Università
di Sassari
Urbs: concetto e implicazioni normative nella
giurisprudenza *
SOMMARIO: 1. Urbs
tra terminologia e dogmatica nei Digesta
dell’Imperatore Giustiniano. – 2. Centralità del pomerium
per la definizione religiosa e giuridica di urbs.
Esposizione delle fonti. – A) Fonti
da cui si ricava che il pomerio è il confine religioso e giuridico
dell’urbs. – B) Pomerio come luogo
inaugurato per poter costruire le mura della città. – 3. Riti di fondazione. Terminologia degli inizi: initia, principia, origines, primordia urbis. Concezione giurisprudenziale del principium come “potissima
pars”. – 4. L’urbs (auspicato inauguratoque condita) come “città degli
dèi”. – 5. Realtà spirituali e materiali dell’urbs: la santità delle mura. – 6. Conclusione [sulla giurisprudenza]. – Abstract.
1.
– Urbs tra terminologia e
dogmatica nei Digesta
dell’Imperatore Giustiniano
Per il
concetto di urbs nella giurisprudenza
sarà bene muovere dai Digesta
dell’imperatore Giustiniano[1]. Naturalmente sono molte
le occorrenze di urbs fra i frammenti
giurisprudenziali di tale opera, ma poche presentano interesse per gli aspetti
terminologici. Solo alcuni frammenti del cinquantesimo libro, raccolti nel
titolo XVI sotto la rubrica “De
verborum significatione”, lasciano ancora intravvedere tracce delle
discussioni dei giuristi romani intorno al concetto e alle implicazioni
normative di urbs[2].
I tre
frammenti in questione sono rispettivamente del giurista Marcello (D. 50.16.87 [Marcellus libro XII digestorum])[3],
del giurista Pomponio (D. 50.16.239.6-8 [Pomponius
libro singulari enchiridii]) e del giurista Paolo (D. 50.16.2 pr.[Paulus libro primo ad edictum])[4].
Per
quanto riguarda il primo ed il terzo frammento, sarà sufficiente
evidenziare che l’interesse definitorio di Marcello e Paolo si sostanzia
nel rilevare la configurazione dell’urbs
(nel caso specifico la urbs Roma) sia
in rapporto alla cinta muraria che la circonda, sia in rapporto agli edifici
che essa contiene al suo interno.
Voglio,
invece, analizzare più nel dettaglio il citato frammento di Pomponio[5], tratto dal liber singularis enchiridii:
D. 50.16.239 (Pomponius
libro singulari enchiridii): [6] "Urbs" ab urbo appellata
est: urbare est aratro definire. Et Varus ait urbum appellari curvaturam
aratri, quod in urbe condenda adhiberi solet. [7] "Oppidum" ab ope
dicitur, quod eius rei causa moenia sint constituta. [8]
"Territorium" est universitas agrorum intra fines cuiusque civitatis:
quod ab eo dictum quidam aiunt, quod magistratus eius loci intra eos fines
terrendi, id est summovendi ius habent.
Di
questo frammento è notevole la potenzialità definitoria; troviamo
infatti esplicitato in esso, fra diverse verborum
significationes (es. pupillus, servus, incola, munus publicum, advena, decuriones) anche
il significato delle parole urbs, oppidum, territorium.
Di
grande interesse l’etimologia proposta per urbs nel § 6: secondo Pomponio urbs deriva da urbum ed il
verbo urbare significa aratro definire, cioè tracciare confini con l’aratro. Il
richiamo al rito di fondazione dell’urbs
risulta meglio precisato nel prosieguo del paragrafo, dove con le parole et Varus ait si introduce una citazione
del giurista Alfeno Varo, il quale aveva affermato chiamarsi urbum la curvatura dell’aratro,
poiché si era soliti usarlo in
urbe condenda; con sotteso ma chiaro riferimento al tracciamento del solco
del pomerio dell’urbs[6].
Come
si è detto, il frammento di Pomponio (o di Alfeno Varo) definisce,
sempre partendo dall’etimologia, anche i concetti di oppidum e di territorium.
