sacro era sacrilegium (Quintilianus, Inst. or. 7.3.10: Sacrilegium est rem sacram de templo subripere ...[219]). Si
trattava di un atto gravissimo e inespiabile[220], come
si apprende da Cicerone: Sacrum sacrove
commendatum qui clepsit rapsitve, parricida esto[221]. Nelle Verrine emerge chiaramente la
gravità della sottrazione dei beni da luoghi sacri[222],
atto di cui l’oratore incolpava il governatore Verre in Sicilia, definendolo,
tra i vari appellativi attribuitigli, ...
non sacrilegus, ma hostis sacrorum
religionumque[223]. Dunque per i Romani,
anche il saccheggio dei tesori di un tempio per opera di soldati o magistrati,
altresì in territorio peregrinus, era condotta contraria al fas, tale da incrinare la pax deorum e produrre così delle
ripercussioni per la civitas[224]. Il fatto che il luogo sacro fosse
collocato all’esterno dei confini dell’urbs non ne inficiava la
sacralità, come, ad esempio, è esplicitato nella decisione del senato circa le
condizioni delle città vinte o arrese dopo la guerra latina: per la civitas di
Lanuvio data sacraque sua
reddita cum eo, ut aedes lucusque Sospitae Iunonis communis Lanuvinis
municipibus cum populo Romano esset[225].
Una chiara testimonianza di questa concezione emerge da un
episodio del III sec. a.C. Dopo la riconquista di Locri, nel 205 a.C., a opera
di Scipione, la città fu governata duramente dal suo legatus pro praetore[226],
Pleminio[227],
il quale, pur avendo Roma restituito alla città la posizione di civitas foederata[228],
spogliò i templi, e soprattutto depredò il santuario di Persefone[229]. Livio
sottolinea come questi tesori fossero rimasti intatti nel tempo, e come nel
passato il tempio fosse stato saccheggiato soltanto da Pirro, il quale aveva
espiato solennemente il sacrilegio riportando quanto sottratto: si trattava di
un atto nefando che aveva contaminato le persone coinvolte[230]. I
Locresi, nel 204 a.C., inviarono dieci legati, obsiti squalore et sordibus, al senato romano per richiedere
giustizia[231].
Introdotti nel consesso senatorio, uno di essi, il più anziano, narrò delle
atrocità compiute da Pleminio[232]. In
tale discorso, dove si sottolinea il rispetto dei Romani verso i loro culti e
l’accoglienza di quelli stranieri (Livius 29.18.2: vidimus enim cum quanta caerimonia non vestros solum colatis deos, sed
etiam externos accipiatis), il legato locrese si soffermò su quanto fatto
nel tempio di Proserpina sia da Pirro[233], sia
da Pleminio[234],
e rimarcò come questo atto fosse portatore di gravi sventure per i Romani come
lo fu per Pirro, parlando a riguardo di publica
clades[235].
Durante la seduta, in cui fu duro lo scontro politico tra le fazioni in campo,
si affermò anche il coinvolgimento di Scipione, per aver permesso la condotta
illecita del legato[236]. In
questa occasione Quinto Fabio, avversario di Scipione, suggerì di restituire il
doppio del valore del tesoro di Proserpina e
di effettuare un rito espiatorio, dopo aver consultato il collegio
pontificale per conoscere quae piacula, quibus dis, quibus hostiis
fieri placeret[237]. I patres scelsero una “risoluzione di
compromesso”[238]
e decretarono la composizione di una commissione
ad hoc, formata dal pretore della provincia Sicilia, Marco Pomponio Matone, e da
10 legati, unitamente a magistrati plebei, due tribuni e un edile[239];
compito della commissione era quello di svolgere una quaestio in loco[240].
Come ha evidenziato Santalucia, il senato, per questi casi di abusi, prima
delle leges Porciae del II sec. a.C.,
«era libero di ordinare una quaestio capitale
contro i cittadini romani in territorio extraurbano indipendentemente dal voto
dei comitia»[241]. I patres
disposero poi la consultazione dei pontefici in merito alle misure mirate a
emendare il sacrilegio[242]. A
Locri il pretore e la legazione, sulla base delle indicazioni ricevute, si
occupò innanzitutto della materia religiosa[243],
celebrando riti di espiazione dopo aver cercato di recuperare il tesoro del
santuario, con ciò provando come, prima ancora dell’inizio della inchiesta, le
implicazioni relative al sacro fossero da considerare una priorità. In seguito all’inchiesta, condotta a
Locri e in Sicilia, durante una contio dei
Locresi convocata da M. Pomponius Matho[244], i
commissari verificarono, con un certo sollievo[245], l’assenza
di responsabilità in capo a Scipione[246], e
condannarono (damnaverunt[247]) Pleminio, insieme ad altri trentadue
uomini. Dall’intero racconto appare come azioni di Pleminio e dei suoi complici
furono ritenute lesive per la civitas,
atte a portare alla publica clades[248], in
quanto dannose per la pax deorum[249]. Gli
imputati furono inviati a Roma in catene[250] per il
giudizio dei comitia promosso dai
tribuni della plebe[251].
Pleminio morì prima che fosse pronunciata la sentenza popolare[252]: taeterrimo genere morbi consumptus est[253].
Tra
gli altri esempi relativi a distrazioni di beni a danno di templi in terra
straniera si deve ricordare anche il caso del censore Q. Fulvio Flacco[254]
avvenuto nel 173 a.C. Il magistrato scoperchiò metà del tetto del templum
di Giunone Lacinia a Crotone, nel Bruzio, poiché intendeva utilizzare le tegole
smantellate per la costruzione del tempio di Fortuna equestris, da
lui promesso in voto nel 180 a.C. per la vittoria in Spagna sui Celtiberi[255].
Il santuario di Giunone interessava soltanto la polis achea, la civitas
foederata che coesisteva a Crotone con la colonia civium Romanorum,
la cui deduzione era stata decretata nel 194 a.C.[256];
eppure tale atto ebbe gravi ripercussioni sulla opinione pubblica romana. Livio
informa che in qualche modo il censore cercò invano di non rendere noto quanto
compiuto. Sebbene si tacesse sulla provenienza delle tegole, la verità fu
scoperta e quindi si chiese a gran voce che i consoli riferissero la questione
in senato[257]. Dinnanzi al consesso il censore
venne rimproverato fortemente, poiché il grave fatto faceva obstringere religione populum Romanum, affermando così un
coinvolgimento della res publica all’atto
sacrilego verso il celebre santuario[258]. In senato si
sostenne il principio per cui gli dèi erano gli stessi dappertutto, e quindi
non si potevano spogliare i luoghi sacri degli alleati: ciò conferma quanto
evidenziato già supra relativamente
alla ideologia propria dei Romani rispetto a un elenco delle divinità
potenzialmente aperto.
La decisione di espiare il sacrilegio con la restituzione di
quanto sottratto e con la celebrazione di piacula
a Giunone fu unanime[259]. Non
si ha notizia di punizioni previste per Q.
Fulvius Flaccus,
e del resto non si svolse alcun giudizio criminale a suo carico, ma, secondo il
sentire comune, egli fu punito dalla stessa dea[260].
Per
quanto riguarda i luoghi sacri collocati in un territorio nemico, ho già
accennato (supra § 1) come l’operato del generale romano vincitore si
basasse sul diritto di occupare qualsiasi bene dell’hostis. La
giurisprudenza dell’età del principato riporta il principio per cui i nemici
catturati divenivano servi, così le cose sacre o religiose captae
cessavano di esserlo, per ritornare a sussistere, allorché liberate, sulla base
di un quasi postiliminium[261].
Da una parte, quindi, era lecito conquistare le res divini iuris[262] del nemico, poiché divenivano profanae
al momento della loro occupazione; da un frammento del giurista Trebazio Testa[263],
tratto dal primo libro del De religionibus[264] e conservato da Macrobio,
si apprende infatti che il termine tecnico profanum indicava quod ex religioso vel sacro era stato convertito in hominum usum proprietatemque[265]. In seguito dunque alla
“conversione”, di cui né Trebazio né Macrobio descrivono le modalità, lo status
della res si sarebbe modificato. Dall’altra parte vi era la
possibilità di una messa in pristino di tali beni una volta riconquistati, ma
il richiamo al quasi postiliminium nulla dice circa le possibili
cerimonie religiose a riguardo.
Quanto
accadeva ai beni di culto romani dopo la loro riconquista, e le liturgie
collegate, si legge nella narrazione liviana intorno all’indomani del sacco
dell’Urbe da parte dei Galli Senoni. Camillo, artefice della liberazione, per
prima cosa ottenne dai patres un senatoconsulto in materia religiosa. Il
senato dispose relativamente ai fana che erano stati oggetto di
“possesso” del nemico (il verbo è utilizzato da Livio: quoad ea hostis possedisset), questi dovevano essere purificati
e, sulla
base di un responso dei duumviri sacris faciundis, si doveva ricercare nei libri
sibillini la formula appropriata di purificazione[266].
In questo caso non fu necessario il ricorso a una nuova consecratio, ma
si cercò un modo adeguato per l’espiazione[267].
I luoghi religiosi, infatti, una volta riconquistati, rimanevano tali qualora
gli dèi non avessero ancora abbandonato la loro civitas. Queste
concezioni si basavano su antichi principi giuridico-religiosi, e specialmente
riposavano sull’idea per cui la vita di un popolo era legata alla presenza di
divinità tutelari, e alla ininterrotta celebrazione dei culti a loro legati. Il
senatoconsulto sancì un vincolo di pubblica ospitalità con i Ceriti per aver
dato accoglienza agli oggetti e ai sacerdoti del popolo Romano[268]. Il
consesso senatorio, in linea con questa concezione, dispose, inoltre, i ludi
Capitolini motivati dalla circostanza che Giove Ottimo Massimo aveva difeso la
propria sede e l’arx del popolo
Romano[269].
Durante la devastazione gallica, infatti, i Romani avevano difeso la patria
nell’arce e nel Campidoglio[270], e al
contempo avevano preso tutte le misure necessarie in modo da non interrompere
il culto degli dèi immortali[271]: la continuazione delle cerimonie sacre
appariva condizione sufficiente affinché le res divinis iuris
rimanessero tali dopo la loro riconquista, poiché gli dèi erano considerati i
fautori della vittoria romana.
Secondo
i Romani, le res sacrae si acquistavano definitivamente, senza incorrere
in alcuna ritorsione divina, dopo che la civitas era stata abbandonata
dai propri dèi. Si credeva che le divinità potessero lasciare volontariamente
le loro sedi accogliendo le richieste a loro rivolte dal nemico attraverso il carmen
evocationis[272]: si trattava di una cerimonia finalizzata ad attirare gli dèi tutelari
dei nemici nella propria civitas[273],
e vincere così la guerra[274].
Il ricorso a tale strumento fa trapelare come, secondo una prospettiva di
massima cautela religiosa, nessuna divinità, anche quelle dell’hostis, fossero da considerarsi nemiche[275],
in quanto i Romani ritenevano nefas[276], come testimonia Macrobio, deos habere captivos[277]. Lo stesso Plinio, richiamando l’autorità di Verrio Flacco,
sostiene che agli dèi evocati si prometteva lo stesso culto, o uno più ampio. I Romani erano consci che questa cerimonia
poteva essere rivolta dai nemici alle loro divinità, e per questo facevano
custodire scrupolosamente il nome del dio protettore di Roma dal
collegio pontificale[278].
Macrobio
tramanda un prezioso esempio di formula di evocatio, quello pronunciato nel
146 a.C. e indirizzato alle divinità protettrici di Cartagine. In questo carmen si chiedeva agli dèi, sotto la cui tutela
era posta la civitas nemica, di abbandonare il populus civitasque,
di lasciare i loro loca templa sacra
urbemque, per andare a Roma[279]. È chiaro quindi che dopo la vittoria tutti i
luoghi sacri siti nella civitas nemica si consideravano abbandonati
dalle divinità tutelari evocate[280].
La
concezione alla base dell’evocatio, a cui prima ho accennato, è che la
vita di un popolo nasceva, si ampliava e sopravviveva, in correlazione agli
dèi, e che vi era una congiunzione tra le divinità e i luoghi di culto[281].
Questa rappresentazione si percepisce nel racconto liviano circa l’anno
successivo alla conquista di Veio, quando, a fronte delle richieste di terre da
parte della plebe, iniziò a serpeggiare l’idea di un trasferimento di parte del
popolo nel territorio veiente. Quando l’istanza venne accolta nella proposta
del tribuno della plebe Tito Sicinio[282], essa
venne avversata dagli ottimati i quali evidenziarono lo stretto rapporto tra
Roma e Romolo, definito dio, padre e fondatore della città[283]. Anni
dopo, la questione si riaprì, e il giorno in cui la proposta della dislocazione
a Veio dei Romani doveva essere votata, Marco Furio Camillo incitò i senatori a
opporsi. Nel suo acceso discorso si evidenzia il principio per cui era nefas abitare in una città abbandonata
dalle divinità[284].
Questo concetto, per cui sussisteva uno stretto e vitale legame tra città,
popolo e divinità tutelari, emerge nelle suppliche dei più autorevoli senatori rivolte durante le operazioni di voto,
quando essi implorarono di non abbandonare la patria: il popolo Romano non
poteva divenire un esule lontano dal suolo patrio e dai propri penati; la
proposta non passò, e prevalse così lo scrupolo religioso[285]. Il
legame tra la fondazione della città e la religio,
e la necessità di non interrompere i sacra
sono concetti pronunciati, secondo la tradizione, da Camillo[286], e
riflettevano la ideologia romana. La stessa concezione si scorge nell’immagine
di Enea che porta con sé gli dèi penati dopo la distruzione di Troia[287]: è
quindi evidente che per i Romani «Là où était le peuple, là étaient ses dieux»[288].
Quindi sotto un profilo giuridico-religioso, dopo la vittoria, la
sottrazione dei beni di un tempio sito in territorio nemico era del tutto
legittima, ma ciò non impediva che, data la cautela dei Romani, si volesse
scongiurare una possibile incrinatura del pacifico rapporto con gli dèi. La
stessa evocatio era recitata, come
afferma Servio, per evitare che si commettessero dei sacrilegi[289]. La materia inerente i luoghi sacri fu
sottoposta fin dall’età del regnum alla
cauta vigilanza del collegio pontificale[290],
al fine di individuare un corretto comportamento giuridico-religioso rispetto a
tali siti e alle res sacrae in essi
contenute. Questa attenzione particolare si evince anche dall’episodio in cui,
dopo la definitiva presa di
Capua avvenuta nel 211 a.C., si chiese ai pontefici di stabilire quali tra le
effigi e le statue bronzee prese al nemico fossero considerate sacre o profane[291]. In alcuni casi,
tuttavia, il generale vittorioso poteva decidere il totale rispetto del luogo
sacro. Cicerone, nel paragonare il comportamento di Marcello nell’episodio
relativo alla presa di Siracusa, con quello di Verre, offre in merito delle
preziose testimonianze:
In
Verr. II.4.122: Aedis Minervae est in Insula de qua ante dixi. Quam
Marcellus non attigit, quam plenam atque ornatam reliquit. Quae ab isto sic
spoliata atque direpta est, non ut ab hoste aliquo qui tamen in bello
religionem et consuetudinis iura retineret, sed ut a barbaris praedonibus
vexata esse videatur. Pugna erat equestris Agathocli regis in tabulis picta
praeclare; iis autem tabulis interiores templi parietes vestiebantur. Nihil
erat ea pictura nobilius, nihil Syracusis quod magis visendum putaretur. Has
tabulas M. Marcellus cum omnia victoria illa sua profana fecisset, tamen
religione inpeditus non attigit. Iste cum illa iam propter diuturnam pacem
fidelitatemque populi Syracusani sacra religiosaque accepisset, omnis eas
tabulas abstulit, parietes quorum ornatus tot saecula manserant, tot bella
effugerant, nudos ac deformatos reliquit.
Qui è del tutto evidente che il
generale vincitore poteva imporre all’esercito di risparmiare luoghi (e, come
abbiamo visto supra, persone) dal
saccheggio[292];
come affermato dall’oratore, a Siracusa Marcello non saccheggiò il tempio di
Minerva né prese i dipinti che ne ornavano le mura. Cicerone dapprima sostiene
che con la sua vittoria Marcello rese profana ogni cosa, confermando così
l’alta risalenza del principio espresso dalla giurisprudenza classica, poi,
utilizzando la particella avversativa tamen, giustifica la scelta del proconsole di non
toccare le preziose pitture in quanto religione inpeditus. Quindi
nei Romani potevano sussistere timori e cautele di tipo religioso anche dopo
una vittoria[293].
Secondo l’oratore, Verre non fu toccato da tali scrupoli, poiché spogliò il
tempio con le modalità dei predoni barbari. Il richiamo ai praedones è voluto, poiché la differenza tra essi e gli hostes è squisitamente giuridica; con i
nemici legittimi in bello
religionem et consuetudinis iura retineret: si tratta di un principio sviluppato dall’oratore anche nel De officiis[294].
Questa distinzione tra nemici legittimi, i latrones e i
praedones, per i suoi risvolti in
ambito giuridico, sarà presente
anche nella riflessione della giurisprudenza classica[295].
Un caso emblematico, in tal senso, fu la conquista di Veio nel
396 a.C., che offre preziose informazioni circa l’atteggiamento dei Romani
rispetto alle divinità, i culti, i luoghi e i beni sacri del nemico. Nel
descrivere il momento in cui l’esercito romano si preparava all’assalto finale,
dopo che il dittatore aveva promesso in voto ad Apollo Pizio la decima parte
del bottino[296],
e recitato l’evocatio diretta alla
divinità tutelare di Veio, Giunone Regina[297], Livio
sostiene che i Veienti erano all’oscuro di quanto stessero facendo le divinità.
Secondo lo storico, alcuni dèi erano stati chiamati a spartirsi la preda
bellica (questo è un chiaro riferimento al voto compiuto da Camillo), mentre
altre divinità, quelle dei Veienti, invitate dai Romani a lasciare la città, si
stavano già vedendo nelle loro nuove sedi presso i nemici (si tratta della enunciazione
dell’effetto della evocatio)[298]. Con
la espugnazione della città, i Romani dapprima occuparono le cose humanae, in seguito asportarono i tesori degli dèi e gli stessi dèi, ma, sottolinea
Livio evidenziando la cautela romana approntata in questa apprensione, colentium magis quam rapientium modo[299]. Fu in
tale occasione che si trasferì, con l’assenso espresso della dea, la statua di
Giunone Regina[300]. Per
portare a Roma il simulacro della dea si provvide con estrema cautela,
scegliendo dei giovani fatti accuratamente lavare e vestire con una veste
candida. Quello che si deve sottolineare nel racconto liviano è proprio la
volontà della divinità a trasferirsi nell’Urbe[301]. È
evidente, dunque, come per i Romani era importante che gli dèi partecipassero
al loro sistema giuridico-religioso, ma essendo questi delle entità superiori,
era impossibile costringerli in tal senso[302].
Riassumendo Agostino in De
civ. Dei 1.6 prima parla dell’assenza di rispetto nei confronti dei vinti
rifugiati nelle sedi dei propri dèi da parte di multae gentes (nusquam victis
in deorum suorum sedibus pepercerunt). Poi, quando volge il suo discorso
sui Romani, chiede polemicamente quali fossero gli edifici sacri che essi
concepivano come luoghi tali che chiunque vi si fosse rifugiato rimanesse
libero (quae templa excipere solebant, ut
ad ea quisquis confugisset, liberaretur). In seguito ribadisce l’assenza di
notizie nelle fonti antiche di un ordine impartito da un imperator in base al quale si riconoscevano dei templi dove chi vi
fuggiva sarebbe rimasto illeso (nec
uspiam legitur ab imperatore tam casto atque clementi fuisse praeceptum, ut
quisquis ad illud vel illud templum fugisset, abiret inlaesus). Infine, si
chiede per quale motivo gli storici avrebbero passato sotto silenzio casi in
cui si fosse proibito in un qualche tempio l’eccidio o la riduzione in
prigionia (quando praetermitteretur, si
aliquibus hominibus in honorem cuiuspiam deorum suorum sic pepercissent, ut in
quoquam templo caedem vel captivitatem fieri prohiberent?)[303],
sottintendendo l’inesistenza di una tale prassi.
Queste
asserzioni sono contraddette da Diodoro Siculo, il quale informa del
generalizzato rispetto per i luoghi sacri:
13.57.5:
τοσοῦτο γὰρ ὠμότητι
διέφερον οἱ βάρβαροι
τῶν ἄλλων, ὥστε
τῶν λοιπῶν ἕνεκα
τοῦ μηδὲν ἀσεβεῖν
εἰς τὸ δαιμόνιον
διασωζόντων
τοὺς εἰς τὰ ἱερὰ
καταπεφευγότας
Καρχηδόνιοι
τοὐναντίον ἀπέσχοντο
τῶν πολεμίων, ὅπως
τοὺς τῶν θεῶν
ναοὺς συλήσειαν.
Qui si afferma
chiaramente, che, fatta eccezione per i Cartaginesi di cui si descrive la
crudeltà manifestata nella presa di Selenunte, tutti gli altri popoli, per
rispetto verso la religione, risparmiavano coloro che si rifugiavano nei
templi. Questa notizia è compatibile con quanto è emerso dagli episodi sopra
esaminati, da cui risulta come,
nonostante le evocationes, che
trasformavano le res sacrae del
nemico in res profanae, sussistessero
nei Romani forti timori religiosi nel rapportarsi con il sacro.
Circa
l’inosservanza punica verso l’inviolabilità dei templi, un episodio specifico,
sempre relativo alla seconda guerra punica, è narrato da Livio quando descrive
nel 203 a.C. la partenza dall’Italia di Annibale, richiamato dal senato
cartaginese. In questa occasione numerosi soldati Italici, suoi alleati[304], che
si erano rifiutati di seguirlo in Africa, furono fatti trucidare foede dal generale cartaginese[305] nel
tempio di Giunone Lacinia[306], dove
si erano rifugiati. Livio non si sofferma sull’episodio, ma sottolinea che quel
tempio non era stato mai violato[307].
La considerazione delubrum inviolatum ad
eam diem mostra come l’uccisione di uomini all’interno di un tempio fosse
considerato un atto contrario alla sacralità del luogo[308].
Sebbene la veridicità di questo episodio sia stata negata in letteratura, è
significativo comunque che Livio, per tratteggiare negativamente la figura di
Annibale, abbia fatto ricorso alla descrizione della violazione di un tempio
come risultato di un massacro[309].
Per tornare a De civ. Dei 1.6,
devo evidenziare che il vescovo d’Ippona per tutto il capitolo non utilizza il
termine asylum, né tanto meno
connette a quell’istituto la fattispecie descritta, e negata, che avrebbe
comportato la proibizione in qualche tempio di uccidere o far prigionieri i
nemici. In un altro luogo della stessa opera, invece, accosta l’asilo istituito
da Romolo[310]
al rispetto che ebbero i Goti durante il sacco di Roma del 410. Qui Agostino
sostiene che gli eversores Urbis sanzionarono quanto prima fu stabilito dai conditores; tuttavia, ne evidenzia la differenza
rispetto allo scopo, poiché l’antico asilo era legato alla crescita demografica[311], mentre l’azione dei Goti fu finalizzata a servare la numerositas dei nemici. Nonostante il risalto dato soltanto alla
finalità legata alla crescita demografica, le fonti letterarie mettono in
evidenza il ricorso da parte del fondatore a strumenti di tipo religioso, con
la consacrazione del luogo e la erezione di un tempio che rendevano il luogo
inviolabile.
L’asilo di Romolo, aperto, come
sostiene Livius 1.8.5, sine discrimine[312],
non è un unicum nella Roma dalle
origini fino all’età repubblicana[313]:
la tradizione ricorda l’asylum
istituito da Servio Tullio[314],
e si ha notizia della presenza di antichi periculi
perfugia nell’Urbs[315]. Un frammento di Varrone, inoltre,
relativo all’esegesi del verbo pandere,
riporta la proposta etimologia di Elio Stilone in cui si evince l’esistenza di
un asilo, dove si distribuiva del pane a chi vi si rifugiava, e che, secondo,
Nonio, non era mai chiuso per i fuggitivi[316].
Sebbene secondo Servio non tutti i luoghi di culto offrissero immunità a chi si
rifugiava, poiché questa prerogativa doveva essere specificata dalla lex templi[317],
appare evidente come i Romani fin dalle origini riconoscessero l’inviolabilità
per coloro che trovavano riparo in alcuni siti sacri.
Al di fuori dell’Italia, esistevano luoghi di culto unanimemente dichiarati
inviolabili, come Delo[318];
così i Romani riconobbero asili presso numerose città del mondo greco[319].
Come racconta Tacito, nel 22 il senato si occupò del crescente abuso degli asyla ammessi da Roma nelle province
greche, e nel preciso resoconto si menzionano alcune concessioni precedenti,
dell’età repubblicana[320].
Sotto Tiberio però vi è un cambiamento rispetto al passato: «Se antichi
generali, e più recenti imperatori, avevano riconosciuto, con la sacralità di
alcuni luoghi, l’inviolabilità degli stessi, evidentemente senza entrare nei
contenuti [...] con i senatoconsulti tiberiani si definiscono i criteri, si pongono
i limiti all’operatività di tali diritti d’asilo per garantire protezione ai
cittadini per ragioni private»[321].
Appare quindi evidente che durante la res
publica i Romani concepivano l’inviolabilità di un luogo di culto: ecco
dunque un’ulteriore evenienza antitetica a quanto sostenuto da Agostino.
Agostino nega il rispetto dei Romani, e di multas gentes, per i templi: a suo avviso essi uccidevano e
imprigionavano i confugientes presso
i luoghi sacri. Al contrario ho evidenziato che la mentalità romana vedeva un
nesso eziologico tra il rispetto della religio
e l’espansione spazio-temporale della civitas,
poiché, secondo le riflessioni teologiche, le divinità sostenevano i popoli che
massimamente li veneravano. I Romani, quindi, si attenevano a una minuziosa
cautela verso il sacrum, tale da
vantarsi di essere in tal senso multo
superiores (Cicero, De nat. deor. 2.8) rispetto agli altri
popoli. La maggiore capacità nel mantenimento di rapporti pacifici con le
divinità era intesa come presupposto della supremazia bellica, da cui derivava
che anche in la guerra si dovevano rispettare i principi giuridico-religiosi
alla base della vita del populus Romanus. In tale contesto, la
riflessione agostiniana, per cui i Romani non rispettavano il nemico riparato
nei propri templi, non trova fondamento, poiché il comportamento romano era
giustificato da stretto diritto: sulla base di regole giuridico-religiose,
infatti, i Romani non erano tenuti al rispetto dei luoghi sacri del nemico in
quanto, con la conquista militare, tutte le res
divini iuris subivano una mutazione del loro status giuridico e divenivano profanae
(D. 11.7.36, Pomponius 26 ad
Quintum Mucium). Gli dèi tutelari dei nemici erano invitati a trasferirsi a
Roma, lasciando così le loro sedi e il popolo nemico in balia della conquista
del vincitore. Tuttavia, nonostante la presenza di questa disciplina
giuridico-religiosa, la tradizione testimonia la sussistenza di scrupoli
religiosi nutriti dai Romani: è il caso del Cunctator,
il quale, pur confondendo dei gruppi statuari con le stesse divinità, nello
scongiurare l’ira deorum diede prova
di elevata cautela. Fabio, oltre a ciò, procedette secondo la tradizionale
moderazione nell’apprensione dei beni sottratti al nemico. Il rispetto per la
sfera divina si intravvede anche nella politica romana di riconoscimento degli
asili di celebri santuari, unanimemente identificati come luoghi inviolabili.
Il racconto delle fonti fornisce ulteriori dati sulla possibilità, da parte dei
generali vittoriosi come Marcello, di fare salva la vita dei nemici.
Agostino, in De civ. Dei
1.5, a sostegno della sua tesi, richiama l’autorità di Sallustio[322]:
Quem morem etiam Caesar
(sicut scribit Sallustius, nobilitatae veritatis historicus) sententia sua,
quam de coniuratis in senatu habuit, commemorare non praetermittit: «Rapi
virgines, pueros; divelli liberos a parentum complexu, matres familiarum pati
quae victoribus collibuisset, fana atque domos spoliari, caedem, incendia fieri;
postremo armis, cadaveribus, cruore atque luctu omnia repleri». Hic si fana
tacuisset, deorum sedibus solere hostes parcere putaremus. Et haec non ab
alienigenis hostibus, sed a Catilina et sociis eius, nobilissimis senatoribus
et Romanis civibus, Romana templa metuebant. Sed hi videlicet perditi et
patriae parricidae (PL 41, col. 18).
Qui il vescovo cita parte del discorso tenuto in senato da Cesare
il 15 dicembre del 63 a.C., relativamente alla sorte da destinare ai
sostenitori di L. Sergio Catilina, accusati di aver tentato di concludere
un’alleanza con i Galli Allobrogi. La frase in questione, estrapolata dal
racconto di Sallustio, fa riferimento a precedenti sententiae espresse in senato da coloro che avevano preso la parola
prima di Cesare[323]. In
tali discorsi erano state richiamate, e deplorate, le sventure della res publica: nell’enumerazione delle belli saevitia e di quae victis adciderent si rinviene proprio quanto si deplorava nel
De civitate Dei. Le conseguenze tratte da Agostino, per cui i Romani non usavano
risparmiare le sedi degli dèi, dunque, appaiono pretestuose: le accuse mosse ai
congiurati di catilinari riguardano fatti degni di riprovazione da parte della res publica, poiché concernono un
momento patologico e non fisiologico dell’esperienza giuridica romana.
L’étude analyse De civ. Dei 1.6, où Augustin d’Hippone énonce que les
Romains n’aient pas épargné les ennemies qui ont pris refuge chez les sedes de leurs divinités. Les sources
anciennes, cependant, démontrent l'inexactitude de l’affirmation augustinienne: le méticuleuse respect romain pour la religio ne aurait jamais permis
l’accomplissement d’un acte contraire au fas,
parce que la pax deorum devait être
maintenue afin de réaliser l’expansion de la civitas.
[Per la pubblicazione
degli articoli della sezione “Tradizione Romana” si è applicato, in maniera
rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato
positivamente da due referees, che
hanno operato con il sistema del double-blind]
[1]
In questo luogo non è possibile dar conto della sterminata bibliografia
dedicata ad Agostino di Ippona e alle sue opere, in quanto, per la sua
centralità nel pensiero occidentale, il tema si presenta immensamente complesso
e composito. Qui mi limito a indicare soltanto alcuni scritti rivolti agli
aspetti giuridici della riflessione agostiniana: J. Gaudemet, Le droit
romain dans la littérature chrétienne occidentale du IIIe au Ve siècle,
Milano 1978, 127 ss., per l’influenza del diritto romano in Agostino; in
generale vedi F. Lardone, Roman Law in the
Works of St. Augustine, in Georgetown
Law Journal 21, 1933, 435 ss., D.
Nonnoi, San Agostino e il Diritto
Romano, in Rivista italiana per le
Scienze Giuridiche 9, 1934, 531 ss., e A.
Di Berardino, v. Diritto romano, in Agostino. Dizionario enciclopedico, ed. A. Fitzgerald, ed. it. a
cura di L. Alici – A. Pieretti, Roma 2007, 570 ss.
Tra le ricerche dedicate alle opere agostiniane inerenti agli istituti
giuridici romani vedi, ex multis: G.
Lepointe, L’occentatio de la loi des Douze Tables d’après Saint Augustin et
Cicéron, in Revue Internationale des Droits de
l’Antiquité 2, 1955, 287 ss.; A.
Houlou, Le droit pénal chez Saint
Augustin, in Revue Historique de Droit français et étranger 52,
1974, 5 ss.; M. Bianchini, Usi ed abusi della ‘custodia reorum’: una
testimonianza di Agostino d’Ippona, in Atti
del III Seminario Romanistico Gardesano, 22-25 ottobre 1985, Milano 1988,
441 ss.; Ead., Aspetti della repressione criminale agli
inizi del V secolo: riflessioni su Aug., ep. 9*, in Atti dell’Accademia Romanistica Costantiniana
10, Napoli 1995, 585 ss.; L. De Salvo, Nolo
munera ista (Aug., serm. 355, 3): eredità e donazioni in Agostino, in Atti
dell’Accademia Romanistica Costantiniana 9, Napoli 1993, 299 ss.; J. De Charruca, Un rescrit de Caracalla utilisé par Ulpien et interprété par Saint
Augustin, in Collatio Iuris Romani.
Études dédiées à H. Ankum à l’occasion de son 65e anniversaire, I, Amsterdam
1995, 71 ss.; P. Silli, Considerazioni sulla epistola 7ª (277) di S. Agostino, recentemente
scoperta, in Atti dell’Accademia Romanistica Costantiniana 11, Napoli 1996,
525 ss.; G. Rizzelli, Agostino, Ulpiano e Antonino, in Iuris
vincula. Studi in onore di M. Talamanca,
VII, Napoli 2001, 69 ss.; R. Coppola – C. Ventrella
Mancini, Consensus e utilitas come elementi di identificazione del popolo di Dio in Agostino, in
Diritto @ Storia 6, 2007, http://www.dirittoestoria.it/6/Tradizione-romana/Coppola-Ventrella-Agostino-Consensus-utilitas-identificazione-Popolo-di-Dio.htm
; P.O. Cuneo Benatti, Alcune
questioni giuridiche fra diritto romano e mondo barbarico nelle lettere di
Sant’Agostino (Ep. 10* e 46), in Atti
dell’Accademia Romanistica Costantiniana 20, Roma 2014, 139 ss.
[2] Per alcuni dei numerosi profili di questa opera, vedi,
ma senza presunzione di completezza: P. Brezzi, Riflessioni sulla genesi del De civitate Dei di Sant’Agostino, in Perennitas. Studi in onore A. Brelich, Roma s.d. [ma 1980], 77 ss.; H. Inglebert, Les romains chrétiens face à l’histoire de
Rome. Histoire,
christianisme et romanités en Occident dans l’Antiquité tardive (IIIe-Ve
siècles), Paris 1996, 395 ss.; P. Siniscalco, Res
publica e populus nel De civitate Dei (XI. 21 e XIX. 21 ss.) di Agostino d’Ippona, in Ius Antiquum - Древнее Право 1, 1996, 178 ss.; S. D’Elia, Su Roma e l’impero romano nel De civitate Dei di Agostino di Ippona, in L’idea
di Roma nella cultura antica, a cura di F. Giordano, Napoli 2001, 351 ss.;
F. Fontanella, L’impero romano nel De civitate Dei di Agostino, in Politica antica 4, 2014, 73 ss.
[3]
Per l’uso di questo termine, Augustinus, Retract.
2.43.1: ... cuius eversionem deorum
falsorum multorumque cultores, quos usitato nomine Paganos vocamus ... (PL 32, col. 648). Circa l’inesistenza
del concetto di “paganesimo” per la complessità e la molteplicità dei vari
credi diffusi nell’Impero romano, vedi, ad esempio: A.H.M. Jones, The Later Roman Empire 284-602. A Social, Economic and Administrative survey, II, Oxford 1964, 940; T. Orlandi, Imperium e
respublica nel De civitate Dei di
Agostino, in Istituto Lombardo.
Rendiconti classe di Lettere 101,
1967, 86 s.; cfr., da ultimo, M.A. Belmonte Sánchez, Actualidad
de la crítica de San Agustín al paganismo en De Civitate Dei, in
Espíritu 61.144, 2012, 313 ss. Sul rapporto tra il vescovo d’Ippona e gli aspetti culturali
della religio Romana, vedi T.
Orlandi, Il “De civitate Dei” di Agostino e la
storiografia di Roma, in Studi Romani 16, 1968, 17, il quale
sottolinea come «la composizione del De civitate Dei abbia rappresentato
per Agostino l’occasione di riaccostarsi e rimeditare una parte della cultura
pagana che egli aveva trascurato dai tempi della sua conversione». Sulla
polemica agostiniana contro i pagani, vedi, da ultimo: O. Monno, L’idolatria nella polemica antipagana
dei Sermones
di Agostino,
in Auctores Nostri 14, 2014, 375 ss.;
V. Lomiento, La polemica antipagana nei Discorsi
di Agostino: temi e immagini,
in Auctores Nostri 18, 2017, 113 ss.
[4] Per le questioni inerenti alle motivazioni alla base
della stesura dell’opera e alla sua struttura rinvio a T. Orlandi, Origine e
composizione del I libro del De civitate Dei di Agostino, in Studi
classici e orientali 14, 1965, 120 ss.
[5] Utilizzo questa felice locuzione, cara a F. Sini, di cui vedi, ad es., Sua cuique
civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma antica, Torino
2001.
[6] I breviculus del De civitate Dei, unitamente allo scritto, furono
allegati alla epistola 212/A, inviata nel 426 a Firmo, sacerdote africano, al
fine della loro pubblicazione; questa lettera, dove Agostino espone brevemente
il piano dell’opera, fu edita da C. Lambot,
Lettre inédite de S. Augustin relative au
“De civitate Dei”, in Revue
Bénédictine 51, 1939, 109 ss.: Domino eximio
meritoque honorabili ac suscipiendo filio Firmo Augustinus in Domino salutem. Libros De civitate Dei quos a me studiosissime flagitasti etiam mihi
relectos sicut promiseram misi, quod ut fieret, adiuvante quidem deo, filius
meus germanus tuus Cyprianus vere sic institit quemadmodum mihi ut instaretur
volebam. Quaterniones sunt XXII quos in unum corpus redigere multum est. Et si
duos vis codices fieri, ita dividendi sunt ut decem libros habeat unus, alius duodecim.
Decem quippe illis vanitates refutatae sunt impiorum, reliquis autem
demonstrata atque defensa est nostra religio, quamvis et in illis hoc factum
sit ubi oportunius fuit et in istis illud. Si autem corpora malueris esse plura
quam duo, iam quinque oportet codices facias, quorum primus contineat quinque
libros priores quibus adversus eos est disputatum qui felicitati vitae huius
non plane deorum sed daemoniorum cultum prodesse contendunt, secundus sequentes
alios quinque qui vel tales vel qualescumque plurimos deos propter vitam quae
post mortem futura est per sacra et sacrificia colendos putant. Iam tres alii codices qui sequuntur quaternos libros
habere debebunt. Sic enim a nobis pars eadem distributa est ut quatuor
ostenderent exortum illius civitatis totidemque procursum sive dicere maluimus
excursum, quatuor vero ultimi debitos fines. Si ut fuisti diligens ab habendos
hos libros ita fueris ad legendos, quantum adiuvent experimento potius tuo quam
mea promissione cognosces. Quos tamen nostri fratres ibi apud Carthaginem ad
hoc opus pertinentes quod est De civitate Dei nondum habent, rogo ut petentibus ad describendum dignanter libenterque
concedas. Non enim multis dabis sed vix
uni vel duobus et ipsi iam ceteris dabunt. Amicis vero tuis sive in populo
christiano se desiderent instrui, sive qualibet superstitione teneantur unde
videbuntur posse per hunc nostrum laborem dei gratia liberari, quomodo
impertias ipse videris. Ego scriptis meis, si dominus voluerit, crebro curabo
requirere quantum accesseris in legendo. Non te autem latet ut eruditum virum
quantum adiuvet ad cognoscendum quod legitur repetitio lectionis. Aut enim
nulla aut certe minima est intellegendi difficultas ubi est legendi facilitas,
quae tanto maior fit quanto magis iteratur, ut assiduitate ... fuerat
inmaturum. Domine eximie meritoque honorabilis ac suscipiende fili Firme, ad
eos sane libros quod De academicis recenti nostra conversatione conscripsi,
quoniam eximietati tuae prioribus ad me litteris innotuisse monstrasti, quomodo
perveneris quaeso rescribas. Quantum autem collegerit viginti duorum librorum
conscriptio missus breviculus indicabit (112 s.).
[7]
Per le riflessioni agostiniane rispetto all’evento vedi, ad es., A. Marcone, Il sacco di Roma nella riflessione di Agostino e di Orosio, in Rivista Storica Italiana 114, 2002, 851
ss.; G. Rinaldi, Echi pagani e cristiani del sacco di Roma
del 410 d.C., in Aa.Vv., Goti, romani, cristiani e la caduta di
Roma del 410. In dialogo con Agostino d’Ippona, a cura di V. Grossi – R. Ronzani, Roma 2010, 25 ss. In
generale, sul sacco di Roma, vedi M. Ghilardi
– G. Pilara, I Barbari che presero Roma. Il Sacco del 410 e le
sue conseguenze, Roma 2010; U. Roberto, Alarico e il sacco di Roma nelle fonti dell’Oriente romano, in The Fall of Rome in 410 and the
Resurrections of the Eternal City, a cura di H. Harich – K. Pollmann, Berlin-New York 2013, 109 ss.; Id., Roma capta. Il Sacco della città dai Galli ai Lanzichenecchi, Roma 2012, 45
ss.; Aa.Vv., The Sack of Rome in 410
AD. The Event, its Context and its Impact. Proceedings of
the Conference held at the German Archaeological Institute at Rome, 04–06 November 2010, a cura di J.
Lipps – C. Machado – Ph. von Rummel, Wiesbaden 2013.
[8]
De civ. Dei 1.1: Annon etiam illi Romani Christi nomini infesti sunt, quibus propter
Christum Barbari pepercerunt? Testantur hoc martyrum loca et basilicae
Apostolorum, quae in illa vastatione Urbis ad se confugientes suos alienosque
receperunt. Hucusque cruentus saeviebat inimicus; ibi accipiebat limitem
trucidatoris furor: illo ducebantur a miserantibus hostibus quibus etiam extra
ipsa loca pepercerant, ne in eos incurrerent, qui similem misericordiam non
habebant. Qui tamen etiam ipsi alibi truces atque hostili more saevientes,
posteaquam ad loca illa veniebant, ubi fuerat interdictum, quod alibi iure
belli licuisset, tota feriendi refrenabatur immanitas, et captivandi cupiditas
frangebatur (PL 41, coll. 14 s.).
[9] M. Pavan, Agostino emulo di Sallustio, in Studi Romani 8,
1960, 637.
[10] Orosius, Hist.
7.39: Adest Alaricus, trepidam Romam
obsidet, turbat, irrumpit. Dato tamen praecepto prius, ut si qui in sancta loca
praecipueque in sanctorum apostolorum Petri et Pauli basilicas confugissent,
hos imprimis inviolatos securosque esse sinerent. Tum deinde, in quantum
possent praedae inhiantes, a sanguine temperarent. ... Discurrentibus itaque
per Urbem Barbaris, forte unus Gothorum, idemque potens et Christianus, sacram
Deo virginem iam aetate provectam, in quadam ecclesiastica domo reperit: cumque
ab ea aurum argentumque honeste exposceret, illa fideli constantia esse apud se
plurimum, et mox proferendum spopondit, ac protulit. Dumque, expositis opibus,
attonitum Barbarum magnitudine et pondere ac pulchritudine, ignota etiam vasorum
qualitate intelligeret, virgo Christi ad Barbarum ait: ‘Haec Petri apostoli
sacra ministeria sunt. Praesume, si audes, de facto tu videris. Ego quia
defendere non valeo, neque tenere audeo’. Barbarus vero ad reverentiam
religionis, timore Dei et fide virginis motus, ad Alaricum per nuntium haec
retulit: qui continuo reportari ad apostoli basilicam universa, ut erant, vasa
imperavit; virginem etiam, simulque omnes qui se adiungerent Christianos, eodem
cum defensione deduci. Ea domus
a sanctis sedibus longe, ut ferunt, et medio interiectu Urbis aberat. Itaque magno spectaculo omnium disposita per singulos
singula, et super capita elata palam aurea atque argentea vasa portantur,
exsertis undique ad defensionem gladiis pia pompa munitur. Hymnis, Deo Romanis Barbarisque concinentibus, publice
canitur. Personat late in excidio Urbis salutis tuba, omnesque etiam in abditis
latentes, invitat ac pulsat. Concurrunt undique ad vasa Petri vasa Christi;
plurimi etiam pagani Christianis professione, etsi non fide, admiscentur; et
per hoc tamen ad tempus, quo magis confundantur, evadunt. Quanto copiusus aggregantur Romani confugientes, tanto
avidius circumfunduntur Barbari defensores (PL
31, coll. 1163 s.). Cfr. Sozomenus, Hist.
eccl. 9.9: καὶ περικαθεσθεὶς τὴν Ῥώμην εἷλε προδοσίᾳ· καὶ τοῖς αὐτοῦ πλήθεσιν ἐπέτρεψεν ἐκάστῳ,
ὡς ᾶν δύναιτο, τῶν Ῥωμαίων πλοῦτον ἁρπάζειν, καὶ πάντας τοὺς οῖκους ληἷζεσθῖα· ἄσυλον εἶναι προστάξας, αἰδοῖ τῇ πρὸς τὸν ἀπόστολον Πέτρον, τὴν περὶτὴν αὐτοῦ σορὸν ἐκκλησίαν, μεγάλην τεκαὶ πολὺν χῶρον περιέχουσαν. Τουτὶ δὲ γέγονεν αῖτιον τοῦ μὴ ἄρδην ἀπολέσθαι τὴν Ῥώμην. Οἱ γὰρ ἐνθάδε διασωθέντες (πολλοὶ γὰρ ἦσαν) πάλιν τὴν πόλιν ᾤκησαν (PG 67, col. 1616, tr. lat. col. 1615: Et Romam iterum obsessam [Alaricus]
proditione cepit: suisque copiis
permisit, ut singuli quantum possent, Romanorum opes diriperent, et universas
domos depraedarentur. Ob reverentiam tamen erga Petrum apostolum, basilicam
quae circa illius tumulum magna est et spatiosissima, inviolatam esset iussit.
Atque haec res impedimento fuit ne urbs Roma funditus interiret. Nam qui illic
servati erant, quorum ingens fuit multitudo, urbem denuo instaurarunt).
Per l’opera di Orosio, vedi, ad es.: A. Lippold,
Orosius, christlicher Apologet und
römischer Bürger, in Philologus 113,
1969, 92 ss.; H.-W. Goetz, Orosius und die Barbaren: Zu den
umstrittenen Vorstellungen eines spätantiken Geschichtstheologen, in Historia 29, 1980, 356 ss.; S. Tanz, Orosius im Spannungsfeld zwischen Eusebius von Caesarea und Augustin, in Klio 65, 1983, 337 ss.; P. Siniscalco, Le sacré et l’expérience de l’histoire: Ammien Marcellin et Paul Orose, in Bulletin de l’Association G. Budé. Lettres d’humanité 48, 1989, 355
ss., spec. 360 ss.; H. Inglebert, Les romains chrétiens
face à l’histoire de Rome, cit., 507 ss.; A. Marchetta, Aspetti della concezione orosiana della
storia, in Hispania terris omnibus felicior. Premesse ed esiti di un
processo di integrazione, Atti
del convegno internazionale, Cividale del Friuli, 27-29 settembre 2001, a
cura di G. Urso, Pisa 2002, 323 ss.; M.
Cesa, Le historiae aduersus
paganos di Orosio nel contesto della
storiografia tardoantica, in Forme
letterarie nella produzione latina di IV-V secolo, a cura di F.E.
Consolino, Roma 2003, 19 ss.; J. Cobet,
Orosius’ Weltgeschichte: Tradition und
Konstruktion, in Hermes 137,
2009, 60 ss.; C. Soraci, Da Costantino ai Vandali: aspetti della visione orosiana della storia, in Fra Costantino ai Vandali. Atti del Convegno Internazionale di Studi
per E. Aiello (1957-2013) (Messina, 29-30 ottobre 2014), a cura di L. De Salvo – E. Caliri – M. Casella, Bari 2016, 499 ss.
[11] Come è ormai noto, nel XIX e nella prima metà del XX
secolo, era prevalsa la tesi
dell’ostilità naturale, propugnata particolarmente da Theodor
Mommsen (di cui vedi, ad es.:
Das römische Gastrecht und die römische Clientel, in Historische Zeitschrift 1, 1859, 335 ss., ora in Id., Römische Forschungen, I, Berlin 1864, 326 ss.; Abriss des römischen
Staatsrechts, 2ª ed., Leipzig 1907, rist., Darmstadt 1974, 49 s. = Disegno del diritto
pubblico romano, tr. it. di P. Bonfante, a cura di V.
Arangio-Ruiz, s.l. 1943, rist. anast., Milano 1973, 91), secondo cui le relazioni tra i vari popoli antichi erano segnate dalla
naturale condizione della guerra. Questo postulato comportava, in assenza di
comunanza etnica, o di accordi internazionali, la negazione di qualsiasi
differenza concettuale tra i servi e
gli stranieri (vedi ad es.: H. Lévy-Bruhl, Théorie de l’esclavage, in
Id., Quelques problèmes du
très ancien droit romain. Essai de solutions sociologiques, Paris 1934, 15
ss., ora in Slavery in Classical Antiquity. Views and Controversies, a
cura di M.I. Finley, Cambridge-New York 1960, 151 ss.; É. Benveniste, Il vocabolario delle
istituzioni indoeuropee, I. Economia, parentela, società [ed. orig.