Nell’indicare
l’etimologia di oppidum il
giurista segue la prassi antica di ricavare il significato di un termine
dall’uso o dalla funzione di esso: Oppidum
ab ope dicitur; poiché per ragione di difesa sono appunto costruite
le mura, moenia sint costituta. Da
notare che nel caso dell’oppidum
si mette l’accento sulla fortificazione delle mura, mentre manca
qualsiasi riferimento ai riti di fondazione, che qualificano in senso giuridico
le urbes rispetto ad altre forme di
insediamenti umani.
Infine
la definizione di territorium.
L’insieme delle campagne (universitas
agrorum) che si trova dentro i
confini (intra fines) di una qualsiasi civitas
costituisce il territorium; in tal
modo per il giurista intra fines
civitatis si determina anche la connessione di urbs e ager[7]; mentre il riferimento
etimologico allo ius dei magistrati
che si esercita nel territorio, evidenzia la dicotomia urbs / ager o domi / militiae nello ius pubblicum
del popolo romano.
2. – Centralità
del pomerium per le realtà
religiose e giuridiche dell’urbs.
Esposizione delle fonti e definizione del concetto
Le significationes di urbs, oppidum e territorium proposte dal giurista
Pomponio mostrano, dunque, il ruolo insostituibile del pomerio nella
determinazione delle realtà religiose e giuridiche dell’urbs. è
infatti l’esistenza del pomerio che contraddistingue l’urbs rispetto agli altri centri abitati (oppida); ed al tempo stesso ne delinea
la diversa fisionomia (umana e divina) rispetto a suo territorio (ager) e agli altri territori (vedi gli agrorum genera degli auguri)[8], con rilevanti conseguenze
nel campo della religione e dello ius
(sacrum, publicum, privatum).
Sarà
bene, a questo punto, esporre alcune fonti da cui si rileva il concetto
normativo di pomerium nel linguaggio
giuridico-religioso romano. I testi sono molto noti, quindi si procederà
ad una ricognizione sommaria.
A)
Fonti da cui si ricava che il pomerio è il confine religioso e giuridico
dell’urbs
1
Varr. De ling. Lat. 5.143. Oppida condebant in Latio
Etrusco ritu multi, id est iunctis bobus, tauro et vacca interiore, aratro
circumagebant sulcum (hoc faciebant religionis causa die auspicato), ut fossa
et muro essent muniti. Terram unde exculpserant, fossam vocabant et introrsum
iactam murum. Post ea qui fiebat orbis,
urbis principium; qui quod erat post murum, postmoerium dictum, eo usque
auspicia urbana finiuntur. Cippi pomeri stant et circum Ariciam et
circ[o]um Romam. Quare et oppida quae prius erant circumducta aratro ab orbe et
uruo urb[s]es[t]; ideo coloniae nostrae omnes in litteris antiquis scribuntur
urbes, quod item conditae ut Roma, et ideo coloniae et urbes conduntur, quod
intra pomerium ponuntur[9].
Nel
passo Marco Terenzio Varrone[10] riferisce dell’Etruscus ritus, utilizzato da molti anche nel Lazio all’atto di
fondare una città. Il rito, descritto dal grande antiquario con cura dei
particolari[11],
si svolgeva nel modo seguente: in un giorno di auspicii favorevoli, si
aggiogavano un toro e una vacca, lasciando quest’ultima dalla parte
interna, con l’aratro si tracciava un solco circolare al fine di essere
difesi da un fossato (rappresentato dallo spazio da cui si era estratta la
terra) e da un muro (rappresentato da quella stessa terra, gettata verso
l’interno rispetto al solco).
Ed
ecco la definizione di pomerium:
«Il circolo (orbis) che si
trovava dietro questi elementi segnava il principium
urbis; e poiché esso stava
dopo il muro (post murum) fu chiamato postmoerium e andava fin dove auspicia
urbana finiuntur».
Il
testo varroniano continua menzionando i cippi pomeriali ancora esistenti ai
suoi tempi ad Ariccia e a Roma; e poi vi si legge la sua etimologia di urbs, da orbis (solco circolare) e urvum
(aratro); etimologia che quasi certamente – dato il grandissimo prestigio
di cui godeva già fra i contemporanei la sapienza di M. Terenzio Varrone
– ha influenzato la dottrina dei giuristi citati in precedenza[12].
Il
testo chiude con la notazione che le colonie romane erano fondate ut Roma, cioè poste dentro un
pomerio, e che per questa ragione erano esse stesse chiamate urbes; lasciando così
intrevvedere quella configurazione urbana dello spazio romano, per cui si
afferma, non senza ragione, che l’imperium
del popolo romano fu un impero di città.
2
Gell. Noct. Att.
13.14.1-6. Quid sit "pomerium".
"Pomerium" quid esset, augures populi Romani, qui libros de auspiciis scripserunt, istiusmodi
sententia definierunt: «Pomerium est
locus intra agrum effatum per totius urbis circuitum pone muros regionibus
certeis determinatus, qui facit finem urbani auspicii»[13]. [2]
Antiquissimum autem pomerium, quod a Romulo institutum est, Palati montis
radicibus terminabatur. Sed id pomerium pro incrementis reipublicae aliquotiens
prolatum est et multos editosque collis circumplexum est. [3] Habeat autem ius
proferendi pomerii, qui populum Romanum agro de hostibus capto auxerat. [4]
Propterea quaesitum est ac nunc etiam in quaestione est, quam ob causam ex
septem urbis montibus, cum ceteri sex intra pomerium sint, Aventinus solum,
quae pars non longinqua nec infrequens est, extra pomerium sit, neque id
Servius Tullius rex neque Sulla, qui proferundi pomerii titulum quaesivit,
neque postea divus Iulius, cum pomerium proferret, intra effatos urbis fines
incluserint. [5] Huius rei Messala aliquot causas videri scripsit, sed praeter
eas omnis ipse unam probat, quod in eo monte Remus urbis condendae gratia
auspicaverit avesque inritas habuerit superatusque in auspicio a Romulo sit:
[6] «Idcirco» inquit «omnes, qui pomerium protulerunt, montem
istum excluserunt quasi avibus obscenis ominosum»[14].
Aulo
Gellio, per spiegare che cosa sia il pomerio si appella ad una sententia definitoria di certi augures populi Romani, che avevano
scritto libri de auspiciis: «Il
pomerio è lo spazio fissato (dagli auguri con solenne dichiarazione),
tutt’intorno alla città, dietro le mura (pone muros), delimitato da confini determinati, che stabilisce il
confine dell’auspicio urbano».
Il
passo prosegue con una notizia sul più antico pomerio istituito da
Romolo, che era delimitato dalle falde del monte Palatino, ed espone
modalità e protagonisti dei successivi ampliamenti in corrispondenza con
l’ampliarsi della res publica: da Servio Tullio, a Silla[15], a Giulio Cesare. Aveva
il diritto di allargare il pomerio chi avesse “accresciuto” il
popolo romano con territorio strappato ai nemici (per la religione e per il
diritto, vi era una interconnessione tra il pomerium
[e dunque l’urbs] e i fines populi Romani)[16]. Tuttavia, risulta
inspiegabile all’autore latino il perché solo sei delle sette
alture di Roma siano state incluse nel pomerio, mentre l’Aventino ne
è rimasto escluso fino all’epoca dell’imperatore Claudio.
Sul
punto Gellio trascrive una citazione dell’augure e giurista Marco Valerio
Messala (console nel 53 a.C. ed autore di De
auspiciis libri, da cui quasi per certo è tratta la citazione di
Gellio), dove si leggeva questa spiegazione: tutti coloro che allargarono il pomerio
esclusero l’Aventino, ritenendolo luogo di malaugurio; poiché
sull’Aventino Remo trasse gli auspici per la fondazione di Roma, ma gli
uccelli non gli furono propizi.
Dalle
definizioni degli auguri, qui libros de
auspiciis scripserunt, e di Varrone si ricava, dunque, che il pomerio
è il confine dell’urbs.
Questo dato assume grande rilevanza nel campo giuridico-religioso: nel sistema
romano certi poteri e certe norme si plasmavano sull’esistenza del
concetto di confine dell’urbs;
così come certe attività pubbliche potevano compiersi solo fuori
del pomerio o solo al suo interno.