Paris 1969], tr. it. di M. Liborio, Torino 2001, il quale, nel suo capitolo “Lo
schiavo, lo straniero”, 272 ss., sostiene che «colui che è nato al di fuori
della comunità è a priori un nemico»).
Questa teoria si può dire ormai generalmente rigettata grazie
all’analisi di Alfred Heuss (Die völkerrechtlichen Grundlagen der
römischen Aussenpolitik in republikanischer Zeit, Leipzig 1933) e anche al lucido giudizio espresso da F. De Martino fin dalla metà del secolo
scorso (vedi ad es.: Storia della costituzione romana, II.1, Napoli 1954, 11 ss., 2ª ed.,
Napoli 1973, 13 ss.; intorno al peso della riflessione demartiniana in materia
degli aspetti giuridici delle relazioni internazionali di Roma antica rimando a
F. Sini, Pace, guerra, diritto. Sulla teoria dei rapporti internazionali nella Storia
della costituzione romana, in Tradizione
romanistica e Costituzione, I, a cura di M.P. Baccari e C. Cascione, Napoli
2006, 365 ss. [reperibile anche on line: F.
Sini, Pace, guerra, diritto.
Sulla teoria dei rapporti internazionali nella Storia della costituzione
romana di Francesco De Martino, in Diritto
@ Storia, 5, 2006 < www.dirittoestoria.it/5/Tradizione-Romana/Sini-Teoria-rapporti-internazionali-De-Martino.htm >], e, da ultima, a M.
Frunzio, Ancora sui rapporti
internazionali nell’opera di Francesco De Martino, in Cultura giuridica e diritto vivente 1, 2014, http://ojs.uniurb.it/index.php/cgdv/article/view/370 ). Per superare le posizioni, che l’autorità del Mommsen
aveva fatto propagare, furono fondamentali, inoltre, le riflessioni di P. Catalano intorno all’universalismo del
sistema giuridico-religioso romano (in part. rinvio a Linee del sistema sovrannazionale romano. I, Torino 1965). Questi
concetti fondati sulla religio Romana
non esclusivista sono approfonditi nell’opera di F. Sini (vedi spec.: Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto internazionale antico”,
Sassari 1991, 28 ss.; Dai peregrina
sacra alle pravae et externae
religiones dei Baccanali: alcune
riflessioni su ‘alieni’ e sistema giuridico-religioso romano, in Studia et Documenta Historiae et Iuris
60, 1994, 49 ss.; Sua cuique civitati
religio, cit., 1 ss., Bellum, fas, nefas: aspetti religiosi e giuridici
della guerra (e della pace) in Roma antica, in Diritto @ Storia 4, 2005, http://www.dirittoestoria.it/4/Memorie/Sini-Guerra-pace-Roma-antica.htm , a cui rinvio per un’ampia esposizione dottrinaria).
[12] Paulus Festus, Excerpt.
de verb. sign. 104 L.: Laureati
milites sequebantur currum triumphantis, ut quasi purgati a caede humana
intrarent Urbem. Itaque eandem laurum omnibus suffitionibus adhiberi solitum
erat, vel quod medicamento siccissima sit, vel quod omni tempore viret, ut
similiter respublica floreat. Vedi anche Plutarchus, Marc. 22.4: Οἱ μὲν γὰρ μετὰ μάχης καὶ φόνου τῶν πολεμίων ἐπικρατήσαντες τὸν ἀρήιον ἐκεῖνον, ὡς ἔοικε, καὶ φοβερὸν εἰσῆγον, ὥσπερ ἐν τοῖς καθαρμοῖς τῶν στρατοπέδων εἰώθεσαν, δάφνῃ πολλῇ καταστέψαντες τὰ ὅπλα καὶ τοὺς ἄνδρας.
[13] P. de Francisci, Primordia civitatis, Romae 1958, 276 s.,
per cui inizialmente il
trionfo era una cerimonia atta alla purgatio
dalla “contaminazione” derivante specialmente dal contatto con il sangue dei
nemici. In tal senso vedi ancora: M. Lemosse,
Les éléments techniques de l’ancien
triomphe romain et le problème de son origine, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, I.2, Berlin-New York 1972, 442 ss., spec. 445,
448, per cui il trionfo è un rito “de retour”, “de passage” e “de
purification”; F. Sini, Bellum nefandum, cit., 201 s., il quale
evidenzia gli aspetti religiosi alla base della condizione di impiatus del miles; G. Amiotti, Il trionfo come spettacolo, in Guerra e diritto nel mondo greco e romano
[Contributi dell’Istituto di storia antica 28], a cura di M. Sordi, Milano
2002, 201 ss., per il “significato espiatorio del trionfo”; D. Porte, Le prêtre à Rome. Les donneurs de sacré, 2ª ed., Paris 2007, 105
s.: «les troupes en armes ne pouvaient franchir l’enceinte sacrée du pomoerium et attendaient au Champ de
Mars, jusqu’au triomphe de leur chef, la permission de regagner leurs foyers.
Le laurier qui les couronnait ce jour-là était moins triomphal que
purificateur: il nettoyait les soldats entrant dans la ville du sang humain qui
les souillait, tandis que la pourpre qui vêtait l’Imperator symbolisait le sang versé, cette fois comme une sorte
d’équilibre compensatoire payant sa survie physique. Ainsi comprend-on la
nécessité qu’on ressentait d’une purification solennelle des défenseurs de Rome
que leur retour rendait à la vie civile». Contro
l’idea del trionfo come un rito di purificazione della città segnalo I. Östenberg, Circum metas fertur: an Alternative
Reading of the Triumphal Route, in Historia 59, 2010, 309 s., la quale parla in proposito di “entrance rite”.
[14]
Per l’uso dell’alloro al fine di purificare vedi: Plinius, Nat. hist. 15.135 (testo infra
nt. 23); Iuvenalis, Sat. 2.153-158: Curius quid sentit et ambo / Scipiadae, quid
Fabricius manesque Camilli? / Quid Cremerae legio et Cannis consumpta iuventus,
/ tot bellorum animae, quoties hinc talis ad illos / umbra venit? Cuperent
lustrari, si qua darentur / sulpura cum taedis, et si adforet umida laurus.
Intorno alle qualità di questa pianta, rimando a G. Guillaume-Coirier, Arbres
et herbe. Croyances et usages rattachés aux origines de Rome, in Mélanges de
l’École française de Rome. Antiquité 104, 1992, 339 ss., per cui l’alloro «sans doute dans une période
lointaine fut la plante de tous les pouvoirs» (371). Ciò si collega ad antiche
concezioni sul carattere sacrale di alcune specie vegetali, vedi, ad es.,
Macrobius, Sat. 3.20.2, per la
classificazione pontificale di alcune specie arboree: Sciendum quod ficus alba ex felicibus sit arboribus,
contra nigra ex infelicibus. Docent nos utrumque pontifices. Ait enim
Veranius De verbis pontificalibus: felices arbores putantur esse quercus
aesculus ilex suberies fagus corylus sorbus, ficus alba, pirus malus vitis
prunus cornus lotus. Cfr. anche Plinius,
Nat. hist. 16.108: Infelices autem existimantur damnataeque
religione, quae neque seruntur umquam neque fructum ferunt. P.
de Francisci, Primordia civitatis, cit., 233 ss.,
parla, a proposito, di “sfera di potenza” relativamente alla maggior parte
della flora.
[15] Vedi, ad es.: Ovidius,
Fast. 1.343 s.: Ara dabat fumos herbis contenta Sabinis, /
et non exiguo laurus adusta sono; 3.135-144: Neu dubites primae fuerint quin ante Kalendae / Martis, ad haec animum
signa referre potes. / Laurea flaminibus quae toto perstitit anno / tollitur,
et frondes sunt in honore novae; / ianua tum regis posita viret arbore Phoebi;
/ ante tuas fit idem, Curia prisca, fores. / Vesta quoque ut folio niteat velata
recenti, / cedit ab Iliacis laurea cana focis. / Adde quod arcana fieri novus
ignis in aede / dicitur, et vires flamma refecta capit; 4.728: udaque roratas laurea misit aquas;
Macrobius, Sat. 3.12.2 s.: Videmus et in capite praetoris urbani
lauream coronam, cum rem divinam Herculi facit. Testatur etiam Terentius Varro
in ea satura quae inscribitur περὶ κεραυνοῦ maiores solitos decimam Herculi vovere nec
decem dies intermittere quin pollucerent ac populum ἀσύμβολον cum
corona laurea dimitterent cubitum.
3. ... constat quidem nunc lauro
sacrificantes apud aram Maximam coronari, sed multo post Romam conditam haec
consuetudo sumpsit exordium, postquam in Aventino laurentum coepit virere, quam
rem docet Varro Humanarum libro secundo; Servius Dan., Verg. Aen. 8.276: Atqui
lauro coronari solebant qui apud aram maximam sacra faciebant. Sed hoc post
urbem conditam coepit fieri, neque alia fronde circumdat caput praetor urbanus,
qui Graeco ritu sacrificat. Sed poeta ad illud tempus retulit, quo Evander apud
aram maximam sacra celebravit. Varro enim rerum humanarum docet in Aventino
institutum lauretum, de quo proximo monte decerpta laurus sumebatur ad sacra:
quamvis ipse dixerit “populus Alcidae gratissima”. Cfr. Servius, Verg. Aen. 6.230: Felicis olivae arboris festae. Sed moris fuerat ut de lauro fieret.
sane dicit Donatus quod hoc propter Augustum mutavit. nam nata erat laurus in
Palatio eo die, quo Augustus: unde triumphantes coronari consueverant. Propter quam rem noluit laurum dicere ad officium lugubre pertinere.
[16] Per il significato di impiatus vedi H. Fugier, Recherches sur l’expression du sacré dans la
langue latine, Paris 1963, 334
ss.
Come sostiene F.
Beduschi, Osservazioni sulle
nozioni originali di Fas e Ius,
in Rivista italiana per le scienze
giuridiche 10, 1935, 227 s., la condizione di impiatus, prodotta dalla violazione del fas, richiedeva una
necessaria espiazione, anche per azioni «utili alla società e persino doverose
e onorevoli dal punto di vista sociale, è il caso dello spargimento di sangue,
compiuto fosse anche in aperta guerra; nessun biasimo sembra colpire il
guerriero, ma egli è “impiatus” per il sangue nemico che ha sparso»; il recare
rami d’alloro e l’armilustrium appaiono
così modi di purgatio. In tal senso
anche: P. Voci (Diritto sacro
romano in età arcaica, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 19,
1953, 54 e nt. 37, ora in Id., Studi
di diritto romano, I, Padova 1985, 230 e nt. 37), il quale, tra le cause di
impurità, individua “il contatto col sangue umano”, anche se l’uccisione «a
volte non è un delitto». Questa causa spiega la necessità di purificazione
tramite l’alloro dell’esercito trionfatore, ma anche altri riti, quali «il piaculum che accompagna l’offerta di
spoglie opime» e «i presupposti per l’augurium
salutis, che può essere compiuto solo in tempo di pace»; F. Sini (Bellum nefandum, cit., 201; Ut iustum conciperetur bellum. Guerra “giusta” e sistema
giuridico-religioso romano, in Seminari
di storia e di diritto, III. «Guerra
giusta»? Le metamorfosi di un concetto antico, a cura di A. Calore, Milano
2003, 63 s.), seguito da F. Marcattili
(La tomba di Tito Tazio e l’Armilustrium,
in Ostraka 18, 2009, 434: «coloro che
sfilavano nel trionfo coronati di alloro certificavano alla collettività
l’avvenuta purificazione, proclamavano l’abbandono del temibile status di
impiati e la loro ritrovata, piena dignità di cives»), il quale presta particolare
attenzione alla necessità per i soldati romani sia di purificazione sia di
«scongiurare le ritorsioni delle animae dei morti in battaglia». Rimando
anche a I. Ramelli, Il concetto di iure caesus e la sua corrispondenza con quello di bellum
iustum, in Guerra e diritto nel mondo
greco e romano, cit., 17 ss., per la «intrinseca ingiustizia di ogni guerra
e la necessità di un’espiazione del sangue versato».
[17] Plinius, Nat.
hist. 15.133 s.: Ipsa pacifera, ut
quam praetendi etiam inter armatos hostes quietis sit indicium. Romanis
praecipue laetitiae victoriarumque nuntia additur litteris et militum lanceis
pilisque, fasces imperatorum decorat. 134. Ex iis in gremio Iovis optimi maximique deponitur, quotiens laetitiam
nova victoria adtulit, idque non quia perpetuo viret nec quia pacifera est,
praeferenda ei utroque olea, sed quia spectatissima in monte Parnaso ideoque
etiam grata Apollini visa, adsuetis eo dona mittere, oracula inde repetere iam
et regibus Romanis teste L. Bruto, fortassis etiam in argumentum, quoniam ibi
libertatem publicam is meruisset lauriferam tellurem illam osculatus ex responso
et quia manu satarum receptarumque in domos fulmine sola non icitur.
Per l’uso dell’olivo nelle legazioni greche: Livius
29.16.6; 30.36.4-6. Vedi ancora:
Vergilius, Aen. 8.115 s.; Servius, Verg. Aen. 8.128.
[18] La definizione di hostis
si ritrova in differenti opere giurisprudenziali: D. 49.15.24 (Ulpianus libro primo institutionum): Hostes
sunt, quibus bellum publice populus Romanus decrevit vel ipsi populo Romano:
ceteri latrunculi vel praedones appellantur; D. 50.16.118 (Pomponius libro
secundo ad Quintum Mucium): ‘Hostes’ hi sunt, qui nobis aut quibus nos
publice bellum decrevimus: ceteri latrones aut praedones sunt; D.
50.16.234 pr. (Gaius
libro secundo ad legem duodecim tabularum): Quos nos hostes appellamus, eos
veteres ‘perduelles’ appellabant, per eam adiectionem indicantes cum quibus
bellum esset. Per l’accezione giuridica del termine vedi anche
Gellius, Noct. Att. 5.6.21 (testo infra nt. 69).
[19] Sul significato e le implicazioni giuridico-religiose
del termine hostis rimando per tutti
alle belle pagine di F. Sini: Bellum nefandum, cit., 145 ss.; «Fetiales, quod fidei publicae inter
populos praeerant»: riflessioni su fides
e “diritto internazionale” romano (a
proposito di bellum, hostis, pax),
in Il ruolo della buona fede oggettiva
nell’esperienza giuridica storica e contemporanea. Atti del Convegno
internazionale di studi in onore di A. Burdese (Padova – Venezia – Treviso,
14-15-16 giugno 2001), III, a cura di L. Garofalo, Padova 2003, 518 ss.; Ut iustum conciperetur bellum, cit., 43
ss.
[20] Per questa opera rinvio per tutti a F. Bona, Contributo allo studio della
composizione del «de verborum significatu» di Verrio Flacco, Milano
1964.
[21] Ph.E. Huschke, Iurisprudentiae
anteiustinianae quae supersunt,
5ª ed., Lipsiae
1886, 127 fragm. 19, colloca il frammento di
Masurio Sabino ex incertis libris,
anche se specifica: «Ex quibus quae Plinius servavit, non dubito omnia
memorialium libris deberi» (nt. 1), senza incertezze F.P. Bremer, Iurisprudentiae antehadrianae
quae supersunt, II.2,
Lipsiae 1898, 371 s. fragm. 13, lo ascrive al libro Xi dei memorialium libri.
[22] Sul termine purgare
vedi H. Fugier, Recherches, cit., 351 s.
[23] Plinius, Nat.
hist. 15.135: Ob has causas equidem
crediderim honorem ei habitum in triumphis potius quam quia suffimentum sit
caedis hostium et purgatio, ut tradit Masurius, adeoque in profanis usibus
pollui laurum et oleam fas non est, ut ne propitiandis quidem numinibus accendi
ex iis altaria araeve debeant. Sugli aspetti
connessi alla religio nell’opera pliniana,
vedi Th. Köves-Zulauf, Plinius d. Ä. und die römische Religion,
in Aufstieg und Niedergang der
römischen Welt, II.16.1, Berlin-New
York 1978, 187 ss.
[24] Eppure lo stesso Plinius, Nat. hist. 15.138, sostiene che l’alloro ... purificationibus adhibetur ... Secondo G. Amiotti, Il trionfo, cit., 202, i dubbi espressi dal naturalista, in merito
alla opinione di Masurio Sabino, sono legati al fatto che nella sua
rappresentazione del trionfo «prevale l’immagine gioiosa della celebrazione
della vittoria: questa, probabilmente, doveva essere ormai la percezione
prevalente dei suoi contemporanei alla vista del corteo trionfale».
[25] Per l’armilustrium
vedi: Varro, De ling. Lat. 6.22: Armilustrium ab eo quod in armilustrio
armati sacra faciunt, nisi locus potius dictus ab his; sed quod de his prius,
id ab lu<d>endo aut lustro, id est quod circumibant ludentes ancilibus
armati. Cfr. Paulus Festus, Excerpt.
de verb. sign. 17 L.: Armilustrium
festum erat apud Romanos, quo
res divinas armati faciebant, ac, dum sacrificarent, tubis canebant.
Su questa cerimonia vedi, ma senza presunzione di completezza: J. Marquardt, Le culte chez les romains, II, tr. fr. di M. Brissaud, Paris 1890, 169 s.; W. Warde Fowler, The Roman Festivals of the Period of the Republic. An Introduction to the Study of the Religion of the Romans, London 1899, 250 s.; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, 2ª ed., München 1912 [rist., München 1971], 144, 557; N. Turchi, La religione di Roma antica, Bologna 1939, 100 s.; F. Altheim, La religion romaine antique, tr. fr. di H.E. Del Medico, Paris 1955, 159 s.; P. de Francisci, Primordia civitatis, cit., 348; K. Latte, Römische Religionsgeschichte, München 1960, 120; H. Le Bonniec, Aspects religieux de la guerre à Rome, in Aa.Vv., Problèmes de la guerre à Rome, dir. J.-P. Brisson, Paris 1963, 102 s.; J. Bayet, La religion romaine. Histoire politique et psychologique, Paris 1969 [rist., Paris 1976], 87; M. Lemosse, Les éléments techniques de l’ancien triomphe romain, cit., 444; G. Dumézil, La religion romaine archaïque, 2ª ed., Paris 1974, 216; D. Sabbatucci, La religione di Roma antica dal calendario festivo all’ordine cosmico, Milano 1988, 331 s.; R. Turcan, Rome et ses dieux, Paris 1998, 121 s.; D. Porte, Le prêtre à Rome, cit., 105 s.: «Rome avait [...] l’obsession de la pureté. L’Armilustrium du 13 octobre pourvoyait donc à cette urgence». Vedi anche F. Marcattili, La tomba di Tito Tazio, cit., 431 ss.
[26] Per questo sacerdote vedi, ad esempio: J. Marquardt, Le culte chez les Romains, II, cit., 11 ss.; G. Wissowa, Religion
und Kultus der Römer, cit., 505 ss.;
K. Latte, Römische
Religionsgeschichte, cit., 202 s., 402 s.; W. Pötscher, Flamen
Dialis, in Mnemosyne 21, 1968,
215 ss.; B. Albanese, Il ‘trinoctum’ del ‘flamen Dialis’, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 35, 1969, 73 ss. (ora in Id., Scritti giuridici, I, a cura di M.
Marrone, Palermo 1991, 675 ss.); J.
Guillén, Los sacerdotes romanos,
in Helmantica 24, 1973, 32 ss.; G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., 163 ss.; G. Martorana, Osservazioni sul flamen Dialis, in φιλίας χάριν. Miscellanea di
studi classici in onore di E. Manni, IV,
Roma 1980, 1447 ss.; J.H. Vanggaard, The flamen. A Study in the History and
Sociology of Roman Religion, Copenhagen 1988; R. Del Ponte, La religione
dei romani. La religione e il sacro in Roma antica, Milano 1992, 139 ss.; F.M. Simón, ‘Flamen Dialis’. El
sacerdote de Júpiter en la religión romana, Madrid 1996; F. Milazzo, Due tabù del «flamen dialis» e un’ipotesi nel «iurare in leges», in
Index 32, 2004, 311 ss.; J.A. Delgado Delgado, Los derechos senatoriales del flamen Dialis, in Veleia 27, 2010, 255 ss.; C.
Goldberg, Priests and Politicians: rex sacrorum and flamen Dialis in Middle
Republican Politics, in Phoenix
69, 2015, 334 ss. Vedi anche il lavoro in lingua russa di V.A. Gončarov, Сакральные предписания и политико-правовой статус фламина Юпитера (Le prescrizioni sacrali
e lo status politico-giuridico del flamine di Giove), in Ius Antiquum - Древнее Право 2.10, 2002, 107 ss., con riassunto in italiano a 113.
[27] Festus, De verb. sign. 294 L.: ‘Procincta class<is’ dicebatur exercitus
ad> praelium instructus et par<atus, quem Diali flamini vi>dere non
licet anti--- dixerunt, ut nunc quoque --- ---tus est. Procincta autem ---
ad pugnam ire solit --- <testamen>ta in procinctu fieri n---.
[28] H. Peter, Historicorum Romanorum Reliquiae, I, 2ª ed., Stutgardiae 1914 [rist., 1993], 114
s., riporta il frammento al primo libro dei Iuris
pontificii libri.
[29]
Da non identificarsi con Quintus Fabius Pictor, autore delle Graecae historiae, ma con Ser. Fabio
Pittore (console nel 135 a.C.), autore dei Latini
annales, e di un’opera di diritto pontificale, sul quale vedi: [F.] Münzer, v. Fabius, nr.
128. Ser.(?) Fabius Pictor, in Paulys Real-Encyclopädie der classischen
Altertumswissenschaft [da ora in poi P.-W.],
6.2, Stuttgart 1909, coll. 1842
ss.; H. Peter, Historicorum Romanorum Reliquiae, I,
cit., clxxiv ss. Ma
vedi i rilievi di R. Del Ponte, Documenti
sacerdotali in Veranio e Granio Flacco: problemi lessicografici, in Diritto@Storia 4, 2005, http://www.dirittoestoria.it/4/Tradizione-Romana/Del-Ponte-Documenti-sacerdotali-Veranio-Granio-Flacco.htm#_ftn19
: «Quinto Fabio Pittore, non l’annalista, ma l’antiquario, che intorno al
[30] Gellius, Noct.
Att. 10.15.1: Caerimoniae impositae
flamini Diali multae, item castus multiplices, quos in libris, qui ‘de
sacerdotibus publicis’ compositi sunt, item in Fabii Pictoris librorum primo
scriptos legimus.
[31] La definizione di pomerio è offerta dalla lettura congiunta
(come suggerito da P. Catalano, Aspetti spaziali del sistema
giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, in Aufstieg und
Niedergang der römischen Welt, II.16.1, Berlin-New York 1978, 479
ss.) di: Varro, De ling. Lat.
5.143: ... postmoerium dictum, <eius>que auspicia urbana finiuntur;
Livius 1.44.4 s.: Pomerium, verbi vim
solam intuentes, postmoerium interpretantur esse; est autem magis circamoerium,
locus, quem in condendis urbibus quondam Etrusci, qua murum ducturi erant,
certis circa terminis inaugurato consecrabant, ut neque interiore parte
aedificia moenibus continuarentur, quae nunc vulgo etiam coniungunt, et
extrinsecus puri aliquid ab humano cultu pateret soli. 5. Hoc spatium, quod neque habitari neque arari
fas erat, non magis, quod post murum
esset, quam quod murus post id, pomerium Romani appellarunt; et in urbis
incremento semper, quantum moenia processura erant, tantum termini hi
consecrati proferebantur; Gellius, Noct.
Att. 13.14.1: ‘Pomerium’ quid esset, augures
populi Romani, qui libros de auspiciis scripserunt, istiusmodi sententia
definierunt: Pomerium est locus intra agrum effatum per totius urbis circuitum
pone muros regionibus certeis determinatus, qui facit finem urbani auspicii.
Cfr. anche D. 18.7.5 (Papinianus libro
decimo quaestionum).
Per un’analisi etimologica rimando ad A. Ernout – A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine. Histoire des mots, 3ª ed., Paris
1979, 423 s., alla v. mūrus, -ī, a cui il termine è
comunemente collegato. Sul pomerio vedi, ad
es.: Th. Mommsen, Der Begriff
des pomerium, in Hermes 10, 1876, 40 ss.; D. Detlefsen, Das Pomerium Roms und die Grenzen Italiens,
in Hermes 21, 1886, 497 ss.; Ch.
Hülsen, Das Pomerium Roms in der Kaiserzeit, in Hermes 22,
1887, 615 ss.; I.M.J. Valeton, De
templis Romanis, in Mnemosyne 23, 1895, 64 ss.; 25, 1897, 93 ss.,
361 ss.; 26, 1898, 1 ss.; A.M. Merlin, A
propos de l’extension du Pomerium par Vespasien, in Mélanges
d’archéologie et d’histoire 21, 1901, 97 ss.; S.B. Platner, The Pomerium and Roma Quadrata, in American
Journal of Philology 22, 1901, 420 ss.; C.O. Thulin, Die etruskische Disciplin, III, Göteborg 1909 [rist. anast., Darmstadt 1968], 10
ss.; M. Labrousse, Le “pomerium”
de la Rome impériale, in Mélanges d’archéologie et d’histoire 54,
1937, 165 ss.; A. von Blumenthal, v.
Pomerium, in P.-W., 21.2, 1952, coll. 1867 ss.; J. Le
Gall, A propos de la Muraille Servienne et du Pomerium. Quelques
rappels et quelques remarques, in Études d’archéologie classique 2,
1959, 41 ss.; P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale.
I, Torino 1960, 292 ss.; Id.,
v. Pomerio, in Novissimo Digesto Italiano, 13, Torino 1966, 263 ss.; G.
Lugli, I confini del pomerio suburbano di Roma primitiva, in Mélanges d’archéologie, d’épigraphie et
d’histoire offerts à J. Carcopino, s.l. 1966, 641 ss.; J. Gagé, La ligne pomériale el les
catégories sociales de la Rome primitive. A propos de l’origine des Poplifugia et des «Nones Caprotines», in Revue
Historique de Droit français et étranger 48, 1970, 5 ss. (ora in Id., Enquêtes sur les structures
sociales et religieuses de la Rome primitive, Bruxelles 1977, 162 ss.); F. De Martino, Storia della costituzione romana, I, 2ª ed., Napoli 1972, 126 ss.; A.
Magdelain, Le pomerium
archaïque et le mundus, in Revue des études latines 54, 1976,
71 ss. (ora in Id., Jus imperium auctoritas. études de droit romain, Rome 1990,
155 ss.); R. Antaya, The
Etymology of pomerium, in American
Journal of Philology 101, 1980, 184 ss.;
B. Liou-Gille, Le pomerium, in Museum Helveticum 50, 1993, 94 ss.; K. Sandberg, Magistrates and Assemblies. A Study of Legislative Practice in Republican Rome, Rome 2001, 119 ss., rispetto alle assemblee comiziali;
G. De Sanctis, Solco, muro, pomerio, in Mélanges de
l’École française de Rome 119, 2004, 503 ss.; E. De Magistris, Paestum
e Roma quadrata. Ricerche sullo spazio augurale, Napoli 2007, 179 ss.; A. Maccari, Quid sit pomerium: Appunti su
Gellio, Noctes Atticae XIII, 14. Le fonti e il confronto con Fest. 294 L, in Studi
Classici e Orientali 61, 2015, 313 ss.; Ead.,
Habebat ius proferendi pomerii (Gell., Noctes Atticae, XIII, 14). L’evoluzione dello ius prolationis dalle origini a Silla, in Studi
Classici e Orientali 62, 2016, 161 ss. Vedi
anche M. Sofia, Il
pomerio di Roma lungo la fascia tiberina, in Orizzonti. Rassegna di
archeologia 13, 2012, 113 ss. Cfr., inoltre, per i rapporti con i
poteri magistratuali, F.K. Drogula, Imperium, Potestas, and the Pomerium in the
Roman Republic, in Historia 56,
2007, 419 ss., dove si rigetta il concetto di imperium domi. Sulle
implicazioni giuridico-religiose del pomerium
in virtù del suo ruolo «nella determinazione delle realtà religiose e
giuridiche dell’urbs» rimando a F. Sini, Urbs: concetto
e implicazioni normative nella giurisprudenza, in Diritto @ Storia 10, 2011-2012, http://dirittoestoria.it/10/Tradizione-Romana/Sini-Urbs-concetto-norme-giurisprudenza.htm .
[32] Gellius, Noct.
Att. 15.27.5.
[33] Sul concetto giuridico della linea di confine dell’urbs, per cui il pomerio era la linea di
demarcazione tra auspicia urbana e militaria vedi P. Catalano, Aspetti spaziali, cit., 481 s.;
F. Sini, Urbs: concetto e
implicazioni normative nella giurisprudenza, cit.
[34] Livius 1.20.2: [Numa]
ne sacra regiae vicis desererentur, flaminem Iovi adsiduum sacerdotem creavit
insignique eum veste et curuli regia sella adornavit. Per l’adsiduitas del flamine di Giove vedi
specialmente F.M. Simón, ‘Flamen Dialis’, cit., 103 ss., con discussione delle fonti.
[35] Livius 5.52.13. Cfr. anche Gellius, Noct. Att. 10.15.14 e Plutarchus, Quaest. Rom. 40, i quali riportano il divieto per il flamen Dialis di dormire tre notti fuori
dal suo letto, mentre Tacitus, Ann. 3.71
parla a riguardo di due soli giorni. Vedi B. Albanese, Il ‘trinoctum’ del ‘flamen Dialis’, cit., 87 (= Scritti giuridici, I, cit., 689), per
cui in origine questa antica interdizione era diretta ai tre flamini maggiori,
e solo col passare del tempo rimase per il sacerdote di Giove.
[36] Come sottolineava A.
Bouché-Leclercq, Manuel des
institutions romaines, Paris 1886 [rist., Paris 1931], 514, era vietato al
sacerdote di guardare «tout ce qui passait pour impur». Per P. Voci, Diritto sacro romano, cit., 54 nt. 37 (= Studi di
diritto romano, I, cit.,
230 nt. 37), i divieti del flamen Dialis
elencati da Gellio si spiegano con la situazione di impurità prodotta dal
contatto con il sangue umano. Tra coloro che riconducono il divieto di vedere
l’armata con l’incompatibilità di questo sacerdote con la morte vedi, ad es.:
W. Pötscher, Flamen Dialis, cit., 219, secondo il quale questa interdizione
mirava a evitare al sacerdote una «Lebensminderung» prodotta dall’attività
bellica; F.M. Simón, ‘Flamen Dialis’, cit., 128; D. Porte,
Le prêtre à Rome, cit., 85.
[37]
Faccio mia l’espressione di R. Taylor, Watching the Skies: Janus, Auspication, and
the Shrine in the Roman Forum, in Memoirs
of the American Academy in Rome 45, 2000, 24: «The city, the realm of peace, was strictly demilitarized».
[38] In tal senso Ovidius, Fast. 1.275-282: ara mihi posita est parvo coniuncta
sacello: / haec adolet flammis cum strue farra suis. / ‘At cur pace lates,
motisque recluderis armis?’ /Nec mora, quaesiti reddita causa mihi est: / ‘Ut
populo reditus pateant ad bella profecto, / tota patet dempta ianua nostra
sera. / Pace fores obdo, ne qua discedere possit; / Caesareoque diu numine
clausus ero’. Il rito viene riportato dalle fonti all’età
del regnum ma con differenti
tradizioni circa la sua istituzione: Varro, De
ling. Lat. 5.165: Tertia est
Ianualis, dicta ab Iano, et ideo ibi positum Iani signum et ius institutum a Pompilio,
ut scribit in annalibus Piso, ut sit aperta semper, nisi cum bellum sit
nusquam. Traditum est memoriae Pompilio rege fuisse opertam ...; Livius
1.19.2: Quibus cum inter bella adsuescere
videret non posse, quippe efferari militia animos, mitigandum ferocem populum
armorum desuetudine ratus, Ianum ad infimum Argiletum indicem pacis bellique
fecit, apertus ut in armis esse civitatem, clausus pacatos circa omnes populos
significaret; Macrobius, Sat. 1.9.16-18: ... invocemus ... Patulcium et Clusivium quia bello caulae eius patent,
pace clauduntur, huius autem rei haec causa narratur. 17. Cum bello Sabino, quod virginum raptarum
gratia commissum est, Romani portam quae sub radicibus collis Viminalis erat,
quae postea ex eventu Ianualis vocata est, claudere festinarent, quia in ipsam
hostes ruebant, postquam est clausa, mox sponte patefacta est; cumque iterum ac
tertio idem contigisset, armati plurimi pro limine, quia claudere nequibant,
custodes steterunt, cumque ex alia parte acerrimo proelio certaretur, subito
fama pertulit fusos a Tatio nostros. 18. Quam ob causam Romani, qui aditum tuebantur, territi profugerunt.
Cumque Sabini per portam patentem inrupturi essent, fertur ex aede Iani per
hanc portam magnam vim torrentium
undis scatentibus erupisse, multasque perduellium catervas aut exustas ferventi
aut devoratas rapida voragine deperisse. Ea re placitum ut belli tempore, velut
ad urbis auxilium profecto deo, fores reserarentur; Servius, Verg. Aen. 1.291: Aspera tunc id est Caesare consecrato cum Augustus
regnare coeperit, clauso Iani templo, pax erit per orbem. Constat autem templum
hoc ter esse clausum: primum regnante Numa, item post bellum Punicum secundum,
tertio post bella Actiaca quae confecit Augustus: quo tempore pax quidem fuit
quantum ad exteras pertinet gentes, sed bella flagravere civilia, quod et ipse
per transitum tangit dicens ‘Furor impius intus’. Huis autem aperiendi vel
claudendi templi ratio varia est. Alii dicunt Romulo contra Sabinos pugnante,
cum in eo esset ut vinceretur, calidam aquam ex eodem loco erupisse, quae
fugavit exercitum Sabinorum: hinc ergo tractum morem, ut pugnaturi aperirent
templum, quod in eo loco fuerat constitutum, quasi ad spem pristini auxilii.
Alii dicunt Tatium et Romulum facto foedere hoc templum aedificasse, unde et
Ianus ipse duas facies habet, quasi ut ostendat duorum regum coitionem. [Vel
quod ad bellum ituri debent de pace cogitare.] Est alia melior ratio, quod ad
proelium ituri optent reversionem, vedi anche Servius Dan., Verg. Aen. 1.294. In materia vedi: H. Le
Bonniec, Aspects religieux, cit., 104, per cui l’apertura delle
porte di Giano è spiegata dall’esistenza di un «lien magico-religieux qui unit
la ville et ses habitants à l’armée en campagne»; D. Porte, L’étiologie
religieuse dans les fastes d’Ovide,
Paris 1985, 321: «L’obstacle que constituait la porte était un obstacle
magique, et l’empêchement au retour des guerriers que présentait sa fermeture
était sans doute situé sur un plain surnaturel». Vedi
invece D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, cit., 17
s., per cui l’apertura del tempio era effettuata «quasi ad indicare l’ingresso
nel campo d’azione del dio».
[39] Iuvenalis, Sat. 6.393
s.: Dic mihi nunc, quaeso, dic,
antiquissime divum, / respondes his, Iane pater? Per i vari epiteti di
Giano, vedi, ad es.: Macrobius, Sat. 1.9.15 s., rimando in materia a G.
Capdeville, Les épithètes
cultuelles de Janus, in Mélanges de
l’école française de Rome.
Antiquité 85, 1973, 395 ss.
[40]
Su Ianus e il suo culto, vedi ad
esempio: [W.H.]
Roscher, v. Ianus, in Ausführliches Lexikon des griechischen und römischen Mythologie,
II.1, ed. W.H. Roscher, Leipzig 1890-1894, coll. 15 ss.; G. Wissowa, Religion
und Kultus der Römer, cit., 103 ss.; B.R.
Burchett, Janus in roman life and
cult. A study in roman religion, Thesis, University of Pennsylvania, Menasha, Wisconsin 1918; G.
Giannelli, Ianus. Origini e antichità
del culto, in Rivista di Filologia e di Istruzione Classica 52, 1924, 210 ss.; N. Turchi,
La religione, cit., 161 ss.; A. Audin, Janus, le
génie de l’Argiletum, in Bulletin de l’Association
G. Budé. Lettres d’humanité 10, 1951, 52 ss.; K. Latte, Römische Religionsgeschichte, cit., 132
ss.; R. Schilling, Janus, le dieu introducteur, le dieu des
commencements, in Mélanges d’archéologie
et d’histoire 72, 1960, 89 ss. (ora in Id.,
Rites, cultes, dieux de Rome,
Paris 1979, 220 ss.); L.A. Holland, Janus and the Bridge, Rome 1961; A.
Brelich, Tre variazioni romane sul
tema delle origini, 2ª ed., Roma 1976, 95
ss.; J. Gagé, Sur les origines du culte de Janus, in Revue de l’histoire des religions 195.1,
1979, 3 ss.; 195.2, 1979, 129 ss.; D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, cit., 13
ss.; R. Del Ponte, Dei e Miti
Italici. Archetipi e forme della sacralità romano-italica,
3ª ed.,
Genova 1998, 51 ss.; R. Taylor, Watching the Skies, cit., 1 ss.
[41] Per la festa vedi, ad es.: J. Marquardt, Le culte chez
les Romains, II, cit., 381 ss.; J.-A. Hild,
v. Saturnalia, in Dictionnaire des antiquités grecques et romaines,
IV.2, ed. Ch. Daremberg –
Edm. Saglio, Paris s.d., 1080 ss.; W. Warde
Fowler, The Roman Festivals, cit., 268 ss.; G. Vaccai, Le feste di Roma
antica. Miti, riti, costumi, Torino 1902, 198 ss.; G. Wissowa, v. Saturnus, in Ausführliches Lexikon des griechischen
und römischen Mythologie, IV, ed. W.H. Roscher, Leipzig 1909-1915, coll.
436 ss.; M.P. Nilsson, v. Saturnalia,
in P.-W., 2A.1, 1921, coll. 201 ss.;
P. de Francisci, Primordia civitatis, cit., 351 s.; V.
D’Agostino, Sugli antichi
Saturnali, in Rivista di Studi Classici 17, 1968, 180 ss.; C. Guittard, Recherches sur la nature de Saturne des origines à la réforme de 217
avant J.C., in R. Bloch, Recherches sur les
religions de l’Italie antique, Genève 1976, 43 ss.; G. Brugnoli,
Il carnevale e i Saturnalia, in La Ricerca Folklorica 10, 1984,
49 ss.; D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, cit., 343
ss.; R. Del Ponte, La religione dei romani, cit., 203 ss.; R. Turcan, Rome et ses dieux, cit., 60 s., 124.
[42] Macrobius, Sat. 1.10.1:
Sed ut ad Saturnalia revertamur, bellum
Saturnalibus sumere nefas habitum, poenas a nocente isdem diebus exigere
piaculare est.
[43] Macrobio richiama quello che appare un ulteriore
divieto, nefas est proelium sumere,
intendendolo come non fosse lecito dare battaglia, prescritto non solo per i
Saturnali, ma anche per altre festività; nel brano l’erudito utilizza inoltre
la locuzione inchoare bellum, comprendente non solo l’inizio della
guerra ma anche i suoi preparativi: Nam
cum Latiar, hoc est Latinarum sollenne, concipitur, item diebus Saturnaliorum,
sed et cum mundus patet, nefas est proelium sumere: 17. quia nec Latinarum tempore, quo publice
quondam indutiae inter populum Romanum Latinosque firmatae sunt, inchoari
bellum decebat, nec Saturni festo, qui sine ullo tumultu bellico creditur
imperasse, nec patente mundo, quod sacrum Diti patri et Proserpinae dicatum
est, meliusque occlusa Plutonis fauce eundum ad proelium putaverunt. 18. Unde et Varro ita scribit. Mundus cum patet,
deorum tristium atque inferum quasi ianua patet. Propterea non modo proelium
committi, verum etiam dilectum rei militaris causa habere ac militem
proficisci, navem solvere, uxorem liberum quaerendorum causa ducere religiosum
est. 19. Vitabant veteres ad viros
vocandos etiam dies qui essent notati rebus adversis, vitabant etiam ferias
sicut Varro in augurum libris scribit in haec verba: viros vocare feriis non
oportet: si vocavit, piaculum esto. 20. Sciendum
est tamen eligendi ad pugnandum diem Romanis tunc fuisse Licentiam, si ipsi
inferrent bellum. At cum exciperent, nullum obstitisse diem, quo minus vel
salutem suam vel publicam defenderent dignitatem. Quis enim
observationi locus, cum eligendi facultas non supersit? (Sat. 1.16.16-20).
H. Le
Bonniec, Aspects religieux, cit., 108, parla in tal caso di
«“tabous” temporels» circa l’intraprendere operazioni militari. Vedi anche Festus, De
verb. sign.
[44] Vedi quanto diceva a proposito J. Marquardt, Le culte chez les Romains, II, cit., 143: «Les Romains cherchaient
à s’assurer l’approbation et la bénédiction des dieux au début de toutes leurs
entreprises publiques ou privées; ils n’y manquaient pas surtout à propos des
affaires extérieures, c’est-à-dire de la guerre et de la paix. Pas de guerre
qui ne commençât par de sacrifices, des prières et des voeux et qui ne finît
par une fête d’actions de grâces. L’expansion victorieuse de la domination
romaine était regardée comme la récompense de la piété des Romains; l’heureuse
issue d’une guerre prouvait à leurs yeux que celle-ci était agréable à la
divinité».
[45] Sul bellum iustum
vedi, ex multis: H. Drexler, Iustum bellum, in Rheinisches
Museum für Philologie 102, 1959, 97 ss. (ora in Id., Politische
Grundbegriffe der Römer, Darmstadt 1988,
188 ss.); H. Hausmaninger, “Bellum iustum” und “iusta causa belli” im älteren römischen Recht, in Österreichische
Zeitschrift für öffentliches Recht 11 n.s., 1961, 335 ss.; K.-H. Ziegler, Das Völkerrecht der römischen Republik, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, I.2, Berlin-New York
1972, 68 ss.; S. Albert, Bellum iustum. Die Theorie des “gerechten
Krieges” und ihre praktische Bedeutung für die auswärtigen Auseinandersetzungen
Roms in republikanischer Zeit, Kallmünz 1980; V. Ilari, L’interpretazione storica del diritto di guerra
romano fra tradizione romanistica e giusnaturalismo, Milano 1981; K.-E. Petzold, Die Entstehung des römischen Weltreichs im Spiegel der Historiographie.
Bemerkungen zum bellum iustum bei Livius, in Livius. Werk und Rezeption. Festschrift für E. Burck zum 80. Geburtstag,
a cura di E. Lefèvre – E. Olshausen, München 1983,
241 ss.; S. Clavadetscher-Thürlemann, ‘Polemos dikaios’ und ‘bellum iustum’. Versuch einer Ideengeschichte, Zürich 1985; L.
Loreto, Il bellum iustum e i suoi
equivoci. Cicerone ed una componente della rappresentazione romana del
Völkrecht antico, Napoli 2001, 35 ss. (rec. N. Rampazzo, Il «bellum iustum» e le sue cause, in Index
33, 2005, 235 ss.); A. Calore,
Forme giuridiche del ‘bellum iustum’
(Corso di Diritto romano – Brescia – a.a. 2003-2004), Milano 2003; Id., Bellum iustum tra etica e diritto, in Diritto
@ Storia 5, 2006, http://www.dirittoestoria.it/5/Memorie/Calore-Bellum-iustum-etica-diritto.htm ; Id., La teoria del bellum iustum nell’esperienza romana, in Diritti in guerra. Atti del Convegno
Internazionale Bellum iustum, cit., 67 ss.;
F. Sini, Ut iustum conciperetur bellum, cit., 31
ss., in part. 55 ss.; M.F. Cursi, «Bellum iustum» tra rito e «iustae causae
belli», in Index 42, 2014, 569
ss.
[46] Cicero, De leg. 1.23:
Est igitur, quoniam nihil est ratione
melius, eaque est et in homine et in deo, prima homini cum deo rationis
societas. Inter quos autem ratio, inter eosdem etiam recta ratio [et] communis
est: quae cum sit lex, lege quoque consociati homines cum dis putandi sumus.
Inter quos porro est communio legis, inter eos communio iuris est. Quibus autem
haec sunt inter eos communia, ei civitatis eiusdem habendi sunt. Si vero isdem
imperiis et potestatibus parent, multo iam magis parent [autem] huic caelesti discriptioni
mentique divinae et praepotenti deo, ut iam universus sit hic mundus una
civitas communis deorum atque hominum existimanda. Et quod in civitatibus
ratione quadam, de qua dicetur idoneo loco, agnationibus familiarum
distinguuntur status, id in rerum natura tanto est magnificentius tantoque
praeclarius, ut homines deorum agnatione et gente teneantur. Vedi ancora
Cicero, De fin. bon. et mal. 3.19.64:
Mundum autem censent regi numine deorum,
eumque esse quasi communem urbem et civitatem hominum et deorum, et unum
quemque nostrum eius mundi esse partem; ex quo illud natura consequi, ut
communem utilitatem nostrae anteponamus. Per
questi concetti rimando per tutti a P. Catalano,
Una civitas communis deorum atque
hominum: Cicerone tra temperatio
reipublicae e rivoluzioni, in Studia et Documenta Historiae et Iuris
61, 1995, 723 ss.
[47] Vedi, ad es.: Cicero, De nat. deor. 2.8: Et si conferre volumus nostra cum externis,
ceteris rebus aut pares aut etiam inferiores repiemur; religione, id est cultu
deorum, multo superiores; De har.
resp. 19: Quam volumus licet, patres
conscripti, ipsi nos amemus, tamen nec numero Hispanos nec robore Gallos nec
calliditate Poenos nec artibus Graecos nec denique hoc ipso huius gentis ac
terrae domestico nativoque sensu Italos ipsos ac Latinos, sed pietate ac
religione atque hac una sapientia, quod deorum numine omnia regi gubernarique
perspeximus, omnis gentis nationesque superavimus.
[48] L’intervento divino nella fondazione di Roma è testimoniato dalle fonti, vedi, ad
es.: Cicero, In Cat. 1.33: Tu, Iuppiter, qui isdem quibus haec urbs
auspiciis a Romulo es constitutus, quem Statorem huius urbis atque imperi vere
nominamus, hunc et huius socios a tuis ceterisque templis, a tectis urbis ac
moenibus, a vita fortunisque civium omnium arcebis; Livius 28.28.11: Ne istuc Iuppiter optimus maximus sirit,
urbem auspicato dis auctoribus in aeternum conditam huic fragili et mortali
corpori aequalem esse. In materia rimando a P. Catalano, Aspetti spaziali, cit., 442 ss.
[49] Sulla pax deorum sono fondamentali le opere di
Francesco Sini: Bellum nefandum,
cit., 256 ss.; Populus et religio dans la Rome républicaine, in Archivio Storico e Giuridico Sardo di
Sassari 2 n.s., 1995 [ma 1996], 77 ss.; Sua
cuique civitati religio, cit., 167 ss., 262 ss.; «Fetiales, quod fidei publicae inter populos praeerant», cit., 535 ss.; Uomini e Dèi nel sistema giuridico-religioso romano: pax deorum, tempo degli Dèi, sacrifici, in Diritto @ Storia 1, 2002, http://www.dirittoestoria.it/tradizione/F.%20Sini%20-%20Uomini%20e%20D%E8i%20%20nel%20sistema%20giuridico-religioso%20roman.htm ; Ut iustum
conciperetur bellum, cit., 71 ss.; Religione
e sistema giuridico in Roma repubblicana, in Diritto @ Storia 3, 2004, http://www.dirittoestoria.it/3/Memorie/Organizzare-ordinamento/Sini-Religione-e-sistema-giuridico.htm ; Bellum, fas, nefas, cit.; Diritto
e pax deorum in Roma antica, in Diritto @ Storia 5, 2006, http://www.dirittoestoria.it/5/Memorie/Sini-Diritto-pax-deorum.htm (ivi fonti e letteratura precedente).
Intorno alla concezione della pace nell’antichità vedi
ancora: E. Ciccotti, La guerra e la pace nel mondo antico,
Torino 1901 [Studia Historica 76, ed. anast., Roma 1971]; I. Lana, La pace nel mondo antico, in Studia
et Documenta Historiae et Iuris 13, 1967, 1 ss. (ora in Id., Studi sul pensiero politico classico, Napoli 1973, 41 ss.); Id., L’idea della pace nell’antichità, S. Domenico di Fiesole 1991; C. Milani, Note sulla terminologia della pace nel mondo antico, in Aa.Vv., La pace nel mondo antico, a cura di M. Sordi, Milano 1985, 17 ss.
Cfr., per pace e rapporti tra i Romani e gli altri popoli, C. Baldus, Vestigia pacis: Der römische Friedensvertrag als Struktur
und Ereignis, in Historia 51,
2002, 298 ss.