Nell’esercizio
dei poteri dei magistrati e delle prerogative derivanti dall’imperium, espressioni quali extra pomerium ed extra urbem assumevano il medesimo senso ed addivenivano al
medesimo risultato; come insegnava il giurista Lelio Felice citando la norma di
ius publicum che recitava: centuriata autem comitia intra pomerium
fieri nefas esse, quia exercitum […] intra urbem imperari ius non sit[17]. La linea pomeriale
dell’urbs distinguevano auspicia urbana e militaria ed allo stesso modo connotava i poteri dei magistrati, in
quanto l’imperium domi e
l’imperium militiae si concretizzavano nella modalità di esercizio intra o extra pomerium[18].
B)
Pomerio come luogo inaugurato per poter costruire le mura della città
3
Liv. 1.44.4-5: [4] Pomerium, verbi vim solam intuentes,
postmoerium interpretantur esse; est
autem magis circamoerium, locus, quem in condendis urbibus quondam Etrusci, qua
murum ducturi erant, certis circa terminis inaugurato consecrabant, ut
neque interiore parte aedificia moenibus continuarentur, quae nunc vulgo etiam
coniungunt, et extrinsecus puri aliquid ab humano cultu pateret soli. [5] Hoc
spatium, quod neque habitari neque arari fas erat, non magis, quod post murum
esset, quam quod murus post id, pomerium Romani appellarunt; et in urbis
incremento semper, quantum moenia processura erant, tantum termini hi
consecrati proferebantur[19].
Tito
Livio propende per una definizione di pomerium
che, per sua stessa ammissione, trascende la mera etimologia che porterebbe ad
interpretare la parola nel senso di «che si trova dietro il muro» (postmoerium); esso sta piuttosto intorno
alle mura, poiché designa lo spazio dove di doveva costruire un muro,
che nel fondare la città gli antichi Etruschi consacravano dopo aver
preso gli auspici (inaugurato consecrabant) fissando intorno dei
cippi, così da impedire che dalla parte interna le costruzioni venissero
addossate alle mura e da lasciare al di fuori un tratto di terreno libero da
ogni coltivazione. Secondo Livio questo spazio, che non era lecito né
urbanizzare né coltivare, i Romani lo chiamarono pomerio tanto
perché stava dietro il muro (quod
post murum esset), quanto perché il muro stava dietro di esso (quod murus post id); ed ogni volta che
la città veniva ampliata di quanto dovevano avanzare le mura, tanto
erano spostai in avanti i cippi consacrati a delimitare il pomerio.
La
definizione accolta da Tito Livio identifica il pomerio come il luogo su cui
era stata chiesta l’approvazione divina, e quindi inaugurato,
perché vi si potessero costruire le mura[20]; da cui consegue che le
mura della città erano sante[21], come discuteremo meglio
più avanti.
3. – Riti di fondazione. Terminologia degli inizi: initia, principia, origines, primordia urbis. Concezione giurisprudenziale del principium come “potissima
pars”
Per i
giuristi romani, l’esistenza giuridica di una città richiedeva il
compimento del rito di fondazione[22], solenne atto
giuridico-religioso improntato come già detto all’Etruscus ritus.
Senza dubbio, l’elaborazione etrusca del rito di fondazione di
città (e la sua adozione da parte della religione e del diritto di Roma)
va datata in età piuttosto risalente; Macrobio attesta, infatti, che in
tale cerimonia il vomere utilizzato per tracciare il solco pomeriale doveva
essere necessariamente di bronzo[23].
Vediamo
anzitutto la rielaborazione ovidiana (e quindi augustea) della Urbis origo;
soprattutto per evidenziare la fortissima connotazione spazio/temporale che i
riti di fondazione davano agli initia Urbis, sia determinando il
tempo della città (e delle sue istituzioni), sia qualificando
religiosamente e giuridicamente le diverse porzioni dello spazio terrestre.
è noto che la vicenda della Urbis origo viene trattata dal poeta nel
IV libro dei Fasti ai versi 807-862[24], nel quadro
dell’illustrazione della festività dei Parilia[25];
che i calendari antichi annotavano con la formula Roma condita o Natalis Urbis.
La narrazione poetica presenta diverse articolazioni: a) la consultazione
divina per mezzo degli uccelli (vv. 807-818); b) il rituale della fondazione
(vv. 819-836); c) il sacrilegio, la morte e il funerale di Remo (vv. 837-856);
d) la preghiera per Roma (vv. 857-862).
Nella
descrizione della Urbis origo proposta
da Ovidio, i riti di fondazione della città sono stati improntati
«secondo i concetti del diritto augurale che vediamo consolidato nella
Repubblica»[26]. Va altresì
sottolineata l’attenzione del poeta nel configurare con esattezza
terminologia e realtà giuridiche (precedenti e successive) connesse alla
fondazione dell’Urbs. I due
gemelli, che ancora guidavano un vulgus
di pastori[27],
convengono di fondare la città (moenia
ponere) al fine di contrahere agrestis
(Fasti 4.810); quindi si procede alla
consultazione delle aves, che ha
esito favorevole per Romolo (Fasti
4.818: et arbitrium Romulus urbis habet);
solo a questo punto hanno inizio i riti di fondazione veri e propri: col
tracciamento del solco pomeriale, la preghiera di Romolo alle divinità,
la costruzione delle mura (Fast.
4.819-836)[28].
Il
testo, come ho detto, è stato assai ben studiato dal punto di vista
dello ius augurium: non sarebbe,
dunque, molto significativo soffermarsi ulteriormente a descrivere le varie
fasi del manifestarsi della volontà degli dèi, i quali col tuono
e col fulmine determinano l’augurium
che perfeziona e conferma l’avvenuta fondazione della città. Dal
momento in cui si manifesta l’augurium,
che costituisce anche l’atto conclusivo della fondazione, ha inizio
l’esistenza (religiosa e giuridica) della urbs Roma e quindi anche dei suoi cives; i quali, infatti, non più vulgus ma cives,
costruiranno in breve tempo le mura della città. Da sottolineare, ancora
una volta, l’aderenza del poeta alla tradizione sacerdotale dello ius augurium: è noto, infatti,
che gli augures publici populi Romani
distinguevano tra il pomerio, confine religioso dell’Urbs, e la cinta muraria della città, che non si
identificava con il pomerio, né era indispensabile per l’esistenza
giuridica dell’Urbs[29].
Dopo i
riti, la terminologia. Per quanto l’espressione – e quindi la
categoria – initia Urbis compaia con maggiore frequenza
nelle opere di storici, come Tito Livio[30] e di antiquari come Marco
Terenzio Varrone, il quale aveva dedicato un libro alla narrazione degli initia
urbis [Romanae][31], essa non risulta,
però, estranea alla lingua dei giuristi romani. Mi limiterò a
proporre qualche considerazione sull’esempio più famoso, almeno
per i giuristi:
D. 1.2.1: (Gaius libro primo ad legem duodecim tabularum)
Facturus legum vetustarum interpretationem necessario prius ab urbis initiis
repetendum existimavi, non quia velim verbosos commentarios facere, sed quod in
omnibus rebus animadverto id perfectum esse, quod ex omnibus suis partibus
constaret: et certe cuiusque rei potissima pars principium est[32].
Non
posso, né sarebbe opportuno, presentare ora un’articolata esegesi
del celebre testo gaiano, che peraltro non è esente da sospetti di
interpolazioni[33].
Al riguardo, mi pare da condividere l’impostazione di Lelio Lantella, il
quale ha studiato il passo in relazione alla proposizione metodologica
affermata dal giurista «cuiusque rei potissima pars principium est»,
in un denso e stimolante saggio pubblicato nel 1983 negli Studi Sanfilippo.
Il testo gaiano è stato poi ristudiato da Sandro Schipani[34]; il quale –
superando in parte i risultati di Lantella – è pervenuto alla
conclusione che principium in D. 1.2.1 vada intepretato come
«inizio, che ha in sé, più che ogni altra parte, il proprio
fondamento»[35].