[50] J. Scheid (La parole des dieux. L’originalité du
dialogue des Romains avec leurs dieux, in OPVS 6-8, 1987-1989, 129; vedi anche Les espaces cultuels et leur interprétation, in Klio 77, 1995, 424) illustra la
peculiarità della religio romana
designandola come “orthopraxie”.
[51] Cicero, De nat.
deor. 2.8: ... intellegi potest ...
imperiis rem publicam amplificatam qui religionibus paruissent. Sulle
relazioni tra religione e imperium del
popolo Romano vedi specialmente F. Sini,
Sua cuique civitati religio, cit., 6
ss.
Tacito offre una prospettiva differente della pax Romana, rispetto a quella finora
delineata, quando riporta il discorso tenuto, intorno all’83, da Calgacus, uno dei capi dei Caledoni, per
incitare i compagni alla lotta contro i Romani, comandati dal governatore della
Britannia, Giulio Agricola: [Romani]
Raptores orbis, postquam cuncta vastantibus defuere terrae, mare scrutantur; si
locuples hostis est, avari, si pauper, ambitiosi, quos non Oriens, non Occidens
satiaverit; soli omnium opes atque inopiam pari adfectu concupiscunt. Auferre
trucidare rapere falsis nominibus imperium, atque ubi solitudinem faciunt,
pacem appellant (Agric. 30.4).
[52] Livius 1.9.2-4: Tum
ex consilio patrum Romulus legatos circa vicinas gentes misit, qui societatem
conubiumque novo populo peterent: 3. urbes
quoque, ut cetera, ex infimo nasci; dein, quas sua virtus ac dii iuvent, magnas
opes sibi magnumque nomen facere; 4. satis
scire origini Romanae et deos adfuisse et non defuturam virtutem ...
[53] Dionysius Halicarnassensis 4.26.2.
[54] Vergilius, Aen. 1.275-279:
Inde lupae fulvo nutricis tegmine laetus
/ Romulus excipiet gentem et Mavortia condet / moenia Romanosque suo de nomine
dicet. / His ego nec metas rerum nec tempora pono: / imperium sine fine dedi;
le potenzialità concettuali di questi versi son state delineate da F. Sini: Bellum nefandum, cit., 73 ss.; Initia Urbis e sistema giuridico-religioso romano (Ius sacrum e ius publicum tra terminologia
e sistematica), in Diritto @ Storia 3,
2004, http://www.dirittoestoria.it/3/TradizioneRomana/Sini-Initia-Urbis-2.htm .
Una simile visione si scorge anche nelle parole
attribuite a Romolo, dopo la sua apoteosi, da Giulio Proculo: ‘Abi, nuntia’ inquit ‘Romanis caelestes ita
velle, ut mea Roma caput orbis terrarum sit; proinde rem militarem colant
sciantque et ita posteris tradant nullas opes humanas armis Romanis resistere
posse’ (Livius 1.16.7). I. Lana, Cicerone e la pace, in Seminari di storia e di diritto, III. «Guerra giusta»? Le metamorfosi di un
concetto antico, cit., 5 ss., pone in raffronto le due fonti, dove è
presente l’idea di un compito divino affidato ai Romani, ma se per Livio «il
destino di Roma si realizza con le armi», in Virgilio la guerra è «funzionale
alla pace».
[55] Per l’ampliamento spaziale operato dei re vedi Livius
1.45.1: Aucta civitate magnitudine urbis,
formatis omnibus domi et ad belli et ad pacis usus, ne semper armis opes
adquirerentur, consilio augere imperium conatus est, simul et aliquod addere
urbi decus.
[56] Sallustius,
Cat. 6.7. Cfr. anche quanto sosteneva Tarquinio il
Superbo durante il suo esilio, Livius 2.6.2: ... se regem, augentem bello Romanum imperium a proximis scelerata
coniuratione pulsum.
[57] Pro Balb. 31: Illud vero sine ulla dubitatione maxime
nostrum fundavit imperium et populi Romani nomen auxit quod princeps ille
creator huius urbis Romulus foedere Sabino docuit etiam hostibus recipiendis
augeri hanc civitatem oportere. Cuius auctoritate et exemplo numquam est intermissa a
maioribus nostris largitio et communicatio civitatis. Intorno alla concessione della
cittadinanza ai vinti appare interessante un passaggio del discorso di Camillo
in senato: vultis
exemplo maiorum augere rem Romanam victos in civitatem accipiendo? Materia
crescendi per summam gloriam suppeditat (Livius 8.13.16).
[58] La propensione dei Romani a una politica di ampia
attribuzione della cittadinanza, iniziata da Romolo, è posta particolarmente in
evidenza da Dionigi di Alicarnasso, vedi, ad es., 1.9.4, 1.89.1, 2.16.1, 3.10.4-6,
3.11.3-5, 4.23, 14.6. In materia rimando a G. Poma,
Dionigi d’Alicarnasso e la
cittadinanza romana, in Mélanges de
l’École française de Rome. Antiquité 101, 1989, 187 ss.: «Su questo tema dell’allargamento della cittadinanza, come
fonte peculiare per la grandezza di Roma, Dionigi ritorna più volte nel corso
della sua narrazione, sottolineando come la vocazione di Roma a città aperta
appartenga all’accortezza di una politica che si palesa fin dalle origini della
città, e mai fu rinnegata, ma sempre ribadita ed adattata con accorgimenti
successivi nel tempo» (188).
Sulla concessione della cittadinanza, da ultima, A. Muroni, Civitas Romana: emersione di una categoria nel diritto e
nella politica tra Regnum e Res publica, in Diritto @ Storia 11, 2013, http://www.dirittoestoria.it/11/note&rassegne/Muroni-Civitas-Romana-categoria-tra-regnum-res-publica.htm ; Ead.,La cittadinanza romana tra esperienza
storica e attualità, in Diritto @ Storia 14, 2016, http://www.dirittoestoria.it/14/innovazione/Muroni-cittadinanza-esperienza-storica-attualita.htm (bibl. e fonti ivi).
[59] Livius 2.1.2: Quae libertas ut laetior esset, proxumi regis superbia fecerat. Nam priores ita
regnarunt, ut haud inmerito omnes deinceps conditores partium certe urbis, quas
novas ipsi sedes ab se auctae multitudinis addiderunt, numerentur.
[60] Così F. Sini,
Sua cuique civitati religio, cit., 8.
[61] D. 1.2.2.7 (Pomponius liber singulari enchiridii):
Augescente civitate quia deerant quaedam genera agendi, non post
multum temporis spatium Sextus Aelius alias actiones composuit et librum populo
dedit, qui appellatur ius Aelianum; per quanto riguarda l’età del regnum, il giurista adrianeo riferisce
dell’aumento della civitas prima
dell’istituzione delle curie (D. 1.2.2.2: Postea aucta ad aliquem modum
civitate ipsum Romulum traditur populum in triginta partes divisisse ...).
In materia vedi gli studi di M.P.
Baccari: Il concetto giuridico di civitas
augescens: origine e continuità, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 61,
1995, 759 ss.; Cittadini popoli e
comunione nella legislazione dei secoli IV-VI, Torino 1996, 55 ss.
[62] L’idea di ampliamento si rinviene anche nell’intento dei
Romani di amplificare la religio:
Valerius Maximus 1.1.1: Tantum autem
studium antiquis non solum servandae sed etiam amplificandae religionis fuit,
ut florentissima tum et opulentissima civitate decem principum filii senatus
consulto singulis Etruriae populis percipiendae sacrorum disciplinae gratia
traderentur ... Sul punto rimando
alle considerazioni di F. Altheim,
La religion, cit., 141: «Les Romains
n’ont pas cessé de reprendre aux civilisations voisines des divinités en nombre
toujours croissant. Dès les début, l’idée de la forme universelle faisait
partie intégrante de Rome; l’empire mondial à venir s’annonçait déjà dans le
fait que, dès l’origine, Rome n’eut aucun scrupule à s’approprier ce qui était
étranger. Elle créa un bassin collecteur pour les différentes influences qui, à
divers moments, exercèrent leur attrait sur elle. Jusqu’à ses derniers moments,
l’histoire de la religion romaine est caractérisée par la rencontre avec
d’autres systèmes religieux».
[63] Per i riti peregrini vedi: J. Marquardt, Le culte
chez les Romains, I, tr. fr. di M. Brissaud, Paris 1889, 44 ss.; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, cit., 348 ss.; M. Van Doren, Peregrina sacra. Offizielle Kultübertragungen im alten Rom,
in Historia 3.4, 1955, 488 ss.; R. Turcan, Rome et ses dieux, cit., 159 ss.;
F. Sini, Dai peregrina sacra alle pravae et externae religiones,
cit., 49 ss.; Id., Sua cuique civitati religio, cit., 51
ss. Vedi anche E.M. Orlin, Foreign Cults in Republican Rome: Rethinking
the Pomerial Rule, in Memoirs of the
American Academy in Rome 47, 2002, 1 ss., il quale evidenzia l’apertura
romana e la capacità di introdurre gli stranieri nella res publica, e sostiene come «for the Romans as it is for modern
scholars to categorize cults as either Roman or non-Roman in origin; what
primarily mattered to the Romans was whether the cult was accepted as part of
the state religion» (2). Cfr. anche J.
Scheid, Graeco ritu: A Typically
Roman Way of Honoring the Gods, in Harvard
Studies in Classical Philology 97, 1995, 15 ss.
[64] Livius 1.20.6 (testo infra
nt. 237), dove i culti stranieri sono ricordati in forma simmetrica con i
riti patri. Per questa funzione di custodia dei pontefici mi sia permesso di
rinviare a C.M.A. Rinolfi, Livio 1.20.5-7: pontefici, sacra, ius sacrum, in Diritto @ Storia 4, 2005, http://www.dirittoestoria.it/4/Tradizione-Romana/Rinolfi-Pontefici-sacra-ius-sacrum.htm .
[65] Il
termine “vita”, unitamente alle implicazioni concettuali di cui è carico, viene
impiegato da P. Catalano, Aspetti spaziali, cit., 443 e nt. 4,
seguito da F. Sini, di cui vedi,
ad es.: Dai peregrina sacra alle pravae et externae religiones,
cit., 59 e nt. 30; «Fetiales,
quod fidei publicae inter populos praeerant», cit., 534 ss.
[66] Gellius, Noct.
Att. 2.28.2: ... veteres Romani cum
in omnibus aliis vitae officiis tum in constituendis religionibus atque in dis
inmortalibus animadvertendis castissimi cautissimique ...
[67] Livius
8.6.4: Bene habet; di pium movere bellum;
9.8.6: ... iustum piumque de integro
ineatur bellum; 39.36.11: ... iustum
piumque bellum ...; Svetonius, Galb.
10.4: ... ut nemini dubium esset iustum
piumque et faventibus diis bellum suscipi: cum repente ex inopinato prope
cuncta turbata sunt. I concetti di iustum
e pium sono presenti anche nella
formula del carmen della rerum repetitio: Livius 1.32.6 s.: Legatus ubi ad fines eorum venit, unde res
repetuntur, capite velato filo - lanae velamen est ‘Audi, Iuppiter’, inquit;
‘audite, fines’ - cuiuscumque gentis sunt, nominat -; ‘audiat fas: ego sum
publicus nuntius populi Romani; iuste pieque legatus venio verbisque meis fides
sit’. Peragit deinde postulata. 7.
Inde Iovem testem facit: ‘Si ego iniuste inpieque illos homines
illasque res dedier mihi exposco, tum patriae compotem me numquam siris esse’. Secondo la
concezione romana una guerra empia era avversata dalle divinità: Livius 1.23.4:
Interim Tullus ferox ... magnumque deorum
numen ab ipso capite orsum in omne nomen Albanum expetiturum poenas ob bellum
inpium dictitans ...; 8.39.10: Hoc
demum proelium Samnitium res ita infregit, ut omnibus conciliis fremerent
minime id quidem mirum esse, si inpio bello et contra foedus suscepto,
infestioribus merito deis quam hominibus, nihil prospere agerent; expiandum id
bellum magna mercede luendumque esse. Vedi anche Varro, De vit. pop.
Rom. 2 (ap. Nonius
850 L.): Itaque bella et tarde et magna diligentia suscipiebant, quod bellum
nullum nisi pium putabant geri oportere: priusquam indicerent bellum is, a
quibus iniurias factas sciebant, faetiales legatos res repetitum mittebant
quattuor, quos oratores vocabant.
Per questi concetti rinvio da ultima a L. Dal Ri, Ius fetiale:
as origines do direito internacional no universalismo romano, con
presentazione di P. Catalano,
Ijuí 2011, 191 ss., 225 ss. Vedi inoltre M.
Sordi, Bellum iustum ac pium,
in Guerra e diritto nel mondo greco e
romano, cit., 13 ss., la quale sostiene che la formula bellum iustum ac pium sia più risalente rispetto a quella più
diffusa di bellum iustum per il suo
carattere religioso, per cui la guerra «non può prescindere dalla conformità
alla legge divina».
[68] Vedi,
ad es.: Cicero, De off. 1.36: Ac belli quidem aequitas sanctissime
fetiali populi Romani iure perscripta est. Ex quo intellegi potest nullum
bellum esse iustum nisi quod aut rebus repetitis geratur aut denuntiatum ante
sit et indictum; De re publ. 2.31:
[Tullus Hostilius] cuius excellens in re
militari gloria magnaeque extiterunt res bellicae, fecitque idem et saepsit de
manubis comitium et curiam, constituitque ius quo bella indicerentur, quod per
se iustissime inventum sanxit fetiali religione, ut omne bellum quod
denuntiatum indictumque non esset, id iniustum esse atque inpium iudicaretur:
si tratta di requisiti che rimandano al formalismo e al rigore proprio della
religione romana. In materia rimando per tutti
F. Sini, Bellum nefandum,
cit., 195 ss.
[69]
Cicero, De off. 1.36.
F. Zuccotti, «Bellum iustum», o del buon uso del diritto romano, in Rivista di Diritto Romano 4, 2004, spec.
6 s., 10,
(http://www.ledonline.it/rivistadirittoromano/allegati/dirittoromano04zuccotti.pdf),
oltre alle due “ipotesi estreme” di bellum
iustum e di bellum iniustum,
sostiene che «la concreta effettività quotidiana della guerra ponesse di fronte
alla regolamentazione giuridica romana una congerie ben più vasta e articolata
di fattispecie belliche non tanto facili da ricondurre ad una precisa e
definitivamente completa disciplina astratta», a fronte del fatto che nelle
riflessioni giurisprudenziali in materia di ovatio,
si considerò la «variegata multiformità delle effettive ipotesi di guerra»
attestata da Gellius, Noct. Att.
5.6.21: Ea utebantur imperatores, qui
ovantes urbem introibant. Ovandi ac non triumphandi causa est, cum aut bella
non rite indicta neque cum iusto hoste gesta sunt aut hostium nomen humile et
non idoneum est, ut servorum piratarumque, aut deditione repente facta
inpulverea, ut dici solet, incruentaque victoria obvenit. Tuttavia, conscia
del fatto della presenza di ampie “tipologie” belliche, nulla osta a ritenere
questo variegato parterre di casi
derivanti dalla realtà, di cui nel passo gelliano si offre un elenco
esemplificatorio, possa rientrare nel concetto di bellum iniustum.
[70] Relativamente al ius fetiale e al collegio dei feziali, tra i tanti vedi: M.Jo.D. Ritter – J. Luz, De fetialibus populi romani, Lipsie 1732; F.C. Conradi, De
Fecialibus et iure feciali populi Romani, Helmstadii 1734; E. Osenbrueggen, De Jure Belli et Pacis
Romanorum. Liber singularis, Lipsiae 1836; M. Voigt, De fetialibus
populi Romani quaestionis specimen, Lipsiae 1852; G. Fusinato, Dei feziali
e del diritto feziale. Contributo alla storia del diritto pubblico esterno di
Roma, Roma 1884; J. Marquardt, Le culte chez les Romains, II, cit., 143 ss.; E. Samter, v. Fetiales, in P.-W., 6.2, 1909, coll. 2559 ss.; E.
De Ruggiero, v. Fetiales, in Dizionario epigrafico di antichità romane,
3, a cura di E. De Ruggiero, Roma 1906 [rist. anast., 1962], 66 ss.; C. Phillipson, The international law and custom of ancient Greece and Rome, II,
London 1911 [rist., Buffalo, N.Y. 2001], 315 ss.; T. Frank, The Import of
the Fetial Institutions, in Classical
Philology 7, 1912, 335 ss.; G.
Wissowa, Religion und Kultus der
Römer, cit., 550 ss.; J. Bayet, Le rite du fécial et le cornouiller magique,
in Mélanges d’archéologie et d’histoire 52,
1935, 29 ss.; S.I. Oost, The Fetial Law and the Outbreak of the
Jugurthine War, in The American
Journal of Philology 75, 1954, 147 ss.; P. de Francisci, Primordia
civitatis, cit., 472 ss.; G. Nenci, Feziali ed aruspici in Cicerone (De Leg. II, 9, 21), in La Parola del passato 13, 1958, 134 ss.; K. Latte, Römische
Religionsgeschichte, cit., 121 ss.; P. Catalano,
Linee, cit., 3-48, 289-293 (pagine
ora raccolte in Origini del sistema
sovrannazionale romano ius fetiale e
iura communia, in Id., Diritto e persone – I, Torino 1990,
5-52); J. Guillén, Los sacerdotes romanos, cit., 56 ss.; G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., 579 ss.; S. Albert, Bellum iustum, cit., 12 ss.; Ch.
Saulnier, Le rôle des prêtres
fétiaux et l’application du «ius fetiale», in Revue Historique de Droit français et étranger 58, 1980, 171 ss.; V. Ilari, L’interpretazione, cit., 8 ss.;
T. Wiedemann, The Fetiales: a reconsideration, in Classical Quarterly 36, 1986, 478 ss.; T.R.S. Broughton, Mistreatment of Foreign Legates and the Fetial
Priests: Three Roman Cases, in Phoenix
41, 1987, 50 ss.; R.T. Penella, War, Peace, and the ius fetiale in Livy 1, in Classical Philology 82.3, 1987, 233 ss.; C.
Auliard, Les Fétiaux, un collège
religieux au service du droit sacré international ou de la politique extérieure
romain?, in Mélanges P. Lévêque, 6 Religion, a cura di M.-M. Mactoux – E. Geny, Paris 1992, 1 ss.; F. Blaive, Indictio belli. Recherches sur l’origine du droit fécial romain, in Revue
Internationale des Droits de l’Antiquité 40, 1993, 185 ss.; B. Albanese,
“Res repetere” e “bellum indicere” nel rito feziale (Liv.
1,32,5-14), in Annali del Seminario Giuridico della Università di
Palermo 46, 2000, 7 ss., Id.,
Foedus e ius iurandum; pax per sponsionem, in Annali del
Seminario Giuridico della Università di Palermo 46, 2000, 51 ss. (ora
entrambi in Id., Scritti giuridici, IV, a cura di G.
Falcone, Torino 2006, rispettivamente a 719 ss. e 763 ss.); E. Bianchi, Fest. S. v. ‘Nuntius’ p. 178, 3 L. e i documenti del collegio dei
feziali, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 66, 2000, 335
ss.; Id., Qualche riscontro di
lessico feziale latente nel I libro delle Storie di Livio, in Rivista di Diritto Romano 10, 2010,
http://www.ledonline.it/rivistadirittoromano/allegati/dirittoromano10Bianchi.pdf;
M. R. Cimma, I feziali e il diritto internazionale antico, in Ius Antiquum.
Древнее Право 1.6, 2000, 24 ss.; A. Giovannini, Le droit fécial et la déclaration de guerre de Rome à Carthage en 218
avant J.-C., in Athenaeum 88, 2000, 69 ss.; A. Calore, Forme giuridiche del ‘bellum iustum’, cit.,
spec. 43 ss.; D. Porte, Le prêtre à Rome, cit., 93 ss.; J. Rich, The fetiales and Roman International Relations, in Priests and State in the Roman World, a
cura di J.H. Richardson – F. Santangelo, Stuttgart
2011, 187 ss.; G. Turelli, Polisemia
di un gesto: l’emittere hastam dei duces e dei feziali, in Revue Internationale des Droits de
l’Antiquité 55, 2008, 523 ss.; Id., Fetialis religio. Una
riflessione su religione e diritto nell’esperienza romana, in Religione
e Diritto Romano. La cogenza del rito, a cura di S. Randazzo, Tricase 2014,
449 ss.; L. Zollschan, The
Ritual Garb of the Fetial Priests, in Museum
Helveticum 68, 2011, 47 ss.; Ead., The Longetivity of the Fetial College,
in Aa.Vv., Law and Religion in the Roman Republic, a cura di O.
Tellegen-Couperus, Leiden-Boston 2012, 119
ss.; F. Santangelo, I feziali
fra rituale, diplomazia e tradizioni inventate, in Sacerdos. Figure del sacro nella società romana. Atti del convegno internazionale Cividale
del Friuli, 26-28 settembre 2012, a
cura di G. Urso, Pisa 2014, 83 ss. Per la sistematica dei documenti
provenienti dagli archivi di questo collegio sacerdotale rimando, da ultima, a L. Dal Ri, Ius fetiale, cit.
[71] In generale, per gli aspetti giuridici nell’opera de
grammatico, vedi A. Cenderelli, Varroniana. Istituti e terminologia
giuridica nelle opere di M. Terenzio Varrone, Milano 1973.
[72] R. Sgarbi, A proposito del lessema latino «fētiālēs», in Aevum 66,
1992, 73, rinviene «assai più di un semplice gioco allitterativo là dove si
cumulano in rapida successione i lessemi fidēs,
foedus e l’allotropo enniano fīdus evidentemente collegati tra
loro per assonanza e per contiguità di significati. In realtà le notizie che
qui Varrone ci comunica, anziché attenere ad una consapevole spiegazione di
carattere linguistico, sembra piuttosto ispirarsi a quella attenzione di tipo
storico-erudito che è caratteristica dell’autore delle Antiquitātēs, particolarmente informato su istituzioni e
rituali sacri e profani dei tempi più remoti della civiltà romana, secondo le
tendenze proprie della cūriōsitās
culturale antiquaria». Sugli aspetti giuridico-religiosi di questo brano,
vedi F. Sini, «Fetiales, quod fidei publicae inter
populos praeerant», cit., 481 ss.
[73]
In generale sulla fides segnalo, ex multis: G. von Beseler, Fides,
in Atti del congresso internazionale di diritto romano (Bologna e Roma
XVII-XXVII aprile MCMXXXIII). Roma, I,
Pavia 1934, 133 ss.; W. Kunkel, Fides als schöpferisches Element in
römischen Schuldrecht, in Festschrift
P. Koschaker zum 60. Geburtstag überreicht von seinen Fachgenossen, II,
Weimar 1939, 1 ss.; F. Maroi, Il vincolo contrattuale nella tradizione e
nel costume popolare, in Studia et Documenta
Historiae et Iuris 15, 1949, 100 ss.; A.
Piganiol, Venire in fidem, in Revue Internationale des Droits de
l’Antiquité 5, 1950, 339 ss., Id., Fides et mains de bronze. Densae dexterae,
Cic., ad Att., VII, I, in Droits de l’Antiquité et sociologie juridique. Mélanges H. Lévy-Bruhl,
Paris 1959, 471 ss. (ora entrambi in Id.,
Scripta varia, II. Les origines de Rome et la République, a
cura di R. Bloch – A. Chastagnol – R. Chevalliers – M. Renards,
Bruxelles 1973, 192 ss. e 200 ss.); J.
Imbert, «Fides» et «nexum», in
Studi in onore di V. Arangio-Ruiz nel XLV
anno del suo insegnamento, I, Napoli s.d. [ma 1951], 339 ss.; Id., De la sociologie au droit: la «Fides» romaine, in Droit de l’antiquité et sociologie
juridique. Mélanges H. Lévy-Bruhl, loc. cit., 407 ss.; B. Paradisi, Dai ‘foedera iniqua’ alle ‘crisobulle’ bizantine, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 20, 1954, 1 ss.; J. Paoli, Quelques observations sur la fides, l’imperium et leurs
rapports, in Aequitas und Bona Fides.
Festgabe zum 70. Geburtstag von A. Simonius, Basel 1955, 273 ss.; M. Lemosse, L’aspect primitif de la fides, in Studi in onore di P. de Francisci, II, Milano 1956, 39 ss. (ora in Id.,
Études romanistiques,
Clermont-Ferrand 1991, 61 ss.); F.
Wieacker, Zum Ursprung der bonae
fidei iudicia, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für
Rechtsgeschichte. Rom. Abt. 80, 1963, 1 ss., spec. 20 ss.; V. Bellini, Deditio in fidem, in Revue Historique de Droit français et
étranger 42, 1964, 448 ss.; A. Carcaterra,
Intorno ai “bonae fidei iudicia”,
Napoli 1964, 194 ss.; Id., Ancora sulla ‘fides’ e sui “bonae fidei
iudicia”, in Studia et Documenta
Historiae et Iuris 33, 1967, 65 ss.;
Id., Dea Fides e ‘fides’. Storia di una laicizzazione, in Studia et Documenta Historiae et Iuris
50, 1984, 199 ss.; J. Hellegouarc’h,
Le vocabulaire latin des relations et des
partis politiques sous la République,
2ª ed., Paris
1972, 23 ss.; G. Brizzi, I
sistemi informativi dei Romani. Principi e realtà nell’età delle conquiste
oltremare (218-168 a.C.), Wiesbaden 1982, 1 ss.; G. Freyburger, Fides et potestas, in Ktema 7,
1982, 177 ss.; M. von Albrecht, Fides
und Völkerrecht: Von Livius zu Hugo Grotius, in Livius. Werk und
Rezeption. Festschrift für E. Burck zum 80. Geburtstag, cit., 295 ss.; B. Kemenes, Das fides-Prinzip und sein Zusammenhang mit der fiducia, in Studia in honorem V. Pólay septuagenarii,
Szeged 1985, 245 ss.; P. Frezza, A proposito di ‘fides’ e ‘bona fides’ come
valore normativo in Roma nei rapporti dell’ordinamento interno e internazionale,
in Studia et Documenta Historiae et Iuris
57, 1991, 297 ss. (ora in Id., Scritti, III, a cura di F. Amarelli – E. Germino, Romae 2000, 661 ss.); D. Nörr, Die Fides in römischen Völkerrecht, Heidelberg 1991 (ora in Id., Historiae iuris
antiqui. Gesammelte Schriften, III, a cura di T.J. Chiusi – W. Kaiser – H.-D. Spengler,
Goldbach 2003, 1777 ss.); Id., Fides
Punica – Fides Romana. Bemerkungen zu demosia
pistis im ersten karthagisch-römischen
Vertrag und zur Rechtsstellung des Fremden in der Antiken, in Il ruolo della buona fede oggettiva
nell’esperienza giuridica storica e contemporanea, II, cit., 497 ss.; K.-H. Ziegler, Nochmals: Zur fides im römischen Völkerrecht, in Zeitschrift der
Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Rom. Abt. 109, 1992, 482 ss.;
R. Fiori, Homo sacer. Dinamica
politico-costituzionale di una sanzione giuridico-religiosa,
Napoli 1996, 148 ss.; Id., Fides e bona fides. Gerarchia sociale e
categorie giuridiche, in Modelli teorici
e metodologici nella storia del diritto privato, 3, a cura di R. Fiori,
Napoli 2008, 237 ss.; Id., Bona
fides. Formazione, esecuzione e interpretazione del contratto nella tradizione
civilistica (Parte seconda), in
Modelli teorici e metodologici nella
storia del diritto privato, 4, a cura di R. Fiori, Napoli 2011, 97 ss.; K.-J. Hölkeskamp, Fides - deditio in fidem - dextra
data et accepta: Recht, Religion und Ritual in Rom, in The Roman
Middle Republic. Politics, Religion, and Historiography c. 400 - 133 B.C. (Papers from a conference at Institutum
Romanum Finlandiae, September 11-12, 1998), a cura di C. Bruun, Rome 2000, 223 ss.; G. Romano, Ulpiano, Antistia e la fides humana, in Annali del Seminario Giuridico della Università di Palermo 46,
2000, 255 ss.; L. Zurli, Sulla formula del negozio fiduciario, in
Il Linguaggio dei Giuristi Romani. Atti del
Convegno Internazionale di Studi, Lecce, 5-6 dicembre 1994, a cura di O. Bianco – S.
Tafaro, Galatina 2000, 185 ss.; M.
Guimarães Taborda, La jurisprudence
classique romaine et la construction d’un droit des affaires fondé sur la fides,
in Revue Internationale des Droits de
l’Antiquité 48, 2001, 151 ss., spec. 171 ss.; R. Martini, Fides e pistis in materia
contrattuale, in Il ruolo della buona
fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporanea, II, cit.,
439 ss.
[74]
Hanno particolarmente rilevato la derivazione religiosa della fides, ad es.: F. De Visscher, Pactes
et religio, in Munera Friburgensia ab
amicis discipulis sodalibus F. Pringsheim diem natalem septuagesimum celebranti
grato et pio animo oblata, Athenai 1953, 139 ss. (ora in Id.,
Études de droit romain public et privé,
IIIe série, Milano 1966, 413 ss.); P.
Boyancé, Fides et le serment, in Hommages à A. Grenier, a cura di M. Renard, Bruxelles-Berchem 1962,
329 ss. (ora in Id., études sur la religion romaine, Rome 1972, 91 ss.); J.
Bayet, La religion romaine,
cit., 141 s.: «Il en ressort l’impression que la “foi religieuse” (ancien sens
de fides) est en fait “confiance” en un
“contrat” (foedus) qui engage le
dieu»; G. Freyburger, Vénus et
Fides, in Hommages à R. Schilling,
a cura di H. Zehnacker – G. Hentz, Paris 1983, 101
ss.; Id., Fides. Étude
sémantique et religieuse depuis les origines jusqu’à l’époque augustéenne,
Paris 1986; L. Kofanov, Il carattere religioso-giuridico della fides romana nei secoli V-III a.C.:
sull’interpretazione di Polibio 6, 56, 6-15, in Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e
contemporanea, II, cit., 333 ss.
[75]
Sul ruolo della fides tra i Romani
nei rapporti con gli altri popoli, vedi specialmente: P. Boyancé, Fides romana et
la vie internationale, estratto,
Paris 1962 (= études, cit., 105 ss.); A. Valvo, “Fides”, “foedus”, “Iovem Lapidem iurare”, in Aa.Vv., Autocoscienza e rappresentazione dei popoli nell’antichità, a cura
di M. Sordi, Milano 1992, 115 ss.; A.
Di Pietro, La fides pubblica romana, in Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e
contemporanea, I, cit., 505 ss. Vedi anche F. Sini, «Fetiales,
quod fidei publicae inter populos praeerant»,
cit., 481 ss.; Id., Bellum, fas, nefas, cit., per il nesso causale e le
implicazioni giuridico-religiose tra il rispetto della fides e la “miracolosa ascesa” del populus Romanus. Per la fides publica
cfr. anche E.
Montanari, Identità culturale e
conflitti religiosi nella Roma repubblicana, Roma 1988, 82 ss.
[76] Cicero, De off. 3.107
(testo infra nt. 294). Vedi anche De leg. 2.34: Sequitur enim
de iure belli; in quo et suscipiendo et gerendo et deponendo ius ut plurimum
valeret et fides, eorumque ut publici interpretes essent, lege sanximus.
[77] Cicero, De off. 3.108: Cum iusto enim et legitimo
hoste res gerebatur adversus quem et totum ius fetiale et multa sunt iura
communia. Sul brano, con particolare
riguardo alle relazioni tra Romani e gli altri popoli, vedi da ultima M.F. Cursi,
«Amicitia» e «societas» nei rapporti tra Roma e gli altri popoli del
Mediterraneo, in Index 41, 2013, 195 ss.
In relazione all’idea romana di
partecipazione, insieme agli altri popoli, a una comunanza di norme, sono
numerose le attestazioni di condanna della violazione del ius gentium (ad es., Livius 6.1.6: Cum
civitas in opere ac labore adsiduo reficiendae urbis teneretur, interim Q. Fabio, simul primum magistratu
abiit, ab Cn. Marcio tribuno plebis dicta dies est, quod legatus in Gallos, ad
quos missus erat orator, contra ius gentium pugnasset), inosservanza intesa come
scelus (Livius 4.32.5: ... scelus legatorum contra ius gentium
interfectorum). Il principio si trova espresso anche dalla giurisprudenza
in età del principato, vedi D. 50.7.18(17)
(Pomponius libro 37 ad Quintum
Mucium): Si quis legatum
hostium pulsasset, contra ius gentium id commissum esse existimatur, quia
sancti habentur legati. et ideo si, cum legati apud nos essent gentis alicuius,
bellum cum eis indictum sit, responsum est liberos eos manere: id enim iuri
gentium convenit esse.
[78]
Vedi J.F. Gaertner, Livy’s Camillus and the Political Discourse
of the Late Republic, in The Journal
of Roman Studies 98, 2008, 27 ss., per il personaggio che «may not only
have been refashioned to legitimize later governments and rulers but may itself
have influenced the self-representation of statesmen such as Cicero, Pompey,
Caesar, or Augustus» (28), ivi ampia bibliografia e fonti.
[79] Livius 5.27.5-8: Quae
ubi Camillus audivit, ‘Non ad similem’ inquit ‘tui nec populum nec imperatorem
scelestus ipse cum scelesto munere venisti. 6. Nobis cum
Faliscis, quae pacto fit humano, societas non est; quam ingeneravit natura
utrisque, est eritque. Sunt et belli sicut pacis iura, iusteque ea non minus
quam fortiter didicimus gerere. 7. Arma
habemus non adversus eam aetatem, cui etiam captis urbibus parcitur, sed
adversus armatos et ipsos, qui nec laesi nec lacessiti a nobis castra Romana ad
Veios oppugnarunt. 8. Eos
tu, quantum in te fuit, novo scelere vicisti; ego Romanis artibus, virtute,
opere, armis, sicut Veios, vincam’. Un ulteriore esempio dell’esistenza di
regole comuni nei rapporti tra i popoli si evince, fin dai primordi di Roma,
nell’episodio relativo all’assassinio di Tito Tazio da parte di alcuni Laurentini
per vendicare l’uccisione dei loro legati per mano di amici e familiari del re
sabino (sulla vicenda: Livius 1.14.1-3; Dionysius Halicarnassensis
2.51-53.1; Plutarchus, Rom. 23.1-5; cfr. Festus, De verb. sign. 496 L.), in quanto l’affronto subito dai legati era una violazione del ius sacrum (Dionysius Halicarnassensis
2.52.1; Plutarchus, Rom. 24.1 s.); per la vicenda vedi spec. J.
Gagé, Les
autels de Titus Tatius. Une variante sabine des rites d’intégration dans les
curies?, in Mélanges
offerts à J. Heurgon. L’Italie préromaine et la Rome républicaine, I, Rome 1976, 312 ss. e F. Marcattili, La tomba di Tito
Tazio, cit., 431 ss.
[80] F. Sini, Bellum nefandum, cit., 205 ss., evidenzia nell’opera virgiliana l’idea
della guerra collocata sul piano del nefas.
[81] F. Zuccotti, «Bellum iustum», cit., 48.
[82] F. Zuccotti, «Bellum iustum», cit., 49 s.
[83] Vedi, ad es.: Valerius Maximus 1.1.16: Creditum est Varronem consulem apud Cannas
cum Karthaginiensibus tam infeliciter dimicasse ob iram Iunonis, quod, cum
ludos circenses aedilis faceret, in Iovis optimi maximi tensa eximia facie
puerum histrionem ad exuvias tenendas posuisset. Quod factum, post aliquot
annos memoria repetitum, sacrificiis expiatum est.
[84] Secondo F. Zuccotti, «Bellum iustum», cit., 48, invece, «Il
carattere iustum e pium del bellum non era automaticamente determinato una volta per tutte
dalla clarigatio e dalla indictio belli feziale, ma doveva essere
accuratamente assicurato dal successivo comportamento romano»; non era «per
nulla sufficiente che la guerra venga indetta con le esatte ritualità feziali,
ma occorre anche che essa venga combattuta nella sua interezza nel rispetto
della volontà divina, interrogando i segni del loro favore e del loro sfavore
ed comportandosi di conseguenza, e soprattutto indagando se, per ulteriori
cause anche non direttamente connesse alla conduzione delle ostilità, una
rottura della pax deorum possa
compromettere l’azione militare» (50).
[85] Numerosi sono i momenti di riflessione agostiniana sulla
guerra giusta. Vedi, ad es.: Quaest. in
Heptat. 6 q. 10: Iusta autem bella definiri
solent, quae ulciscuntur iniurias, si qua gens vel civitas, quae bello petenda
est, vel vindicare neglexerit quod a suis improbe factum est, vel reddere quod
per iniurias ablatum est. Sed etiam hoc genus belli sine dubitatione iustum est,
quod Deus imperat, apud quem non est iniquitas, et novit quid cuique fieri
debeat. In quo bello ductor exercitus vel ipse populus, non tam auctor belli,
quam minister iudicandus est (PL 34, col. 781); De civ. Dei
4.15: Videant ergo ne forte non pertineat ad viros bonos, gaudere de regni
latitudine. Iniquitas enim eorum, cum quibus iusta bella gesta sunt, regnum
adiuvit ut cresceret: quod utique parvum esset, si quies et iustitia
finitimorum contra se bellum geri nulla provocaret iniuria: ac sic felicioribus
rebus humanis omnia regna parva essent concordi vicinitate laetantia; et ita
essent in mundo regna plurima gentium, ut sunt in urbe domus plurimae civium.
Proinde belligerare et perdomitis gentibus dilatare regnum, malis videtur
felicitas, bonis necessitas. Sed quia peius esset, ut iniuriosi iustioribus
dominarentur, ideo non incongrue dicitur etiam ista felicitas. Sed procul dubio felicitas maior est, vicinum bonum
habere concordem, quam vicinum malum subiugare bellantem. Mala vota sunt,
optare habere quem oderis, vel quem timeas, ut possit esse quem vincas. Si ergo
iusta gerendo bella, non impia, non iniqua, Romani imperium tam magnum
acquirere potuerunt, numquid tanquam aliqua dea colenda est eis etiam iniquitas
aliena? Multum enim ad istam latitudinem imperii eam cooperatam videmus, quae
faciebat iniuriosos, ut essent cum quibus iusta bella gererentur, et augeretur
imperium (PL
41, col. 124); 19.7: Sed sapiens,
inquiunt, iusta bella gesturus est. Quasi non, si se hominem meminit, multo
magis dolebit iustorum necessitatem sibi exstitisse bellorum; quia nisi iusta
essent, ei gerenda non essent, ac per hoc sapienti nulla bella essent.
Iniquitas enim partis adversae iusta bella ingerit gerenda sapienti (a): quae
iniquitas utique homini est dolenda, quia hominum est, etsi nulla ex ea
bellandi necessitas nasceretur. Haec itaque mala tam magna, tam horrenda, tam
saeva, quisquis cum dolore considerat, miseriam fateatur. Quisquis autem vel
patitur ea sine animi dolore, vel cogitat, multo utique miserius ideo se putat
beatum, quia et humanum perdidit sensum (PL 41, col. 633); Contr.
Faust. 22.74: Quid enim culpatur in
bello? An quia moriuntur quandoque morituri, ut domentur in pace victuri? Hoc
reprehendere timidorum est, non religiosorum. Nocendi cupiditas, ulciscendi
crudelitas, impacatus atque implacabilis animus, feritas rebellandi, libido
dominandi, et si qua similia, haec sunt quae in bellis iure culpantur; quae
plerumque ut etiam iure puniantur, adversus violentiam resistentium, sive Deo,
sive aliquo legitimo imperio iubente, gerenda ipsa bella suscipiuntur a bonis,
cum in eo rerum humanarum ordine inveniuntur, ubi eos vel iubere tale aliquid,
vel in talibus obedire iuste ordo ipse constringit (PL 42, col. 447).
[86]
Per il rapporto tra il pensiero ciceroniano e quello agostiniano, vedi, ad es.:
K.M. Girardet,
Naturrecht und Naturgesetz: eine Gerade Linie von Cicero zu Augustinus?, in Rheinisches Museum für
Philologie 138, 1995, 266
ss.; M. Forschner, Naturrechtliche
und christliche Grundlegung der Theorie des gerechten Krieges in der Antike
(bei Cicero und Augustinus), in Gymnasium
111, 2004, 557 ss.
[87] In materia rimando alle riflessioni di I. Lana, La concezione della pace a Roma. Lezioni, Torino 1987, 163, per
cui, relativamente al concetto di bellum iustum, «Agostino
sostanzialmente colora di spirito cristiano affermazioni già presenti, in
massima, nel pensiero cristiano», e di L. Bussi, Echi dello jus
belli romano nella dottrina canonistica
della guerra giusta, in Diritto @
Storia 3, 2004, http://www.dirittoestoria.it/3/TradizioneRomana/Bussi-Ius-belli.htm#_ftn4 : «L’idea di giustificare la guerra mediante la pace
successiva non era nuova, derivava da Aristotele ed era stata ripresa da
Virgilio. S. Agostino la trasforma e la cristianizza, unendo alle condizioni
richieste dal diritto romano una condizione nuova, forse l’unica prettamente
cristiana: l’animus che, perché la
guerra possa dirsi giusta, deve essere bellando
pacificus»; vedi anche, in maniera più estesa, Ead., Echi dello jus
belli romano nella dottrina canonistica
della guerra giusta, in Ius Antiquum.
Древнее Право 1.13, 2004, 130 ss., spec. 135 ss.
[88]
Per Agostino la pace è strettamente collegata alla guerra, vedi, ad es.: Epist.
189.6: Hoc ergo primum cogita, quando armaris ad pugnam, quia virtus tua etiam
ipsa corporalis donum Dei est. Sic enim cogitabis de dono Dei non facere contra
Deum. Fides enim quando promittitur, etiam hosti servanda est contra quem
bellum geritur; quanto magis amico pro quo pugnatur! Pacem habere debet
voluntas, bellum necessitas, ut liberet Deus a necessitate, et conservet in
pace. Non enim pax quaeritur ut bellum excitetur, sed bellum geritur ut pax
acquiratur. Esto ergo etiam bellando pacificus, ut
eos quos expugnas, ad pacis utilitatem vincendo perducas ... Itaque hostem
pugnantem necessitas perimat, non voluntas. Sicut rebellanti et resistenti
violentia redditur, ita victo vel capto misericordia iam debetur, maxime in quo
pacis perturbatio non timetur (PL 33, col. 856); De civ. Dei 19.12.1:
Quod enim mecum quisquis res humanas naturamque communem utcumque intuetur
agnoscit, sicut nemo est qui gaudere nolit, ita nemo est qui pacem habere
nolit. Quandoquidem et ipsi qui bella volunt, nihil aliud quam vincere
volunt: ad gloriosam ergo pacem bellando cupiunt pervenire. Nam quid est aliud
victoria, nisi subiectio repugnantium? Quod cum factum fuerit, pax erit. Pacis
igitur intentione geruntur et bella, ab his etiam qui virtutum bellicam student
exercere imperando atque pugnando. Unde pacem constat belli esse optabilem
finem. Omnis enim homo etiam belligerando pacem requirit: nemo autem bellum
pacificando. Nam et illi qui pacem, in qua sunt, perturbari volunt, non pacem
oderunt, sed eam pro arbitrio suo cupiunt commutari ... Pacem itaque cum suis
omnes habere cupint, quos ad suum arbitrium volunt vivere. Nam et cum quibus
bellum gerunt, suos facere, si possint, volunt, eisque subiectis leges suae
pacis imponere (PL 41, coll. 637 s.).
Per
la guerra e la pace in Agostino, con rinvio alla bibliografia precedente, vedi
tra gli ultimi, ad es.: G. Goisis, La guerra, la pace e la Città di Dio. Alcune
osservazioni sul libro XIX del De civitate Dei, in Agostino e il destino dell’Occidente, a cura di L. Perissinotto,
Roma 2000, 159 ss.; L. Loreto, Il bellum iustum, cit., 101 ss.; M. Fumagalli Beonio Brocchieri, Cristiani
in armi. Da Sant’Agostino a papa Wojtyla, Roma-Bari 2006, 23 ss.; J.W. Smith, Augustine and the limits of preemptive and preventive war, in The Journal of Religious Ethics 35,
2007, 141 ss.; T. Fuhrer, Krieg und (Un-)Gerechtigkeit. Augustin zu Ursache und Sinn von Kriegen,
in War in Words.
Transformations of War from Antiquity to Clausewitz, a cura di M. Formisano
– H. Böhme, Berlin-New York 2011, 23 ss.; A.A. Cassi, Diritto e guerra nell’esperienza giuridica europea tra medioevo ed età
contemporanea, in Aa.Vv., Il diritto come forza. La forza del diritto. Le
fonti in azione nel diritto europeo tra medioevo ed età contemporanea,
Torino 2012, 7 ss., spec. 9-11.
[89] Si devono ricordare, particolarmente, Tertulliano (ad
es., Apol. 37.5: Cui bello non idonei, non prompti fuissemus, etiam impares copiis, qui
tam libenter trucidamur, si non apud istam disciplinam magis occidi liceret,
quam occidere?, PL 1, col. 463;
50: Proelium est nobis, quod provocamur
ad tribunalia, ut illic sub discrimine capitis pro veritate certemus. Victoria
est autem, pro quo certaveris, obtinere. Ea victoria habet, et gloriam placendi
Deo, et praedam vivendi in aeternum. Sed obducimur, certe cum obtinuimus: ergo
vicimus, cum occidimur, PL 1,
col. 531) e Lattanzio (ad es., Div. inst.
5.5: Sic
hominibus intercidit communitas vitae, et diremptum est foedus societatis
humanae. Tum inter se manus conserere coeperunt, et insidiari, et gloriam sibi
ex humano sanguine comparare, PL
6, col. 567; 6.9: Quantum autem a
iustitia recedat utilitas, populus ipse Romanus docet, qui per Feciales bella
indicendo, et legitime iniurias faciendo, semper aliena cupiendo, atque
rapiendo, et possessionem sibi totius orbis comparavit, PL 6, col. 662). Sui «dubbi e le soluzioni della prima Christianitas» relativamente al bellum vedi A.A. Cassi, Dalla
santità alla criminalità della guerra. Morfologie storico-giuridiche del bellum
iustum, in Seminari di storia e di
diritto, III. «Guerra giusta»? Le
metamorfosi di un concetto antico, cit., 108 ss. Evidenzia il distacco del
vescovo d’Ippona rispetto a queste posizioni G.S.
Pene Vidari, Problematiche
giuridiche del bellum iustum tra
Medioevo ed età moderna, in Diritti
in guerra. Atti del Convegno Internazionale Bellum iustum. Aosta 5-7 dicembre 2007, a cura di
M.A. Fino, Roma 2012, 83: «Agostino può essere considerato la prima espressione
di una dottrina cristiana della guerra». Il superamento di questa posizione è
da collegarsi al mutamento del clima politico dopo l’editto di Tessalonica del
380 (C.Th. 16.1.2 = C. 1.1.1), e, in special modo quando, nel dicembre del 415,
Onorio e Teodosio II esclusero dal servizio militare i pagani (C.Th. 16.10.21).
[90]
In materia, L. Sacco, Dalla “guerra giusta” alla “guerra santa”:
alcune note storico-giuridiche e storico-religiose tra Islām e Western Legal Tradition, in Iura orientalia 8, 2012, 158 ss., spec. 160 ss. Cfr. anche L. Cova, Alle
radici della guerra santa. Dal dialogo alla violenza: un itinerario agostiniano,
in La guerra. Una riflessione
interdisciplinare, a cura di G. Manganaro Favaretto, Trieste 2003, 135 ss.,
e A. Padoa-Schioppa, Profili
del diritto internazionale nell’alto medioevo, in Le relazioni internazionali
nell’alto medioevo, Spoleto, 8-12 aprile 2010, Spoleto 2011, 1 ss.,
spec. 10 ss., per cui: «Non può sorprendere che anche sul diritto di guerra,
come per tanti altri temi, sia stato decisivo per il medioevo occidentale il
pensiero di Agostino» (13).
Il pensiero agostiniano segnò le
riflessioni patristiche successive anche in materia di guerra giusta come
provano i numerosi richiami nella causa XXIII della Concordia discordantium
canonum (per i richiami in materia da parte di Graziano vedi, tra gli
ultimi, F. Ricciardi Celsi, Riflessioni sulla «guerra giusta» nella causa XXIII
del Decretum di
Graziano. Attualità del problema all’inizio del XXI secolo, in Archivio
Giuridico 221, 2001, 395 ss., ora in Id.,
Sondaggi storici nel diritto
pubblico della Chiesa, Roma 2008, 33
ss.); in generale per la sua influenza nelle fonti medievali vedi,
ad esempio: K. Repgen, Kriegslegitimationen
in Alteuropa. Entwurf einer historischen Typologie, in Historische
Zeitschrift 241, 1985, 33: «Die
wichtigsten Überlegungen dazu hatte das Mittelalter vom hl. Augustinus
übernommen, der seinerseits antikes mit christlichem Gedankengut verbunden
hatte. Im Rückgriff vor allem auf Augustinus hat der große Bologneser
Rechtslehrer Gratian um 1140 in den 165 Kapiteln der Causa XXIII, die im
zweiten Teil seines Dekretes steht, das Kriegsrecht entwickelt, das bis zum
Ende des 19. Jahrhunderts für alle bellum-iustum-Theorien
grundlegend wurde».