Al di
là delle possibili implicazioni derivanti dalle diverse letture proposte
(vuoi che si debba leggere: necessario prius ab urbis initiis repetendum
existimavi[36];
oppure: necessario p[opuli] R[omani] ius ab urbis initiis repetendum
existimavi[37]),
il testo di Gaio mi pare molto importante, proprio per la concezione
storico-giuridica degli initia Urbis che in esso si appalesa. Gli
initia Urbis sono presentati da Gaio come principium della
storia delle istituzioni romane, e quindi come potissima pars di
quelle istituzioni; che, nel divenire storico della vita del popolo
romano, hanno accresciuto e perfezionato la loro completezza iniziale.
Per
quanto, a proposito dell’«initium civitatis nostrae»,
non manchi nello stesso titolo dei Digesta, precisamente nel successivo
frammento di Pomponio, una visione più “dinamica” proprio
dell’origine e dell’evoluzione del diritto[38].
4. – L’urbs (auspicato inauguratoque condita) come “città degli
dèi”
L’urbs sacralizzata
dall’inaugurazione del pomerio, e dunque auspicato inauguratoque
condita, viveva affidandosi alla tutela delle sue divinità[39]; prosperava accogliendo
sempre nuovi dèi, sia mediante ricorso ai sacra peregrina[40], sia che si trattasse di evocationes delle divinità dei
nemici[41].
Nei libri
ab urbe condita di Tito Livio[42] traspare più volte
la convinzione che la storia dei Romani costituisse la prova più
inconfutabile di come nelle vicende umane «omnia prospera evenisse sequentibus deos»[43]: per lo storico la pietas e la fides[44]
avevano costituito (e costituivano) gli elementi essenziali per la
legittimazione divina dell’imperium
dei Romani; gli dèi si erano mostrati, in ogni circostanza, più
ben disposti verso coloro i quali avevano osservato la pietas ed onorato la fides[45].
A mio
avviso, risulta di estrema importanza il passo di Tito Livio 5.21.1-3: vi si
teorizza – seguendo la dottrina teologica e giuridica dei sacerdoti
romani – l’esistenza di un legame imprescindibile tra dèi e
luoghi deputati al loro culto; di tale legame proprio la urbs Roma
costituisce il caso più significativo, in ragione dei riti primordiali
della fondazione della città (urbs
augurato inauguratoque condita)[46].
In
questo testo, relativo alla narrazione degli eventi appena successivi alla
distruzione dell’Urbe ad opera dei Celti, il grande annalista, con un
discorso attribuito a Furio Camillo, ha voluto caratterizzare la città
di Roma, proprio in ragione dei suoi initia (cioè dei riti della
sua fondazione), come lo spazio terrestre massimamente votato alla religione
(«Abbiamo una città fondata con regolari auspici e augurii,
dove non vi è luogo che non sia pieno di cose sacre e di dèi»)[47].
La
valenza religiosa di questo testo liviano era stata già colta assai bene
da Huguette Fugier nel suo libro dedicato all’espressione del sacro nella
lingua latina[48].
Del resto, il testo di Livio è molto esplicito: con buone
argomentazioni, tutte svolte sul filo della teologia e dello ius sacrum,
Camillo sosteneva che il popolo romano sarebbe perito qualora avesse
abbandonato il sito dell’Urbs Roma, dove peraltro «nullus
locus in ea non religionum deorumque est plenus»; cioè
l’unico luogo che aveva determinato (al momento degli initia Urbis)
e poteva assicurare (nel tempo) l’identità religiosa e giuridica
del popolo romano, in quanto fondato da Romolo con un atto inaugurale seguendo
il volere degli dèi. Detto in altre parole, il pensiero di Camillo
è che non si potesse conservare la pax deorum al di fuori
del solo ambito locale (la Urbs Roma) adatto a contenere i riti e
i sacrifici che ordinariamente assicuravano al popolo romano la conservazione
della pax deorum. Anzi nella parte finale del testo, si
confondono volutamente i luoghi con gli dèi onorati in quei luoghi: Tito
Livio, infatti, fa dire a Camillo che l’abbandono del sito di Roma
corrisponderebbe all’abbandono degli dèi romani: «Volete
abbandonare, o Quiriti, tutti questi dèi, pubblici e privati?».