[91]
A.A. Cassi, Diritto e guerra, cit., 9.
[92]
Per l’utilizzo dell’opera virgiliana in Agostino, vedi, ad es.: H.C. Coffin, The influence of Vergil on St. Jerome and on St. Augustine, in The Classical Weekly 17.22, 1924, 170
ss.: «To Augustine, Vergil is a universal and omniscient authority. He is
quoted not only on questions of fact, but on questions of doctrine. The poet’s
testimony is accepted on matters of mythology, geography, science, art, indeed
on all questions of general knowledge. In addition to all this, the Messianic
prophecy plays in Augustine a much larger role than in the other ecclesiastical
writers; indeed Augustine extends the doctrine to include others than Vergil»
(174). Vedi anche S. Audano, Agostino tra Bruto, Livio
e Virgilio (civ. 3,16; 5,18): un possibile tirannicidio cristiano?, in Agostino a scuola: letteratura e
didattica. Atti della Giornata
di studio di Pavia (13 novembre 2008), a cura di F. Gasti – M. Neri, Pisa 2009, 112: «lo studio scolastico di
Virgilio rivestirà una funzione rilevante non solo ai fini della preparazione
retorica del futuro vescovo di Ippona, ma anche come strumento primario per
confutare molti dei presupposti ideologici della storiografia romana e l’intera
impalcatura dei valori etici che li sostenevano». Cfr. anche L. Alfonsi, S. Agostino e gli autori latini, in Studi Romani 24, 1976, 453 ss.
[93]
Vergilius, Aen. 6.847-853: Excudent alii spirantia mollius aera /
(credo equidem), vivos ducent de marmore voltus, / orabunt causas melius,
caelique meatus / describent radio et surgentia sidera dicent: / tu regere
imperio populos, Romane, memento / (hae tibi erunt artes) pacique imponere
morem, / parcere subiectis et debellare superbos. Commento in E. Norden,
P. Vergilius Maro, Aeneis Buch VI, 4ª ed., 1957 [rist., Stuttgart 1984], 337 s. Per le innovazioni
virgiliane rimando a R. Schilling, Tradition et
innovation dans le chant VI de l’Énéide de Virgile, in Journal des savants 3, 1980, 193 ss. Di particolare interesse le
successive interpretazioni di
Donatus, Interpr. Virg.: Tu regere imperio populos, Romane, memento
(hae tibi erunt artes) pacique inponere morem, parcere subiectis et debellare superbos: tibi autem ars
erit omnibus potior, regendi scilicet imperii, servare subiectos superbosque mactare (ed. H.
Georgii, 1905, 613 s.) e degli Pseudacronis scholia in Horatium, Expos. in
Carm. saec. 51: Parcere subiectis et debellare superbos, sive quia Romanis mos erat, ut iustis causis
bella susciperent et, nisi per Fetiales edicta belli causa, minime pugnarent.
[94] F. Sini, Bellum nefandum, cit., 239. Questa
concezione romana espressa nei versi virgiliani si scorge anche in Silius Italicus 14.684 s.: Felices
populi, si, quondam ut bella solebant, / nunc quoque inexhaustas pax nostra
relinqueret urbes!
[95] Per l’uso di Sallustio da parte di Agostino vedi, ad
esempio: T. Orlandi, Sallustio e Varrone in Agostino, De
civitate Dei I-VII, in La Parola del Passato 23, 1968, 19 ss.
Vedi anche M. Pavan, Agostino, cit., 637 ss., secondo cui:
«Cicerone e Sallustio sono i due testimoni della romanità cui Agostino fa più
spesso appello, e di cui si fa emulo, forte della certezza cristiana nel
giudicare la storia romana e, più universalmente, quella umana. L’uno e l’altro
si erano domandati come mai si fosse potuto creare tanto impero e cosa mai ne
avesse provocato la corruzione presente» (639).
[96] Sallustius,
Cat. 9.4 s.: Quarum rerum ego maxuma documenta haec habeo, quod in
bello saepius vindicatum est in eos, qui contra imperium in hostem pugnaverant
quique tardius revocati proelio excesserant, quam qui signa relinquere aut
pulsi loco cedere ausi erant; 5. in pace vero quod beneficiis magis quam metu
imperium agitabant et accepta iniuria ignoscere quam persequi malebant.
[97] Secondo R.O.A.M. Lyne, Vergil and the
politics of war, in The Classical
Quarterly 33 n.s., 1983, 188 ss., la concezione alla base di questi versi
virgiliani, definiti come «summation of the Roman imperial mission», scaturisce
dalle riflessioni stoiche e principi imperiali (parla a proposito di ruolo
“Stoically imperial” dell’eroe). In generale, per le connessioni tra il poema
virgiliano e la politica, vedi J.-L.
Pomathios, Le pouvoir politique et sa représentation dans l’énéide de Virgile, Bruxelles
1987.
[98]
In generale sul controverso fenomeno
dell’imperialismo romano, vedi, ex multis:
A. Zwaenepoel, L’inspiration religieuse de l’impérialisme romain, in L’Antiquité
Classique 18, 1949, 5 ss.; R. Werner, Das Problem des Imperialismus und die
römische Ostpolitik in zweiten Jahrhundert v. Chr., in Aufstieg und
Niedergang der römischen Welt, I.1, Berlin-New York 1972,
501 ss.; P. Veyne, Y a-t-il eu un impérialisme romain?, in Mélanges de l’école française de Rome. Antiquité 87, 1975, 793 ss.; E. Gabba, Aspetti culturali dell’imperialismo romano, in Athenaeum 55, 1977, 49 ss.; Aa.Vv., The Imperialism of Mid-Republican Rome,
a cura di W.V. Harris, Rome 1984;
G. Zecchini, L’imperialismo romano: un mito storiografico?, in Politica Antica 1, 2011, 171 ss.; E. Migliario, Minoranze negli imperi: Popoli fra identità nazionale e
ideologia imperialeB. Mazohl – P. Pombeni,
[99] A titolo esemplificativo segnalo alcune significative
considerazioni: G. Luraschi, ‘Foedus’ nell’ideologia virgiliana, in Atti
del III Seminario Romanistico Gardesano, cit., 297 s., il quale, a
proposito di Vergilius, Aen. 6.851
s., sostiene come «quella del poeta (checché se ne dica) non vuole essere una
esortazione imperialistica o una compiaciuta constatazione della ‘grandeur’ di
Roma, ma piuttosto una indicazione dei doveri che incombono sulla domina gentium, primo fra tutti quello
di creare le condizioni politiche e giuridiche per una pace duratura ed
universale. [...] Sulla fides piuttosto
che sulla maiestas si fonda la
concezione virgiliana della missione di Roma»; I. Lana, Cicerone e la
pace, cit., 6 s., per cui in Virgilio «la pace politica è presentata come
il punto di arrivo, veramente terminale, di tutta la vicenda di tutta
l’umanità, riassunta nel destino di Roma». A riguardo si deve inoltre ricordare
F. Sini (spec.: Bellum nefandum, cit., 235 ss.; «Fetiales, quod fidei publicae inter
populos praeerant», cit., 529 ss.; Ut iustum conciperetur bellum, cit., 71
ss.), il quale individua nei versi virgiliani “il carattere imperativo e
bilaterale” della concezione romana della pax.
[100] Faccio
riferimento specialmente a Minucio Felice il quale, in Oct. 6, sottolinea il culto “universale” dei Romani e l’ideologia
di espansione a esso connessa: Inde adeo
per universa imperia, provincias, oppida, videmus singulos sacrorum ritus
gentiles habere, et deos colere municipes, ut Eleusinios Cererem, Phrygas
Matrem, Epidaurios Aesculapium, Chaldaeos Belum, Astarten Syros, Dianam Tauros,
Gallos Mercurium, universa Romanos. Sic
eorum potestas et auctoritas totius orbis ambitus occupavit: sic imperium suum
ultra solis vias et ipsius Oceani limites propagavit, dum exercent in armis
virtutem religiosam, dum urbem muniunt sacrorum religionibus, castis
virginibus, multis honoribus, ac nominibus sacerdotum: dum obsessi, et citra
solum Capitolium capti, colunt deos, quos alius iam sprevisset, iratos; et per
Gallorum acies, mirantium superstitionis audaciam, pergunt telis inermes, sed
cultu religionis armati: dum capti, in hostilibus moenibus adhuc ferociente
victoria, numina victa venerantur: dum undique hospites deos quaerunt, et suos
faciunt: dum aras extruunt, dum etiam ignotis numinibus et manibus. Sic, dum universarum gentium sacra
suscipiunt, etiam regna [meruerunt]. Hinc perpetuus merent venerationis tenor
mansit, qui longa aetate non infringitur, sed augetur: quippe antiquitas
caerimoniis atque fanis tantum sanctitatis tribuere consuevit, quantum
adstruxerit vetustatis (PL 3,
coll. 251 ss.). Vedi a riguardo F. Sini, Sua
cuique civitati religio, cit., 70 ss. Per le conoscenze giuridiche dell’apologeta, J. Gaudemet, Le droit romain dans la littérature chrétienne occidentale, cit.,
33 ss.
[101]
Tra le numerose occorrenze in cui il vescovo d’Ippona manifesta tale intento
vedi, ad es.: De civ. Dei 4.3
ss. (PL 41, coll. 113 ss.). Come evidenzia T. Orlandi, Il “De civitate Dei”, cit., 29, il vescovo «vede attraverso una teoria cristiana (Dio che
determina il destino di ogni nazione secondo i suoi disegni) quella che era già
una concezione storico-politica extra-cristiana. Roma nasce con un compito
preordinato di dominio mondiale; questo compito, che classicamente era visto
“nell’ordine naturale delle cose” (Dionisio), Agostino lo considera parte del
disegno provvidenziale divino».
[102] Augustinus, De civ. Dei 5.12.2:
Tunc
itaque magnum illis fuit aut fortiter emori, aut liberos vivere. Sed cum esset
adepta libertas, tanta cupido gloriae incesserat, ut parum esset sola libertas,
nisi et dominatio quaereretur, dum pro magno haberetur quod, velut loquente
Iove, idem poeta dicit, ‘Quin aspera Iuno, / Quaemare nunc terrasque metu
coelumque fatigat, / Consilia in melius referet, mecumque fovebit / Romanos
rerum dominos gentemque togatam, / Sic placitum. Veniet lustris habentibus
aetas, / Cum domus Assarici Phthiam clarasque Mycenas / Servitio premet, ac
victis dominabitur Argis’. Quae quidem Virgilius Iovem inducens tamquam
futura praedicentem ipse iam facta recolebat cernebatque praesentia; verum
propterea commemorare illa volui, ut ostenderem dominationem post libertatem
sic habuisse Romanos, ut in eorum magnis laudibus poneretur. Hinc est et illud
eiusdem poetae, quod, cum artibus aliarum gentium eas ipsas proprias Romanorum
artes regnandi atque imperandi et subiugandi ac debellandi populos anteponeret,
ait: ‘Excudent alii spirantia mollius aera, cedo equidem, vivos ducent de
marmore vultus, orabunt causas melius caelique meatus describent radio et
surgentia sidera dicent: tu regere imperio populos, romane, memento (hae tibi
erunt artes) pacique inponere mores, parcere subiectis et debellare superbos’ (PL 41, col.
155).
[103]
Su tale concetto, A.-H. Chroust, The philosophy of law of St. Augustine,
in The philosophical review 53, 1944,
195 ss. Vedi ancora, G. Filoramo, Il ruolo della Legge divina nel sistema dei valori cristiano antico,
in Cosmo. Comparative Studies in Modernism 3, 2013 (=Diritto e Religione,
a cura di C. Costantini), 19 ss., spec. 27 ss.
[104] Il principio è enunciato in Gc 4.6 e in 1 Pt 5.5; vedi
anche del Vetus Testamentum il Liber Proverbiorum 3.34: Ipse deludet illusores et mansuetis dabit
gratiam.
Come ha sottolineato K. Büchner, Virgilio.
Il poeta dei Romani, a cura di M.
Bonari, tr. it. di E. Riganti, 2ª ed.,
Brescia 1986, 482, in questi versi virgiliani Agostino «ha visto una
sorprendente concordanza con la Bibbia».
[105] Augustinus, De civ. Dei praef.: Rex enim et conditor
civitatis huius, de qua loqui instituimus, in scriptura populi sui sententiam
divinae legis aperuit, qua dictum est: ‘Deus superbis resistit, humilibus autem
dat gratiam’. Hoc vero, quod dei est, superbae quoque animae spiritus inflatus
adfectat amatque sibi in laudibus dici: ‘parcere subiectis et debellare superbos’. Unde etiam de terrena
civitate, quae cum dominari adpetit, etsi populi serviant, ipsa ei dominandi
libido dominatur, non est praetereundum silentio quidquid dicere suscepti huius
operis ratio postulat si facultas datur (PL 41, coll. 13 s.). Per F. Fontanella, L’impero
romano nel De civitate Dei di
Agostino, cit., 80, la citazione di questo verso dell’Eneide «costituendo
infatti un evidente riferimento a Roma, permette di leggere l’ultimo passo
della prefazione come un anticipo del giudizio agostiniano sull’impero romano
che nei primi V libri del De civitate viene
infatti per lo più contraddistinto della dominandi
libido. La fonte virgiliana (immediatamente riconoscibile al lettore) già
dall’incipit dell’opera viene quindi
fatta agire in un contesto (la denuncia dell’uomo che si arroga prerogative
divine) che la contesta».
Il
verso virgiliano viene citato, o parafrasato, nella patristica, spesso sulla
base di un’ottica cristiana, vedi, ad es.: Quodvultdeus (+ ca. 453), Serm. 10: Adversus quinque
haereses 2: Noverat et bene noverat, non solum parcere subiectis et debellare
superbos, verum etiam virtutem ostendere et patientiam
custodire; Ionas Aurelianensis (ante 780-841/843), De inst.
reg. 5: Quae verba ita Beda exponit: “Non quod omnes,
qui a regibus mittuntur duces, vel male facientes punire vel bonos laudare
noverint; sed quae esse debeat actio boni ducis simpliciter narrat, hoc est ut
male facientes coherceat et bene agentes remuneret”. Hinc in historia gentili
refertur moris fuisse Romanis “parcere subiectis et debellare
superbos”; Bernardus Claraevallensis (1090 ca.–1153), Epist. 212: Certe, inquam, in omnibus et per omnia instructus est et aemulari, et
ignoscere, et debellare superbos, et
parcere nihilominus subiectis, nisi quod, magistrum sequens, etiam consuevit
misericordiam superexaltare iudicio; 363.7: Est autem christianae pietatis, ut debellare superbos, sic et parcere subiectis, his praesertim
quorum est legislatio et promissa, quorum patres, et ex quibus Christus
secundum carnem, qui est super omnia Deus benedictus in saecula; Ptolomaeus
de Lucca (1236-1326/27), Cont. Thom. de
Aqu. ‘de regim. princ.’
3.6.953: Cum enim misit obsides Romanis, primo quidem
hortatus est universos bonum habere animum:venisse enim eos in Romanorum
potestatem, qui beneficio quam metu obligare homines malunt, exterasque gentes
fide ac societate iunctas habere quam tristi subiectas servitio. De hoc etiam
dicit Augustinus, primo de civ. Dei, quod proprium ipsorum fuit parcere
subiectis et debellare superbos, acceptaque iniuria,
ignoscere quam persequi mallebant.
[106] Seneca phil., ad
Luc. 106.6: Si adfectus corpora sunt,
et morbi animorum, ut avaritia, crudelitas, indurata vitia et in statum
inemendabilem adducta: ergo et malitia et species eius omnes, malignitas,
invidia, superbia ... Il richiamo a un animo superbo si rinviene
anche in Vergilius, Aen. 11.715-717: ‘Vane Ligus frustraque animis elate
superbis, / nequiquam patrias temptasti lubricus artis, / nec fraus te
incolumem fallaci perferet Auno’. In Giustiniano la superbia è connessa al mancato riconoscimento dell’autorità
superiore, C. 1.14.12.1: (Imp. Iustinianus A. Demostheni pp.) Quid
enim maius, quid sanctius imperiali est maiestate? vel quis tantae superbiae
fastidio tumidus est, ut regalem sensum contemnat, cum et veteris iuris
conditores constitutiones, quae ex imperiali decreto processerunt, legis vicem
obtinere aperte dilucideque definiunt? (a. 529).
[107] Secondo Cesare la superbia
fu ascritta a chi deteneva il potere (Sallustius, Cat. 51.12-14:
... qui magno imperio praediti in excelso
aetatem agunt, eorum facta cuncti mortales novere. 13. Ita in maxuma fortuna minuma licentia est; neque studere neque odisse,
sed minume irasci decet; 14. quae
apud alios iracundia dicitur. Ea in imperio superbia atque crudelitas
appellatur).
[108] Tra i
vari esempi rinvio a: Livius 3.9.9: Quid
tandem? Illi non licere, si quid consules superbe in aliquem civium aut
crudeliter fecerint, diem dicere, accusare iis ipsis iudicibus, quorum in
aliquem saevitum sit? (cfr. 5.2.8: ...
ante tribuniciam potestatem creatam superbos illos consules ...). La superbia dei magistrati è intesa come
cifra della condotta dei re: Livius 4.15.4: ...
nuper decemviros bonis, exilio, capite multatos ob superbiam regiam ...; 28.42.22: Ego, patres conscripti, P. Cornelium rei publicae nobisque, non sibi
ipsi privatim creatum consulem existimo, exercitusque ad custodiam urbis atque
Italiae scriptos esse, non quos regio more per superbiam consules quo terrarum
velint traiciant (cfr. anche Sallustius, Iug. 64.5: ... dimidia pars
exercitus si sibi permitteretur, paucis diebus Iugurtham in catenis habiturum;
ab imperatore consulto trahi, quod homo inanis et regiae superbiae imperio
nimis gauderet).
[109] Vedi,
ad es.: Livius 3.9.2-4: C. Terentilius
Harsa tribunus plebis eo anno fuit. Is consulibus absentibus ratus locum
tribuniciis actionibus datum, per aliquot dies patrum superbiam ad plebem
criminatus, maxime in consulare imperium tamquam nimium nec tolerabile liberae
civitati invehebatur. 3. Nomine enim
tantum minus invidiosum, re ipsa prope atrocius quam regium esse; 4. quippe duos pro uno dominos acceptos
immoderata, infinita potestate, qui, soluti atque effrenati ipsi, omnis metus
legum omniaque supplicia verterent in plebem (cfr. 2.24.2: Exultare gaudio plebes, ultores superbiae
patrum adesse dicere deos ...; 6.14.3: Centurionem,
nobilem militaribus factis, iudicatum pecuniae cum duci vidisset, medio foro
cum caterva sua accurrit et manum iniecit vociferatusque de superbia patrum ac
crudelitate faeneratorum et miseriis plebis). In generale Sallustius, Cat. 33.3: Saepe ipsa
plebs, aut dominandi studio permota aut superbia magistratuum, armata a
patribus secessit, vedi anche Sallustius, Iug. 64.1: ... superbia,
commune nobilitatis malum. Sulla superbia come concetto utilizzato nel
conflitto politico, vedi spec. J. Hellegouarc’h, Le vocabulaire latin,
cit., 439 ss., per cui verosimilmente con questo termine «les Romains
les plus pauvres jugeaient le comportement à leur égard des riches, des optimates, leur arrogance, leur morgue».
[110] A dimostrazione dello spessore e della persistenza del
tema ideologico della superbia, la
volontà di repressione dei “superbi”, ad es., è rinvenibile anche sul finire
del XIV secolo nella normativa medievale sarda, quando nel prologo della Carta
de Logu, la giudicessa di Arborea, Eleonora Bas-Serra, sanciva la necessità di
repressione dei superbi, qui intesi come “rei e malvagi”: Cum ciò siat causa chi s’accrescimentu, ed exaltamentu dessas
provincias, regionis, e terras descendant, e bengiant dessa Justicia, e chi
peri sos bonos capidulos sa superbia dessos reos e malvagios hominis si
affrenit e constringat, acciò chi sos bonos e puros ed innocentis pozzant
viver, ed istari interi sos reos assegurados pro paura dessas penas, ed issos
bonos pro sa virtudi dess’amori siant totu obedientis assos capidulos ed
ordinamentos de custa Carta de Logu. Vedi la tr. it.: «Affinché
le provincie, le regioni e le terre (del regno) s’inchinino e si sottopongano
alla Giustizia per meglio accrescere ed elevarsi, e che per i buoni articoli di
legge venga frenata e repressa la superbia dei rei e dei malvagi, sì che i
buoni, i puri e gli innocenti possano vivere tranquilli e sicuri dai colpevoli
per il timore che essi hanno delle pene, e che le stesse buone persone siano
tutte obbedienti ai capitoli e alle ordinanze di questa Carta de Logu» (F.C. Casula,
La “Carta de Logu” del Regno di
Arborea. Traduzione libera e commento storico, Sassari 1995, 30 s. Traduce superbia in “prepotenza”, senza dar peso
alle tradizionali implicazioni ideologiche del termine, G. Lupinu, in Carta de
Logu dell’Arborea. Nuova edizione critica secondo il manoscritto di Cagliari
(BUC 211) con traduzione italiana, Oristano 2010, 55). Su questa opera
legislativa della Sardegna medioevale e il suo collegamento al diritto romano
rimando per tutti a F. Sini, Notazioni
(e/o rimeditazioni) su diritto romano e Carta de Logu de Arborea, in Diritto
@ Storia 11, 2013, http://www.dirittoestoria.it/11/D&Innovazione/Sini-Notazioni-rimeditazioni-diritto-romano-Carta-Logu-Arborea.htm .
[111] Tra le tante testimonianze vedi, ad es.: Cicero, Pro Rab. perduell. 13: ... Tarquini,
superbissimi atque crudelissimi regis ...; Livius 1.49.1: Inde L. Tarquinius regnare occepit, cui
Superbo cognomen facta indiderunt, quia socerum gener sepultura prohibuit ...; 1.50.3: Turnus Herdonius ab Aricia ferociter in absentem Tarquinium erat
invectus: haud mirum esse Superbo inditum Romae cognomen - iam enim ita clam
quidem mussitantes, vulgo tamen eum appellabant -; an quicquam superbius esse
quam ludificari sic omne nomen Latinum?; 1.53.9: Forsitan etiam ardoris aliquid ad bellum armaque se adversus
superbissimum regem ac ferocissimum populum inventurum; Florus, Epit. 1.7.1 s.: Postremus fuit omnium regum Tarquinius, cui cognomen Superbo ex moribus
datum. 2. Hic regnum avitum, quod a
Servio tenebatur, rapere maluit quam expectare, inmissisque in eum
percussoribus scelere partam potestatem non melius egit quam adquisiverat;
1.7.4: Set ipse in senatum caedibus, in
plebem verberibus, in omnis superbia, quae crudelitate gravior est bonis,
grassatus, cum saevitiam domi fatigasset, tandem in hostes conversus est; De
vir. illustr. 8.1: Tarquinius Superbus cognomen moribus meruit.
Occiso Servio Tullio regnum sceleste
occupavit.
L. Bruno, «Crimen regni» e «superbia» in Tito Livio,
in Giornale italiano di filologia 19,
1966, 236 ss., rinviene in Livio una rappresentazione negativa del regnum, sentito in antitesi alla libertas repubblicana:
regnum è sinonimo di un potere
assoluto ma «è anche un atteggiamento, un sentimento, una maniera di
considerare la lotta politica» che divenne presto «un equivalente di superbia» (237).
[112] Valerius Maximus 4.4.1: Regio imperio propter nimiam Tarquinii
superbiam finito consulatus initium Valerius Publicola cum Iunio Bruto
auspicatus est ... Vedi anche Livius 3.39.3 s.: ... admonentemque Valeriis et Horatiis ducibus pulsos reges. 4. Nec nominis homines tum pertaesum esse,
quippe quo Iovem appellari fas sit, quo Romulum, conditorem urbis, deincepsque
reges, quod sacris etiam ut sollemne retentum sit; superbiam violentiamque tum
perosos regis.
[113] Vedi, ad es.: Livius 2.1.1: Liberi iam hinc populi Romani res pace
belloque gestas, annuos magistratus imperiaque legum potentiora quam hominum
peragam; Tacitus, Ann. 1.1.1: Urbem Romam a principio reges habuere;
libertatem et consulatum L. Brutus instituit. Il concetto di libertas
si intreccia a problemi di libertà del singolo, libertà da una dominazione
straniera, che per economia del discorso non posso trattare, segnalo, tra le
opere più recenti: P. Desideri, Repubblica romana e libertà politica: dalla
storiografia romana ai Discorsi di
Machiavelli, in Rivista Storica
Italiana 124, 2012, 107 ss.; M. Genovese, Libertas e civitas in Roma antica, Acireale-Roma 2012: A. Muroni, Sull’origine della libertas in Roma antica: storiografia annalistica ed
elaborazioni giurisprudenziali, in Diritto @ Storia 11, 2013, http://www.dirittoestoria.it/11/tradizione/Muroni-Origine-libertas-Roma-antica.htm .
[114] Esempi
di attribuzione della superbia a
stranieri si rinvengono in: Livius 21.44.4 s.: Accendit praeterea et stimulat animos dolor iniuria indignitas. Ad
supplicium depoposcerunt me ducem primum, deinde vos omnes, qui Saguntum
oppugnassetis; deditos ultimis cruciatibus adfecturi fuerunt. 5. Crudelissima ac superbissima gens sua omnia
suique arbitrii facit. Cum quibus bellum, <cum> quibus pacem habeamus, se
modum inponere aequum censet; 23.7.5: Ut
vero praesidium mitti ab Hannibale audivit, Pyrrhi superbam dominationem
miserabilemque Tarentinorum servitutem exempla referens, primo, ne reciperetur
praesidium; 29.6.17: Ipse postremo
veniebat Hannibal, nec sustinuissent Romani nisi Locrensium multitudo,
exacerbata superbia atque avaritia Poenorum, ad Romanos inclinasset;
29.8.6: Ita superbe et crudeliter habiti
Locrenses ab Carthaginiensibus post defectionem ab Romanis fuerant ut modicas
iniurias non aequo modo animo pati sed prope libenti possent. Vedi ancora
Vergilius, Aen. 8.481-488: Hanc multos florentem annos rex deinde
superbo / imperio et saevis tenuit Mezentius armis. / Quid memorem infandas
caedes, quid facta tyranni / effera? Di capiti ipsius generique reservent! /
Mortua quin etiam iungebat corpora vivis / componens manibusque manus atque
oribus ora, / tormenti genus, et sanie taboque fluentis / complexu in misero
longa sic morte necabat; Aen. 11.539:
Pulsus ob invidiam regno viresque
superbas. L’uso politico, interno
e nei rapporti con gli altri popoli, del concetto di superbia è
illustrato da H. Haffter (Politischen Denken im alten Rom e Superbia innenpolitisch, pubblicati in Studi italiani di filologia classica 17,
1940, 97 ss., spec. 110 ss., e 27-28,
1956, 135 ss., ora in Id., Römische Politik und römische Politiker.
Aufsätze und Vorträge, Heidelberg 1967, rispettivamente a 39 ss. e a 52 ss.). Vedi anche J. Hellegouarc’h,
Le vocabulaire latin, cit., 440: «Les Romains ont associé
ce sentiment à la notion de royauté; le dernier des rois fut appelé Tarquinius
Superbus; aux décemvirs on reproche une superbia
égale à la sienne. C’était certainement une idée courante dans le peuple
[...]. Cette aversion pour la superbia était
même si familière à Rome qu’elle avait tendance à l’imputer à ses ennemis et
qu’elle se fixa comme l’un des buts de sa politique extérieure de triompher des
peuples qui s’en rendraient coupables».
[115] Augustinus, De
civ. Dei 5.12.1: Hanc ardentissime
dilexerunt, propter hanc vivere voluerunt, pro hac emori non dubitaverunt.
Caeteras cupiditates huius unius ingenti cupiditate presserunt. Ipsam denique patriam suam, quoniam servire
videbatur inglorium, dominari vero atque imperare gloriosum, prius omni studio
liberam, deinde dominam esse concupierunt. Hinc est quod regalem dominationem
non ferentes, annua imperia binosque imperatores sibi fecerunt, qui consules
appellati sunt a consulendo, non reges aut domini a regnando atque dominando:
cum et reges utique a regendo dicti melius videantur, ut regnum a regibus,
reges autem, ut dictum est, a regendo; sed fastus regius non disciplina putata
est regentis, vel benevolentia consulentis, sed superbia dominantis (PL 41, col. 154). Qui Agostino cita a proposito Sallustius, Cat. 7.6: Laudis
avidi, pecuniae liberales erant; gloriam ingentem, divitias honestas volebant.
[116] Secondo H. Haffter, Politischen
Denken, cit., 110 ss. (= Römische
Politik und römische Politiker, cit.,
52 ss.), il verso virgiliano «ist die Vorstellung von der superbia eingegangen in die klassische
dichterische Verklärung der römischen Außenpolitik»: chi non riconosce l’imperium Romanum «ist ein Feind aller, ist
ein Verächter dessen, was der Völkergemeinschaft frommt, ist ein superbus». Vedi anche le considerazioni di I. Lana, La concezione
della pace a Roma, cit., 84, Id., L’idea della pace
nell’antichità, cit., 86 s., secondo
il quale nei versi di Virgilio la pax
è «strumento per governare tutto il mondo» e si manifesta «come lo strumento in
grado di ristabilire la giustizia, nel senso che esso esige la sottomissione di
tutti i popoli al volere del fato: chi non lo accetta, si macchia della colpa
della superbia, per la quale non v’è né perdono né clemenza». Vedi, invece, A. Traina, v. superbia, in Enciclopedia Virgiliana,
4, Roma 1988, 1074, per cui il verso in questione rappresenta «la
giustificazione etico-politica dell’imperialismo romano almeno sin dai tempi di
Plauto e di Catone».
[117] Sul personaggio vedi G.
Milanese, v. Ilioneo (Ilioneus, Ἰλιονεύς), in Enciclopedia
Virgiliana, 2, Roma 1985, 913 s.
[118] Cfr. quanto dice Venere a Enea: ‘En perfecta mei promissa coniugis arte / munera, ne mox aut Laurentis,
nate, superbos / aut acrem dubites in proelia poscere Turnum’ (Aen. 8.612-614).
Per l’uso nel poema virgiliano della
terminologia connessa alla superbia,
vedi: R.B. Lloyd, Superbus in the Aeneid, in The
American Journal of Philology 93, 1972, 125 ss.; A. Traina, v. superbia, cit., 1072 ss., il quale sottolinea
come nel discorso di Ilioneo: «la s. è
negata come inconciliabile in generale coi vinti e in particolare con la pietas dei Troiani» (1074); D. Christenson, Superbia in Vergil’s Aeneid: Who’s Haughty and Who’s Not?, in Scholia. Studies in Classical Antiquity 11, 2002, 44 ss.
[119] Per la concezione della guerra nel pensiero dell’oratore
vedi A. Michel, Les lois de la guerre et les problèmes de
l’impérialisme romain dans la philosophie de Cicéron, in Aa.Vv., Problèmes
de la guerre à Rome, cit., 171 ss.
[120] R.O.A.M. Lyne, Vergil and the politics of war, cit.,
192, rinviene la differenza tra i due passi: «But Anchises is even more magnanimous: he has no ‘exclusion clause’ like
Cicero's qui non crudeles... And we
might think that Aeneas should feel more committed to mercy and magnanimity
than some generals in some imperial wars, for the Italians are destined, as he
knows, to be not a conquered province but part of the unified Roman people: one
nation».
[121] Vedi, ad esempio, quanto sosteneva Titus Quinctius Flamininus nel 197 a.C.: et Romanos praeter vetustissimum morem
victis parcendi praecipuum clementiae documentum dedisse pace Hannibali et
Carthaginiensibus data. 8. Omittere
se Carthaginienses: cum Philippo ipso quotiens ventum in conloquium? Nec unquam
ut cederet regno actum esse. An quia victus proelio foret, inexpiabile bellum
factum? 9. Cum
armato hoste infestis animis concurri debere: adversus victos mitissimum
quemque animum maximum habere (Livius 33.12.7-9).
[122] Nel suo discorso in favore dei Rodii,
Catone nel 167 a.C. richiama la mansuetudine degli antenati: ... sic in ista tum causa Cato, cum superbia
illa Rodiensium famosissima multorum odio atque invidia flagraret, omnibus
promisce tuendi atque propugnandi modis usus est et nunc ut optime meritos
commendat, nunc tamquam si innocentes purgat, <nunc,> ne bona divitiaeque
eorum expetantur, obiurgat, nunc et, quasi sit erratum, deprecatur, nunc ut
necessarios reipublicae ostentat, nunc clementiae, nunc mansuetudinis maiorum,
nunc utilitatis publicae commonefacit (Gellius, Noct. Att. 6.3.52). Vedi anche Sallustius, Cat. 12.4
s.: Verum illi [nostri maiores] delubra
deorum pietate, domos suas gloria decorabant, neque victis quicquam praeter
iniuriae licentiam eripiebant. 5. At
hi contra, ignavissumi homines, per summum scelus omnia ea sociis adimere, quae
fortissumi viri victores reliquerant: proinde quasi iniuriam facere, id demum
esset imperio uti.
[123] Livius 6.25.6-26: Nec
fuit cum Tusculanis bellum; pace constanti vim Romanam arcuerunt, quam armis
non poterant. 7. Intrantibus fines
Romanis non demigratum ex propinquis itineri locis, non cultus agrorum
intermissus, patentibus portis urbis togati obviam frequentes imperatoribus
processere, commeatus exercitui comiter in castra ex urbe et ex agris
devehitur. 8. Camillus castris ante
portas positis, eadem ne forma pacis, quae in agris ostentaretur, etiam intra
moenia esset, scire cupiens. 9. Ingressus
urbem ubi patentes ianuas et tabernis apertis proposita omnia in medio vidit
intentosque opifices suo quemque operi et ludos litterarum strepere discentium
vocibus ac repletas semitas inter vulgus aliud puerorum et mulierum huc atque
illuc euntium, qua quemque suorum usuum causae ferrent, nihil usquam non
pavidis modo sed ne mirantibus quidem simile. 10. Circumspiciebat omnia, inquirens oculis, ubinam bellum fuisset; adeo
nec amotae rei usquam nec oblatae ad tempus vestigium ullum erat, sed ita omnia
constanti tranquilla pace, ut eo vix fama belli perlata videri posset.
26.1. Victus igitur patientia hostium
senatum eorum vocari iussit. ‘Soli adhuc’ inquit, ‘Tusculani, vera arma
verasque vires, quibus ab ira Romanorum vestra tutaremini, invenistis. 2. Ite Romam ad senatum; aestimabunt patres,
utrum plus ante poenae an nunc veniae meriti sitis; non praecipiam gratiam
publici beneficii; deprecandi potestatem a me habueritis; precibus eventum
vestris senatus, quem videbitur, dabit’. 3. Postquam Romam Tusculani venerunt senatusque paulo ante fidelium
sociorum maestus in vestibulo curiae est conspectus, moti extemplo patres
vocari eos iam tum hospitaliter magis quam hostiliter iussere. 4. Dictator Tusculanus ita verba fecit: ‘Quibus
bellum indixistis intulistisque, patres conscripti, sicut nunc videtis nos
stantes in vestibulo curiae vestrae, ita armati paratique obviam imperatoribus
legionibusque vestris processimus. 5. Hic noster, hic plebis nostrae habitus fuit eritque semper, nisi si
quando a vobis proque vobis arma acceperimus. Gratias agimus et ducibus vestris et
exercitibus, quod oculis magis quam auribus crediderunt et, ubi nihil hostile
erat, ne ipsi quidem fecerunt. 6. Pacem, quam nos praestitimus, eam a vobis
petimus; bellum eo, sicubi est, avertatis precamur; in nos quid arma polleant
vestra, si patiendo experiundum est, inermes experiemur. Haec mens nostra sit, di inmortales
faciant, tam felix, quam pia. 7. Quod ad crimina attinet, quibus moti bellum indixistis, etsi revicta
rebus verbis confutare nihil attinet, tamen, etiam si vera sint, vel fateri
nobis ea, cum tam evidenter paenituerit, tutum censemus. Peccetur
in vos, dum digni sitis, quibus ita satisfiat’. 8. Tantum fere
verborum ab Tusculanis factum. Pacem
in praesentia nec ita multo post civitatem etiam impetraverunt. Ab Tusculo
legiones reductae. Un esempio di differente atteggiamento da parte dei Romani
rispetto ai vinti si trova anche in Livius 7.19.1-4: Duo bella eo anno prospere gesta. Cum Tiburtibus usque ad deditionem
pugnatum. Sassula ex his urbs capta; ceteraque oppida eandem fortunam
habuissent, ni universa gens positis armis in fidem consulis venisset. 2. Triumphatum de Tiburtibus; alioquin mitis
victoria fuit. In Tarquinienses acerbe saevitum; multis mortalibus in acie
caesis ex ingenti captivorum numero trecenti quinquaginta octo delecti,
nobilissimus quisque, qui Romam mitterentur; vulgus aliud trucidatum. 3. Nec populus in eos, qui missi Romam erant,
mitior fuit; medio in foro omnes virgis caesi ac securi percussi. Id pro
immolatis in foro Tarquiniensium Romanis poenae hostibus redditum. 4. Res bello bene gestae, ut Samnites quoque
amicitiam peterent, effecerunt. Legatis eorum comiter ab senatu responsum,
foedere in societatem accepti.
[124] Vedi, ad es.: Livius 5.40.7-10: Flamen interim Quirinalis virginesque Vestales omissa rerum suarum
cura, quae sacrorum se cum ferenda, quae, quia vires ad omnia ferenda deerant,
relinquenda essent, consultantes, quisve ea locus fideli adservaturus custodia
esset, 8. optimum ducunt condita in
doliolis sacello proximo aedibus flaminis Quirinalis, ubi nunc despui religio
est, defodere; cetera inter se onere partito ferunt via, quae sublicio ponte
ducit ad Ianiculum. 9. In eo clivo
eas cum L. Albinius, de plebe [Romana] homo, conspexisset plaustro coniugem ac
liberos avehens inter ceteram turbam, quae inutilis bello urbe excedebat,
10. salvo etiam tum discrimine divinarum
humanarumque rerum, religiosum ratus sacerdotes publicas sacraque populi Romani
pedibus ire ferrique ac suos in vehiculo conspici, descendere uxorem ac pueros
iussit, virgines sacraque in plaustrum inposuit et Caere, quo iter sacerdotibus
erat, pervexit; Valerius Maximus
1.1.10: Quod animi iudicium in privatorum quoque pectoribus versatum est: Urbe
enim a Gallis capta, cum flamen Quirinalis virginesque Vestales sacra onere
partito ferrent, easque pontem Sublicium transgressas et clivum, qui ducit ad
Ianiculum, ascendere incipientes L. Albanius plaustro coniugem et liberos
vehens aspexisset, propior publicae religioni quam privatae caritati suis ut
plaustro descenderent inperavit atque in id virgines et sacra inposita omisso
coepto itinere Caere oppidum peruexit, ubi cum summa veneratione recepta. Grata
memoria ad hoc usque tempus hospitalem humanitatem testatur: inde enim
institutum est sacra caerimonias vocari, quia Caeretani ea infracto rei
publicae statu perinde ac florente sancte coluerunt. Quorum agreste illud et
sordidius plaustrum tempestiue capax cuiuslibet fulgentissimi triumphalis
currus vel aequaverit gloriam vel antecesserit; Gellius, Noct. Att. 16.13.7: Primos autem municipes sine suffragii iure Caerites esse factos
accepimus concessumque illis, ut civitatis Romanae honorem quidem caperent, sed
negotiis tamen atque oneribus vacarent pro sacris bello Gallico receptis
custoditisque. Vedi anche Strabo 5.2.3, il quale parla anche della
accoglienza offerta dai Ceriti a una folla di Romani richiedenti ricovero (Καὶ ἔτι τὰ τοῖς Καιρετάνοις πραχθέντα · καὶ γὰρ τοὺς ἑλόντας τὴν Ῥώμην Γαλάτας κατεπολέμησαν, ἀπιοῦσιν ἐπιθέμενοι κατὰ Σαβίνους, καὶ ἃ παρ´ ἑκόντων ἔλαβον Ῥωμαίων ἐκεῖνοι λάφυρα ἄκοντας ἀφείλοντο· πρὸς δὲ τούτοις τοὺς καταφυγόντας παρ´ αὐτοὺς ἐκ τῆς Ῥώμης ἔσωσαν καὶ τὸ ἀθάνατον πῦρ καὶ τὰς τῆς Ἑστίας ἱερείας. Οἱ μὲν οὖν Ῥωμαῖοι διὰ τοὺς τότε φαύλως διοικοῦντας τὴν πόλιν οὐχ ἱκανῶς ἀπομνημονεῦσαι τὴν χάριν αὐτοῖς δοκοῦσι· πολιτείαν γὰρ δόντες οὐκ ἀνέγραψαν εἰς τοὺς πολίτας, ἀλλὰ καὶ τοὺς ἄλλους τοὺς μὴ μετέχοντας τῆς ἰσονομίας εἰς τὰς δέλτους ἐξώριζον τὰς Καιρετανῶν) e Plutarchus, Cam. 20.3,
dove si fa riferimento a una non identificata città greca (Ἐν πρώτοις δὲ τῶν ἱερῶν ἃ μὲν εἰς τὸ Καπιτώλιον ἀνεσκευάσαντο, τὰ δὲ τῆς Ἑστίας αἱ παρθένοι μετὰ τῶν ἱερέων ἔφευγον ἁρπασάμεναι; vedi anche 21.1 s.: Τὰ δὲ κυριώτατα καὶ μέγιστα τῶν ἱερῶν αὗται λαβοῦσαι φυγῇ παρὰ τὸν ποταμὸν ἐποιοῦντο τὴν ἀποχώρησιν. Ἐνταῦθα Λεύκιος Ἀλβίνιος ἀνὴρ δημοτικὸς ἐν τοῖς φεύγουσιν ἔτυχε τέκνα νήπια καὶ γυναῖκα μετὰ χρημάτων ἀναγκαίων ἐφ' ἁμάξης ὑπεκκομίζων.
2. Ὡς δ' εἶδε τὰς παρθένους, ἐν τοῖς κόλποις φερούσας τὰ τῶν θεῶν ἱερά, θεραπείας ἐρήμους παραπορευομένας καὶ κακοπαθούσας, ταχὺ τὴν γυναῖκα μετὰ τῶν παίδων καὶ τῶν χρημάτων καθελὼν ἀπὸ τῆς ἁμάξης, ἐκείναις παρέδωκεν ἐπιβῆναι καὶ διαφυγεῖν εἴς τινα τῶν Ἑλληνίδων πόλεων).
[125] Livius 7.20.1-8: Tum primum Caerites, tamquam in verbis hostium vis maior ad bellum significandum quam in suis factis, qui per populationem Romanos lacessierant, esset, verus belli terror invasit, et, quam non suarum virium ea dimicatio esset, cernebant; 2. paenitebatque populationis, et Tarquinienses execrabantur defectionis auctores; nec arma aut bellum quisquam apparare, sed pro se quisque legatos mitti iubebat ad petendam erroris veniam. 3.
Legati senatum cum adissent, ab senatu reiecti ad populum deos rogaverunt, quorum sacra bello Gallico accepta rite procurassent, ut Romanos florentes ea sui misericordia caperet, quae se rebus adfectis quondam populi Romani cepisset; 4. conversique ad delubra Vestae hospitium flaminum Vestaliumque ab se caste ac religiose cultum invocabant: 5.
ea ne meritos crederet quisquam hostes repente sine causa factos? Aut, si quid hostiliter fecissent, consilio id magis quam furore lapsos fecisse, ut sua vetera beneficia, locata praesertim apud tam gratos, novis conrumperent maleficiis florentemque populum Romanum ac felicissimum bello sibi desumerent hostem, cuius adflicti amicitiam petissent? Ne appellarent consilium quae vis ac necessitas appellanda esset. 6. Transeuntes agmine infesto per agrum suum Tarquinienses, cum praeter viam nihil petissent, traxisse quosdam agrestium populationis eius, quae sibi crimini detur, comites. 7. Eos seu dedi placeat, dedere se paratos esse, seu supplicio adfici, daturos poenas. Caere, sacrarium populi Romani, deversorium sacerdotum ac receptaculum Romanorum sacrorum, intactum inviolatumque crimine belli hospitio Vestalium cultisque dis darent. 8. Movit populum non tam causa praesens quam vetus meritum, ut maleficii quam beneficii potius inmemores essent. Itaque pax populo Caeriti data, indutiasque in centum annos factas in aes referri placuit.
[126] Livius 8.14.1-11: Principes senatus relationem consulis de summa rerum laudare, sed, cum aliorum causa alia esset, ita expediri posse consilium dicere, ut pro merito cuiusque statueretur, si de singulis nominatim referrent populis. 2. Relatum igitur de singulis decretumque. Lanuvinis civitas data sacraque sua reddita cum eo, ut aedes lucusque Sospitae Iunonis communis Lanuvinis municipibus cum populo Romano esset. 3. Aricini Nomentanique et Pedani eodem iure, quo Lanuvini, 4. in civitatem accepti, Tusculanis servata civitas, quam habebant, crimenque rebellionis a publica fraude in paucos auctores versum. 5. In Veliternos, veteres cives Romanos, quod totiens rebellassent, graviter saevitum; et muri deiecti et senatus inde abductus iussique trans Tiberim habitare, 6. ut eius, qui cis Tiberim deprehensus esset, usque ad mille assium clarigatio esset nec prius quam aere persoluto is, qui cepisset, extra vincula captum haberet. 7. In agrum senatorum coloni missi, quibus adscriptis speciem antiquae frequentiae velitrae receperunt. 8. Et Antium nova colonia missa cum eo, ut Antiatibus permitteretur, si et ipsi adscribi coloni vellent; naves inde longae abactae interdictumque mari Antiati populo est et civitas data. 9. Tiburtes Praenestinique agro multati, neque ob recens tantum rebellionis commune cum aliis Latinis crimen, sed quod taedio imperii Romani cum Gallis, gente efferata, arma quondam consociassent. 10. Ceteris Latinis populis conubia commerciaque
et concilia inter se ademerunt. Campanis, equitum honoris causa, quia cum
Latinis rebellare noluissent, Fundanisque et Formianis, quod per fines eorum
tuta pacataque semper fuisset via, civitas sine suffragio data. 11. Cumanos Suessulanosque eiusdem iuris
condicionisque, cuius Capuam, esse placuit.
[127] De civ. Dei 1.6: ... quando
tot tantasque urbes, ut late dominarentur, expugnatas captasque everterunt,
legatur nobis quae templa excipere solebant, ut ad ea quisquis confugisset,
liberaretur. An illi faciebant, et scriptores earumdem rerum gestarum
ista reticebant? Itane vero, qui ea quae laudarent maxime requirebant,
ista praeclarissima secundum ipsos pietatis indicia praeterirent? (PL 41, col.
19).
[128] Per il cursus
honorum e la vita del personaggio: [F.]
Münzer, v. Claudius 220, in P.-W., 3.2, 1899, coll.
2738 ss.; T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic,
I. 509 B.C. – 100 B.C., New York 1951
[rist., Atlanta, Ga. 1986], 233, 254 s., 258 s., 264, 268 s., 273 s., 277 ss.,
287, 289 s.; G. Bonamente, v. Marcello (M. Claudius Marcellus), in Enciclopedia Virgiliana, 3, Roma 1987, 362 ss. Per la sua
raffigurazione in Livio vedi E.M. Carawan,
The Tragic History of Marcellus and
Livy’s Characterization, in The
Classical Journal 80, 1984-1985, 131 ss. Sulle
tradizioni intorno alle vicende della sua morte segnalo M. Caltabiano, La morte
del console Marcello nella tradizione storiografica, in Storiografia e propaganda, [Contributi
dell’Istituto di Storia Antica 3], a cura di M. Sordi, Milano 1975, 65 ss.
[129] Per l’importanza delle gesta di Marcello, vedi le
riflessioni di Valerius Maximus 2.8.5: Quin
etiam ius, de quo loquor, sic custoditum est, ut P. Scipioni ob reciperatas
Hispanias, M. Marcello ob captas Syracusas triumphus non decerneretur, quod ad
eas res gerendas sine ullo erant missi magistratu. Probentur nunc cuiuslibet
gloriae cupidi, qui ex desertis montibus myoparonumque piraticis rostris laudis
inopes laureae ramulos festinabunda manu decerpserunt: Karthaginis imperio
abrupta Hispania et Siciliae caput abscisum, Syracusae, triumphalis iungere
currus nequiverunt: et quibus viris? Scipioni et Marcello, quorum ipsa nomina instar
aeterni sunt triumphi. Sed clarissimos solidae veraeque virtutis auctores
humeris suis salutem patriae gestantes, etsi coronatos intueri senatus
cupiebat, iustiori tamen reservandos laureae putavit.
[130] Per le fonti utilizzate da Plutarco in questa opera
vedi, ad es.: A. Klotz, Die Quellen der plutarchischen Lebensbeschreibung
des Marcellus, in Rheinisches Museum für Philologie 83, 1934, 289 ss.; E.
Gabba, Posidonio, Marcello e la
Sicilia, in «AΠΑΡΧΑI». Nuove ricerche e studi sulla Magna Grecia e la
Sicilia Antica in onore di P.E. Arias, II,
Pisa 1982, 611 ss. In generale R.E. Smith, Plutarch’s
Biographical Sources in the Roman Lives, in The Classical Quarterly 34, 1940, 1 ss.
[131] Vergilius, Aen. 6.854-859:
Sic pater Anchises, atque haec mirantibus addit: / ‘Aspice, ut
insignis spoliis Marcellus opimis / ingreditur victorque viros super eminet omnis. / Hic rem
Romanam magno turbante tumultu / sistet, eques sternet Poenos Gallumque
rebellem, / tertiaque arma patri suspendet capta Quirino’.
[132] In materia, ex
multis: A. Magdelain, Quirinus et le droit (spolia opima, ius fetiale, ius
Quiritium), in Mélanges de l’École française de Rome. Antiquité 96, 1984, 195 ss.
(= Jus imperium auctoritas, cit., 238 ss.); S.J. Harrison, Augustus,
the Poets, and the Spolia Opima, in The
Classical Quarterly 39 n.s., 1989, 408 ss.; J.W.Rich, Augustus and
the spolia opima, in Chiron 26,
1996, 85 ss.; Id., Drusus and the spolia opima, in The Classical Quarterly 49 n.s., 1999,
544 ss.; A. Maffi, Opima spolia, in Mélanges de droit romain et d’histoire ancienne. Hommage à la mémoire
de A. Magdelain, a cura di M.
Humbert – Y. Thomas, Paris 1998, 285 ss.; H.I. Flower, The Tradition of the Spolia Opima: M. Claudius Marcellus and Augustus, in Classical Antiquity 19, 2000, 34 ss.; B. Rochette, Les
spolia (opima) dans l’Énéide et la “restauration” du temple de Jupiter
Feretrius par August, in Aa.Vv., Mosaïque. Hommages à P.
Somville, Liège 2007, 241 ss.; C.
McPherson, Fact and Fiction: Crassus,
Augustus, and the Spolia Opima, in Hirundo 8, 2009-2010, 21 ss.; R. Laurendi, Leges regiae e ius
Papirianum. Tradizione e
storicità di un corpus normativo,
Roma 2013, 123 ss.
[133] L’episodio è ricordato da numerose fonti: vedi, ad es., Valerius Maximus 3.2.4 s.: Magnus
initio huiusce generis inchoatae gloriae Romulus: Cosso quoque multum adquisitum
est, quod imitari Romulum valuit. 5. Ne
M. quidem Marcelli memoriam ab his exemplis separare debemus, in quo tantus
vigor animi fuit, ut apud Padum Gallorum regem ingenti exercitu stipatum cum
paucis equitibus invaderet, quem protinus obtruncatum armis exuit eaque Iovi
Feretrio dicavit; Florus, Epit. 2.4.5: Viridomaro
rege Romana arma Volcano promiserant. Aliorsum vota ceciderunt; occiso enim
rege Marcellus tertia
post Romulum patrem Feretrio Iovi opima suspendit; Eutropius, Brev. 3.6.1 s.: Aliquot deinde annis post contra Gallos intra Italiam pugnatum est
finitumque bellum M. Claudio Marcello et
Cn. Cornelio Scipione consulibus. Tum Marcellus
cum parva manu equitum dimicavit et regem Gallorum, Viridomarum nomine,
manu sua occidit. 2. Postea cum collega
ingentes copias Gallorum peremit, Mediolanum expugnavit, grandem praedam Romam
pertulit. Ac triumphans Marcellus spolia
Galli stipiti inposita umeris suis vexit; Donatus, Interpr. Virg. 6: Cum haec ergo locutus esset
Anchises, alia quoque mirantibus addidit; advertit eos quippe cognitiones
futurarum rerum libenter audire. Aspice, ut insignis spoliis Marcellus opimis ingreditur victorque
viros supereminet omnis: omnia iste victoriarum iam ferre indicia videbatur et
enumerare quae esset facturus apud superos, sic autem incedebat altior ceteris,
ut universos viros praecellere videretur (ed. H. Georgii, 1905, 614); Servius, Verg. Aen.
6.855: Spoliis Marcellus opimis hic Gallos et Poenos equestri certamine superavit.
Viridomarum etiam, Gallorum ducem, manu propria interemit et opima retulit
spolia, quae dux detraxerat duci, sicut Cossus Larti Tolumnio; 6.859: Tertiaque
arma patri suspendet capta Quirino
et tertia opima spolia suspendet patri, id est Iovi, ‘capta Quirino’, qualia et
Quirinus ceperat, id est Romulus, de Acrone, rege Caeninensium, et ea Iovi Feretrio suspenderat.
possumus et, quod est melius, secundum legem Numae hunc locum accipere, qui
praecepit prima opima spolia Iovi Feretrio debere suspendi, quod iam Romulus
fecerat; secunda Marti, quod Cossus fecit; tertia Quirino, quod fecit
Marcellus. Quirinus autem est Mars, qui praeest paci et intra civitatem
colitur: nam belli Mars extra civitatem templum habuit. Ergo aut ‘suspendet
patri’, id est Iovi: aut ‘suspendet patri Quirino’. Varie de hoc loco tractant
commentatores, Numae legis inmemores, cuius facit mentionem et Livius. Vedi
anche Plutarchus, Marc. 8.5 s.: Οὕτω δὲ προβὰς καὶ παρελθὼν εἰς τὸν νεὼν τοῦ Φερετρίου Διός ἀνέστησε καὶ καθιέρωσε τρίτος καὶ τελευταῖος ἄχρι τοῦ καθ' ἡμᾶς αἰῶνος. 6. Πρῶτος μὲν γὰρ ἀνήνεγκε σκῦλα Ῥωμύλος ἀπ' Ἄκρωνος τοῦ Καινινήτου, δεύτερος δὲ Κόσσος Κορνήλιος ἀπὸ Τολουμνίου Τυρρηνοῦ, μετὰ δὲ τούτους Μάρκελλος ἀπὸ Βριτομάτου, βασιλέως Γαλατῶν, μετὰ δὲ Μάρκελλον οὐδ' εἷς.
[134] Il termine è utilizzato da Livius 1.10.7 nel ricordo
della dedica da parte di Romolo del tempio a Iuppiter Feretrius, destinato a ricevere le spolia opima: Haec templi est
origo, quod primum omnium Romae sacratum est. Ita deinde diis visum, nec
inritam conditoris templi vocem esse, qua laturos eo spolia posteros
nuncupavit, nec multitudine conpotum eius doni vulgari laudem. Bina postea
inter tot annos, tot bella opima parta sunt spolia; adeo rara eius fortuna
decoris fuit.
[135] Rimando alle considerazioni su Marcello espresse da H.I. Flower, The Tradition of the Spolia Opima, cit., 41: «his whole career
reveals him both as a religious man who held the office of augur and made many
dedications in various shrines, as well as a successful and charismatic leader
who, like others of his time, used his image as a favorite of the gods both for
personal and for political ends».
[136]
Numerose fonti, come Agostino che la definisce ornatissima, riconoscono l’opulenza, l’importanza e la bellezza
della città, ad es.: Cicero, In Verr.
II.1.55: ... Syracusas urbem ornatissimam
...; II.2.4: Urbem pulcherrimam
Syracusas ...; II.4.117: Urbem
Syracusas maximam esse Graecarum, pulcherrimam omnium saepe audistis; de re publica 1.21: ... Syracusis ex urbe locupletissima atque ornatissima ...; Eutropius, Brev. 3.14.3: ...
nobilissima urbe Syracusana ...
[137] Livius 25.23.14-17: quam
obtulit transfuga nuntians diem festum Dianae per triduum agi, et quia alia in
obsidione desint, vino largius epulas celebrari et ab Epicyde praebito
universae plebei et per tribus a principibus diviso. 15. Id ubi accepit Marcellus, cum paucis tribunorum militum conlocutus electisque per
eos ad rem tantam agendam audendamque idoneis centurionibus militibusque et
scalis in occulto comparatis, ceteris signum dari iubet, ut mature corpora
curarent quietique darent: nocte in expeditionem eundum esse. 16. Inde ubi id temporis visum, quo <de> die epulatis iam vini
satias principiumque somni esset, signi unius milites ferre scalas iussit; et
ad mille fere armati tenui agmine per silentium eo deducti. 17. Ubi sine
strepitu ac tumultu primi evaserunt in murum, secuti ordine alii, cum priorum
audacia dubiis etiam animum faceret. Vedi anche Plutarchus, Marc. 18.4.
[138] Livius
24.34.1-3: Et habuisset tanto impetu coepta
res fortunam, nisi unus homo Syracusis ea tempestate fuisset. 2. Archimedes is erat, unicus spectator caeli
siderumque, mirabilior tamen inventor ac machinator bellicorum tormentorum
operumque, quibus <quicquid> hostes ingenti mole agerent, ipse perlevi
momento ludificaretur. 3. Murum per
inaequalis ductum colles, pleraque alta et difficilia aditu, submissa quaedam
et quae planis vallibus adiri possent, <ut> cuique aptum visum est loco,
ita genere omni tormentorum instruxit; 24.34.8-13: Adversus hunc navalem apparatum Archimedes variae magnitudinis tormenta
in muris disposuit. In eas, quae procul erant, navis saxa ingenti pondere
emittebat, propiores levioribus eoque magis crebris petebat telis; 9. postremo, ut sui volnere intacti tela in
hostem ingererent, murum ab imo ad summum crebris cubitalibus fere cavis
aperuit, per quae cava pars sagittis pars scorpionibus modicis ex occulto
petebant hostem. 10. Quae propius
quaedam subibant naves, quo interiores ictibus tormentorum essent, in eas
tollenone super murum eminente ferrea manus, firmae catenae inligata, cum
iniecta prorae esset gravique libramento plumbi recelleret ad solum, suspensa
prora navem in puppim statuebat; 11. dein
remissa subito velut ex muro cadentem navem cum ingenti trepidatione nautarum
ita undae adfligebat, ut, etiamsi recta reciderat, aliquantum aquae acciperet.
12. Ita maritima oppugnatio est elusa
omnisque spes eo versa, ut totis viribus terra adgrederentur. 13. Sed ea quoque pars eodem omni apparatu
tormentorum instructa erat Hieronis inpensis curaque per multos annos,
Archimedis unica arte. Vedi anche, ad es.: Silius Italicus 14.300-304; 14.338-343; Plutarchus, Marc.
14.7 s.; 14.12-17.4; Orosius, Hist. 4.17.1 (PL 31, col. 896).
[139] Livius
24.34.14-16: Natura enim adiuvabat loci, quod
saxum, cui inposita muri fundamenta sunt, magna parte ita proclive est, ut non
solum missa tormento, sed etiam quae pondere suo provoluta essent, graviter in
hostem inciderent. 15. Eadem causa ad
subeundum arduum aditum instabilemque ingressum praebebat. 16. Ita consilio habito, quo<niam> omnis
conatus ludibrio esset, absistere oppugnatione atque obsidendo tantum arcere
terra marique commeatibus hostem placuit.
[140] Livius 25.23.13 s.: Sed
cum adiri locus, quia ob id ipsum intentius custodiebatur, non posset, occasio
quaerebatur; 14. quam obtulit
transfuga nuntians diem festum Dianae per triduum agi, et quia alia in
obsidione desint, vino largius epulas celebrari et ab Epicyde praebito
universae plebei et per tribus a principibus diviso.
[141] Per i problemi legati alla cronologia di questi eventi
rimando a G.
De Sanctis, Storia dei Romani, III.2. L’età
delle guerre puniche, (Torino 1917), 2ª ed., Firenze 1968, 317 ss.
[142] Livius 25.23.15 ss. Cfr. anche Frontinus, Strateg. 3.3.2.
[143] Vedi anche Augustinus,
De civ. Dei 3.14: Unde
Marcellus Syracusanam
civitatem, recolens eius paulo ante culmen et gloriam sub manus suas subito
concidisse, communem cogitans condicionem flendo miseratus est? (PL 41, col. 90).
[144] Livius 25.24.11-13: Marcellus ut moenia ingressus ex
superioribus locis urbem omnium ferme illa tempestate pulcherrimam subiectam
oculis vidit, inlacrimasse dicitur partim gaudio tantae perpetratae rei, partim
vetusta gloria urbis.
12. Atheniensium classes demersae et duo
ingentes exercitus cum duobus clarissimis ducibus deleti occurrebant et tot
bella cum Carthaginiensibus tanto cum discrimine gesta, 13. tot tam opulenti tyranni regesque, praeter
ceteros Hiero cum recentissimae memoriae rex, tum ante omnia, quae virtus ei
fortunaque sua dederat, beneficiis in populum Romanum insignis.
Poi, per evitare che la città fosse distrutta, inviò dei Siracusani, che
stavano nel campo romano, per indurre Siracusa alla deditio: Ea cum universa
occurrerent animo subiretque cogitatio, iam illa momento horae arsura omnia et
ad cineres reditura, 15. priusquam
signa Achradinam admoveret, praemittit Syracusanos, qui intra praesidia Romana,
ut ante dictum est, fuerant, ut adloquio leni pell<ic>erent hostis ad
dedendam urbem
(25.24.14 s.). Vedi quanto sostiene D. Ambaglio, Il pianto dei potenti: rito, topos e storia, in Athenaeum 63, 1985, 364: «La suggestione
profonda esercitata dal passo liviano non ne cela, naturalmente, la struttura
retorico-drammatica, in virtù della quale lo storico si sente autorizzato a
interpretare lo stato d’animo e le riflessioni che, sovvenendo alla mente di
Marcello, lo inducono a piangere». Secondo A.
Rossi, The Tears of Marcellus:
History of a Literary Motif in Livy, in Greece
& Rome 47 2ª ser., 2000, 56 ss., Livio, nel descrivere il pianto del
vincitore, utilizza un topos ellenistico
per assimilare in modo simbolico Marcello, e al contempo la stessa Roma, a
Siracusa: «In the new pentad, as the opus
moves on, a new Rome is born. A Rome
indeed aucta, which will be able to
turn the fate of the Hannibalic war to its own advantage, but where the first
seeds of corruption and decay have already been planted» (63). Cfr. anche J.
Marincola, Marcellus at Syracuse (Livy xxv,24,11-15):
a Historian Reflects, in Studies in
Latin Literature and Roman History XII [Collection Latomus 287], a cura di
C. Deroux, Bruxelles 2005, 219 ss., il quale evidenzia nel brano liviano i
riferimenti culturali e letterari.
[145]
Plutarchus, Marc. 19.1 s.: Καὶ τούτων ἐχομένων
ἅμα φάει διὰ τῶν
Ἑξαπύλων ὁ Μάρκελλος
κατῄει,
μακαριζόμενος
ὑπὸ τῶν ὑφ’ ἑαυτὸν
ἡγεμόνων. 2. Αὐτὸς
μέντοι λέγεται
κατιδὼν ἄνωθεν
καὶ περισκεψάμενος
τῆς πόλεως τὸ μέγεθος
καὶ τὸ κάλλος ἐπὶ
πολὺ δακρῦσαι
τῷ μέλλοντι γίνεσθαι
συμπαθήσας, ἐννοήσας
οἷον ἐξ οἵου σχῆμα
καὶ μορφὴν ἀμείψει
μετὰ μικρόν ὑπὸ
τοῦ στρατοπέδου
διαφορηθεῖσα. Cfr. anche 19.6: Οὐ μὴν ἀλλὰ
καίπερ οὕτω
μετριάσαι δόξας,
οἰκτρὰ πάσχειν
ἡγεῖτο τὴν πόλιν,
καὶ τὸ συμπαθοῦν
καὶ τὸ συναλγοῦν
ὅμως ἐν τοσούτῳ
μεγέθει χαρᾶς ἡ
ψυχὴ διέφαινεν
ὁρῶντος ἐν
βραχεῖν χρόνῳ πολλῆς
καὶ λαμπρᾶς ἀφανισμὸν
εὐδαιμονίας. E. Gabba,
Posidonio, Marcello e la Sicilia,
cit., 611 ss., sottolinea come la storiografia greca abbia idealizzato alcuni
personaggi politici romani, trovando, in tal modo in questi esempi «la
legittimazione culturale del diritto di Roma al dominio del mondo». In questo
senso Plutarco rappresenta Marcello «come esempio di umanità e di mitezza, come
un modello di eroe stoico».
[146] In tal senso anche Valerius Maximus 5.1.4: Age, M. Marcelli clementia quam clarum
quamque memorabile exemplum haberi debet! Qui captis ab se Syracusis in arce
earum constitit, ut urbis modo opulentissimae, tunc adflictae fortunam ex alto
cerneret. Ceterum casum eius lugubrem intuens fletum cohibere non potuit. Quem
si quis ignarus viri aspexisset, alterius victoriam esse credidisset. Itaque,
Syracusana civitas, maxima clade tua aliquid admixtum gratulationis habuisti,
quia, si tibi incolumem stare fas non erat, leniter sub tam mansueto victore
cecidisti.
[147]
Per le varie accezioni del termine, [M.] Cipriani,
v. pudīcitia, in Thesaurus
Linguae Latinae [da ora in poi TLL],
10.2, Lipsiae 2008, coll. 2483 ss.
[148] Livius 24.25.2: Tumulus est in extrema parte urbis
<a>versus a mari via<e>que imminens ferenti in agros
mediterraneaque insulae, percommode s<i>tus ad commeatus excipiendos.
[149] Livius 24.25.5: ...
nomina ea partium urbis et instar urbium sunt ... Il territorio di Siracusa
è descritto da Cicero, In Verr.
II.4.117-119.
[150] Livius 25.25.6 s.: Legati eo ab Tycha et Neapoli cum infulis et
velamentis venerunt precantes, ut a caedibus et ab incendiis parceretur. 7. De quorum
precibus quam postulatis magis consilio habito Marcellus ex omnium sententia
edixit militibus, ne quis liberum corpus violaret: cetera praedae futura. Secondo Livio, per far rispettare il suo
ordine Marcello fece ricorso a un accorgimento: Castra contextu parietum pro muro saepta; portis regione platearum
patentibus stationes praesidiaque disposuit, ne quis in discursu militum
impetus in castra fieri posset (25.25.8); dato il segnale i soldati romani discurrerunt: ... refractis<que> foribus cum omnia terrore ac tumultu
streperent, a caedibus tamen temperatum est; rapinis nullus ante modus fuit,
quam omnia diuturna felicitate cumulata bona egesserunt (25.25.9).
Plutarchus, Marc. 19.3-5, ricorda
come il generale romano si oppose al progetto del suo esercito di radere al
suolo la città, consentì soltanto che l’armata si appropriasse delle ricchezze
e dei servi, ma proibì di uccidere, maltrattare, ridurre in schiavitù alcun
siracusano (τῶν δ’ ἐλευθέρων σωμάτων ἀπεῖπεν ἅψασθαι, καὶ διεκελεύσατο μήτ' ἀποκτεῖναί τινα μήτ' αἰσχῦναι μήτ' ἀν δραποδίσασθαι Συρακουσίων). Secondo Silius Italicus 14.671-675, Marcello, al fine di salvare Siracusa dal furore
dei suoi soldati, non solo ordinò di risparmiare i vinti, ma anche di non
distruggere gli edifici privati e di rispettare i templi affinché le antiche
divinità continuassero ad abitarvi e a ricevere il proprio culto. Cicerone,
invece, non accenna a uno specifico editto a salvaguardia dei Siracusani, e
afferma invece che Marcello non volle distruggere Siracusa, per cui risparmiò
gli edifici pubblici e privati, sacri e profani (In Verr. II.4.120: Qui cum
tam praeclaram urbem vi copiisque cepisset, non putavit ad laudem populi Romani
hoc pertinere, hanc pulchritudinem ex qua praesertim periculi nihil
ostenderetur, delere et extinguere. Itaque aedificiis omnibus publicis
privatis, sacris profanis sic pepercit quasi ad ea defendenda cum exercitu, non
expugnanda venisset ...).
[151] In un altro luogo Agostino utilizza la locuzione cura pudicitiae, intesa come “attenzione
alla castità”, De civ. Dei 6.9.3: Quid impletur cubiculum turba numinum,
quando et paranymphi inde discedunt? Et ad hoc impletur, non ut eorum praesentia
cogitata maior sit cura pudicitiae, sed ut feminae, sexu infirmae, novitate
pavidae, illis cooperantibus sine ulla difficultate virginitas auferatur: adest
enim dea Virginiensis, et deus pater Subigus, et dea mater Prema, et dea
Pertunda (PL 41, col. 188).
[152] Vedi ad. es.: Plautus, Amph. 809 s.: Perii miser, /
Quia pudicitiae huius vitium me hi<n>c absentest additum; 840-842: Sed pudicitiam et pudorem et sedatum
cupidinem, / Deum metum, parentum amorem et cognatum concordiam, / Tibi
morigera atque ut munifica sim bonis, prosim probis; Epid. 404 s.: Num<quam>
nimis potest / Pudicitiam quisquam suae servare filiae; Stich. 100 s.: Pudicitiast, pater, / Eos nos magnificare qui nos socias sumpserunt
sibi; Cicero, In Verr. II.1.64: Is ad eum rem ita defert: Philodamum esse
quendam genere honore copiis existimatione facile principem Lampsacenorum, eius
esse filiam quae cum patre habitaret, propterea quod virum non haberet,
mulierem eximia pulchritudine, sed eam summa integritate pudicitiaque existimari;
II.1.67: Haec ubi filio nuntiata sunt,
statim exanimatus ad aedis contendit, ut et vitae patris et pudicitiae sororis
succurreret; Livius 2.7.4: Collegae
funus quanto tum potuit apparatu fecit; sed multo maius morti decus publica
fuit maestitia, eo ante omnia insignis, quia matronae annum ut parentem eum
luxerunt, quod tam acer ultor violatae pudicitiae fuisset; 29.14.12: Matronae primores civitatis, inter quas unius Claudiae Quintae insigne
est nomen, accepere; cui dubia, ut traditur, antea fama clariorem ad posteros
tam religioso ministerio pudicitiam fecit; 38.24.10: ... et iniuriam corporis et ultionem violatae per vim pudicitiae
confessa viro est; 42.34.3: Cum
primum in aetatem veni, pater mihi uxorem fratris sui filiam dedit, quae se cum
nihil adtulit praeter libertatem pudicitiamque, et cum his fecunditatem quanta
vel in diti domo satis esset; Valerius Maximus 2.1.3: Quae uno contentae matrimonio fuerant corona pudicitiae honorabantur:
existimabant enim eum praecipue matronae sincera fide incorruptum esse animum,
qui depositae virginitatis cubile [in publicum] egredi nesciret, multorum
matrimoniorum experientiam quasi legitimae cuiusdam intemperantiae signum esse
credentes; 6.1.4: Quid P. Maenius,
quam severum pudicitiae custodem egit! In libertum namque gratum admodum sibi
animadvertit, quia eum nubilis iam aetatis filiae suae osculum dedisse
cognoverat, cum praesertim non libidine, sed errore lapsus videri posset.
Ceterum amaritudine poenae teneris adhuc puellae sensibus castitatis
disciplinam ingenerari magni aestimavit eique tam tristi exemplo praecepit ut
non solum virginitatem inlibatam, sed etiam oscula ad virum sincera perferret;
Sallustius, Cat. 13.3: ...
mulieres pudicitiam in propatulo habere ...; Gellius, Noct. Att. 3.16.12: ...
feminam bonis atque honestis moribus, non ambigua pudicitia ...; 5.11.14: Ennius autem in ista, quam dixit, tragoedia
eas fere feminas ait incolumi pudicitia esse, quae stata forma forent. Vedi
anche, come esempi di utilizzo nelle fonti giuridiche del concetto relativamente
alla sfera sessuale, D. 47.10.1.2 (Ulpianus
libro 56 ad edictum),
D. 48.5.14(13).5 (Ulpianus libro
secundo de adulteriis).
[153] Il ricorso al concetto di pudicitia è motivo per l’esclusione delle donne dalle mansioni
considerate prettamente maschili: Secundo loco edictum proponitur in eos, qui
pro aliis ne postulent: in quo edicto excepit praetor sexum et casum, item
notavit personas in turpitudine notabiles. sexum: dum feminas prohibet pro
aliis postulare. et ratio quidem prohibendi, ne contra pudicitiam sexui
congruentem alienis causis se immisceant, ne virilibus officiis fungantur
mulieres: origo vero introducta est a Carfania improbissima femina, quae
inverecunde postulans et magistratum inquietans causam dedit edicto (D. 3.1.1.5, Ulpianus libro sexto ad edictum).
Sul ruolo e il peso nella civitas della pudicitia femminile, vedi da ultimi: S. Freund, Pudicitia
saltem in tuto sit. Lucretia, Verginia und die Konstruktion eines
Wertbegriffs bei Livius, in Hermes
136, 2008, 308 ss.; T.J. Chiusi, La
fama nell’ordinamento romano. I casi di Afrania e di Lucrezia, in Storia delle donne 6-7,
2010-2011, 89 ss.; F. Lamberti, Donne romane fra Idealtypus e realtà
sociale. Dal “domus servare” e “lanam facere” al “meretricio more vivere”, in Quaderni Lupiensi 4, 2014, 61 ss., secondo cui la pudicitia è “un elemento funzionale” per
la rappresentazione di un modello della donna romana: «pudicitia è nelle
fonti attributo positivo conferito sia a uomini che a donne, a simboleggiare
precipuamente pulizia morale. E’ fuori di dubbio, in ogni caso, che nella
maggior parte delle fonti sia la condotta morale femminile ad avere
l’importanza maggiore per una corretta ‘gestione’ dei ménage familiari e per
l’ordinato svolgimento della vita (anche) dei patres familiarum» (70).
In materia rimando anche a G. Rizzelli (Agostino, Ulpiano e Antonino, cit., 93
ss.; In has servandae integritatis custodias nulla libido inrupet (Sen. Contr, 2.7.3). Donne, passioni, violenza, in F. Lucrezi – F. Botta – G. Rizzelli, Violenza sessuale e società antiche. Profili storico-giuridici,
Lecce 2003, 105 ss.), il quale sottolinea la non univocità della nozione, e il
suo mutare «con il passare del tempo e con l’affermarsi di nuovi valori
morali»; in ogni caso, però, è necessario che la pudicitia «sia conoscibile, manifesta attraverso atteggiamenti che
rendano evidente che è inattaccabile da ogni desiderio eccessivo, da ogni
stimolo, in particolare da quello sessuale» (116). Sul culto della dea Pudicitia, inizialmente riservato
alle donne patrizie e univirae,
rimando per fonti e bibliografia a C.M.A. Rinolfi,
Servi e religio, in Diritto
@ Storia 9, 2010, http://www.dirittoestoria.it/9/Tradizione-Romana/Rinolfi-Servi-religio.htm .
[154] Vedi, ad es.: Livius 1.58.5: Quo terrore cum vicisset obstinatam pudicitiam velut vi trux libido
profectusque inde Tarquinius ferox expugnato decore muliebri esset ...;
Valerius Maximus 6.1.1: Dux Romanae pudicitiae
Lucretia, cuius virilis animus maligno errore fortunae muliebre corpus sortitus
est, a Sex. Tarquinio regis Superbi filio per vim stuprum pati coacta, cum
gravissimis verbis iniuriam suam in concilio necessariorum deplorasset, ferro
se, quod veste tectum adtulerat, interemit causamque tam animoso interitu
imperium consulare pro regio permutandi populo Romano praebuit; Florus, Epit. 1.9.1: Igitur Bruto Collatinoque ducibus et auctoribus, quibus ultionem sui
moriens matrona mandaverat, populus Romanus ad vindicandum libertatis ac
pudicitiae decus quodam quasi instinctu deorum concitatus regem repente
destituit ... Vedi anche quanto afferma la stessa
Lucrezia: ... quid enim salvi est mulieri
amissa pudicitia? (Livius 1.58.7).
[155] Livius 3.48.5-9: Data
venia seducit filiam ac nutricem prope Cloacinae ad tabernas, quibus nunc novis
est nomen, atque ibi ab lanio cultro arrepto ‘Hoc te uno quo possum’ ait ‘modo,
filia, in libertatem vindico’. Pectus deinde puellae transfigit respectansque ad
tribunal ‘Te’ inquit, ‘Appi, tuumque caput sanguine hoc consecro’. 6. Clamore ad tam
atrox facinus orto excitus Appius conprendi Verginium iubet. Ille ferro quacumque
ibat viam facere, donec multitudine etiam prosequentium tuente ad portam
perrexit. 7. Icilius
Numitoriusque exangue corpus sublatum ostentant populo; scelus Appi, puellae
infelicem formam, necessitatem patris deplorant. 8. Sequentes clamitant matronae: eamne liberorum procreandorum
condicionem, ea pudicitiae praemia esse? Cetera, quae in tali re muliebris dolor,
quo est maestior inbecillo animo, eo miserabilia magis querentibus subicit. 9.
Virorum et maxime Icili vox tota
tribuniciae potestatis ac provocationis ad populum ereptae publicarumque
indignationum erat; Valerius Maximus 6.1.2: Atque haec inlatam iniuriam non tulit: Verginius plebei generis, sed
patricii vir spiritus, ne probro contaminaretur domus sua, proprio sanguini non
pepercit: nam cum App. Claudius decemvir filiae eius virginis stuprum
potestatis viribus fretus pertinacius expeteret, deductam in forum puellam
occidit pudicaeque interemptor quam corruptae pater esse maluit. Vedi anche
Pseud.-Quintilianus, Decl. maior.
3.11: Dicam nunc ego praecipuam semper
curam Romanis moribus pudicitiae fuisse? Referam Lucretiam, quae condito in
viscera sua ferro poenam a se necessitatis exegit, et, ut quam primum pudicus
animus a polluto corpore separaretur, se ipsa percussit, quia corruptorem non
potuit occidere? Si nunc placet tibi miles, quid ego Virginium narrem, qui
filiae virginitatem, qua sola poterat, morte defendit raptumque de proximo
ferrum non recusanti puellae immersit? Dimisit illaesum Appium, quem tamen
populus Romanus secessione a patribus et prope civili bello persecutus in
vincula duci coegit, neque ulla res tum magis indignationem plebis commovit,
quam quod pudicitiam auferre temptaverat filiae militis. Haec sunt honesta,
haec narranda feminarum exempla - nam virorum quae pudicitia est, nisi non
corrumpere?
[156] Cicero, In Verr.
II.1.68: Quodsi hoc iure legati populi
Romani in socios nationesque exteras uterentur, ut pudicitiam liberorum servare
ab eorum libidine tutam non liceret, quidvis esse perpeti satius, quam in tanta
vi atque acerbitate versari. Relativamente alla pudicitia delle mogli e dei figli, vedi, ad es.: Livius 39.15.14: hi cooperti stupris suis alienisque pro
pudicitia coniugum ac liberorum vestrorum ferro decernent?
[157] Riporta altri esempi illuminanti sulla pudicitia Valerius Maximus 6.1, in
particolare nel paragrafo 7, richiama un caso giudiziario in cui l’accusa fu
mossa da Marco Marcello, allora edile curule: Sequitur excellentis nominis ac memorabilis facti exemplum. M. Claudius
Marcellus aedilis curulis C. Scantinio Capitolino tribuno pl. diem ad populum
dixit, quod filium suum de stupro appellasset, eoque asseverante se cogi non
posse ut adesset, quia sacrosanctam potestatem haberet, et ob id tribunicium
auxilium inplorante, totum collegium tribunorum negavit se intercedere quo
minus pudicitiae quaestio perageretur. Citatus itaque Scantinius reus uno teste qui
temptatus erat damnatus est. Constat iuvenem productum in rostra defixo in terram
vultu perseveranter tacuisse verecundoque silentio plurimum in ultionem suam
valuisse, il diniego dei tribuni della plebe è
significativo per la rilevanza politico-sociale della pudicitia. Vedi ancora: Cicero, Pro
Mil. 9: Pudicitiam cum eriperet
militi tribunus militaris in exercitu C. Mari propinquus eius imperatoris,
interfectus ab eo est cui vim afferebat. Facere enim probus adulescens
periculose quam perpeti turpiter maluit; Pro Cael. 42: ... parcat
iuventus pudicitiae suae, ne spoliet alienam ...; Livius 39.10.4: ‘Vitricus ergo’ inquit ‘tuus - matrem enim
insimulare forsitan fas non sit pudicitiam famam spem vitamque tuam perditum
ire hoc facto properat’, dove la pudicitia
appare come elemento imprescindibile della onorabilità e della esistenza
dell’individuo; Sallustius, Cat. 14.7: Scio fuisse nonnullos, qui ita existumarent iuventutem, quae domum
Catilinae frequentabat, parum honeste pudicitiam habuisse; sed ex aliis rebus
magis, quam quod quoiquam id conpertum foret, haec fama valebat.
[158] Al concetto di pudicitia,
ad es., si collega la notizia sulla presunta
sodomia di Cesare: Svetonius, Iul.
2.1: Stipendia prima in Asia fecit Marci
Thermi praetoris contubernio; a quo ad accersendam classem in Bithyniam missus
desedit apud Nicomeden, non sine rumore prostratae regi pudicitiae; quem
rumorem auxit intra paucos rursus dies repetita Bithynia per causam exigendae
pecuniae, quae deberetur cuidam libertino clienti suo; 49.1: Pudicitiae eius famam nihil quidem praeter
Nicomedis contubernium laesit ... (per il rapporto tra omosessualità e pudicitia, C. De Cristofaro, Riflessioni
in tema di rilevanza giuridica dl legame omossessuale nell’antica Roma, in Il corpo in Roma antica. Ricerche giuridiche,
II, a cura di L. Garofalo, Pisa 2017, 155 ss.). La pudicitia si collega anche alla moderazione, alla frugalità nel
mangiare: Nostrum hoc convivium, quod et
heroici saeculi pudicitiam et nostri conduxit elegantiam, in quo splendor
sobrius et diligens parsimonia ... (Macrobius, Sat. 2.1.2).
[159] Cicero, Pro Cael.
11: Sed qui prima illa initia aetatis
integra atque inviolata praestitisset, de eius fama ac pudicitia, cum is iam se
corroboravisset ac vir inter viros esset, nemo loquebatur; Phil. 2.3: Ne tu, si id fecisses, melius famae, melius pudicitiae tuae
consuluisses; Sallustius, Cat. 52.32: Verum parcite dignitati Lentuli, si ipse pudicitiae, si famae suae, si
dis aut hominibus umquam ullis pepercit.
[160] Vedi, ad es.: Apuleius, De Plat. 2.1: Moralis
philosophiae caput est, Faustine fili, ut scias quibus ad beatam vitam
perveniri rationibus possit. Verum ut beatitudinem bonorum fine ante alia
contingere <p>ut<es>, ostendam quae de hoc Plato senserit. Bonorum
igitur alia eximia ac prima per se ducebat esse, per praeceptionem cetera bona
fieri existimabat. Prima bona esse deum summum mentemque illam, quam νοῦν idem vocat; secunda ea, quae ex priorum fonte
profluerent, esse animi virtutes, prudentiam, iustitiam, pudicitiam,
fortitudinem; Macrobius, In somn. Scip. 1.8.7: ... temperantiae nihil adpetere paenitendum,
in nullo legem moderationis excedere, sub iugum rationis cupiditatem domare;
temperantiam sequuntur modestia, verecundia, abstinentia, castitas, honestas,
moderatio, parcitas, sobrietas, pudicitia ..., dove si riporta la teoria di
Plotino espressa nel libro de virtutibus.
Vedi ancora Apuleius, De Plat. 2.27: In actuosa vero civitate describit
quemadmodum simul omnis hominum multitudo bonitate et iustitia conducta
habeatur. Hi tales complectentur proximos, honores custodient, intemperantiam
arcebunt, iniuriam refrenabunt, pudicitiae ornamentisque ceteris vitae honores
maximos deferentes. Nec temere multitudo convalescet ad eiusmodi rerum
publicarum status, nisi qui optimis legibus et egregiis institutis fuerint
educati, moderati erga ceteros, inter se congruentes.
[161] Ad es., Cicero, Part.
orat. 86: Bonorum autem partim
necessaria sunt ut vita pudicitia libertas, ut liberi coniuges germani
parentes, partim non necessaria ...; De
harusp. resp. 43: Exorta est illa rei
publicae, sacris, religionibus, auctoritati vestrae, iudiciis publicis funesta
quaestura, in qua idem iste deos hominesque, pudorem, pudicitiam, senatus
auctoritatem, ius, fas, leges, iudicia violavit. Una glossa festina, seppur
lacunosa, mostra quanto il mancato rispetto della pudicitia potesse aver ripercussioni politiche: Religionis praecipuae habetur censoris ...
M. Vale<rius Messalla, C. Cassius Lon>ginus censores q--- --- tia fuerat
famosu--- in Capitolio in ara--- --- sico nata fuerat iu--- tam ficum,
infamesque --- <sine> ullo pudicitiae respe<ctu> --- (Festus, De verb. sign. 358 L.).
[162] Vedi, ad es.: Apuleius, Metamorph. 4.23: Tu quidem
salutis et pudicitiae secura ...
[163] Cicero, In Verr.
II.4.131: Ut saepius ad Marcellum revertar iudices,
sic habetote, pluris esse a Syracusanis istius adventu deos quam victoria Marcelli homines desideratos. Etenim
ille requisisse etiam dicitur Archimedem illum summo ingenio hominem ac
disciplina; quem cum audisset interfectum, permoleste tulisse ...; Livius 25.31.8-10: Inde quaestor cum praesidio Nassum ad accipiendam pecuniam regiam
custodiendamque missus. <Urbs> diripienda militi data est [et] custodibus
divisis per domos eorum, qui intra praesidia Romana fuerant. 9. Cum multa irae, multa avaritiae foeda
exempla ederentur, Archimeden memoriae proditum est in tanto tumultu, quantum
<pavor> captae urbis in discursu diripientium militum ciere poterat,
intentum formis, quas in pulvere descripserat, ab ignaro milite quis esset
interfectum; 10. aegre id Marcellum
tulisse sepulturaeque curam habitam, et propinquis etiam inquisitis honori
praesidioque nomen ac memoriam eius fuisse; Silius Italicus 14.676-678: Tu
quoque ductoris lacrimas, memorande, tulisti, / defensor patriae, meditantem in
pulvere formas / nec turbatum animi tanta feriente ruina; Liv.
perioch. 25 (ed. O.
Rossbach, 1910, 31): Claudius Marcellus Syracusas expugnavit tertio anno et ingentem virum
gessit. In eo tumultu captae urbis Archimedes intentus formis, quas in pulvere
descripserat, interfectus est. Vedi anche Plutarchus, Marc. 19.8-11, il quale, nell’esporre le varie tradizioni
sull’episodio, sottolinea il forte dispiacere provato da Marcello per la morte
dello scienziato. Lo storico ricorda come non vi fosse tra le sue fonti alcun
disaccordo sul fatto che il generale romano “allontanò lo sguardo
dall’uccisore come da un sacrilego” (Ὅτι μέντοι Μάρκελλος ἤλγησε καὶ τὸν αὐτόχειρα τοῦ ἀνδρὸς ἀπεστράφη καθάπερ ἐναγῆ, τοὺς δ' οἰκείους ἀνευρὼν ἐτίμησεν, ὡμολόγηται).
[164] Valerius Maximus 8.7 ext. 7: Archimedis quoque fructuosam industriam fuisse dicerem, nisi eadem illi
et dedisset vitam et abstulisset: captis enim Syracusis Marcellus, etsi
machinationibus eius multum ac diu victoriam suam inhibitam senserat, eximia
tamen hominis prudentia delectatus ut capiti illius parceretur edixit, paene
tantum gloriae in Archimede servato quantum in oppressis Syracusis reponens. At
is, dum animo et oculis in terra defixis formas describit, militi, qui
praedandi gratia domum inruperat strictoque super caput gladio quisnam esset
interrogabat, propter nimiam cupiditatem investigandi quod requirebat nomen
suum indicare non potuit, sed protecto manibus pulvere ‘Noli’ inquit, ‘obsecro,
istum disturbare’, ac perinde quasi neglegens imperii victoris obtruncatus
sanguine suo artis suae liniamenta confudit. Quo accidit ut propter idem
studium modo donaretur vita, modo spoliaretur.
[165] Vedi anche Plinius, Nat.
hist. 7.125: Grande et Archimedi
geometricae ac machinalis scientiae testimonium M. Marcelli contigit interdicto, cum
Syracusae caperentur, ne violaretur unus, nisi fefellisset imperium militaris
inprudentia,
dove si richiama la specifico ordine di non uccidere Archimede, la sua inosservanza
e l’imperium.
[166] Silius Italicus mette in evidenza quanto il diritto
permetteva a Marcello intorno al destino di Siracusa: Ausonius ductor postquam sublimis ab alto / aggere despexit trepidam
clangoribus urbem / inque suo positum nutu, stent moenia regum / an nullos
oriens videat lux crastina muros, / ingemuit nimio iuris tantumque licere
(14.666-670).
[167] Livius 25.31.11: Hoc
maxume modo Syracusae captae; in quibus praedae tantum fuit, quantum vix capta
Carthagine tum fuisset, cum [qua] viribus aequis certabatur; Silius Italicus 14.661-665: Iam simul argento fulgentia pocula, mixta / quis gemma quaesitus honos,
simulacra deorum / numen ab arte datum servantia, munera rubri / praeterea
ponti depexaque vellera ramis, / femineus labor. His tectis opibusque potitus; Eutropius,
Brev. 3.14.3: ... a consule Marcello Siciliae magna pars capta est, quam tenere Afri
coeperant, et nobilissima urbe Syracusana praeda ingens Romam perlata est. Nelle fonti si ricordano accese discussioni
sulla opportunità di attribuire il trionfo; si decise per un’ovazione durante
la cui celebrazione Marcello entrò a Roma insieme a ingenti praedae: Livius 26.21.1-9: Eiusdem aestatis exitu M. Marcellus ex
Sicilia provincia cum ad urbem venisset, a C. Calpurnio praetore senatus ei ad
aedem Bellonae datus est. 2. Ibi cum
de rebus ab se gestis disseruisset, questus leniter non suam magis quam militum
vicem quod provincia confecta exercitum deportare non licuisset, postulavit ut
triumphanti urbem inire liceret. Id non impetravit. 3. Cum multis verbis actum esset utrum minus conveniret, cuius nomine
absentis ob res prospere ductu eius gestas supplicatio decreta foret et dis
immortalibus habitus honos, 4. ei
praesenti negare triumphum, an quem tradere exercitum successori iussissent ---
quod nisi manente in provincia bello non decerneretur --- eum quasi debellato
triumphare cum exercitus testis meriti atque immeriti triumphi abesset, medium
visum ut ovans urbem iniret. 5. Tribuni
plebis ex auctoritate senatus ad populum tulerunt ut M. Marcello, quo die urbem
ovans iniret, imperium esset. 6. Pridie
quam urbem iniret in monte Albano triumphavit; inde ovans multam prae se
praedam in urbem intulit. 7. Cum
simulacro captarum Syracusarum catapultae ballistaeque et alia omnia
instrumenta belli lata et pacis diuturnae regiaeque opulentiae ornamenta,
argenti aerisque fabrefacti vis, 8. alia
supellex pretiosaque vestis et multa nobilia signa, quibus inter primas
Graeciae urbes Syracusae ornatae fuerant. 9. Punicae quoque victoriae signum octo ducti elephanti ... (per le
ovazioni vedi, ad es., C. Auliard,
Victoires et triomphes à Rome. Droit
et réalités sous la République, Paris
2001, 14 ss., 55 ss.).
[168] Cicero, In Verr.
II.4.120 s.: ... in ornatu urbis habuit
victoriae rationem, habuit humanitatis. Victoriae putabat esse multa Romam deportare
quae ornamento urbi esse possent, humanitatis non plane expoliare urbem,
praesertim quam conservare voluisset. 121. In hac partitione ornatus non plus victoria
Marcelli populo Romano adpetivit quam humanitas Syracusanis reservavit. Romam
quae asportata sunt, ad aedem Honoris et Virtutis itemque aliis in locis
videmus. Nihil in aedibus, nihil in hortis posuit, nihil in suburbano; putavit,
si urbis ornamenta domum suam non contulisset, domum suam ornamento urbi
futuram.
[169] Cicero, In Verr.
II.4.121.
[170] Livius 25.40.1 s.: ...
Marcellus captis
Syracusis, cum cetera in Sicilia tanta fide atque integritate composuisset, ut
non modo suam gloriam sed etiam maiestatem populi Romani augeret, ornamenta
urbis, signa tabulasque, quibus abundabant Syracusae, Romam devexit, hostium
quidem illa spolia et parta belli iure; 2. ceterum
inde primum initium mirandi Graecarum artium opera licentiaeque huius sacra
profanaque omnia vulgo spoliandi factum est, quae postremo in Romanos deos,
templum id ipsum primum, quod a Marcello eximie ornatum est, vertit. Come evidenzia R.T. Ridley, Livy
and the Hannibalic War, in The Roman Middle
Republic. Politics, Religion, and Historiography c. 400 - 133 B.C., cit., 18, Livio
avvisa dell’esistenza di “two cultural effects” della presa di Siracusa:
innanzittutto scaturì «the enthusiasm from Greek art», che portò alla
«unrestrained despoliation of buildings, both religious and secular»; in
secondo luogo il 212 a.C. «was a “turning-point in Roman religion”: foreign
religion invaded the state, Roman rites were abandoned not only in private
worship but also in public».
[171] Livius
26.29.1-5 descrive l’impatto negativo sui numerosi Siciliani presenti a Roma
(cfr. 26.26.5-8) della notizia dell’attribuzione a Marcello, in qualità di
console, della provincia Siciliae; le
Siculorum querellae pervennero anche
in senato, così postulatum a consulibus
est ut de permutandis provinciis senatum consulerent (26.29.6). In seguito,
permutatis provinciis, i Siciliani
vennero introdotti in senato (26.30-32).
Come evidenzia C. Venturini,
La repressione degli abusi dei
magistrati romani ai danni delle popolazioni soggette fino alla lex Calpurnia
del 149 a.C., in Bullettino
dell’Istituto di Diritto Romano 72, 1969, 22 ss., «troviamo per la prima
volta la richiesta di un intervento del Senato sulla base di specifiche accuse
rivolte ad un comandante romano». Secondo l’A. non ebbe luogo in questo caso
«un iudicium in senso tecnico» a
fronte dell’assenza sia di una normativa generale in merito, sia della
legittimazione del senato alla promozione di un procedimento processuale.
[172] C. Venturini, La repressione, cit., 25.
[173] Per la risalenza pontificale della nozione di delubrum vedi Macrobius, Sat. 3.4.1: Nomina etiam sacrorum locorum sub congrua proprietate proferre
pontificalis observatio est. Ergo delubrum quid pontifices proprie vocent et qualiter
hoc nomine Vergilius usus sit requiramus. Sul termine, [G.] Jachmann, v. dēlūbrum, in TLL, 5.1, 1910, coll. 471 s.
[174] Livius 26.30.9: Certe praeter moenia et tecta exhausta urbis et refracta ac spoliata
deum delubra, dis ipsis ornamentisque eorum ablatis, nihil relictum Syracusis esse.
[175] Livius 26.31.9 s.: Ego,
patres conscripti, Syracusas spoliatas si negaturus essem, nunquam spoliis
earum urbem Romam exornarem. Quae autem singulis victor aut ademi aut dedi, cum
belli iure tum ex cuiusque merito satis scio me fecisse. 10. Ea vos rata habeatis, patres conscripti,
necne magis rei publicae interest quam mea. Quippe mea fides exsoluta est; ad
rem publicam pertinet ne acta mea rescindendo alios in posterum segniores duces
faciatis. La giurisprudenza, in tal caso, fa riferimento al ius gentium: D. 41.1.5.7 (Gaius libro secundo rerum cottidianarum): Item quae ex hostibus capiuntur, iure gentium
statim capientium fiunt;
vedi anche I. 2.1.17: Item ea,
quae ex hostibus capimus, iure gentium statim nostra fiunt.
[176] Livius 26.32.6 (cfr.
39.4.12 s.).
[177] Sulla vita e la carriera: [F.] Münzer, v. Fabius 116, in P.-W., 6.2, 1909, coll. 1814 ss.; T.R.S.
Broughton, The Magistrates, I,
cit., 224, 228, 254, 285.
[178]
Plutarco (Fab. 19.4 e Marc. 9.7) riporta la notizia di Posidonio
secondo cui i Romani soprannominavano Fabio il loro scudo e Marcello la loro
spada. L’importanza e il prestigio del personaggio emerge anche quando il
censore Publio Sempronio Tuditano entrò in contrasto con il collega Marco
Cornelio Cetego circa la scelta del princeps
senatus; in tale occasione il censore disse di Quinto Fabio Massimo (Livius
27.11.11) ... quem tum principem Romanae civitatis esse vel Hannibale iudice
...
[179] Per questo appellativo, vedi, ad es.: Frontinus, Strateg. 1.3.3: Fabius Maximus adversus
Hannibalem, successibus proeliorum insolentem, recedere ab ancipiti discrimine
et tueri tantummodo Italiam constituit, Cunctatorisque nomen et per hoc summi
ducis meruit; Florus, Epit. 2.6.27: Prima redeuntis et, ut ita
dixerim, revivescentis imperii spes Fabius fuit, qui novam de Hannibale victoriam commentus est, non
pugnare. Hinc illi cognomen novum et rei p. salutare Cunctator; hinc illud ex
populo ut imperii scutum vocaretur; De vir.
illustr. 8.1: Tarquinius
Superbus cognomen moribus meruit. Occiso
Servio Tullio regnum sceleste occupavit; 14.6: Unus ex ea gente propter
impuberem aetatem domi relictus genus propagavit ad Q. Fabium Maximum, qui Hannibalem
mora fregit, Cunctator ab obtrectatoribus dictus. Cfr. Quintilianus, Inst.
or. 8.2.11: Interim autem, quae sunt in quoque praecipua, proprii
locum accipiunt, ut Fabius inter plures imperatorias virtutes cunctator est
appellatus. Per altri appellativi, Verrucosus e Ovicula,
vedi anche Plutarchus,
Fab. Max. 1.4 e De vir. illustr. 43.1.
[180]
Ennius, Ann. fragm. 12.370 (ed.
Vahlen, 1903, 66). Come Marcello, anche questo personaggio è citato da Virgilio
nella rievocazione dei versi di Ennio: Aen.
6.845 s.: tun Maximus ille es, / unus qui nobis cunctando
restitues rem? (in tal senso vedi, ad es., D.
Knecht, Virgile et ses modèles
latins, in L’Antiquité Classique
32, 1963,
494, per cui, con grande probabilità, «Virgile a vraiment voulu citer Ennius, alors
même que les vers comportent des différences»). Cfr. Ovidius, Fast. 2.241 s.: scilicet ut posses olim tu, Maxime, nasci, /
cui res cunctando restituenda foret, in cui a V.
Zarini, Brèves réflexions sur la
présence d’Ovide dans les deux premiers livres des Fastes, in Bulletin de l’Association G. Budé 3,
1995,
239, appare evidente la citazione dei versi di Ennio, ma ritiene una ipotesi “pas trop spécieuse” rivenire nei Fasti
ovidiani «une
allusion à un autre Fabius, ce Paullus Fabius Maximus dont Ovide attend alors
le rétablissement de sa propre situation».
[181] Per le fonti utilizzate da Plutarco in questa biografia
vedi A. Klotz, Über die Quelle Plutarchs in der
Lebensbeschreibung des Q. Fabius Maximus, in Rheinisches Museum für Philologie 84, 1935, 125 ss.
[182] Il controllo di Annibale sulla città di
Taranto mostra la tendenza del generale cartaginese a creare nella penisola
italiana delle alleanze politico culturali tali da minacciare l’egemonia
romana: vedi J.T. Chloup, Maior
et clarior victoria: Hannibal and
Tarentum in Livy, in The Classical
World 103, 2009, 17 ss.
[183] Rimarca tale confusione tra la divinità e la sua
rappresentazione Plutarchus,
Fab. Max. 22.7 (testo infra nt. 195). Vedi in merito P. Gros, Les statues de Syracuse et les «dieux» de Tarente (La classe politique romaine
devant l’art grec à la fin du IIIe siècle avant J.-C.), in Revue des études latines 57, 1979, 96 s.
[184]
Quando gli dèi non erano irati, significava che
essi erano benevoli (in tal senso, ad es., Plautus, Curc. 557: Quoi homini
di sunt propitii, ei non esse iratos puto).
L’ira delle divinità si invocava come imprecazione, ad esempio, nel giuramento
dei militari nel caso si fosse riportata una sconfitta: Livius 2.45.14: Si fallat, Iovem patrem Gradivumque Martem
aliosque iratos invocat deos. Idem deinceps omnis exercitus in se quisque iurat.
[185]
Per le varie accezioni vedi: [K.] Stiewe
– [O.]
Hi[ltbrunner], v. īra, e
[K.] Stiewe, v. īrāscor, in TLL, 7.2, 1962, coll. 361 ss.; coll. 372
ss.
[186] Vedi, ad es., Servius, Verg. Aen. 10.758: Iram miserantur inanem generaliter
dicit omnem iram bellicam: ubi enim tam inanis iracundia est, quam in bello,
ubi ut pereamus irascimur?
[187] Cicero, De leg. 2.21: [Augures] ... divorumque iras providento sisque
apparento caelique fulgora regionibus ratis temperanto, urbemque et agros [et]
templa liberata et effata habento.
[188] Cicero, De off. 1.18.61: Declaratur
autem studium bellicae gloriae quod statuas quoque videmus ornatu fere militari.
[189] Come sottolinea S. Ribichini, Annibale
e i suoi dèi, tradotti in Magna Grecia. Un approccio comparativo, in La Calabria nel Mediterraneo. Flussi di
persone, idee e risorse. Atti del Convegno di Studi (Rende, 3-5 giugno 2013),
a cura di G. De Sensi Sestito, Soveria Mannelli 2013, 29 s., relativamente al
caso della dea Persephoneion di Locri
(su cui vedi infra § 5), per i Romani
«gli dèi degli sconfitti possono anche colpire i vincitori che non li
rispettano». Si deve ricordare anche la posizione di J.T. Chloup, Maior et clarior
victoria, cit., 35 s., secondo il quale
l’atteggiamento di Fabio è dettato da motivi politici, per cui i Romani
vogliono riconquistare la loro egemonia: il fatto che, secondo Livius 27.16.8,
Fabio non permetta, al contrario di Marcello rispetto a Siracusa, «wide-scale
plundering of the city [...] which confirms that the Romans are learning from
their past experiences»; i Romani devono, infatti, superare la fase di declino
rispetto ai popoli di cui avevano il controllo. Per l’A., «Tarentum therefore can be read as a turning
point, if not the turning point, in the war; it indicates not only that the
Romans will defeat Hannibal, but also that they deserve to win the war. Fabius
understands that allowing widespread despoliation to the city would not erase
Hannibal’s achievement there, and so he orders that the statues of the
Tarentine gods be left intact». In tal modo «by appearing to restore libertas, the Romans recapture from
Hannibal the role of Republican champion to which he earlier appeared to lay
claim».
[190] Plinius, Nat.
hist. 34.40: ... talis
et Tarenti factus a Lysippo, XL cubitorum. Mirum in eo quod manu, ut ferunt,
mobilis ea ratio libramenti est, ut nullis convellatur procellis. Id quidem
providisse et artifex dicitur modico intervallo, unde maxime flatum opus erat
frangi, opposita columna. Itaque magnitudinem propter difficultatemque moliendi
non attigit eum Fabius Verrucosus, cum Herculem, qui est in Capitolio, inde
transferret.
[191] De vir. illustr. 43.6: Tarentum ab
hostibus recepit, Herculis signum inde translatum in Capitolio dedicavit.
[192] Plutarchus, Fab.
Max. 22.8.
[193] Per il rapporto tra i Fabii ed Ercole vedi: Ovidius, Fast. 2.235-238: Una dies Fabios ad bellum miserat omnes, / ad bellum missos perdidit
una dies. / Ut tamen Herculeae superessent semina gentis, / credibile est ipsos
consuluisse deos; Plutarchus, Fab.
Max. 1.2: Νυμφῶν μιᾶς λέγουσιν, οἱ δὲ γυναικὸς ἐπιχωρίας, Ἡρακλεῖ μιγείσης περὶ τὸν Θύβριν ποταμὸν γενέσθαι Φάβιον, ἄνδρα πολὺ καὶ δόκιμον ἐν Ῥώμῃ τὸ Φάβίων γένος ἀφ´ αὑτοῦ παρασχόντα; Iuvenalis, Sat. 8.14:
natus in Herculeo Fabius lare ...;
cfr. Paulus Festus, Excerpt. de verb.
sign. 77 L.: Fovi, qui nunc Favi
appellantur, dicti, quod princeps gentis eius ex ea natus sit, cum qua Hercules
in fovea concubuit. Vedi in
materia J. Bayet, Les origines de l’Hercule romain, Paris
1926, 318 s., secondo il quale quando il console collocò il colosso sul
Campidoglio si manifestò chiaramente «la volonté des Fabii de se rattacher à
Hercule».
[194] Livius 27.16.12-16: [Hannibal] ... duos Metapontinos cum litteris principum eius
civitatis ad Fabium Tarentum mittit, fidem ab consule accepturos impunita iis
priora fore si Metapontum cum praesidio Punico prodidissent. 13. Fabius vera
quae adferrent esse ratus, diem qua accessurus esset Metapontum constituit,
litterasque ad principes dedit quae ad Hannibalem delatae sunt. 14. Enimvero laetus successu fraudis si ne
Fabius quidem dolo invictus fuisset, haud procul Metaponto insidias ponit.
15. Fabio auspicanti priusquam
egrederetur ab Tarento, aves semel atque iterum non addixerunt. Hostia quoque
caesa consulenti deos haruspex cavendum a fraude hostili et ab insidiis
praedixit. 16. Metapontini, postquam
ad constitutam non venerat diem, remissi ut cunctantem hortarentur, ac repente
comprehensi metu gravioris quaestionis detegunt insidias.
Secondo alcune fonti Fabio
ricoprì per più di sessanta anni il sacerdozio di augure: Livius 30.26.7-9: Eodem anno Q. Fabius
Maximus moritur, exactae aetatis si quidem verum est augurem duos et sexaginta
annos fuisse, quod quidam auctores sunt. 8. Vir certe fuit dignus tanto cognomine, vel
si novum ab eo inciperet. Superavit paternos honores, avitos aequavit. Pluribus
victoriis et maioribus proeliis avus insignis Rullus, sed omnia aequare unus
hostis Hannibal potest. 9. Cautior
tamen quam promptior hic habitus; et sicut dubites utrum ingenio cunctator
fuerit an quia ita bello proprie, quod tum gerebatur, aptum erat, sic nihil
certius est quam unum hominem nobis cunctando rem restituisse, sicut Ennius ait;
così anche Valerius Maximus 8.13.3: Q. autem Fabius Maximus duobus et LX annis auguratus sacerdotium
sustinuit, robusta iam aetate id adeptus; mentre Plinio afferma che fu augure per
sessantatrè anni Nat. hist. 7.156: Q. Fabius Maximus LXIII annis augur fuit.
Tra coloro che ritengono attendibile questa notizia vedi, ad es., P. Venini, La vecchiaia nel De senectute di
Cicerone, in Athenaeum 38, 1960, 110 s.: «È fondamentale la notizia,
data da Livio, che sarebbe stato augure per sessantadue anni; poiché al momento
in cui entrò a far parte del collegio, cioè, verisimilmente, dopo la morte del
nonno Q. Fabio Gurgite avvenuta nel 265, doveva avere almeno sedici-diciotto
anni, la sua vita si protrasse per circa un ottantennio; essendo morto nel 203,
nacque intorno al 280». Secondo J. Rüpke, Livius, Priesternamen und die annales
maximi, in Klio 75, 1993, 158, Livio
avrebbe tratto questa notizia da una fonte letteraria: «Bei der Nachricht vom Tod des
Q. Fabius Maximus Verrucosus im Jahr 203 schreibt er, daß einige Autoren (quidam) behaupteten, er sei
zweiundsechzig Jahre Augur gewesen. Er sieht sich aber nicht in der Lage, diese
Angabe zu überprüfen. Danach können ihm Listen oder Darstellungen, die bereits
für 265 Kooptationsnachrichten boten, nicht vorgelegen haben. Der kurze Nachruf
auf den Cunctator ist noch in anderer Hinsicht aufschlußreich. Eine Diskussion
über die genaue Amtslänge eines lebenslangen Amtes ist nur anläßlich des Todes
seines Trägers vorstellbar. Der Nachruf bildet eine Einheit: Am Anfang steht
die Feststellung des Todes und des hohen, allein aus dem langjährigen Augurat
zu erschließenden Alters, am Ende die Namen der Nachfolger im Augurat wie im
zweiten Priesteramt. So wenig der Plural – quidam
auctores - von Bedeutung ist, so sicher erweist der ‚Beleg‘ daß Livius auch
die Kooptationsnachrichten aus einer literarischen, nicht dokumentarischen
Quelle übernommen hat und sie bereits in einem literarisch gestalteten Kontext
vorfand».
Marcello,
al contrario, non prese in considerazione i segni divini tratti il giorno della
sua morte, avvenuta durante una imboscata tesa da Annibale: Livius 27.26.13 s.:
Immolasse eo die quidam prodidere
memoriae consulem Marcellum, 14. et prima hostia caesa iocur sine capite inventum, in secunda omnia
comparvisse quae adsolent, auctum etiam visum in capite; nec id sane haruspici
placuisse quod secundum trunca et turpia exta nimis laeta apparuissent, ma:
Ceterum consulem Marcellum tanta cupiditas tenebat dimicandi cum Hannibale ... (27.27.1).
Vedi anche Valerius Maximus
1.6.9; Plinius,
Nat. hist. 11.189.
[195] Livius 27.16.7 s.: Tum a
caede ad diripiendam urbem discursum. Triginta milia servilium capitum dicuntur
capta, argenti vis ingens facti signatique, auri tria milia octoginta pondo,
signa tabulae prope ut Syracusarum ornamenta aequaverint. 8. Sed maiore animo generis eius praeda abstinuit Fabius quam Marcellus; qui
interroganti scribae quid fieri signis Vellet ingentis magnitudinis - di sunt,
suo quisque habitu in modum pugnantium formati - deos iratos Tarentinis
relinqui iussit.
Vedi anche Plutarchus,
Fab. Max. 22.7: Πάντων δὲ τῶν ἄλλων ἀγομένων καὶ φερομένων, λέγεται τὸν γραμματέα πυθέσθαι τοῦ Φαβίου περὶ τῶν θεῶν τί κελεύει, τὰς γραφὰς οὕτω προσαγορεύσαντα καὶ τοὺς ἀνδριάντας· τὸν οὖν Φάβιον εἰπεῖν· «ἀπολίπωμεν τοὺς θεοὺς Ταραντίνοις κεχολωμένους».
[196] P. Gros, Les statues de Syracuse, cit., 85 ss.,
analizza le implicazioni politiche rispetto alla condotta di Fabio e di
Marcello, evidenziando l’originalità del comportamento di quest’ultimo.
[197] Plutarchus, Marc. 21.1
s.
[198] Plutarchus, Marc. 21.4
s.
[199] Plutarchus, Marc. 21.6:
Μάρκελλον δ' ᾐτιῶντο πρῶτον μὲν ὡς ἐπίφθονον ποιοῦντα τὴν πόλιν, οὐ μόνον ἀνθρώπων, ἀλλὰ καὶ θεῶν οἷον αἰχμαλώτων ἀγομένων ἐν αὐτῇ καὶ πομπευομένων, ἔπειθ' ὅτι τὸν δῆμον εἰθισμένον πολεμεῖν ἢ γεωργεῖν, τρυφῆς δὲ καὶ ῥᾳθυμίας ἄπειρον ὄντα καὶ κατὰ τὸν Εὐριπίδειον Ἡρακλέα, Φαῦλον, ἄκομψον, τὰ μέγιστ' [τε] ἀγαθόν, σχολῆς ἐνέπλησε καὶ λαλιᾶς περὶ τεχνῶν καὶ τεχνιτῶν ἀστειζόμενον καὶ διατρίβοντα πρὸς τοῦτο πολὺ μέρος τῆς ἡμέρας.
[200] Alcuni esempi sono offerti da Valerius Maximus 1.1.18
s.: Acer etiam sui numinis vindex Apollo,
qui Karthagine a Romanis oppressa veste aurea nudatus id egit ut sacrilegae
manus inter fragmenta eius abscisae invenirentur. 19. Nec minus efficax ultor contemptae religionis filius quoque eius
Aesculapius, qui consecratum templo suo lucum a Turullio praefecto Antonii ad
naves ei faciendas magna ex parte succisum ---, inter ipsum nefarium
ministerium devictis partibus Antonii, imperio Caesaris morti destinatum
Turullium manifestis numinis sui viribus in eum locum, quem violaverat, traxit
effecitque ut ibi potissimum a militibus Caesarianis occisus eodem exitio et
eversis iam arboribus poenas lueret et adhuc superantibus inmunitatem
consimilis iniuriae pareret suamque venerationem, quam apud colentes maximam
semper habuerat, dis multiplicavit.
[201] Intorno alla controversa questione della
proprietà delle divinità vedi, ad es.: J. Marquardt,
Le culte chez les Romains, I, cit.,
174, 321; T. Trincheri, Le
consacrazioni di uomini in Roma. Studio storico-giuridico, Roma 1889, 12; L.A. Corniquet, Les attributions
juridiques des pontifes, thèse pour le doctorat, Paris 1894, 42 ss.; A. Coqueret, De l’Influence des Pontifes
sur le Droit privé à Rome, thèse pour le doctorat, Caen 1895, 54 ss.; A. Bouché-Leclercq, Les pontifes
dans l’ancienne Rome. Étude historique sur les institutions religieuses de Rome,
Paris 1871 [rist. anast., New York 1975], 83; Id., Manuel,
cit., 521 s.; P. Bonfante, Corso
di diritto romano, II.1. La
proprietà, Roma 1926 [rist. a cura
di G. Bonfante – G. Crifò, Milano 1966], in part.
20, 22, 26; S. Solazzi, “Quodam
modo” nelle Istituzioni di Gaio, in Studia et Documenta Historiae et
Iuris 19, 1953, in part. 113; F. Fabbrini,
v. “Res divini iuris”, cit.,
517 s.; R. Schilling,
L’originalité du vocabulaire religieux latin, in Revue belge de
philologie et d’histoire 49, 1971, 50, Id.,
Sacrum et profanum: essai d’interprétation, in Latomus 30,
1971, 954 (entrambi ora in Rites, cultes, dieux de Rome, cit., 49 e 55); M. Morani, Lat. «sacer» e il rapporto uomo-dio nel lessico
religioso latino, in Aevum 55,
1981, 30 s., 39, 43; F. Van Haeperen, Le collège pontifical (3ème
s. a. C.-4ème s. p. C.). Contribution à l’étude de la religion
publique romaine, Bruxelles-Rome 2002, 245, 263; C. Santi, Alle radici del sacro. Lessico e formule di Roma antica, Roma 2004, 213 s. Vedi da ultimo L. Franchini, Principi di ius pontificium, in in Religione e Diritto Romano, cit., 263 ss., per cui «le divinità erano concepite come
qualsiasi altro soggetto di diritto, quasi alla stregua di una “controparte
contrattuale”» (266). Cfr.
anche C.M.A. Rinolfi, Servi e religio, cit., nt. 5.
[202] G. Brizzi, Studi di storia annibalica, Faenza 1984, 59 ss., 110, individua motivazioni di
carattere ideologico nell’oltraggio di Annibale al famoso santuario di Feronia,
in quanto in tal modo il generale cartaginese voleva colpire sia l’emblema del
potere romano in Italia, sia il sentimento religioso dei Romani e dei loro
alleati: «Cara alle genti di quell’Italia tirrenica che è rimasta
sostanzialmente fedele alla Repubblica; forse anche idealmente legata allo
spostarsi di quelle masse di coloni che hanno incarnato, per una parte almeno
degli uomini di Annibale, l’essenza stessa del dominio romano sulla penisola,
la divinità sabina diviene agli occhi del Barcide un simbolo da colpire. In
questo senso le ricchezze del lucus offrono
solo un premio ulteriore, certo gradito ai soldati di Cartagine, ma accessorio
e in fondo trascurabile rispetto ai moventi ben più gravi che spingono ad agire
il loro comandante. [...] Per tradizione diffusa si riteneva che le divinità
custodissero gelosamente i loro santuari e fossero perciò pronte a colpire il
mortale che avesse osato profanarli: probabilmente per cercar di scuotere la
fede dei Romani nella vittoria e più ancora, forse, per risollevare il morale
delle sue truppe Annibale non esita a compiere un gesto provocatoriamente
sacrilego, rispondendo all’atteggiamento romano nei sui confronti con un’aperta
sfida alle divinità stesse che proteggono Roma» (67).
[203] Il bosco della dea
rientrava nel sistema religioso romano, tanto da richiedere l’espiazione dei
prodigi che ivi si verificavano: Livius
27.4.14 s.: ... in agro Capenate ad lucum
Feroniae quattuor signa sanguine
multo diem ac noctem sudasse. 15. Haec
prodigia hostiis maioribus procurata decreto pontificum, et supplicatio diem
unum Romae ad omnia pulvinaria, alterum in Capenate agro ad Feroniae lucum indicta (per le
liste annuali dei prodigi pubblicate da Livio in questo libro vedi, da ultimo,
C. Guittard, Les prodiges dans le livre XXVII de Tite-Live, in Vita Latina 170, 2004, 56 ss.);
33.26.6-9: Priusquam <a>ut hi
praetores ad bellum prope novum, quia tum primum suo nomine sine ullo Punico
exercitu aut duce ad arma ierant, proficiscerentur aut ipsi consules ab urbe
moverent, procurare, ut adsolet, prodigia quae nuntiabantur iussi. 7. P. Villius eques Romanus in Sabinos
proficiscens fulmine ipse equusque exanimati fuerant; 8. aedis Feroniae in Capenati de caelo tacta erat ...; 9. ... Haec prodigia maioribus hostiis sunt
procurata.
[204] Intorno a questa divinità e al lucus Feroniae vedi,
ad esempio: H. Steuding, v. Feronia,
in Ausführliches Lexikon des griechischen und römischen Mythologie, I,
ed. W.H. Roscher, Leipzig 1884-1890, coll. 1477 ss.; W. Warde Fowler, The
Roman Festivals, cit., 252
ss.; D. Vaglieri, v. Feronia,
in Dizionario epigrafico di antichità romane, 3, cit., 56 s.; G. Wissowa,
v. Feronia, in P.-W., 6.2,
1909, coll. 2217 ss.; Id., Religion
und Kultus der Römer, cit., 285 ss.; L.R.
Taylor, The Site of Lucus Feroniae,
in The Journal of Roman Studies 10,
1920, 29 ss.; F. Tamborini, La
vita economica nella Roma degli ultimi re, in Athenaeum 8, 1930, 482
s.; P. Aebischer, Le culte de
Feronia et le gentilice Feronius, in Revue belge de philologie et
d’histoire 13, 1934, 5 ss.; R. Bloch
– G. Foti,
Nouvelles dédicaces archaïques à la déesse Feronia, in Revue de philologie, de littérature et
d’histoire anciennes 27, 1953, 65 ss.; J. Heurgon,
Trois études sur le «Ver Sacrum» (I. Un «ver sacrum» étrusque? Les origines du lucus Feroniae), Bruxelles 1957, 11 ss.; G. Radke, Die Götter Altitaliens, Münster Westfalen 1965,
124 ss.; G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., 356
ss.; 416 ss.; K. Latte, Römische
Religionsgeschichte, cit.,
189 s.; S. Tondo, Aspetti
simbolici e magici nella struttura giuridica della manumissio vindicta,
Milano 1967, 153 ss.; R. Del Ponte, Dei e Miti Italici, cit., 170 ss.; Id., La
religione dei romani, cit., 229 e nt. a 269; M. Torelli, Colonizzazioni etrusche e latine in epoca arcaica:
un esempio, in Gli Etruschi e Roma. Atti dell’incontro di studio in
onore di M. Pallottino. Roma, 11-13 dicembre 1979, Roma 1981, 77 ss.; M. Di Fazio, I luoghi di culto di Feronia. Ubicazioni e funzioni, in Annali della Fondazione per il Museo «C.
Faina» 19, 2012 (= Il Fanum
Voltumnae e i santuari comunitari
dell’Italia antica. Atti del XIX Convegno Internazionale di Studi sulla Storia
e l’Archeologia dell’Etruria, a cura di G.M. Della Fina, Roma 2012), 379
ss.; Id., Feronia. The
Role of an Italic Goddess in the
Process of Integration of Cultures in Republican Italy, in Process of Integration and Identity Formation in the Roman Republic,
a cura di S.T. Roselaar, Leiden-Boston 2012, 337 ss.; Id., Feronia. Spazi e tempi di una dea dell’Italia centrale antica, Roma 2013; Id., Angizia, Feronia, Marica. Divinità e culti italici nell’Eneide, in Mélanges
de l’École française de Rome. Antiquité 129, 2017, 121 ss.
[205] Livius 26.11.8-11: Inde ad
lucum Feroniae pergit ire, templum ea tempestate inclutum divitiis. 9. Capenates
aliique <qui> accolae eius erant primitias frugum eo donaque alia pro
copia portantes multo auro argentoque id exornatum habebant. Iis omnibus donis
tum spoliatum templum. Aeris acervi, cum rudera milites religione inducti
iacerent, post profectionem Hannibalis magni inventi. 10. Huius populatio templi haud dubia inter
scriptores est. Coelius Romam euntem ab Ereto devertisse eo Hannibalem tradit,
iterque eius ab Reate Cutiliisque et ab Amiterno orditur; 11. ex Campania in Samnium, inde in Paelignos
pervenisse, praeterque oppidum Sulmonem in Marrucinos transisse; inde Albensi
agro in Marsos, hinc Amiternum Forulosque vicum venisse.
[206] R. Bloch – G.
Foti, Nouvelles dédicaces archaïques à la déesse Feronia, in Comptes
rendus des séances de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres 96.4, 1952, 626: «Il est très tentant de supposer en
effet que l’absence de tout objet métallique de la favissa de Scorano et le rapt des statuettes de bronze arrachées à
leurs bases sont dus précisément à ce pillage carthaginois. L’ensemble du
matériel trouvé au cours des fouilles semble confirmer une telle hypothèse
puisque les objets précisément datables tels les vases campaniens doivent être
attribués au IIIe siècle avant
notre ère»; nell’articolo pubblicato in seguito in forma più ampia, in Revue de philologie, de littérature et d’histoire anciennes, cit.
nt. prec., si specifica che i soldati dell’esercito di Annibale avevano
saccheggiato tutti gli oggetti di metallo prezioso; tuttavia «la crainte
religieuse leur avait fait laisser dans notre favissa tout ce qui n’allumait pas leur cupidité, bases des
statues, vases ou ex voto de terre cuite. Cette même religio, peut-être aussi le désir de se débarrasser des objet les
plus lourdes et les moins précieux leur firent laisser sur la route ces aeris acervi dont nous parle Tite-Live
et parmi lesquels devaient figurer les statuettes offertes à Feronia et dérobée
par leur main sacrilège» (75).
[207] Il verbo iacere
è collegato all’atto di scagliare le armi in Festus, De verb. sign. 404 L.: Sub vitem ha<stas
iacere dicitur> <veles cum eas sub vine>a manu --- <sursum
mitti>t Lucilius: “Ut <veles bonus sub vite>m qui subicit has<tas>”; 406 L.: <Sub
vineam iacere dicun>tur milites, <cum astantibus centur>ionibus,
ia<cere coguntur sudes>.
Vedi [E.] Köstermann,
v. iacio, iēcī, iacictum-ctum, iacere-ere, in
TLL, 7.1, 1934, coll. 32
ss., per cui nel brano liviano il termine ha il significato di «res quae
iacitur iactantem relinquit» (col. 36).
[208] Questa spiegazione è già stata suggerita, ad
es., da G. Bodei Giglioni,
Pecunia fanatica. L’incidenza economica
dei templi laziali, in Rivista
storica italiana 89, 1977, 49 s. e nt. 84, in uno studio dedicato alle attività economiche connesse a luoghi sacri: «Evidentemente il sacrilegio
veniva in qualche modo evitato sostituendo ai metalli nobili metalli di poco
pregio. Sembra questo un procedimento di sostituzione-contrattazione con la
divinità analogo a quello per cui ai sacrifici umani si sostituiscono furbescamente teste di cipolla, capelli
e pesci oppure pupazzi in luogo di uomini liberi e palline in luogo di schiavi». Così anche D.S. Levene, Religion in Livy,
Leiden 1993, 60: «Hannibal plundered the temple at Feronia; hi strips it of its
wealth of gold and silver, although the soldiers ‘religione inducti’ leave
behind bronze in its place», e S. Ribichini, Annibale e i suoi dèi, cit., 26: «a
detta di Livio (e l’annotazione indubbiamente colpisce), i soldati, religione
inducti, sostituirono l’oro e l’argento degli ex-voto con una grande
quantità di metallo non lavorato; quasi che per uno scrupolo religioso
volessero in tal modo ovviare alla violazione del santuario, con un saccheggio
finalizzato più a procurare finanziamenti che impressionare i Latini».
[209] Svetonius, Iul. 54.3: In primo consulatu tria milia pondo auri furatus e
Capitolio tantundem inaurati aeris reposuit; Vitell.
5.2: ... in
urbano officio dona atque ornamenta templorum subripuisse et commutasse quaedam
ferebatur proque auro et argento stagnum et aurichalcum supposuisse.
[210] Vedi, ad es.: Varro, De
ling. Lat. 6.20: Volcanalia a
Volcano, quod ei tum feriae et quod eo die populus pro se in ignem animalia
mittit; Ovidius, Fast. 5.435-440:
Cumque manus puras fontana perluit unda,
/ vertitur et nigras accipit ante fabas, / aversusque iacit; sed dum iacit,
‘haec ego mitto, / his’ inquit ‘redimo meque meosque fabis’. / Hoc novies dicit
nec respicit: umbra putatur / colligere et nullo terga vidente sequi;
Festus, De verb. sign. 274 L.: Piscatori ludi vocantur qui quotannis mense
Iunio trans Tiberim fieri solent a praetore urbano pro piscatoribus Tiberinis;
quorum quaestus non in macellum pervenit, sed fere in aream Volkani, quod id
genus pisciculorum vivorum datur ei deo pro animis humanis; Servius, Verg. Aen. 2.116: Virgine caesa non vere, sed ut videbatur. Et sciendum in
sacris simulata pro veris accipi: unde cum de animalibus quae difficile
inveniuntur est sacrificandum, de pane vel cena fiunt et pro veris accipintur.
Hinc est etiam illus sparserat etlatices simulatos fontis Averni. Nam et in
templo Isidis aqua sparsa de Nilo esse dicebatur; 4.512: Simulatos
fontis Averni in sacris, ut supra diximus, qua exhiberi non poterant
simulabantur, et erant pro veris; Paulus
Festus, Excerpt. de verb. sign. 273
L.: Pilae et effigies viriles et muliebres ex lana Conpitalibus
suspendebantur in conpitis, quod hunc diem festum esse deorum inferorum, quos
vocant Lares, putarent, quibus tot pilae, quot capita servorum;
tot effigies, quot essent liberi, ponebantur, ut vivis parcerent et essent his
pilis et simulacris contenti; 77 L.: nec tangere, nec nominare Diali flamini
licet, quod ea putatur ad mortuos pertinere. Nam et Lemuralibus iacitur larvis, et
Parentalibus adhibetur sacrificiis, et in flore eius luctus litterae apparere
videntur. In
materia vedi specialmente l’opera di E. Bianchi,
Fictio iuris. Ricerche sulla finzione in diritto
romano dal periodo arcaico all’epoca augustea, Padova 1997.
[211] Silius Italicus 13.83-91: Itur in agros, /
dives ubi ante omnes colitur Feronia luco / et sacer umectat Flavinia rura
Capenas. / Fama est intactas longaevi ab origine fani / crevisse in medium
congestis undique donis / immensum per tempus opes lustrisque relictum /
innumeris aurum solo servante pavore. / Hac avidas mentes ac barbara corda
rapina / polluit atque armat contemptu pectora divum.
[212]
Livius 24.21.9 s.: Armati locis patentibus
congregantur; inermes ex Olympii Iovis templo spolia Gallorum Illyriorumque,
dono data Hieroni a populo Romano fixaque ab eo, 10. detrahunt precantes Iovem, ut volens
propitius praebeat sacra arma pro patria, pro deum delubris, pro libertate sese
armantibus.
[213] Con stuprum, anteriormente alla lex Iulia de adulteriis, si designavano
le unione sessuale illecite: così A.
Guarino in Labeo 24, 1978, 368 s. (ora in Id.,
Pagine di diritto romano, II, Napoli
1993, 344 ss.).
[214] Livius 22.57.2-5: Territi
etiam super tantas clades cum ceteris prodigiis, tum quod duae Vestales eo
anno, Opimia atque Floronia, stupri compertae et altera sub terra, ut mos est,
ad portam Collinam necata fuerat, altera sibimet ipsa mortem consciverat.
3. L. Cantilius scriba pontificis, quos
nunc minores pontifices appellant, qui cum Floronia stuprum fecerat, a
pontifice maximo eo usque virgis in comitio caesus erat, ut inter verbera
exspiraret. 4. Hoc nefas, cum inter
tot, ut fit, clades in prodigium versum esset, decemviri libros adire iussi
sunt, 5. et Q. Fabius Pictor Delphos
ad oraculum missus est sciscitatum, quibus precibus suppliciisque deos possent
placare et quaenam futura finis tantis cladibus foret.
[215] Livius 22.57.6: Interim
ex fatalibus libris sacrificia aliquot extraordinaria facta; inter quae Gallus
et Galla, Graecus et Graeca in foro bovario sub terram vivi demissi sunt in
locum saxo consaeptum, iam ante hostiis humanis, minime Romano sacro, inbutum.
[216] Per i riflessi religiosi del figere le armi prese al nemico vedi F. Marcattili, Sacris in postibus arma (Verg., Aen., 7, 183).
Guerra, Lemures e liturgie romane del
ritorno, in Aa.Vv., Miti di guerra riti di pace. La guerra e la
pace: un confronto interdisciplinare, Atti
del Convegno, Torgiano-Perugia 2009, Bari 2011, 251 ss.
[217] Livius 22.57.9-11: In<de>
dictator ex auctoritate patrum dictus M. Iunius et Ti. Sempronius magister
equitum dilectu edicto iuniores ab annis septemdecim et quosdam praetextatos
scribunt. Quattuor ex his legiones et mille equites effecti. 10. Item ad socios Latinumque nomen ad milites
ex formula accipiendos mittunt. Arma, tela, alia parari iubent et vetera spolia
hostium detrahunt templis porticibusque. 11. Et aliam formam novi dilectus inopia liberorum capitum ac necessitas
dedit: octo milia iuvenum validorum ex servitiis, prius sciscitantes singulos,
vellentne militare, empta publice armaverunt. Hic miles magis placuit, cum pretio
minore redimendi captivos copia fieret. Sull’episodio vedi anche:
Florus, Epit. 2.6.23: Arma non erant: detracta sunt templis.
Deerat iuventus: in sacramentum liberata servitia; Orosius, Hist.
4.16: Romani ad spem vitae, quasi
ab inferis respirare ausi, dictatorem Decimum Iunium creant: qui, delectu
habito ab annis decem et septem, immaturae inordinataeque militiae quatuor
legiones undecunque contraxit. Tunc etiam servos spectati roboris ac
voluntatis, vel oblatos, vel, si ita opus fuit, publico pretio emptos sub
titulo libertatis, sacramento militiae adegit. Arma, quae deerant, templis detraxerunt, egenti aerario privatae
opes refusae sunt. Ita equester ordo, ita plebs trepida oblita studiorum in
commune consuluit. Iunius quoque dictator antiquum Romanae miseriae factum
recolens, pro supplemento exercitus, edicto, velut asylo patefacto, homines
quicumque sceleribus ac debitis obnoxii essent, impunitate promissa, militiae
mancipavit, quorum numerus ad sex millia virorum fuit (PL 31,
coll. 894 s.). Sull’episodio segnalo G.
Tagliamonte, ... et vetera spolia
hostium detrahunt templis porticibusque ... Annotazioni sul riuso delle armi
dedicate nell’Italia antica, in Pallas
70, 2006, 265 ss., il quale procede a una analisi del dato archeologico per
il riutilizzo a scopi militari delle armi dedicate ed esposte in precedenza in
templi, luoghi pubblici e privati. L’autore, spec. 269 (seguito da F. Marcattili, Sacris in postibus arma, cit., 253 nt. 18), evidenzia l’assoluta
necessità e l’eccezionalità di tale rimozione.
Una simile decisione, presa attraverso un senatoconsulto
ai tempi del conflitto tra Mario e Silla, è ricordata, ad es., da Valerius
Maximus 7.6.4, il quale ne evidenzia
il carattere riprovevole: C. autem Mario
Cn. Carbone consulibus civili bello cum L. Sulla dissidentibus, quo tempore non
rei publicae victoria quaerebatur, sed praemium victoriae res erat publica,
senatus consulto aurea atque argentea templorum ornamenta, ne militibus
stipendia deessent, conflata sunt: digna enim causa erat, hi ne an illi
crudelitatem suam proscriptione civium satiarent, ut di immortales
spoliarentur! Non ergo patrum conscriptorum voluntas, sed taeterrimae
necessitatis truculenta manus illi consulto stilum suum inpressit.
[218]
Valerius Maximus 7.6.1: Cannensis autem clades adeo urbem nostram
vehementer confudit, ut M. Iunio Pera dictatore rem publicam administrante
spolia hostium adfixa templis deorum numini consecrata instrumento militiae
futura convellerentur, ac praetextati pueri arma induerent, addictorum etiam et
capitali crimine damnatorum sex milia conscriberentur. Quae, si per se
aspiciantur, aliquid ruboris habeant, si autem admotis necessitatis viribus
ponderentur, saevitiae temporis convenientia praesidia videantur. Cfr.
Seneca rhet., Contr. 9.4.5: Necessitas magnum humanae imbecillitatis
patrocinium est: ... haec excusat Romanos, quos ad servilem dilectum Cannensis
ruina compulit; quae quidquid coegit defendit. Esprime un giudizio negativo
sulla rimozione delle armi affisse anche Cicero, In Verr. II.4.97 s.: Matris
Magnae fanum apud Enguinos est. Iam enim mihi non modo breviter de uno quoque
dicendum, sed etiam praetereunda videntur esse permulta, ut ad maiora istius et
inlustriora in hoc genere furta et scelera veniamus. In hoc fano loricas
galeasque aeneas caelatas opere Corinthio hydriasque grandis simili in genere
atque eadem arte perfectas idem ille Scipio, vir omnibus rebus
praecellentissimus, posuerat et suum nomen inscripserat. Quid iam de isto plura
dicam aut querar? Omnia illa iudices abstulit, nihil in religiosissimo fano
praeter vestigia violatae religionis nomenque P. Scipionis reliquit. Hostium
spolia, monumenta imperatorum, decora atque ornamenta fanorum posthac his
praeclaris nominibus amissis in instrumento atque in supellectile C. Verris
nominabuntur. 98. Tu videlicet solus
vasis Corinthiis delectaris, tu illius aeris temperationem, tu operum
liniamenta sollertissime perspicis. Haec Scipio ille non intellegebat, homo
doctissimus atque humanissimus, tu sine ulla bona arte, sine humanitate, sine
ingenio, sine litteris, intellegis et iudicas! Vide ne ille non solum
temperantia, sed etiam intellegentia te atque istos qui se elegantis dici
volunt vicerit. Nam quia quam pulchra essent intellegebat. Idcirco existimabat
ea non ad hominum luxuriem, sed ad ornatum fanorum atque oppidorum esse facta,
--- ut posteris nostris monumenta religiosa esse videantur. Cfr.
Quintilianus, Inst. or. 5.10.36: Finitionis quoque quaestiones ex causis
interim pendent: an tyrannicida, qui tyrannum, a quo deprensus in adulterio
fuerat, occidit? An sacrilegus, qui, ut hostes urbe expelleret, arma
templo adfixa detraxit?
G. Bodei Giglioni, Pecunia
fanatica, cit., 33 ss., evidenzia la «pratica di sottrarre denari, offerte
votive e terreni sacri» in caso di necessità economiche della civitas, specie durante le guerre
civili. La studiosa sostiene che tale atto, sebbene reputato grave, «non
costituiva di per sé un sacrilegio e non era lesivo delle concezioni
giuridico-religiose romane» (39), rinvenendo l’esplicita affermazione del
«diritto del popolo di impossessarsi dei terreni e dei beni mobili dei templi»
nel discorso di Tiberio Gracco per cui non vi era nulla di più sacro e
inviolabile delle cose consacrate alle divinità, eppure niente aveva mai
impedito il loro utilizzo da parte del popolo (Plutarchus, Ti. Gracc. 15.8: Ἱερὸν δὲ καὶ ἄσυλον οὐδὲν οὕτως ἐστίν ὡς τὰ τῶν θεῶν ἀναθήματα· χρῆσθαι δὲ τούτοις καὶ κινεῖν καὶ μεταφέρειν, ὡς βούλεται, τὸν δῆμον οὐδεὶς κεκώλυκεν) (46). Tuttavia, a mio sommesso
parere, la disfunzione non creava certamente un diritto, tanto più che per
rendere commerciabile una res sacra
era necessario renderla prima profana, vedi, ad es., Macrobius, Sat. 3.3.4: Eo accedit quod Trebatius profanum id proprie dici ait quod ex
religioso vel sacro in hominum usum proprietatemque conversum est ...
[219] Di particolare importanza anche Seneca phil., De ben. 7.7.1-3: Bion modo omnes sacrilegos esse argumentis colligit, modo neminem. Cum
omnes de saxo deiecturus est, dicit: ‘Quisquis id, quod deorum est, sustulit et
consumpsit atque in usum suum vertit, sacrilegus est; omnia autem deorum sunt;
quod quisque ergo tollit, deorum tollit, quorum omnia sunt; ergo, quisquis
tollit aliquid, sacrilegus est’. 2. Deinde,
cum effringi templa et expilari inpune capitolium iubet, dicit nullum
sacrilegum esse, quia, quidquid sublatum est, ex eo loco, qui deorum erat, in
eum transfertur locum, qui deorum est. 3. Hic respondetur omnia quidem deorum esse, sed non omnia dis dedicata;
in iis observari sacrilegium, quae religio numini adscripsit. Sic et totum
mundum deorum esse inmortalium templum, solum quidem amplitudine illorum ac
magnificentia dignum: tamen a sacris profana discerni; non omnia licere in
angulo, cui fani nomen inpositum est, quae sub caelo et conspectu siderum
licent. Iniuriam sacrilegus deo quidem non potest facere, quem extra ictum sua
divinitas posuit, sed punitur, quia tamquam deo fecit: opinio illum nostra ac
sua obligat poenae.
[220] Vedi, ad es.: Th.
Mommsen, Der Religionsfrevel nach
römischem Recht, in Historische
Zeitschrift 28, 1890, 391 s. (ora in Id.,
Gesammelte Schriften, III. Juristische Schriften, Berlin 1907, 391
s.); Id., Römisches Strafrecht, Leipzig 1899, 760 ss., spec. 668 ss. = Le droit
pénal romain, III, tr. fr. di J. Duquesne, Paris 1907, 66 ss., spec. 76 s.; P. Voci,
Diritto sacro romano,
cit., 59 e nt. 72 (= Studi di diritto romano, I, cit., 235 e nt. 72), secondo il quale il sacrilegium, cioè “il furto di una cosa
sacra”, è inespiabile, sanzionato con la morte ed è probabile, nonostante il
silenzio delle fonti, l’esistenza di una sacratio;
C. Gioffredi, v. “Sacrilegium”, in Novissimo Digesto Italiano, 16, Torino 1969, 311, sostiene la
previsione per il periodo antico della condanna capitale; F. Salerno, Dalla «consecratio» alla «publicatio bonorum», Napoli 1990, 16.
Cfr. F. Gnoli, Sen., Benef. 7, 7, 1-4: prospettiva filosofica e prospettiva giuridica del
‘sacrilegium’, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 40, 1974,
409, il quale accenna all’esistenza di questa antica pena senza prendere
posizione (409), mentre sostiene l’inserimento del sacrilegium nella fattispecie della quaestio peculatus durante l’età alto imperiale, secondo il dettato
della lex Iulia peculatus (su cui
vedi il titolo D. 48.13 Ad
legem Iuliam peculatus et de sacrilegis et de residuis);
quest’ultimo tema è approfondito in Id.,
‘Rem privatam de sacro surripere’
(contributo allo studio della repressione del ‘sacrilegium’ in diritto romano),
ivi, 151 ss.
[221] De leg. 2.22. Per
la punizione del sacrilego vedi ancora Seneca phil., De ben. 5.14.2: Sacrilegi
dant poenas, quamvis nemo usque ad deos manus porrigat. Cfr. Cicero, De leg. 2.40: Sacrilego poena est, neque ei soli, qui sacrum abstulerit, sed etiam
ei, qui sacro commendatum. F. Gnoli,
‘Rem privatam de sacro surripere’, cit., 151 ss., sottolinea l’assenza,
nell’età repubblicana e nei primi secoli dell’età del principato, di un
illecito a sé stante qualificato come crimen
sacrilegii; tuttavia, restavano ferme «le sanzioni di ordine puramente
sacrale, di competenza dell’ordinamento sacerdotale, le quali, da diverso punto
di vista, prendevano certamente in considerazione, fin da epoca assai più
antica, le profanazioni di luoghi, persone e cose sacre e gli atti di empietà»
(168). Per l’A. Cicerone in questo passo non riferirebbe di una vera norma ma
«un ‘progetto di legge’, di un programma di ordinamento, inteso a restaurare o
ad inasprire (come forse nel nostro caso) il rigore di precetti, nei quali
Cicerone vede la salvaguardia delle cadenti istituzioni» (184).
[222] Cicero, In Verr.
II.1.7: Religiones vero caerimoniaeque
omnium sacrorum fanorumque violatae simulacraque deorum quae non modo ex suis
templis ablata sunt, sed etiam iacent in tenebris ab isto retrusa atque abdita,
consistere eius animum sine furore atque amentia non sinunt.
[223] Cicero, In Verr.
II.1.9. Vedi anche quanto l’oratore
chiedeva a Verre: Hoc tu fanum
depopulari homo improbissime atque amentissime audebas? Fuit ulla cupiditas
tanta quae tantam exstingueret religionem? Et si tum haec non cogitabas, ne
nunc quidem recordaris nullum esse tantum malum, quod non tibi pro sceleribus
tuis iamdiu debeatur? (II.1.48;
per il contesto politico della orazione rimando a R. Scuderi, Lo sfondo
politico del processo a Verre, in Aa.Vv.,
Processi e politica nel mondo
antico, [Contributi dell’Istituto di storia antica 22], a cura di M. Sordi,
Milano 1996, 169 ss.). Cfr.
Petronius, Sat. 130.2: Habes confitentem reum: quicquid iusseris,
merui. Proditionem feci, hominem occidi, templum violavi ...
[224] S.H. Rutledge, The Roman Destruction of Sacred Sites, in Historia
56, 2007, 179 ss., analizza minuziosamente numerosi casi di distruzione di
luoghi sacri da parte dei Romani, connessi per la maggior parte a ragioni di
strategia bellica, e a volte determinati da motivazioni socio-politiche e
giuridico-religiose. Il rispetto accordato per alcuni siti cultuali, invece,
era legato alla loro importanza, alla venerazione e alla vicinanza culturale.
L’A., nonostante ricordi alcuni casi di riluttanza verso la distruzione di
luoghi sacri, e sostenga l’esistenza di una «culturally collective mindset
reflected in Cicero, Sallust, Livy, and others who deplored the destruction of
sacred sites, that a broad social consensus was in place concerning respect for
temples and shrines - at least of a familiar sort», arriva alla conclusione che
il rispetto per tali siti «existed at times more in the realm of the ideal than
in actual practice» (194 s.). Eppure Rutledge inizia la sua dissertazione richiamando
la risposta di Traiano, alla solerte questione
posta da Plinio il giovane (Epist.
10.49.2: Ergo cum quaererem num esset
aliqua lex dicta templo, cognovi alim hic, alium apud nos esse morem
dedicationis. Dispice ergo, domine, an putes aedem, cui nulla lex dicta est,
salva religione posse transferri; alioqui commodissimum est, si religio non
impedit) circa eventuali impedimenti
religiosi intorno allo dislocamento del tempio della Magna Mater a
Nicomedia, per i lavori del nuovo foro: ...
nec te moveat quod lex quod lex dedicationis nulla reperitur, cum solum
peregrinae civitatis capax non sit dedicationis, quae fit nostro iure (Plinius minor, Epist. 10.50).
Dalle parole dell’imperatore, infatti, emerge come non si tratterebbe di “mentalità
collettiva culturale” supposta dall’A., ma di stretto diritto. In materia cfr.
anche A. Mutel, Réflexions sur quelques aspects de la
condition juridique des temples en droit romain classique, in Mélanges offerts au prof. L. Falletti,
Paris 1971, 398, il quale sottolinea come la risposta di Traiano sia categorica
anche se, Gaius, Inst. 2.7, dopo aver
sostenuto che quod in provinciis non ex
auctoritate populi Romani consecratum est, proprie sacrum non est, afferma tamen pro sacro habetur.
[225] Livius 8.14.2.
[226] A questo titolo fa riferimento Livius 29.6.9: T.R.S. Broughton, The Magistrates, I, cit., 304.
Per F. De Martino, Storia della costituzione romana, II,
cit., 400 ss. e ntt. 15 e 17, si trattava di un legato senatorio a cui Scipione
aveva attribuito «competenze positive in sottordine». Il legato non era munito
di proprio imperium, benché Pleminio
avesse dei littori (Livius 29.9.4 s.), poiché Scipione gli aveva delegato il
comando supremo. La pratica di inviare dei legati
senatori nelle province divenne stabile a cavallo tra il III e il II sec. a.C.
[227] Livius 29.8.7 s.: Verum
enimvero tantum Pleminius Hamilcarem praesidii praefectum, tantum praesidiarii
milites Romani Poenos scelere atque avaritia superaverunt ut non armis sed
vitiis videretur certari. 8. Nihil
omnium quae inopi invisas opes potentioris faciunt praetermissum in oppidanos
est ab duce aut a militibus; in corpora ipsorum, in liberos, in coniuges
infandae contumeliae editae.
Sul personaggio vedi F. Münzer, v. Pleminius, in P.-W., 21.1, 1951, coll. 221 s.
[228] Vedi F.
Costabile, Istituzioni e forme
costituzionali nelle città del Bruzio in età romana. Ciuitates foederatae
coloniae e municipia in Italia meridionale attraverso i documenti
epigrafici, Napoli 1984, 90.
[229] Sulla vicenda vedi, ad es.: F. Grosso, Il caso di
Pleminio, in Giornale italiano di
filologia 5, 1952, 119 ss., 234 ss.;
Y. Rivière, Carcer et uincula: la
détention publique à Rome (sous la République et le Haut-Empire), in Mélanges de l’École française de Rome.
Antiquité 106, 1994, 602 ss.; A.J. Toynbee, L’eredità di Annibale,
II. Roma e il Mediterraneo dopo Annibale,
tr. it., Torino 1983 (tit. or. Hannibal’s Legacy. The Hannibalic War’s
Effects on Roman Life. II. Rome and Her Neighbours after Hannibal’s
Exit, London 1965), 762 ss.; E. Burck, Pleminius und
Scipius bei Livius (Livius 29,6,9 und 29,16,4-22,12), in Politeia und Res Publica. Beiträge
zum Verständnis von Politik, Recht und Staat in der Antike. Begründet von R.
Stark, a cura di P. Steinmetz, Wiesbaden 1969,
301 ss.; C. Venturini, La repressione, cit., 31 ss.; A.W. Lintott, Provocatio. From the Struggle of the Orders to the Principate, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt,
I.2, Berlin-New York 1972, 241 ss.; J. Scheid, Le délit religieux dans la
Rome tard-républicaine, in Le délit religieux dans la cité antique
(Table ronde, Rome, 6-7 avril 1978), Rome 1981, 138 s.; D.S. Levene, Religion in Livy, cit., 72 s.; B.
Santalucia, Longius ab urbe mille passuum: cittadini e provocatio in
Italia prima delle leges Porciae, in Id.,
Altri studi di diritto penale
romano, Milano 2009, 195 ss. (già in Aa.Vv., Praesidia libertatis. Garantismo e sistemi processuali
nell’esperienza di Roma repubblicana. Atti del convegno internazionale di
diritto romano, Copanello, 7-10 giugno 1992, a cura di F. Milazzo, Napoli
1994, 63 ss.); P. Pavón, El poenae exemplum de Q. Pleminio, legado de P. Cornelio Escipión, in Athenaeum 89, 2001, 203 ss.; G. Brizzi, Scipione e Annibale. La guerra per salvare Roma, Roma-Bari 2007,
152 ss.; L. Franchini, Aspetti giuridici del pontificato romano. L’età di Publio Licinio Crasso
(212-183 a.C.), Napoli 2008, 264 ss.; J. Wells, Impiety in the Middle Republic: The
Roman Response to Temple Plundering in Southern Italy, in The Classical Journal 105, 2010, 229 ss., spec. 232 ss.; I.K. Köster, How to Kill a Roman Villain: The Deaths of Quintus Pleminius, in The Classical Journal 109, 2014, 309 ss.
[230] Livius 29.8.9-11: Iam
avaritia ne sacrorum quidem spoliatione abstinuit; nec alia modo templa violata
sed Proserpinae etiam intacti omni aevo thesauri, praeterquam quod a Pyrrho,
10. qui cum magno piaculo sacrilegii sui
manubias rettulit, spoliati dicebantur. Ergo sicut ante regiae naves laceratae
naufragiis nihil in terram integri praeter sacram pecuniam deae quam
asportabant extulerant, 11. tum
quoque alio genere cladis eadem illa pecunia omnibus contactis ea violatione
templi furorem obiecit, atque inter se ducem in ducem, militem in militem rabie
hostili vertit. Per la punizione
divina di Pirro vedi anche Valerius Maximus 1.1 ext. 1: Quae, quod ad
Plemini facinus pertinuit, bene a patribus conscriptis vindicata, quod ad
violentas regis Pyrri sordes attinuerat, se ipsa potenter atque efficaciter
defendit: coactis enim Locrensibus ex thesauro eius magnam illi pecuniam dare,
cum onustus nefaria praeda navigaret, vi subitae tempestatis tota cum classe
vicinis deae litoribus inlisus est, in quibus pecunia incolumis reperta
sanctissimi thesauri custodiae restituta est. Il saccheggio del tempio da parte di Pirro è ricordato
anche in Diodorus Siculus 27.4.3.
[231] Livius 29.16.6 s.:
Decem legati Locrensium, obsiti squalore et sordibus, in comitio sedentibus
consulibus velamenta supplicum, ramos oleae, ut Graecis mos est, porgentes ante
tribunal cum flebili vociferatione humi procubuerunt. 7. Quaerentibus consulibus Locrenses se
dixerunt esse, ea passos a Q. Pleminio legato Romanisque militibus quae pati ne
Carthaginienses quidem velit populus Romanus; orare uti sibi patres adeundi
deplorandique aerumnas suas potestatem facerent. Diodorus Siculus 27.4
offre una diversa soluzione e non accenna all’invio di una legazione a Roma.
[232] Livius 29.17.10-20: Q.
Pleminius legatus missus est cum praesidio ad recuperandos a Carthaginiensibus
Locros, et cum eodem ibi relictus est praesidio. 11. In hoc legato vestro - dant enim animum ad loquendum libere ultimae
miseriae - nec hominis quicquam est, patres conscripti, praeter figuram et
speciem, neque Romani civis praeter habitum vestitumque et sonum Latinae linguae;
12. pestis ac belva immanis, quales
fretum quondam quo ab Sicilia dividimur ad perniciem navigantium circumsedisse
fabulae ferunt. 13. Ac si scelus
libidinemque et avaritiam solus ipse exercere in socios vestros satis haberet,
unam profundam quidem voraginem tamen patientia nostra expleremus; 14. nunc omnes centuriones militesque vestros -
adeo in promiscuo licentiam atque improbitatem esse voluit - Pleminios fecit.
15. Omnes
rapiunt, spoliant, verberant, volnerant, occidunt; constuprant matronas, virgines,
ingenuos raptos ex complexu parentium. 16. Cottidie capitur urbs nostra, cottidie diripitur; dies noctesque omnia
passim mulierum puerorumque qui rapiuntur atque asportantur ploratibus sonant.
17. Miretur qui nesciat quomodo aut nos
ad patiendum sufficiamus aut illos qui faciunt nondum tantarum iniuriarum
satietas ceperit. Neque ego exsequi possum nec vobis operae est audire singula
quae passi sumus; communiter omnia amplectar. 18. Nego domum ullam Locris, nego quemquam hominem expertem iniuriae esse; nego
ullum genus sceleris, libidinis, avaritiae superesse quod in ullo qui pati
potuerit praetermissum sit. 19. Vix
ratio iniri potest uter casus civitatis sit detestabilior, cum hostes bello
urbem cepere an cum exitiabilis tyrannus ui atque armis oppressit. 20. Omnia quae captae urbes patiuntur passi
sumus et cum maxime patimur, patres conscripti; omnia quae crudelissimi atque
importunissimi tyranni scelera in oppressos cives edunt, Pleminius in nos
liberosque nostros et coniuges edidit.
[233] Livius 29.18.3-6:
Fanum est apud nos Proserpinae, de cuius sanctitate templi credo aliquam famam
ad vos pervenisse Pyrrhi bello; 4. qui
cum ex Sicilia rediens Locros classe praeterveheretur, inter alia foeda quae
propter fidem erga vos in civitatem nostram facinora edidit, thesauros quoque
Proserpinae intactos ad eam diem spoliavit, atque ita pecunia in naves imposita
ipse terra est profectus. 5. Quid
ergo evenit, patres conscripti? Classis postero die foedissima tempestate
lacerata, omnesque naves quae sacram pecuniam habuerunt in litora nostra
eiectae sunt. 6. Qua tanta clade
edoctus tandem deos esse superbissimus rex pecuniam omnem conquisitam in
thesauros Proserpinae referri iussit. Nec tamen illi unquam postea prosperi
quicquam evenit, pulsusque Italia ignobili atque inhonesta morte, temere nocte
ingressus Argos, occubuit. Si
tratta di uno dei numerosi luoghi in cui Livio utilizza come paradigma eventi
relativi alla campagna militare di Pirro, così vedi R. Roth, Pyrrhic
paradigms: Ennius, Livy, and Ammianus Marcellinus, in Hermes 138, 2010, 171 ss., il quale sottolinea che
in questo caso «shows a group of Romans in a distinctly bad light: these
soldiers maltreat an allied city - a Greek one, at that - and, what is worse,
commit an outrage against the goddess by looting her shrine. Although Pyrrhus’ conduct was not much
better, he still tried to expiate it by returning the loot to the goddess,
which Pleminius’ soldiers fail to do. Although the Senate eventually does its
best to atone for the sacrilege on behalf of the state» (187).
[234] Livius 29.18.7 s.: Haec
cum audisset legatus vester tribunique militum, et mille alia quae non augendae
religionis causa <ficta>, sed praesenti deae numine saepe comperta nobis
maioribusque nostris referebantur, 8. ausi
sunt nihilominus sacrilegas admovere manus intactis illis thesauris et nefanda
praeda se ipsos ac domos contaminare suas et milites vestros.
[235] Livius 29.18.9 s.: Quibus
per vos fidemque vestram, patres conscripti, priusquam eorum scelus expietis,
neque in Italia neque in Africa quicquam rei gesseritis, ne quod piaculi
commiserunt non suo solum sanguine sed etiam publica clade luant. 10. Quamquam ne
nunc quidem, patres conscripti, aut in ducibus aut in militibus vestris cessat
ira deae.
[236] Livius 29.19.1 ss. Così F. De Martino, Storia
della costituzione romana, II, cit., 401 nt. 15.
[237] Livius 29.19.6-8: Locrensibus
coram senatum respondere quas iniurias sibi factas quererentur, eas neque
senatum neque populum factas velle; 7. viros
bonos sociosque et amicos eos appellari, liberos coniuges quaeque alia erepta
essent restitui. Pecuniam quanta ex thesauris Proserpinae sublata esset
conquiri duplamque pecuniam in thesauros reponi, 8. et sacrum piaculare fieri ita ut prius ad collegium pontificum referretur,
quod sacri thesauri moti aperti violati essent, quae piacula, quibus dis,
quibus hostiis fieri placeret. Nel discorso di Fabio appare evidente come
il ricorso al collegio pontificale nascesse dalla necessità di fissare le
cerimonie per espiare questa grave violazione, unitamente all’esigenza di
stabilire a quali dèi indirizzare i riti e quali hostiae sacrificare; tali fattori si collegano all’elenco di
competenze pontificali offerto da Livius 1.20.5-7: [Numa] Pontificem deinde Numam Marcium Marci filium ex
patribus legit eique sacra omnia exscripta exsignataque attribuit, quibus
hostiis, quibus diebus, ad quae templa sacra fierent, atque unde in eos sumptus
pecunia erogaretur. 6. Cetera quoque omnia publica privataque sacra
pontificis scitis subiecit, ut esset quo consultum plebes veniret, ne quid
divini iuris neglegendo patrios ritus peregrinosque adsciscendo turbaretur;
7. nec caelestes modo caerimonias, sed iusta quoque funebria placandosque
manes ut idem pontifex edoceret, quaeque prodigia fulminibus aliove quo visu
missa susciperentur atque curarentur.
L. Franchini, Aspetti giuridici, cit., 279 ss., manifesta alcune perplessità intorno
alla proposta di Fabio di rinviare ai pontefici la questione, poiché menziona
“una pluralità di dei”; secondo l’A., Livio, o la sua fonte, intendeva
«significare che oggetto dell’esame dei sacerdoti sarebbe stata non solo la
spoliazione del tempio di Proserpina, ma anche quella dei templi di altri dei
(di cui in effetti si era avuta notizia e di cui si sarebbe potuta avere forse
conferma)», anche se rileva come «ogni preoccupazione sembra poi in effetti
concentrarsi sulla sola Proserpina».
[238] A.J. Toynbee, L’eredità di Annibale,
II, cit., 765.
[239] C. Venturini, La repressione, cit., 37, afferma
l’estraneità formale all’inchiesta dei magistrati plebei, anche se la presenza
dei tribuni a fianco della commissione senatoria «sottolinea la natura
eccezionale e composita dell’organo istituito e, mentre pone in risalto il
compromesso politico che ne sta alla base, mostra la completa indipendenza tra
la reintegrazione dei danneggiati ed i procedimenti a carico dei colpevoli. Le
due esigenze vengono infatti realizzate attraverso l’intervento di organi dello
Stato romano del tutto distinti sul piano costituzionale, quali il senato e i
tribuni» (51). Rileva l’importanza del coinvolgimento dei magistrati della
plebe in questa faccenda, ma sotto un’altra prospettiva, anche F. De Martino, Storia della costituzione romana, II, cit., 248: «ai tribuni si dà
l’incarico di accompagnare la legazione inviata dal Senato contro P. Scipione a
causa del suo comportamento e di quello delle sue truppe, poco conforme alla
disciplina militare ed al costume romano. Ai tribuni si dà anche un edile della
plebe, il quale nell’ipotesi di rifiuto di Scipione di obbedire all’ingiunzione
del Senato, eseguisse la materiale coercitio
e lo riconducesse a Roma in virtù della sacrosanta potestas. In questi fatti non solo è importante la posizione dei
tribuni, che sono gli strumenti della volontà del Senato, ma ancora più
importante dal lato propriamente giuridico è il potere ad essi riconosciuto di
agire fuori del pomerium ed
esercitare con l’antico vigore il potere di coercitio
per mezzo degli edili, i quali, data la gravità del caso, sostituivano il
semplice viator».
[240] Livius 29.20.9. Diodorus Siculus 27.5 s., dopo aver
riferito delle accuse rivolte a Scipione nel consesso senatorio, parla
dell’invio da parte del senato soltanto di due tribuni e di un edile della
plebe, allo scopo di portare Scipione a Roma qualora fosse stato riconosciuto
colpevole.
[241] B. Santalucia, Longius ab urbe mille passuum, cit., 200
(cfr. Id., Diritto e processo penale nell’antica Roma, 2ª ed., Milano 1998, 105). Vedi anche C. Venturini, La repressione, cit., 50 s., per cui la commissione d’inchiesta
«appare istituita sulla base di quel potere di direzione politico-militare e di
sorveglianza che al senato è unanimemente riconosciuto e che poteva senza
dubbio esplicarsi sia con istruzioni ai magistrati che con l’invio di
commissioni incaricate di compiere accertamenti».
[242] Livius 29.20.10: Ad
collegium pontificum relatum de expiandis quae Locris in templo Proserpinae
tacta ac violata elataque inde essent.
Un altro esempio di doglianze da parte di legazioni
straniere presso il senato romano per la spoliazione di templi si ha nel 187
a.C., in relazione a fatti accaduti due anni prima ad Ambracia (Livius
38.43.2-6); anche in questo caso fu coinvolto il collegio dei pontefici: signa aliaque ornamenta quae quererentur ex
aedibus sacris sublata esse, de iis cum M. Fulvius Romam revertisset placere ad
collegium pontificum referri (38.44.5). Per l’episodio vedi, ad es., A.J. Toynbee, L’eredità di Annibale, II, cit., 775 ss., il quale ne evidenzia le
implicazioni politiche: «Come si era verificato con quello del governo locrese
nel 204 a.C., anche le lamentele presentate al governo romano da quello
ambraciota non vennero trattate secondo il loro merito, ma piuttosto usate come
munizioni per portare avanti la lotta intestina in seno alla classe di governo
romana».
[243] Livius 29.21.4: Praetor
legatique Locros profecti primum, sicuti mandatum erat, religionis curam
habuere; omnem enim sacram pecuniam, quaeque apud Pleminium quaeque apud
milites erat, conquisitam cum ea quam ipsi se cum attulerant in thesauris
reposuerunt ac piaculare sacrum fecerunt.
Nel 200 a.C., il senato, avuto conoscenza di un furto
compiuto sempre a danno del tesoro di Proserpina a Locri, dispose di seguire
come esempio la procedura stabilita pochi anni prima (Livius 31.12.1-4).
Secondo F. De Martino, Storia della costituzione romana, II,
cit., 202 s., l’intervento senatorio fu dettato dal fatto che i “furti
sacrileghi” di cui si trattò nella quaestio,
«minacciavano di turbare i rapporti di Roma con Locri». Per questa vicenda
rimando per tutti a L. Franchini, Aspetti giuridici, cit., 295 ss. (fonti
e bibliografia ivi).
[244] Livius 29.21.7 s.: Locrensium
deinde contionem habuit, atque iis libertatem legesque suas populum Romanum
senatumque restituere dixit; si qui Pleminium aliumve quem accusare vellet,
Regium se sequeretur. 8. Si de P.
Scipione publice queri vellent ea quae Locris nefarie in deos hominesque facta
essent iussu aut voluntate P. Scipionis facta esse, legatos mitterent Messanam;
ibi se cum consilio cogniturum.
[245] Del resto,come evidenzia G. Brizzi, Scipione e
Annibale, cit., 153, il pretore era cugino di Scipione «e appartenente per
tradizione alla sua pars».
[246] Ipotizza il coinvolgimento di Scipione A.J. Toynbee, L’eredità di Annibale, II, cit., 768 ss., per cui il tesoro del
tempio di Proserpina venne utilizzato dal generale romano per finanziare la
spedizione in Africa.
[247] L’utilizzo di damnare
nel testo liviano ha sollevato alcune questioni ancora aperte in letteratura,
poiché se il verbo sembrerebbe alludere a una condanna emanata dalla
commissione senatoria, al contempo stride con la notizia dell’invio a Roma di
Pleminio e dei suoi complici per il giudizio popolare. Sostengono l’assenza di
una sentenza capitale da parte della commissione, priva di specifica
autorizzazione in tal senso, ad es.: C. Venturini,
La repressione, cit., 42 ss.; Id., Processo penale e società politica nella Roma repubblicana, Pisa
1996, 89 s. nt. 11, 296 nt. 22 (studi altresì pubblicati con il titolo
rispettivamente di ‘Quaestiones ex
senatus consulto’, in Aa.Vv., Legge e società nella repubblica romana,
II, a cura di F. Serrao, Napoli 2000, 211 ss., e Il civis tardo repubblicano
tra quaestiones e iudicia populi,
in Aa.Vv., Praesidia libertatis. Garantismo e sistemi processuali
nell’esperienza di Roma repubblicana, cit., 85 ss.); Y. Rivière, Carcer et
uincula, cit., 603 ss., spec. 606; B. Santalucia,
Longius ab urbe mille passuum,
cit., 197 ss. Altri autori, invece, sulla base delle singole prospettive
generali di cui non posso qui dar conto per economia del discorso, sostengono
sia l’effettiva condanna da parte del pretore, sulla base del proprio imperium, sia il ricorso alla provocatio ad populum dopo la traduzione
dei condannati a Roma, ad es.: Th.
Mommsen, Römisches Staatsrecht,
3ª ed., II.1, Leipzig 1887, 116 s. (= Le
droit public romain, III, tr. fr. di P.F. Girard, Paris 1893 [rist. anast.,
1984], 132 s.); Id., Römisches Strafrecht, cit., 30 ntt. 2 e
3 (= Le droit pénal romain, I, cit.,
34 ntt. 2 e 3); F. De Martino, Storia della costituzione romana, II,
cit., 203; A.W. Lintott, Provocatio, cit., 241 s.; M. Balzarini, La pena de encarcelamiento hasta Ulpiano, in Seminarios Complutenses de Derecho Romano, I. Cuestiones de Jurisprudencia y Proceso, Madrid 1990, 225; P. Pavón, El poenae exemplum, cit., 207;
L. Franchini, Aspetti giuridici,
cit., 269 nt. 551.
[248] Secondo J. Scheid,
Le délit religieux, cit., 139, Pleminio restò “inexpiable”, mentre il suo
sacrilegio venne emendato dalla comunità romana: «L’expiation ne concerne donc
pas Pleminius, mais un acte dont l’agent ne peut être que la communauté
imprudente et donc expiable».
[249] In tal senso L. Franchini,
Aspetti giuridici, cit., 273
ss. (a cui rinvio per la dottrina e fonti). Mostra, invece, i risvolti politici A.J. Toynbee, L’eredità di Annibale, II, cit., 766, secondo cui in questo periodo
i senatori «potevano già essere troppo smaliziati» per temere una vendetta di
Persefone: «Essi potevano, tuttavia, aver conservato ancora qualche residuo
della loro fede ancestrale nell’esistenza e potenza della dea; e ad ogni modo
vi erano diverse ragioni per cui non si poteva lasciare senza riparazione il
torto fatto alla Persefone locrese, sia che essa fosse per loro una realtà
vivente sia che fosse un fantasma immaginario. [...] Qualunque disastro, o
anche disgrazia di secondaria importanza, che avrebbe potuto colpire la
comunità romana mentre Persefone stava ancora aspettando soddisfazione, sarebbe
stato certamente interpretato, dalla gran massa del Popolo romano, come un
castigo di Persefone per un atto di sacrilegio ai suoi danni ancora inespiato.
Inoltre, se il governo romano avesse permesso che un santuario famoso come
quello della dea venisse saccheggiato senza alcuna riparazione nel territorio
di uno degli alleati di Roma, cosa avrebbero dovuto aspettarsi da Roma gli
altri suoi alleati?».
[250] Livius 29.21.9-12: Locrenses praetori legatisque, senatui ac populo Romano gratias
egerunt: se ad Pleminium accusandum ituros. 10. Scipionem, quamquam parum iniuriis civitatis suae doluerit, eum esse
virum quem amicum sibi quam inimicum malint esse; pro certo se habere neque
iussu neque voluntate P. Scipionis tot tam nefanda commissa, 11. sed aut Pleminio nimium, [aut] sibi parum creditum,
aut natura insitum quibusdam esse ut magis peccari nolint quam satis animi ad
vindicanda peccata habeant. Et praetori et consilio haud mediocre onus demptum
erat de Scipione cognoscendi. 12. Pleminium
et ad duo et triginta homines cum eo damnaverunt atque in catenis Romam
miserunt.
[251] Secondo B.
Santalucia (v. Processo penale
(diritto romano), in Enciclopedia del
diritto, 36, Milano 1987, 338 e
nt. 124, ora in Id., Studi di diritto penale romano, Roma
1994, 186 e nt. 124; Longius ab urbe
mille passuum, cit., 199 s.), il rinvio al giudizio popolare fu dettato da
motivi di ordine politico, poiché il caso aveva ripercussioni sull’opinione
pubblica.
[252] Livius 29.22.9: Mortuus
tamen prius in vinclis est quam iudicium de eo populi perficeretur.
Tuttavia, sussistono differenti varianti intorno alla morte del legato: Livius
34.44.6-8: ... Q. Pleminius, qui propter
multa in deos hominesque scelera Locris admissa in carcerem coniectus fuerat, 7. comparaverat homines qui pluribus simul
locis urbis nocte incendia facerent, ut in consternata nocturno tumultu
civitate refringi carcer posset. 8.
Ea res indicio consciorum palam facta delataque ad senatum est. Pleminius in
inferiorem demissus carcerem est necatusque (cfr. 29.22.10). Secondo
Appianus, Hann. 55, i Romani
uccisero Pleminio e i suoi complici in carcere, e i beni di Pleminio, a
cui si supplì con sostanze pubbliche nella misura di ciò che mancava, furono consacrati a Persefone.
Diodorus Siculus 27.6 s. fa ugualmente riferimento alla consacrazione dei beni,
ma narra, invece, che fu lo stesso Scipione a far arrestare Pleminio e a
inviarlo a Roma, dove morì in carcere.
[253] Valerius Maximus 1.1.21.
Secondo I.K. Köster, How to Kill a Roman Villain, cit., 220, la morte di Pleminio
mostra «an ideal vision of Roman justice, one where gods and men work
together to deal with miscreants». Nelle fonti, nonostante alcune differenze
nella narrazione si rinviene il medesimo messaggio: «the legate posed a
significant threat to Rome’s image and relationship
with the gods, but he was dealt with by a co-operation of Proserpina and Roman
authorities. Instead of presenting an uncomfortable vision of Roman abuses of
power, the variants of Pleminius’ death transform this episode into a moment of
triumph for Rome’s expanding empire».
[254] Per la vita e il cursus
honorum di Flacco: [F.] Münzer, v. Fulvius 61, in P.-W., 7.1, 1910, coll. 246 ss.; T.R.S.
Broughton, The
Magistrates, I, cit., 375, 382, 385, 389, 391 s., 404.
[255] Livius 40.40.10: Tunc vero
Celtiberi omnes in fugam effunduntur, et imperator Romanus, aversos hostes
contemplatus, aedem Fortunae equestri Iovique optimo maximo ludos vovit.
Divenuto console, Flacco ... priusquam
ullam rem publicam ageret liberare et se et rem publicam religione votis
solvendis dixit velle: 9. vovisse,
quo die postremum cum Celtiberis pugnasset, ludos Iovi optimo maximo et aedem
equestri Fortunae sese facturum; in eam rem sibi pecuniam conlatam esse ab
Hispanis. 10. Ludi
decreti, et ut duumviri ad aedem locandam crearentur (40.44.8-10).
Per il rapporto tra la benevolenza divina, il successo
bellico e i voti compiuti dai comandanti militari per la vittoria rimando ad A. Valvo, Il bellum iustum e i generali
romani nel III e II secolo a.C., in Seminari
di storia e di diritto, III. «Guerra
giusta»? Le metamorfosi di un concetto antico, cit., 77 ss.
[256] In tal senso F. Costabile,
Istituzioni e forme costituzionali, cit., 88 s.
[257] Livius 42.3.1-5: Eodem anno aedis Iunonis Laciniae detecta. Q. Fulvius Flaccus censor
aedem Fortunae equestris, quam in Hispania praetor bello Celtiberico voverat,
faciebat enixo studio ne ullum Romae amplius aut magnificentius templum esset. 2. Magnum
ornatum ei templo ratus adiecturum si tegulae marmoreae essent, profectus in
Bruttios aedem Iunonis Laciniae ad partem dimidiam detegit, id satis fore ratus
ad tegendum quod aedificaretur. 3. Naves
paratae fuerunt quae tollerent atque asportarent, auctoritate censoria sociis
deterritis id sacrilegium prohibere. 4. Postquam
censor rediit, tegulae expositae de navibus ad templum portabantur. Quamquam
unde essent silebatur, non tamen celari potuit. 5. Fremitus igitur
in curia ortus est; ex omnibus partibus postulabatur ut consules eam rem ad
senatum referrent.
Per l’episodio,
vedi, ad es.: A.J. Toynbee, L’eredità di Annibale, II, cit., 775
ss.; J. Scheid, Le délit religieux, cit., 140; M. Jaeger, Livy,
Hannibal’s Monument, and the Temple of Juno at Croton, in Transactions of the American Philological
Association 136,
2006, 404 ss.; J. Wells, Impiety in the
Middle Republic, cit., 229 ss., spec. 236 ss.
[258] Vedi quanto dice sul tempio Livius 24.3.3-7: Sex milia aberat ab urbe nobile templum,
ipsa urbe [erat] nobilius, Laciniae Iunonis, sanctum omnibus circa populis.
4. Lucus ibi frequenti silva et proceris
abietis arboribus saeptus laeta in medio pascua habuit, ubi omnis generis
sacrum deae pecus pascebatur sine ullo pastore; 5. separatimque greges sui cuiusque generis nocte remeabant ad stabula,
numquam insidiis ferarum, non fraude violati hominum. 6. Magni igitur fructus ex eo pecore capti,
columnaque inde aurea solida facta et sacrata est; inclitumque templum divitiis
etiam, non tantum sanctitate fuit. 7. Ac
miracula aliqua adfingunt, ut plerumque tam insignibus locis. Fama est aram
esse in vestibulo templi, cuius cinerem nullo umquam move<ri> vento.
[259] Livius 42.3.5-11: Ut vero accersitus in curiam censor venit, multo infestius singuli
universique praesentem lacerare: 6. templum
augustissimum regionis eius, quod non Pyrrhus non Hannibal violassent, violare
parum habuisse nisi detexisset foede ac prope diruisset. 7. Detractum culmen templo, nudatum tectum
patere imbribus putrefaciendum. Id censorem moribus regendis creatum? Cui sarta
tecta exigere sacris publicis et loca tuenda more maiorum traditum esset, 8.
eum per sociorum urbes diruentem templa
nudantemque tecta aedium sacrarum vagari! Et quod, si in privatis sociorum
aedificiis faceret, indignum videri posset, idem immortalium demolientem
facere, 9. et obstringere religione
populum Romanum, ruinis templorum templa aedificantem, tamquam non iidem ubique
di immortales sint, sed spoliis aliorum alii colendi exornandique! 10. Cum priusquam referretur appareret quid
sentirent patres, relatione facta in unam omnes sententiam ierunt, ut eae
tegulae reportandae in templum <locarentur>, piaculariaque Iunoni
fierent. 11. Quae ad religionem
pertinebant cum cura facta; tegulas relictas in area templi, quia reponendarum
nemo artifex inire rationem potuerit, redemptores nuntiarunt.
[260] Livius
42.28.11 s.: Hic foeda morte periit. Ex duobus filiis eius, qui tum
in <Il>lyrico militabant, nuntiatum alterum <---, alterum> gravi et
periculoso morbo aegrum esse. 12.
Obruit
animum simul luctus metusque; mane ingressi cubiculum servi laqueo dependentem
invenere. Erat opinio post censuram minus compotem fuisse sui; volgo Iunonis
Laciniae iram ob spoliatum templum alienasse mentem ferebant.
Vedi anche Valerius
Maximus 1.1.20: Q. autem Fulvius Flaccus inpune non tulit, quod in
censura tegulas marmoreas ex Iunonis Laciniae templo in aedem Fortunae
equestris, quam Romae faciebat, transtulit: negatur enim post hoc factum mente
constitisse. Quin etiam per summam aegritudinem animi expiravit, cum ex duobus
filiis in Illyrico militantibus alterum decessisse, alterum graviter audisset
adfectum. Cuius casu motus senatus tegulas Locros reportandas curavit
decretique circumspectissima sanctitate inpium opus censoris retexuit (per questa testimonianza rimando a
H.-F. Mueller, Vita, Pudicitia, Libertas: Juno, Gender, and
Religious Politics in Valerius Maximus, in Transactions
of the American Philological Association 128, 1998, 247 ss.).
[261] D.
11.7.36 (Pomponius libro 26 ad Quintum Mucium): Cum loca capta sunt ab hostibus, omnia desinunt
religiosa vel sacra esse, sicut homines liberi in servitutem perveniunt: quod
si ab hac calamitate fuerint liberata, quasi quodam postliminio reversa
pristino statui restituuntur. Cfr., anche D. 47.12.4 (Paulus libro 27 ad edictum praetoris):
Sepulchra
hostium religiosa nobis non sunt. Secondo P. de Francisci, Primordia civitatis,
cit., 274 nt. 535, quanto previsto dal quasi
postliminium sarebbe “una regola recente”.
[262]
Sulla classificazione giuridica delle res divini iuris si deve richiamare innanzitutto Gaius, Inst. 2.3-8: Divini iuris sunt veluti res sacrae et
religiosae. 4. Sacrae sunt, quae diis
superis consecratae sunt; religiosae, quae diis Manibus relictae sunt. 5. Sed sacrum quidem hoc solum existimatur,
quod ex auctoritate populi Romani consecratum est, veluti lege de ea re lata
aut senatus consulto facto. 6. Religiosum
vero nostra voluntate facimus mortuum inferentes in locum nostrum, si modo eius
mortui funus ad nos pertineat. 7. Sed
in provinciali solo placet plerisque solum religiosum non fieri, quia in eo
solo dominium populi Romani est vel Caesaris, nos autem possessionem tantum et
usumfructum habere videmur; utique tamen, etiamsi non sit religiosum, pro
religioso habetur: item quod in provinciis non ex auctoritate populi Romani
consecratum est, proprie sacrum non est, tamen pro sacro habetur. 8. Sanctae quoque res, velut muri et portae,
quodam modo divini iuris sunt (in parte in D. 1.8.1 pr.); vedi ancora: D.
1.8.6.2-4 (Marcianus libro tertio institutionum); D. 1.8.8 (Marcianus libro quarto regularum); D. 1.8.9 (Ulpianus libro 68 ad edictum); I. 2.1.7-10.
La tripartizione di Gaio in realtà non rispondeva ai criteri esistenti in
periodo arcaico, in cui i termini sacer,
sanctum e religiosum presentavano accezioni differenti (per tali concetti
segnalo: R. Fiori, Homo sacer, cit., 24 ss.; Id., Cap. 6: Sacer e sanctus: quali rapporti?, in Autour de la notione de sacer, dir. Th. Lanfranchi, Rome 2017, http://books.openedition.org/efr/3374; F.
Sini, Sanctitas:
cose, Dèi, (uomini). Premesse per una ricerca sulla santità nel diritto romano, in Diritto @ Storia 1, 2002, http://www.dirittoestoria.it/lavori/Contributi/Sini%20Sanctitas.htm
; R. Del Ponte, Santità delle mura e sanzione divina, in
Diritto @ Storia 2, 2004, http://www.dirittoestoria.it/3/TradizioneRomana/Del-Ponte-Santit%E0-delle-mura.htm
), ma è frutto di successiva riflessione teologica pontificale. Per questo
motivo nelle fonti spesso questi termini sono utilizzati come sinonimi, vedi
spec. Macrobius, Sat. 3.3.5: Sanctum
est, ut idem Trebatius libro decimo Religionum refert, interdum idem quod
sacrum idemque quod religiosum, interdum aliud, hoc est nec sacrum nec
religiosum, est (per il frammento Ph.E. Huschke, Iurisprudentiae
anteiustinianae, cit., 101;
O. Lenel, Palingenesia Iuris Civilis, II, Lipsiae 1889 [rist., a cura di L.
Capogrossi Colognesi, prefazione di M. Talamanca, Roma 2000], col. 343; F.P. Bremer, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I. Liberae rei publicae.
Iuris consulti, Lipsiae 1896, 406):
F. Fabbrini, v. “Res divini
iuris”, in Novissimo Digesto Italiano,
15, Torino 1968, 519 ss., spec. 522 s., 544; Id.,
Dai «religiosa loca» alle «res religiosae», in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano 73, 1970, 197 ss. Le classificazioni
giuridiche sollevano in letteratura questioni ancora aperte, specie in materia
di res sanctae, su cui vedi da ultima E. Tassi Scandone, Quodammodo divini iuris. Per una storia
giuridica delle res sanctae, Napoli 2013.
[263] Per il giurista vedi, ad es.: M. Talamanca, Trebazio
Testa fra retorica e diritto, in Questioni
di giurisprudenza tardo-repubblicana. Atti di un seminario, Firenze 27-28
maggio 1983, a cura di G.G. Archi, Milano 1985, 29 ss.; M. d’Orta, La giurisprudenza tra Repubblica e Principato. Primi studi su C.
Trebazio Testa, Napoli 1990.
[264] Vedi: Ph.E. Huschke, Iurisprudentiae
anteiustinianae, cit., 100;
O. Lenel, Palingenesia Iuris Civilis, II, cit., col. 343; F.P. Bremer, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, cit., 404 s.
[265] Macrobius, Sat. 3.3.4 (testo supra nt. 218). Questo significato si coglie nell’invocazione di
Turno in Vergilius, Aen. 12.777-779: ‘Faune, precor, miserere’ inquit ‘tuque
optima ferrum / Terra tene, colui vestros si semper honores, / quos contra
Aeneadae bello fecere profanos’; allo stesso Macrobio, nel proseguo del
paragrafo, non era sfuggito che Virgilio avesse colto tale accezione del
termine (... quod apertissime poeta
servavit cum ait, Faune precor miserere ... unde ostendit proprie profanatum,
quod ex sacro promiscuum humanis actibus commodatum est). Cfr. anche il
commento di Servius Dan., Verg. Aen. 12.779:
Bello
fecere profanos ‘profanum’ proprie dicitur quod ex religiosa re in
hominum usum convertitur, ut hic plenissime ostenditur: dicens enim Turnus
‘colui vestros si semper honores, quos contra Aeneadae bello facere profanos’
(ostendit) et sibi religiosam fuisse arborem, et a Troianis in usum communem
fuisse praesumptam: nam ex sua persona poeta ait ‘forte sacer Fauno foliis
oleaster amaris hic steterat nautis olim’ et subiunxit ‘sed stirpem Teucri
nullo discrimine sacrum s.’ at postea dicendo ‘bello fecere profanos’ docuit
‘profanum’ esse quod a religione in usum hominum transiit. Sacro profanum
contrarium, ut festo profestum, fasto nefastum. Ergo non omne quod sacrum non
sit, profanum, sed quod sacrum fuerit et esse desierit.
[266] Livius 5.50.1 s.: Omnium
primum, ut erat diligentissimus religionum cultor, 2. quae ad deos inmortalis pertinebant, rettulit et senatus consultum
facit, fana omnia, quoad ea hostis possedisset, restituerentur expiarenturque
expiatioque eorum in libris per duumviros quaereretur.
[267] Così A. Bouché-Leclercq, Les pontifes dans l’ancienne Rome, cit., 145: «il suffisait de
rétablir les choses dans l’état primitif et d’offrir aux dieux outragés une
expiation destinée aussi bien à laver la faute involontaire de leurs défenseurs
malheureux qu’à purifier le sol de la souillure imprimée par l’invasion». Vedi
a riguardo le considerazioni di A.
Mutel, Réflexions, cit., 407: «Les dieux romains suivent
la condition heureuse ou malheureuse de Rome. Ils ne peuvent, sans trahir,
composer avec le vainqueur et continuer à résider en des lieux que la présence
de l’ennemi suffit à souiller. Mais, dès que l’occupation cesse, ils rentrent
en possession de leur patrimoine. En effet, d’après la législation romaine, les
droits ne s’éteignaient qu’à la suite de l’accomplissement de formes légales;
la conquête n’avait donc pour conséquence que d’en enlever l’exercice et d’en
suspendre l’effet». Secondo l’A., il postliminium
«ne créait pas un état nouveau; elle avait pour but de consacrer le retour à
l’ancien état de choses, de marquer la fin du statut intérimaire et d’indiquer
le moment précis où il finissait»; per questo motivo non era necessaria una
nuova consacrazione ed era sufficiente procedere a una cerimonia espiatoria. Contra P. de Francisci, Primordia civitatis, cit., 274 e nt.
536, il quale parla a riguardo di riconsacrazione.
[268] Livius 5.50.3: cum
Caeritibus hospitium publice fieret, quod sacra populi Romani ac sacerdotes
recepissent beneficioque eius populi non intermissus honos deum inmortalium
esset. In quel grave frangente si era infatti stabilito che flaminem sacerdotesque Vestales sacra
publica a caede, ab incendiis procul auferre nec ante deseri cultum deorum,
quam non superessent, qui colerent (5.39.11).
[269] Livius 5.50.4: ludi
Capitolini fierent, quod Iuppiter optimus maximus suam sedem atque arcem populi
Romani in re trepida tutatus esset ... L’arx Capitoliumque, sedes deorum (così Livius 5.39.12), furono la
roccaforte durante l’assedio, infatti, quando i Galli varcarono le porte di
Roma, ... cum defendi urbem posse tam
parva relicta manu spes nulla esset, placuit cum coniugibus ac liberis
iuventutem militarem senatusque robur in arcem Capitoliumque concedere armisque et frumento ..., in
modo che da lì si difendessero ... deos
hominesque et Romanum nomen ... (5.39.9 s.). Cfr. Varro, De ling. Lat. 5.151: Arx ab arcendo, quod is locus munitissimus
urbis, a quo facillime possit hostis prohiberi. Secondo
M. Sordi, Il Campidoglio e
l’invasione gallica del 386 a.C., in Aa.Vv., I santuari e la guerra nel mondo classico [Contributi dell’Istituto di storia antica 10], a cura
di M. Sordi, Milano 1984, 83 ss., la tradizione per cui «il Campidoglio fu
difeso ad oltranza» in questa occasione e anche «l’idea che il Campidoglio fu
difeso in quanto sedes deorum, pegno
della sopravvivenza di Roma come comunità sacra e garanzia della sua durata»
sarebbero frutto dell’“aggiustamento della verità” di Fabio Pittore, mentre
«l’invio a Cere dei sacerdoti e delle Vestali è uno dei dati più antichi e
sicuri della tradizione».
[270] Lo stesso Camillo affermava Et cum victoribus Gallis, capta tota urbe Capitolium tamen atque arcem
diique et homines Romani tenuerint et ibi habitaverint ... (Livius 5.51.3).
[271] Livius 5.51.9 s.: Adversae
deinde res admonuerunt religionum ruina rerum nostrarum alia terra celavimus,
alia avecta in finitimas urbes amovimus ab hostium oculis; deorum cultum
deserti ab dis hominibusque tamen non intermisimus. 10. Reddidere igitur patriam et victoriam et
antiquum belli decus amissum et in hostes, qui caeci avaritia in pondere auri
foedus ac fidem fefellerunt, verterunt terrorem fugamque et caedem. Esemplare
fu la condotta del giovane Fabio, il quale dal Campidoglio attraversò le fila
nemiche per celebrare il culto della propria gens nel Quirinale (ad es.:
Livius 5.46.1-3, Valerius Maximus 1.1.11).
[272] Per l’evocatio
segnalo, ex multis: J. Marquardt, Le culte chez les Romains, I, cit., 25 s., 42; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, cit., 44, 383 s.; Id., v. Evocatio (deorum), in P.-W.,
6.1, 1907, coll. 1152 s.; V. Basanoff,
Evocatio. Étude d’un rituel militaire romain,
Paris 1947; P. Bruun, Evocatio
deorum: some notes on the romanization of Etruria, in Myth of the State. Based on
papers read at the Symposium on the Myth of the State held at Åbo, 6th-8th
september 1971, a cura di H. Biezais, Stockholm 1972, 109 ss.; G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., 425 ss.; Id., L’oubli de l’homme et l’honneur des dieux,
in Id., L’oubli de l’homme et l’honneur des dieux et autres essais. Vingt-cinq
esquisses de mythologie (51-75), Paris 1985, 135 ss.; J. Le Gall, «Evocatio»,
in Mélanges offerts à J. Heurgon. L’Italie préromaine et la Rome
républicaine, I, cit., 519
ss.; R. Schilling, Le carmen de l’evocatio, in Varron grammaire
antique et stylistique latine. Recueil offert à J. Collart, Paris 1978, 181
ss.; J. Alvar, La fórmula de
la evocatio y su presencia en contextos desacralizadores, in Archivio
español de arqueología 57, 1984, 143 ss.; Id.,
Matériaux pour l’étude de la formule sive deus, sive dea, in Numen 32.2,
1985, 236 ss.; N. Berti, Scipione
Emiliano, Caio Gracco e l’«evocatio» di “Giunone” da Cartagine, in Aevum
64, 1990, 69 ss.; J. Rüpke, Domi militiae. Die religiöse Konstruktion
des Krieges in Rom, Stuttgart 1990, 162 ss.; A. Blomart, Die evocatio und der Transfer fremder
Götter von der Peripherie nach Rom, in Römische Reichsreligion und
Provinzialreligion, a cura di H. Cancik –
J. Rüpke, Tübingen 1997, 99 ss.; F.
Sini, Sua cuique civitati religio,
cit., 54 ss.; G. Ferri, L’evocatio romana - I problemi, in Studi e Materiali di Storia delle Religioni 72
(30 n.s.), 2006, 205 ss.; Id., Una testimonianza epigrafica dell’evocatio? Su un’iscrizione di Isaura Vetus, in Aa.Vv., Atti della Giornata di Studi per L. Gasperini (Roma, 5
giugno 2008), Tivoli 2010, 183 ss.; Id., Tutela urbis. Il
significato e la concezione della divinità tutelare cittadina nella religione
romana, Stuttgart 2010; L. Sacco, Nota
su alcuni aspetti storico-religiosi dell’‘evocatio’, in Mythos 5, 2011, 131 ss. Vedi anche J. S. Kloppenborg,
Evocatio Deorum and the Date of Mark,
in Journal of Biblical Literature
124, 2005, 419 ss.
[273] In tal senso vedi, ad es.: R. Turcan, Les cultes
orientaux dans le monde romain, Paris 1989, 19: «la procédure de l’euocatio allait jusqu’à annexer les
dieux de l’ennemie au panthéon national»; S. Ribichini, Annibale e i suoi dèi, cit., 28: «accogliere divinità straniere
equivale, in certa misura, a riconoscere l’esistenza di esseri sovrumani
venerati da altri popoli, che possono completare le personalità di una
determinata tradizione religiosa». In merito
all’importanza del rito si
devono richiamare le illuminanti parole di F. Sini,
Diritto
e pax deorum in Roma antica, cit.: «proprio le evocationes costituiscono
una delle prove più significative della costante apertura religiosa verso
l’esterno, insita nella concezione di pax
deorum elaborata dalla teologia e dal
diritto dei sacerdoti romani».
[274] Festus, De verb.
sign. 268 L.: Peregrina sacra appellantur, quae aut evocatis dis in oppugnandis urbibus
Romam sunt <conata>, aut quae ob quasdam
religiones per pacem sunt petita, ut ex Phrygia Matris Magnae, ex Graecia
Cereris, Epidauro Aesculapi: quae coluntur eorum more, a quibus sunt accepta; qui si distinguono due modi per recepire dentro la civitas Romana i culti stranieri,
riportando l’evocatio come rito
celebrato nel periodo di guerra.
[275] Questa convinzione si evince, ad esempio, dall’episodio
avvenuto quando, dopo la
sollevazione di Enna contro i Romani, Lucio Pinario, preposto al presidio della
città, nel 214 a.C., ordinò ai soldati il massacro, e si rivolse agli dèi
locali per chiederne protezione (Livius 24.38.8: Vos, Ceres mater ac
Proserpina, precor, ceteri superi infernique di, qui hanc urbem, hos sacratos
lacus lucosque colitis, ut ita nobis volentes propitii adsitis, si vitandae,
non <in>ferendae fraudis causa hoc consilii capimus).
[276] Per il significato di nefas e di fas nel
linguaggio giuridico-religioso romano, rimando sia a H. Fugier, Recherches, cit., 127 ss., sia a F. Sini: “Fas et iura sinunt” (Virg., ‘Georg.’ 1, 269). Contributo allo studio
della nozione romana di ‘fas’, I, Sassari 1984; Bellum nefandum, cit., 83 ss.; Sua
cuique civitati religio, cit., 268 ss.; Bellum, fas, nefas, cit.
[277] Macrobius, Sat. 3.9.2: Constat enim omnes urbes in alicuius dei esse tutela, moremque
Romanorum arcanum et multis ignotum fuisse ut, cum obsiderent urbem hostium
eamque iam capi posse confiderent, certo carmine evocarent tutelares deos; quod
aut aliter urbem capi posse non crederent, aut etiam si posset, nefas
aestimarent deos habere captivos.
Sul punto, R. Turcan, Rome et ses dieux, cit., 147, il quale si riferisce a un comportamento
interessato e pragmatico da parte dei Romani: «Typique enfin de
l’opportunisme romain et de son réalisme conquérant est les rituel de l’euocatio. En bonne logique polythéiste, les dieux tutélaires d’un
peuple ennemi ne sauraient être vaincus. Il faut donc se les rallier avant
l’assaut final, car de toute façon le pillage des temples expose à des
sacrilèges, et les Romains “regardaient comme impie de faire les dieux
captifs”».
[278] Plinius, Nat.
hist. 28.18: Verrius Flaccus auctores
ponit, quibus credat in obpugnationibus ante omnia solitum a Romanis
sacerdotibus evocari deum, cuius in tutela id oppidum esset, promittique illi
eundem aut ampliorem apud Romanos cultum. Et durat in pontificum disciplina id sacrum, constatque ideo
occultatum, in cuius dei tutela Roma esset, ne qui hostium simili modo agerent.
Vedi ancora: Macrobius, Sat. 3.9.3-5: Nam propterea ipsi Romani et deum in cuius tutela urbs Roma est et
ipsius urbis Latinum nomen ignotum esse voluerunt. 4. Sed dei quidem nomen non nullis antiquorum, licet inter se
dissidentium, libris insitum et ideo vetusta persequentibus quicquid de hoc
putatur innotuit. Alii enim Iovem crediderunt, alii Lunam, sunt qui Angeronam,
quae digito ad os admoto silentium denuntiat, alii autem quorum fides mihi
videtur firmior, Opem Consiviam esse dixerunt. 5. Ipsius vero urbis nomen etiam doctissimis ignoratum est, caventibus
Romanis ne quod saepe adversus urbes hostium fecisse se noverant, idem ipsi
quoque hostili evocatione paterentur, si tutelae suae nomen divulgaretur;
Servius Dan., Verg. Aen. 2.351: Inde
est, quod Romani celatum esse voluerunt, in cuius dei tutela urbs Roma sit. Et
iure pontificum cautum est, ne suis nominibus dii Romani appellarentur, ne
exaugurari possint.
[279]
Macrobius, Sat. 3.9.6-9: Nam repperi in libro quinto Rerum
reconditarum Sammonici Sereni utrumque carmen, quod ille se in cuiusdam Furii
vetustissimo libro repperisse professus est. 7. Est autem carmen huius modi quo di evocantur cum oppugnatione civitas
cingitur: Si deus, si dea est, cui populus civitasque Carthaginiensis est in
tutela, teque maxime, ille qui urbis huius populique tutelam recepisti, precor
venerorque veniamque a vobis peto ut vos populum civitatemque Carthaginiensem
deseratis, loca templa sacra urbemque eorum relinquatis, 8. absque his abeatis eique populo civitati
metum formidinem oblivionem iniciatis, proditique Romam ad me meosque veniatis,
nostraque vobis loca templa sacra urbs acceptior probatiorque sit, mihique
populoque Romano militibusque meis praepositi sitis ut sciamus intellegamusque.
Si ita feceritis, voveo vobis templa ludosque facturum. 9. In eadem verba hostias fieri oportet
auctoritatemque videri extorum, ut ea promittant futura.
[280] La previsione dei
luoghi e di tutte le res relative alla sfera divina è presente anche
nella formula della deditio, offerta da Livius 1.38.2 s., relativamente alla città di Collatia (rex interrogavit: ‘Estisne vos legati
oratoresque missi a populo Conlatino, ut vos populumque Conlatinum dederetis?’
Sumus. ‘Estne populus Conlatinus in sua potestate?’ Est. ‘Deditisne vos
populumque Conlatinum, urbem, agros, aquam, terminos, delubra, utensilia,
divina humanaque omnia in meam populique Romani dicionem?’ Dedimus. 3. ‘At ego recipio’) e in 7.31.3 s., per
Capua (Ad ea princeps legationis - sic
enim domo mandatum attulerant -: ‘Quando Quidem’ inquit ‘nostra tueri adversus
vim atque iniuriam iusta vi non vultis, vestra certe defendetis; 4. itaque populum Campanum urbemque Capuam,
agros, delubra deum, divina humanaque omnia in vestram, patres conscripti,
populique Romani dicionem dedimus, quidquid deinde patiemur, dediticii vestri
passuri’). Cfr.: Plautus, Amph.
256-259: Postridie in castra ex urbe ad
nos veniunt flentes principes, / velatis manibus orant, ignoscamus peccatum
suom: / deduntque se, divina humanaque omnia, urbem et liberos / in dicionem
atque in arbitratum cuncti Thebano poplo; Livius 28.34.7: Mos vetustus erat Romanis, cum quo nec
foedere nec aequis legibus iungeretur amicitia, non prius imperio in eum
tamquam pacatum uti quam omnia divina humanaque dedidisset, obsides accepti,
arma adempta, praesidia urbibus imposita forent. Per la deditio, vedi, senza pretesa di
esaustività: Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, 3ª ed.,
III.1, Leipzig 1887, 55 ss. (= Le droit public romain, VI.1, tr. fr. di
P.F. Girard, Paris 1889 [rist. anast., 1985], 61 ss.); B. Paradisi, Deditio in fidem, in Studi in onore di A. Solmi, I, Milano
1940 [ma 1941], 284 ss.; A. Piganiol, Venire in fidem, cit., 339 ss.; V. Bellini, Deditio in fidem, cit.,
448 ss.; S. Calderone, Πίστις-Fides.
Ricerche di storia e di diritto
internazionale nell’antichità, Messina 1964, 61 ss.; P. De Martino, Storia
della costituzione romana, II, cit., 54 ss.; J. Rüpke, Domi
militiae, cit., 209 s.; K.-J. Hölkeskamp, Fides - deditio in fidem - dextra data et
accepta, cit., 237 ss.
[281] In merito rimando a P. Catalano, Aspetti
spaziali, cit., 446: «Gli aspetti spaziali trovano definizioni che
riguardano non solo le res o i loca [...] bensì anche gli homines e i populi e gli Dei».
[282] Livius 5.24.4-8: Romae
interim multiplex seditio erat, cuius leniendae causa coloniam in Volscos, quo
tria milia civium Romanorum scriberentur, deducendam censuerant, triumvirique
ad id creati terna iugera et septunces viritim diviserant. 5. Ea largitio sperni coepta, quia spei maioris
avertendae solacium obiectum censebant: cur enim relegari plebem in Volscos,
cum pulcherrima urbs Vei agerque Veientanus in conspectu sit, uberior
ampliorque Romano agro? 6. Urbem
quoque urbi Romae vel situ vel magnificentia publicorum privatorumque tectorum
ac locorum praeponebant. 7. Quin illa
quoque actio movebatur, quae post captam utique Romam a Gallis celebratior
fuit, transmigrandi Veios. 8. Ceterum partem plebis, partem senatus
destinabant ad habitandos Veios, duasque urbes communis rei publicae incoli a
populo Romano posse.
[283] Livius 5.24.9: Adversus
quae cum optimates ita tenderent, ut morituros se citius dicerent in conspectu
populi Romani, quam quicquam earum rerum rogaretur; 10. quippe nunc in una urbe tantum dissensionum
esse; quid in duabus urbibus fore? Victamne ut quisquam victrici patriae
praeferret sineretque maiorem fortunam captis esse Veis, quam incolumibus
fuerit? 11. Postremo se relinqui a
civibus in patria posse; ut relinquant patriam atque cives, nullam vim umquam
subacturam, et T. Sicinium - is enim ex tribunis plebis rogationis eius lator
erat - conditorem Veios sequantur relicto deo Romulo, dei filio, parente et auctore
urbis Romae.
[284] Livius 5.30.1-3: Senatum
vero incitare adversus legem haud desistebat: ne aliter descenderent in forum,
cum dies ferendae legis venisset, quam ut qui meminissent sibi pro aris
focisque et deum templis ac solo, in quo nati essent, dimicandum fore. 2. Nam quod ad se privatim attineat, si suae
gloriae sibi inter dimicationem patriae meminisse sit fas, sibi amplum quoque
esse urbem ab se captam frequentari, cotidie se frui monumento gloriae suae et
ante oculos habere urbem latam in triumpho suo, insistere omnes vestigiis
laudum suarum; 3. Sed nefas ducere
desertam ac relictam ab dis inmortalibus incoli urbem et in captivo solo
habitare populum Romanum et victrice patria victam mutari.
[285] Livius 5.30.4-7: His
adhortationibus principis concitati patres, senes iuvenesque, cum ferretur lex,
agmine facto in forum venerunt dissipatique per tribus suos quisque tribules
prensantes orare cum lacrimis coepere, 5. ne eam patriam, pro qua fortissime felicissimeque ipsi ac patres eorum
dimicassent, desererent, Capitolium, aedem Vestae, cetera circa templa deorum
ostentantes; 6. ne exulem, extorrem
populum Romanum ab solo patrio ac diis penatibus in hostium urbem agerent eoque
rem adducerent, ut melius fuerit non capi Veios, ne Roma desereretur. 7. Quia non vi agebant, sed precibus et inter
preces multa deorum mentio erat, religiosum parti maximae fuit, et legem una
plures tribus antiquarunt quam iusserunt.
[286] Livius 5.51.4: Equidem,
si nobis cum urbe simul positae traditaeque per manus religiones nullae essent,
tamen tam evidens numen hac tempestate rebus adfuit Romanis, ut omnem
neglegentiam divini cultus exemptam hominibus putem; 5.52.1-3: Haec culti neglectique numinis tanta momenta
in rebus humanis cernentes ecquid sentitis, Quirites, quantum vixdum e
naufragiis prioris culpae cladisque emergentes paremus nefas? 2. Urbem auspicato inauguratoque conditam
habemus; nullus locus in ea non religionum deorumque est plenus; sacrificiis
sollemnibus non dies magis stati quam loca sunt, in quibus fiant. 3. Hos omnes deos publicos privatosque,
Quirites, deserturi estis?; 5.52.5-8: Forsitan
aliquis dicat aut Veis ea nos facturos aut huc inde missuros sacerdotes
nostros, qui faciant; quorum neutrum fieri salvis caerimoniis potest. 6. Et ne omnia generatim sacra omnesque
percenseam deos, in Iovis epulo num alibi quam in Capitolio pulvinar suscipi
potest? 7. Quid
de aeternis Vestae ignibus signoque, quod imperii pignus custodia eius templi
tenetur, loquar? Quid de ancilibus vestris, Mars Gradive tuque, Quirine pater? Haec omnia in profano deseri placet sacra
aequalia urbi, quaedam vetustiora origine urbis? Et videte, quid inter nos ac
maiores intersit. 8. Illi sacra quaedam in
monte Albano Laviniique nobis facienda tradiderunt. An ex hostium urbibus Romam
ad nos transferri sacra religiosum fuit, hinc sine piaculo in hostium urbem
Veios transferemus?
[287] Vedi come Enea si autorappresenta in Vergilius, Aen. 1.378-380: Sum pius Aeneas, raptos qui ex hoste penates / classe veho mecum, fama
super aethera notus. / Italiam quaero patriam et genus ab Iove summo.
[288] Secondo A. Bouché-Leclercq, Les pontifes dans l’ancienne Rome, cit., 145, questo è il «dogme
fondamental de toutes les antiques qui étaient essentiellement des religions
nationales». Vedi ancora, in tal senso, F. Sini, Urbs: concetto e implicazioni normative nella giurisprudenza, cit., il
quale sottolinea la rilevanza di Livius 5.52.1-3 (testo supra nt. 286): «vi si teorizza – seguendo la dottrina teologica e
giuridica dei sacerdoti romani – l’esistenza di un legame imprescindibile tra
dèi e luoghi deputati al loro culto; di tale legame proprio la urbs Roma
costituisce il caso più significativo, in ragione dei riti primordiali della
fondazione della città (urbs augurato inauguratoque
condita)». Rimando anche a scritti precedenti dello stesso A.: Ut iustum conciperetur bellum, cit., 50; Dai documenti dei sacerdoti romani: dinamiche
dell’universalismo nella religione e nel diritto pubblico di Roma antica, in Diritto @ Storia 2, 2003, http://www.dirittoestoria.it/tradizione2/Sini-Dai-Documenti.htm ; Initia Urbis e sistema giuridico-religioso romano, cit.; Diritto e pax
deorum in Roma antica, cit. Cfr. anche H.
Fugier, Recherches, cit., 207:
«En fait, le populus ne pourrait
subsister s’il perdait le milieu sacré qui le nourrit pour ainsi dire».
[289] Servius, Verg.
Aen. 2.351: Excessere quia
ante expugnationem evocabantur ab hostibus numina propter vitanda sacrilegia.
[290] Livius 1.20.5 (testo supra
nt. 237). Per questa competenza pontificale vedi anche, ad es., Livius
39.4.11: Iam de deorum immortalium
templis spoliatis in capta urbe qualem calumniam ad pontifices attulerit? Rinvio
in materia a C.M.A. Rinolfi, Livio 1.20.5-7, cit.
[291] Livius 26.34.12: Signa, statuas aeneas, quae capta de
hostibus dicerentur, quae eorum sacra an profana essent ad pontificum collegium
reiecerunt.
[292] Vedi, ancora, ad es., Livius 44.7.2: secundis castris pervenit ad Dium, metarique
sub ipso templo, ne quid sacro in loco violaretur, iussit.
[293] Questo timore dei Romani era stato già intuito nel XVIII
sec. da G. Pistorozzi, Ragionamento sul diritto de’ sacri asili. In
risposta al discorso Dell’asilo ecclesiastico stampato a Firenze l’anno mdcclxiii,
Roma 1766, 40 s.: «ognuno potrebbe darsi ad intendere, che i Romani, a quali
più, che ad ogn’altra nazione, era noto, ed in uso il Diritto delle Genti, non
avessero alcuna difficoltà di saccheggiare i Tempj delle Città nemiche, da essi
debellate, ed in quelli mandare a fil di spada senza alcun riguardo al Sacro
Asilo, tutti quanti ivi trovavano rifuggiti; ma pure la cosa non è così. Non
seguivano i Romani quasi che mai per delicatezza di Religione questo Diritto,
nè le loro Leggi, che le cose Sacre tolte a Nemici subito profane rendevano; Ma
il loro Culto verso gli Dei faceva, che non fossero bastantemente quieti per
considerare un luogo sacro, come profano, e liberato dalla Religione, e dal
rispetto, ancor che preso a Nemici con la Vittoria dell’armi; talchè dubitando
di non poter impadronirsi delle sacrate lor cose, e di commettere sacrilegio
esercitando nei Templi occupati gli atti di giurisdizione, e di vendetta, accordati
in quei giorni dal Gius delle Genti al Vincitore sopra del Vinto, introdussero
negli anni appunto della Repubblica [...]; quando volevano espugnare qualche
Città, o qualche Popolo, per liberare le cose sacre della Religione;
introdussero quella che chiamavano: Sacrorum
Evocationem».
[294] Cicero, De off. 3.107: Est autem ius etiam
bellicum fidesque iuris iurandi saepe cum hoste servanda. Quod enim ita iuratum
est ut mens conciperet fieri oportere id servandum est quod aliter id si non
fecerit nullum est periurium. Ut si praedonibus pactum pro capite pretium non
attuleris nulla fraus est ne si iuratus quidem id non feceris. Nam pirata non
est ex perduellium numero definitus sed communis hostis omnium cum hoc nec
fides debet nec ius iurandum esse commune. In materia vedi K.-H. Ziegler,
Pirata communis hostis omnium, in De iustitia et iure. Festgabe
für U. von Lübtow, Berlin 1980, 93 ss.
[295]
D. 49.15.24; D. 50.16.118 (testi supra nt.
18).
[296] Livius 5.21.1 s.: Ingens profecta multitudo replevit castra. Tum
dictator auspicato egressus, cum edixisset, ut arma milites caperent, 2. ‘Tuo ductu’
inquit, ‘Pythice Apollo, tuoque numine instinctus pergo ad delendam urbem Veios
tibique hinc decimam partem praedae voveo.
[297] Livius 5.21.3: Te simul, Iuno regina, quae nunc Veios colis, precor, ut nos victores
in nostram tuamque mox futuram urbem sequare, ubi te dignum amplitudine tua
templum accipiat. Vedi quanto
sottolinea di questa formula R. Bloch, Héra, Uni,
Junon en Italie centrale, in Comptes rendus
des séances de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres 116.2, 1972,
392: «Après le voeu qu’il adressa à l’Apollon
delphique, c’est vers Uni qui deviendra bientôt Juno Regina que Camille se
tourne, c’est à elle qu’il parle comme à une divinité bien connue, familière,
mais qui habite Véies».
[298] Livius 5.21.5: Veientes,
ignari se iam a suis vatibus, iam ab externis oraculis proditos, iam in partem
praedae suae vocatos deos, alios votis ex urbe sua evocatos hostium templa
novasque sedes spectare seque ultimum illum diem agere.
[299] Livius 5.22.3: Cum iam humanae opes egestae a Veis essent, amoliri tum deum dona
ipsosque deos, sed colentium magis quam rapientium modo, coepere.
[300] Sulla dea Uni, considerata dai Romani “presque identique” a Iuno Regina (così R. Bloch, Héra, Uni,
Junon, cit., 384 ss., secondo cui «la longueur de la guerre entre Rome
et Véies, topographiquement si proches l’une de l'autre, la longueur du siège
de Véies par les légions avaient certainement entraîné, entre les deux peuples,
une circulation d’idées et de croyances qui a pu aboutir, pour un temps, à une
certaine communauté d’atmosphère psychologique et religieuse», 392), vedi, ad es.: G. Wissowa,
Religion und Kultus der Römer,
cit., 188; A. Alföldi, Die Struktur des voretruskischen Römerstaates,
Heidelberg 1974, 93; G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., 304
ss.; J. Bayet, La religion romaine, cit., 40, 122; Y. Roe
d’Albret, Recherches sur la prise de Véies et sur Juno
Regina, in École pratique des hautes
études. 4e section, Sciences historiques et philologiques. Annuaire 1975-1976,
1976, 1093 ss.
[301] Livius 5.22.4-7: Namque
delecti ex omni exercitu iuvenes pure lautis corporibus, candida veste, quibus
deportanda Romam regina Iuno adsignata erat, venerabundi templum iniere primo
religiose admoventes manus, quod id signum more Etrusco nisi certae gentis
sacerdos adtrectare non esset solitus. 5. Dein cum quidam seu spiritu divino tactus seu iuvenali ioco ‘Vis ne
Romam ire, Iuno?’ dixisset, adnuisse ceteri deam conclamaverunt. 6. Inde fabulae adiectum est vocem quoque
dicentis velle auditam; motam certe sede sua parvi molimenti adminiculis
sequentis modo accepimus levem ac facilem tralatu fuisse integramque in
Aventinum, 7. aeternam sedem suam,
quo vota Romani dictatoris vocaverant, perlatam, ubi templum ei postea idem,
qui voverat, Camillus dedicavit. Vedi
ancora sull’episodio Valerius Maximus 1.8.3 (anche se fa riferimento a Giunone
Moneta), Dionysius Halicarnassensis 13.3 e Plutarchus, Cam. 6.1 s., i quali,
seppur riportino un’altra tradizione, evidenziano comunque la volontà della dea
al trasferimento.
[302] La volontà divina doveva essere esternata anche
relativamente all’exauguratio dei
luoghi di culto (su cui vedi specialmente P. Catalano,
Aspetti spaziali, cit., 477 s.);
secondo la tradizione, durante il regnum
dell’ultimo Tarquinio, al fine di costruire il nuovo tempio a Giove, si
procedette a liberare il Campidoglio
dai culti precedenti, ma i segni divini indicarono la volontà del dio Terminus
di non spostarsi (sussiste inoltre qualche testimonianza anche per la dea
Iuventas, mentre Augustinus, De civ. Dei
4.23.3, PL 41, coll. 130 s., ricorda
altresì Marte). Questo rifiuto divino venne inteso come segnale positivo di
stabilità, quindi il suo culto venne continuato nel Capitolium, vedi, ad es.: Livius 1.55.1-4: ... Tarquinius ... ad negotia urbana animum convertit; quorum erat
primum, ut Iovis templum in monte Tarpeio monumentum regni sui nominisque
relinqueret: Tarquinios reges ambos, patrem vovisse, filium perfecisse. 2. Et ut libera a ceteris religionibus area
esset tota Iovis templique eius, quod inaedificaretur, exaugurare fana
sacellaque statuit, quae aliquot ibi, a Tatio rege primum in ipso discrimine
adversus Romulum pugnae vota, consecrata inaugurataque postea fuerant. 3. Inter principia condendi huius operis
movisse numen ad indicandam tanti imperii molem traditur deos; nam cum omnium
sacellorum exaugurationes admitterent aves, in Termini fano non addixere;
4. idque omen auguriumque ita acceptum
est, non motam Termini sedem unumque eum deorum non evocatum sacratis sibi
finibus firma stabiliaque cuncta portendere; 5.54.7: ... hic cum augurato liberaretur Capitolium, Iuventas Terminusque
maxime gaudio patrum vestrorum moveri se non passi; Festus, De verb. sign. 160 L.: ... Cato Originum lib. I: “Fana in eo loco
conpluria fuere: ea exauguravit, praeterquam quod Termino fanum fuit; id
nequitum exaugurari”; Florus, Epit.
1.7.8 s.: Quod cum inauguraretur,
cedentibus ceteris diis - mira res dictu - restitere Iuventas et Terminus. 9.
Placuit vatibus contumacia numinum, si
quidem firma omnia et aeterna pollicebantur; Lactantius, Div. inst. 1.20: Nam cum Tarquinius Capitolium facere vellet,
atque in eo loco multorum deorum sacella essent, consuluit eos per auguria,
utrum Iovi cederent; et cedentibus caeteris, solus Terminus mansit (PL 6, col. 228); Servius, Verg. Aen. 9.446: Capitoli inmobile saxum accolet in
urbe Roma Iovis templum non fuit. Quod cum iam devotum a Prisco Tarquinio
vellet Superbus Tarquinius aedificare, coepit auguriis captare qui mons huic
templo esset aptissimus. Et cum in omnibus Tarpeius esset inventus, in quo
erant multa diversorum numinum sacella, actum est, ut exinde ad alia templa
numina evocarentur sacrificiis, quo posset libere et sine piaculo templum Iovis
exaedificare. Cumque omnes dii libenter migrassent, Terminus solus, hoc
est limitum deus, discedere noluit, sed illic remansit. Tunc de hoc ipso
sacrificatum est et deprehensum, quod Terminus cum Iove remanens aeternum urbi
imperium cum religione significaret; unde in Capitolio prona pars tecti patet,
quae lapidem ipsum Termini spectat; nam Termino non nisi sub divo
sacrificabantur. Hinc ergo nunc dixit ‘Capitolii immobile saxum accolet’,
quia Terminus non est revulsus de loco. In
materia, ad es.: G. Piccaluga, Terminus. I segni
di confine nella religione romana, Roma 1974, 169 ss., 180 ss.; D. Briquel, Jupiter, Saturne et le Capitole. Essai de comparaison indoeuropéenne, in Revue de l’histoire des religions 198.2, 1981, 131 ss., per una
lettura dell’episodio sotto una prospettiva comparatistica rispetto a religioni
greche e indoeuropee; R. Del Ponte, Dei e Miti Italici, cit., 95 ss.; Id., Giove Capitolino nello spazio romano, in Diritto @ Storia 5, 2006, http://www.dirittoestoria.it/5/D-&-Innovazione/Del-Ponte-Iuppiter-spazio-romano.htm .
[303] Vedi anche quanto già sosteneva Tertulliano, intorno
alle empietà compiute dai Romani in guerra rispetto alle divinità, ai templi e
agli oggetti di culto: Apol. 25: Porro bella et
victoriae captis et eversis plurimum urbibus constant. Id negotium sine deorum
iniuria non est. Eaedem strages moenium et templorum, pares caedes civium et
sacerdotum, nec dissimiles rapinae sacrarum divitiarum et profanarum. Tot
igitur sacrilegia Romanorum, quot trophaea; tot de diis, quot de gentibus
triumphi; tot manubiae, quot manent adhuc simulacra captivorum deorum (PL 1, col. 431); Ad nat. 2.17: Porro ---ib. et dei
urbis. Nam eadem strages et moenium et templorum, pares caedes
et civium et sacerdotum, eaedem rapinae profanorum et sacrorum. Tot sacrilegia
Romanorum, quot trophaea; tot de deis quot de gentibus triumphi (PL 1, col.
608).
[304] A. Campus, Annibale ed Hera Lacinia,
in La Parola del passato 58, 2003,
293, parla invece di “soldati italici prigionieri”.
[305]
Nonostante Livius 21.4.9 descriva Annibale in modo fortemente negativo (Has tantas viri virtutes ingentia vitia
aequabant: inhumana crudelitas, perfidia plus quam Punica, nihil veri, nihil
sancti, nullus deum metus, nullum ius iurandum, nulla religio), le notizie
riferite in un altro luogo fanno affiorare una manifestazione di rispetto del
generale cartaginese verso la stessa dea: nel 205 a.C., in prossimità del
tempio di Hera Lacinia, Annibale vi dedicò un’ara (Livius 28.46.16: Prope Iunonis Laciniae templum
aestatem Hannibal egit; ibique aram condidit dedicavitque cum ingenti rerum ab
se gestarum titulo Punicis Graecisque litteris insculpto). Cfr. Polibius 3.33.18, il
quale riferisce di un’iscrizione di Annibale incisa su una tavola di bronzo
durante il suo soggiorno al Lacinio. Sempre in questa occasione Annibale volle
asportare una colonna d’oro dallo stesso tempio, ma un sogno premonitore lo
indusse a un atteggiamento di maggior cautela (Cicero, De div. 1.48: Hannibalem Coelius scribit, cum columnam auream,
quae esset in fano Iunonis Laciniae, auferre
vellet dubitaretque, utrum ea solida esset an extrinsecus inaurata,
perterebravisse, cumque solidam invenisset, statuisse tollere; ei secundum
quietem visam esse Iunonem praedicere,
ne id faceret, minarique, si fecisset, se curaturam, ut eum quoque oculum, quo
bene videret, amitteret; idque ab homine acuto non esse neglectum; itaque ex eo
auro, quod exterebratum esset, buculam curasse faciendam et eam in summa
columna conlocavisse).
Vedi in merito, ad es.: A. Campus, Annibale ed Hera Lacinia, cit., 292 ss., il quale, nella sua analisi del rapporto tra la
dea, Cartagine e Annibale, definisce l’episodio raccontato da Cicerone come un
caso «isolato nella “carriera”del condottiero», questi, infatti, «non smentisce
la propria fama di persona sacrilega» (293); M.
Jaeger, Livy, Hannibal’s Monument, cit., 389 ss.
[306]
Secondo D.S. Levene, Religion in Livy, cit., 74, il massacro
degli Italici nel tempio «is manifestly an act of impiety», seguito da M. Jaeger, Livy, Hannibal’s Monument, cit., 402, la quale vede questo
eccidio come un attacco contro le gentes Italiche:
«Thus it illustrates starkly the failure
of Hannibal’s strategy of allying himself with Italian city-states against
Rome. Their common
setting links Hannibal’s establishment of the altar at the temple in Book 28 to
his slaughter of Italians in Book 30, thereby drawing together the act of
foundation connoted by the verb condere (aram condidit) and the killing of rivals
for the possession of Italy. [...] Hannibal established an altar and killed
Italians as a parting act of severance. On the other hand, from the Roman point
of view, the Italians, by dying in the Italy that they refused to leave, have
been sacrificed in the temple as part of the founding of a unified peninsula».
[307] La violazione di un tempio in seguito all’uccisione di
un uomo al suo interno è affermata da Livio in un altro luogo: Qua perpetrata temere caede, subit extemplo
animum in se nimirum receptam labem quae Evandri fuisset; ab illo Delphis
volneratum Eumenen, ab se Samothracae Evandrum occisum; ita duo sanctissima in
terris templa se uno auctore sanguine humano violata (45.5.11).
[308] Livius 30.20.5 s.: Iam hoc ipsum praesagiens animo praeparaverat ante naves. Itaque inutili militum turba
praesidii specie in oppida Bruttii agri, quae pauca metu magis quam fide
continebantur, dimissa, quod roboris in exercitu erat in Africam transuexit,
6. multis Italici generis, quia in
Africam secuturos abnuentes concesserant in Iunonis Laciniae delubrum
inviolatum ad eam diem, in templo ipso foede interfectis. L’eccidio dei soldati Italici è ricordato anche
altre fonti, che, tuttavia, non fanno riferimento al
tempio di Giunone Lacinia: Diodorus Siculus 27.9: Ὅτι Ἀννίβας
συγκαλεσάμενος
τοὺς συμμάχους
ἐδήλωσεν αὐτοῖς
ὡς ἀναγκαῖόν ἐστιν
αὐτὸν διαβῆναι
εἰς Λιβύην, καὶ ἔδωκεν
ἐξουσίαν αὐτῶν
τοῖς βουλομένοις
αὐτῷ συστρατεύειν.
ἔνιοι
μὲν εἵλαντο τὴν
μετ' Ἀννίβου διάβαστιν,
τοῖς δὲ ἡδομένοις
τῇ ἐν Ἰταλίᾳ
μονῇ περιστήσας
τὴν δύναμιν, τὸ
μὲν πρῶτον τοῖς
στρατιώταις ἔδωκεν
ἐξουσίαν, εἴ
τινα βούλοιντο
λαμβάνειν ἐξ αὐτῶν
δοῦλον, τοὺς δὲ
λοιποὺς κατέσφαξεν,
ἄνδρας μὲν περὶ
δισμυρίους, ἵππους
δὲ περὶ
τρισξιλίους,
καὶ τῶν ὑποζυγίων
ἀναρίθμητον
πλῆθος; Appianus, Hann. 59: Ἀθροίσας
οὖν τούσδε τοὺς
ὑπομένειν ἀξιοῦντας
ὡς δή τι λέξων αὐτοῖς
ἢ χαριούμενος
τῶν γεγονότων ἢ
περὶ τοῦ μέλλοντος
ἐπισκήψων,
περιέστησε τὴν
στρατιὰν ὡπλισμένην
ἄφνω καὶ προσέταξε
τοῖς ἰδίοις ἀνδράποδα
ἐξ αὐτῶν ὅσα θέλουσιν,
ἐπιλέξασθαι. Ὡς
δὲ ὃ μὲν ἐπελέξαντο,
οἵ δὲ ᾐδοῦντο
συστρατιώτας
πολλὰ
συνειργασμένους
σφίσιν ἀνδραποδίσασθαι,
τοὺς λοιποὺς
κατήκόντισεν ἅπαντας,
τοῦ μὴ τοιούσδε
ἄνδρας ποτὲ Ῥωμαίοις
γενέσθαι χρησίμους.
[309]
Il giudizio di G. De Sanctis, Storia dei Romani, III.2, cit., 528 nt.
153, è secco: «Sono, probabilmente, invenzioni». Anche per G. Brizzi, Ancora su Annibale e l’Ellenismo: la fondazione
di Artaxata e l’iscrizione di Era Lacinia, in Atti del I
Congresso internazionale di studi fenici e punici, Roma, 5-10 Novembre 1979,
I, Roma 1983, 246, “l’accusa” dell’eccidio «appare infondata, dettata com’è
dalla consueta malignità romana nei confronti del Barcide e per di più
contraddetta da un passo successivo della stessa fonte», facendo riferimento a
quanto sostenuto da Livius 42.3.6 sul santuario: ... quod non Pyrrhus non Hannibal violassent ...
[310]
Sull’asilo di Romolo vedi, ad es.: Ovidius, Fast.
3.429-432: Una nota est Marti Nonis,
sacrata quod illis / templa putant lucos Veiovis ante duos. / Romulus, ut saxo
lucum circumdedit alto, / ‘Quilibet huc’ inquit ‘confuge; tutus eris’;
Dionysius Halicarnassensis 2.15.3 s.: ἔπειτα
καταμαθὼν
πολλὰς τῶν κατὰ
τὴν Ἰταλίαν πόλεων
πονηρῶς ἐπιτροπευομένας
ὑπὸ τυραννίδων
τε καὶ ὀλιγαρχιῶν,
τοὺς ἐκ τούτων ἐκπίπτοντας
τῶν πόλεων
συχνοὺς ὄντας,
εἰ μόνον εἶεν ἐλεύθεροι,
διακρίνων οὔτε
συμφορὰς οὔτε
τύχας αὐτῶν ὑποδέχεσθαι
καὶ μετάγειν ὡς
ἑαυτὸν ἐπεχείρει,
τήν τε Ῥωμαίων
δύναμιν αὐξῆσαι
βουληθεὶς καὶ
τὰς τῶν περιοίκων
ἐλαττῶσαι· ἐποίει
δὲ ταῦτα πρόφασιν
ἐξευρὼν εὐπρεπῆ
καὶ εἰς θεοῦ
τιμὴν τὸ ἔργον ἀναφέρων. 4. τὸ
γὰρ μεταξὺ χωρίον
τοῦ τε Καπιτωλίου
καὶ τῆς ἄκρας, ὃ
καλεῖται νῦν
κατὰ τὴν Ῥωμαίων
διάλεκτον μεθόριον
δυεῖν δρυμῶν
καὶ ἦν τότε τοῦ
συμβεβηκότος ἐπώνυμον,
ὕλαις ἀμφιλαφέσι
κατ´ ἀμφοτέρας
τὰς συναπτούσας
τοῖς λόφοις
λαγόνας ἐπίσκιον,
ἱερὸν ἀνεὶς ἄσυλον
ἱκέταις καὶ ναὸν
ἐπὶ τούτῳ
κατασκευασάμενος
(ὅτῳ δὲ ἄρα θεῶν
ἢ δαιμόνων οὐκ ἔχω
τὸ σαφὲς εἰπεῖν)
τοῖς καταφεύγουσιν
εἰς τοῦτο τὸ ἱερὸν
ἱκέταις τοῦ τε
μηδὲν κακὸν ὑπ´ ἐχθρῶν
παθεῖν ἐγγυητὴς
ἐγίνετο τῆς εἰς
τὸ θεῖον εὐσεβείας
προφάσει καὶ εἰ
βούλοιντο παρ´
αὐτῷ μένειν
πολιτείας
μετεδίδου καὶ
γῆς μοῖραν, ἣν
κτήσαιτο
πολεμίους ἀφελόμενος; Plutarchus, Rom. 9.3: Ἔπειτα
τῆς πόλεως τὴν
πρώτην ἵδρυσιν
λαμβανούσης, ἱερόν
τι φύξιμον τοῖς
ἀφισταμένοις
κατασκευάσαντες,
ὃ Θεοῦ Ἀσυλαίου
προσηγόρευον, ἐδέχοντο
πάντας, οὔτε
δεσπόταις δοῦλον
οὔτε θῆτα χρήσταις
οὔτ' ἄρχουσιν ἀνδροφόνον
ἐκδιδόντες, ἀλλὰ
μαντεύματι
πυθοχρήστῳ πᾶσι
βεβαιοῦν τὴν ἀσυλίαν
φάσκοντες; Servius
Dan., Verg. Aen. 8.635: Romulus cum turbam civium non haberet, asylum
condidit, ad quem locum si quis confugisset, eum exinde non liceret auferri.
Il richiamo all’asilo romuleo si ritrova anche in Livius 2.1.4, in cui si parla
dei primi Romani: Quid enim futurum fuit,
si illa pastorum convenarumque plebs, transfuga ex suis populis, sub tutela
inviolati templi aut libertatem aut certe inpunitatem adepta, soluta regio
metu, agitari coepta esset tribuniciis procellis et in aliena urbe cum patribus
serere certamina; qui il termine templum
assume il significato di asylum (così
P.H. Damsté, Ad T. Livii lib. xliii-xlv
notulae, in Mnemosyne 50, 1922,
338), perciò l’inviolabilità di un luogo sacro dava origine alla protezione per
coloro che vi si trovavano; l’identificazione tra templa e asylia si rinviene
anche in Livius 35.51.1 s. (testo infra
nt. 318).
[311] Questo concetto era già stato espresso, ad es., da
Livius 1.8.4-6: Crescebat interim urbs munitionibus alia atque alia
adpetendo loca, cum in spem magis futurae multitudinis quam ad id, quod tum hominum
erat, munirent. 5. Deinde, ne vana urbis magnitudo esset, adiciendae
multitudinis causa vetere consilio condentium urbes, qui obscuram atque humilem
conciendo ad se multitudinem natam e terra sibi prolem ementiebantur, locum,
qui nunc saeptus descendentibus inter duos lucos est, asylum aperit. 6.
Eo ex finitimis populis turba omnis sine discrimine, liber an servus esset,
avida novarum rerum perfugit, idque primum ad coeptam magnitudinem roboris fuit.
Vedi anche: Florus, Epit. 1.1.8 s.: Imaginem urbis magis quam urbem fecerat:
incolae deerant. 9. Erat in proximo
lucus; hunc asylum facit, et statim mira vis hominum: Latini Tuscique pastores,
quidam etiam transmarini, Phryges qui sub Aenea, Arcades qui sub Evandro duce
influxerant. Ita ex variis quasi elementis congregavit corpus unum,
populumque R. ipse fecit rex;
Lactantius, Div. inst. 2.7: Romulus
urbem conditurus, pastores
inter quos adoleverat convocavit, cumque is numerus condendae urbi parum
idoneus videretur, constituit asylum. Eo passim confugerunt ex finitimis locis
pessimi quique, sine ullo condicionis discrimine (PL 6, col. 286). Cfr. De vir. ill. 2.1: Romulus asylum convenis patefecit et magno exercitu facto ...
[312] L’attendibilità della tradizione sull’asilo di Romolo
viene rigettata, sotto vari profili, ad es., da: A. Mastrocinque, Romolo
(la fondazione di Roma tra storia e leggenda), Este 1993, 104 ss., per cui
l’asilo romuleo «costituisce un mito creato sull’esempio dell’asilo serviano;
quest’ultimo rispecchia una prassi rituale molto diffusa nel mondo italico e
greco, nonché presso varie società tradizionali» (112); M. Dreher, Die
Asylstätte des Romulus - eine griechische Institution im frühen Rom?, in Aa.Vv., Symposion 1997. Vorträge zur griechischen und hellenistischen
Rechtsgeschichte. (Altafiumara, 8.-14. September 1997), a cura di E.
Cantarella – G. Thür, Köln-Weimar-Wien 2001, 235
ss., per cui la leggenda dell’asilo di Romolo non risale prima della metà del
III sec. a.C., in quanto, sebbene le caratteristiche di tale asilo siano
difformi a quelli greci, «Die Verleihung des Asylrechts durch hellenistische
Herrscher ist [...] eine Voraussetzung dafür, daß die Römer sich das Asyl auf
dem Kapitol als zweckgerichtete Maßnahme ihre ersten staatlichen Repräsentanten
vorstellen konnten» (246); G. Freyburger,
Le dieu Veiovis et l’asile accordé à Rome
aux suppliants, in Das antike Asyl.
Kultische Grundlagen, rechtliche Ausgestaltung und politische Funktion, a
cura di M. Dreher, Köln-Weimar-Wien 2003, 169 s., 173, il quale nega la
storicità in quanto l’asilo troverebbe le proprie radici su antichi usi
religiosi.
[313]
La posizione per cui il diritto d’asilo non esisteva a Roma durante il regnum, ma fu introdotto sul finire
dell’età repubblicana, per influsso greco (vedi, ad es.: E. Caillemer,
v. Asylia, in Dictionnaire
des antiquités grecques et romaines I.1, ed. Ch. Daremberg – Edm. Saglio,
Paris s.d., 509 s.; A. Pernice, Parerga VI: Friede und Friedenswahrung im
römisch-griechischen Rechte, in Zeitschrift
der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Rom. Abt. 17, 1896, 177 s.; Th. Mommsen,
Römisches Strafrecht, cit.,
458 ss. = Le droit pénal romain, II,
cit., 141 ss.), è stata superata (vedi, ad es.: G. De Sanctis, Storia
dei Romani, I. La conquista del
primato in Italia, 2ª
ed. [Torino 1907], rist., Firenze 1968,
213 ss., il quale rigetta la provenienza ellenica dell’asilo a Roma e sostiene
l’origine latina della leggenda dell’asilo romuleo; F. Altheim, Römische Religionsgeschichte, I, Baden-Baden 1951, 175 ss.; Id., La religion romaine antique, cit., 170 s., il quale colloca alle
origini di Roma l’asilo sul Campidoglio; G.
Crifò, v. Asilo (diritto di),
in Enciclopedia del diritto, 3,
Milano 1958, 191 ss., che in maniera convincente argomenta l’originaria
presenza del diritto d’asilo a Roma, scevra da ogni influenza di tipo greco).
Recentemente, alcuni autori hanno rigettato l’idea di asilo a Roma inteso come
diritto in senso proprio: vedi, ad es.: G.
Freyburger (Le droit d’asyle à
Rome, in Les Études classiques 60,
1992, 139 ss., Le dieu Veiovis, cit.,
161 ss.) il quale parla di un uso in cui si prestava una certa protezione ai
supplicanti che non riguardava la sfera del diritto ma la religione; L. Fanizza, Asilo, diritto d’asilo, Romolo, Cesare, Tiberio, in Index 40, 2012, 605 ss., spec. 614 ss.,
che parla, in luogo di diritto d’asilo, di prerogative: «Non credo [...] che si
trattasse di situazioni tutelate come diritti. Non c’era insomma un formale
riconoscimento che la sacralità del luogo o del rappresentante religioso si
estendesse a chi venisse a trovarsi in contatto con essi; se ciò fosse accaduto
l’esercizio della giustizia sarebbe stato vanificato. Si trattava piuttosto di
una sospensione di fatto, ma ad essere sospeso era il diritto di punire odi
giudicare. Una sospensione limitata nel tempo e condizionata al riconoscimento
che l’autorità repressiva volesse dare, di volta in volta, a situazioni di questo
genere». Vedi anche A. Cherici, “Asylum
aperit”: considerazioni
sul Fanum Voltumnae e sui santuari emporici tra religione, commercio e politica,
in Annali della Fondazione per il Museo
«C. Faina» 19, 2012 (= Il Fanum
Voltumnae e i santuari comunitari dell’Italia
antica, cit.), 293 ss. per cui
l’antico asilo romano avrebbe un carattere commerciale, e, probabilmente, «l’asylum romuleo non è nient’altro che il
primo foro, il primo luogo di mercato» (316).
[314]
Dionysius Halicarnassensis 4.26.3 s. Secondo E.M. Orlin, Foreign Cults in
Republican Rome, cit., 11, sull’Aventino un asilo sarebbe stato istituito «with the explicit purpose of providing a
sanctuary, one that might also welcome new members to the Roman community»,
sulla base della tradizione dell’asylum
romuleo.
[315] Cicero, De leg.
agr. 2.36: Nam neque ea, quae senatus
nominatim vendenda censuit, audet appellare; sunt enim loca publica urbis, sunt
sacella, <sunt> quae post restitutam tribuniciam potestatem nemo attigit,
quae maiores in urbe <---> partim periculi perfugia esse voluerunt. Nel discorso tenuto dal senatore C. Cestio, relativamente
all’abuso del ricorso alla immunità data dal tenere una immagine di Cesare, si
testimonia la presenza di luoghi sacri dove rifugiarsi, almeno durante l’età
del principato: Igitur C. Cestius senator
disseruit principes quidem instar deorum esse, sed neque a dis nisi iustas
supplicum preces audiri, neque quemquam in Capitolium aliave urbis templa
perfugere, ut eo subsidio ad flagitia utatur (Tacitus, Ann. 3.36.2 su cui vedi B.
Bonfiglio, In margine a Tac. ann.
3.36, in Labeo 45, 1999, 65 ss.).
[316] Nonius 1, 63 L.: Pandere Varro existimat ea
causa dici, quod qui ope indigerent et ad asylum Cereris confugissent panis
daretur: pandere ergo quasi panem dare: et quod numquam fanum talibus
clauderetur: de Vita Populi Romani lib. I: ‘Hanc deam Aelius putat esse
Cererem; sed quod in asylum qui confugisset panis daretur, esse nomen fictum a
pane dando, pandere, quod est aperire’. Vedi
per tutti M. Salvadore, Varro De vita populi Romani fr. 4 Rip., in Rivista di filologia e di Istruzione classica 106, 1978, 287 ss., a
cui faccio riferimento per le problematiche sollevate in letteratura dal passo.
Per il collegamento con la distribuzione gratuita, o a vile prezzo, di grano
vedi H. Le Bonniec, Le culte
de Cérès, cit., 275, 345, e
anche G. Freyburger, Le dieu Veiovis, cit., 164, per cui
questo tempio «paraît avoir principalement fourni une assistance alimentaire».
[317] Verg. Aen.
2.761: Iunonis asylo templo: unde nullus possit ad supplicium extrahi. ... Hoc autem non est in omnibus
templis, nisi quibus consecrationis lege concessum est.
[318] Cicero, In Verr. II.1.48: Latonam ex longo errore et fuga gravidam et
iam ad pariendum temporibus exactis confugisse Delum atque ibi Apollinem
Dianamque peperisse. Qua ex opinione hominum illa insula eorum deorum sacra
putatur, tantaque eius auctoritas religionis et est et semper fuit, ut ne
Persae quidem cum bellum toti Graeciae dis hominibusque indixissent et mille numero
navium classem ad Delum; appulissent, quicquam conarentur aut violare aut
attingere; Livius 35.51.1 s. per cui la religio
e il ius sanctum sanciscono
l’inviolabilità: Templum est Apollinis
Delium, imminens mari; quinque milia passuum ab tanagra abest; minus quattuor
inde milium in proxima Euboeae est mari traiectus. 2. Ubi et in fano lucoque ea re<li>gione et eo iure sancto quo sunt
templa quae asyla Graeci appellant ...; 44.29.1 s.: Dum haec geruntur, legati Romani C. Popillius et C. Decimius et C. Hostilius,
a Chalcide profecti tribus quinqueremibus Delum cum venissent, lembos ibi
Macedonum quadraginta et quinque regis Eumenis quinqueremes invenerunt. 2. Sanctitas templi
insulaeque inviolatos praestabat omnes. Itaque permixti Romanique et Macedones et
Eumenis navales socii in templo, indutias religione loci praebente, versabantur.
[319] Per il comportamento dei Romani rispetto ai luoghi sacri
del mondo greco vedi: A. Mastrocinque,
Città sacre e ‘asylia’ alla fine della
guerra tra Roma e Antioco III, in I
santuari e la guerra nel mondo classico, cit., 142 ss., secondo il quale «i
Romani tennero in gran conto la sacralità dei luoghi e tutti i privilegi dei
templi greci e delle città consacrate, ma appare altrettanto certo che essi
anteposero le ragioni della convenienza politica a quelle del diritto sacrale
ogni qual volta si trovarono costretti a scegliere» (161).
[320] Tacitus, Ann. 3.60-63
(il richiamo agli interventi operati nella repubblica si legge in 62.1-3: Proxim<i h>os Magnetes L. Scipionis et
L. Sullae constitutis nitebantur, quorum ille Antiocho, hic Mithridate pulsis
fidem atque virtutem Magnetum decoravere, uti Dianae Leucoph<r>ynae
perfugium inviolabile foret. 2. Aphrodisienses posthac et Stratonicenses
dictatoris Caesaris ob vetusta in partes merita ... Sed Aphrodisiensium civitas
Veneris, Stratonicensium Iovis et Triviae religionem tuebantur. 3. ... Persicam apud se Dianam, delubrum rege
Cyro dicatum; et memorabantur Perpennae, Isaurici multaque alia imperatorum
nomina, qui non modo templo, sed duobus milibus passuum eandem sanctitatem
tribuerant). Vedi anche Ann. 4.14, dove lo storico tratta della questione affrontata dal
senato romano nel 23 intorno alla conferma del diritto d’asilo dei santuari di
Giunone a Samo e di Esculapio a Coo; per gli aspetti giuridici di queste
vicende rimando a L. Fanizza, Asilo, cit., 605 ss., a cui rinvio per
fonti e bibliografia. La studiosa afferma la convergenza tra Tacitus, Ann. 3.60-63 e Svetonius, Tib. 37, dove si narra l’abolizione
degli asyla da parte di Tiberio, in
quanto le due fonti si riferirebbero a due, dei tre, momenti distinti
“dell’itinerario politico-istituzionale” relativo alla materia del diritto di
asilo nelle province greche (invece, G.G. Belloni,
‘Asylia’ e santuari greci
dell’Asia Minore al tempo di Tiberio, in I santuari e la guerra nel mondo classico, cit., 164 ss., ritiene
errato il racconto svetoniano).
[321] L. Fanizza,
Asilo, cit., 611.
[322] Sallustius, Cat. 51.9.
[323] Sallustius, Cat. 51.9: Plerique eorum, qui ante
me sententias dixerunt, conposite atque magnifice casum rei publicae miserati
sunt. Quae
belli saevitia esset, quae victis adciderent, enumeravere ...