Tuttavia,
questo imprescindibile legame tra dèi e la urbs Roma non
deve far dimenticare, che la religione politeista romana fu sempre
caratterizzata da forti tensioni universalistiche e da costanti
“aperture” cultuali verso l’esterno[49].
5. – Realtà
spirituali e materiali dell’urbs:
la santità delle mura
Agli initia
Urbis, attraverso i riti di fondazione e la definizione del pomerio,
possono farsi risalire alcune concrete realtà materiali di res sanctae:
in particolare le mura dell’Urbs (e poi, per assimilazione del
rito augurale di fondazione, di tutte le città dell’orbe romano)
e, almeno in età giustinianea, anche le porte della città[50].
Prima
di esaminare nel dettaglio la santità delle mura, conviene delineare
brevemente l’emersione tra sacerdoti e giuristi di categorie giuridiche e
religiose quali sacrum, sanctum e religiosum. Regolare una materia così ardua e dai profili
incerti, richiedeva un’intensa attività speculativa e decisionale,
che assorbiva gran parte dell’attività decretale e rispondente dei
pontefici[51].
Purtroppo,
lo stato miserevole dei materiali provenienti da documenti sacerdotali non
consente di farsi un’idea precisa di questa immensa attività
interpretativa, che, stando all’enunciazione di Macrobio, coinvolgeva
l’intera realtà del mondo conoscibile. Decretare in merito a che
cosa sia sacrum, cosa sia profanum, sanctum o
religiosum significava per i pontefici dover tracciare linee di
demarcazione non sempre definibili, né in maniera chiara né una
volta per tutte. Ben poco risulta comprensibile di questi antichi decreti[52], di cui giuristi e antiquari
sintetizzano quasi sempre le conclusioni, avulse da ogni contesto argomentativo
ed esemplificativo. Ne conseguono definizioni lacunose e poco soddisfacenti,
quali appunto le definizione di sanctum; testimonianze evidenti delle
difficoltà dei pontefici a ricondurre a un’idea semplice il
significato vago e multicomprensivo della parola. Esemplare al riguardo la
definizione di sanctum proposta dal giurista Trebazio Testa[53], definizione che possiamo
leggere in una citazione tratta dai Saturnalia di Macrobio[54].
Per
Trebazio sanctum «talora è sinonimo di sacro e di
religioso, talora ha significato diverso, cioè né sacro né
religioso». Il giurista enuclea una
nozione di sanctum –
così come aveva fatto per sacrum e
per religiosum – priva di
riferimenti giuridici, che sembrerebbe collocarsi al di fuori del dibattito
relativo alla concettualizzazione delle res
sanctae; seppure, per qualche autorevole romanista non sarebbe del tutto
fuori luogo «accostare gli svolgimenti di Trebazio … alla
problematica delle classificazione delle res divini iuris»[55].
Neanche
il ricorso all’etimologia antica offre alcunché di positivo: i
grammatici sembrano essere d’accordo nel far derivare sanctum da sancitum
e sancitum da sanguis; ma fra i giuristi (Marciano) si rileva
un’altra interpretazione che lega sanctum
a sagmina: Sanctum autem dictum est a sagminibus[56].
Secondo
Servio, tardo commentatore di Virgilio, il significato originale di sanctum
sarebbe quello di «reso sacro attraverso la consacrazione con sangue
sacrificale»[57]. In tal modo
l’epiteto si adatterebbe a tutti gli oggetti santificati con
l’immolazione di vittime, ma senza che per essi sia stato celebrato alcun
rito di consacrazione. Per quanto il contesto virgiliano[58], di sapore arcaizzante,
con la stretta relazione tra sancio, sanctum e i fulgura
– che santificavano i luoghi –, sembra piuttosto avvalorare la tesi
che sanctum fu usato prima in riferimento a luoghi, poi per gli uomini
che partecipavano della protezione sacra[59].
Nelle
testimonianze giurisprudenziali più antiche (Servio Sulpicio Rufo,
Trebazio Testa, Elio Gallo, Masurio Sabino), la terminologia non si presenta
affatto netta. Termini come sanctum e religiosum sono presentati
spesso come sinonimi, avviluppati e confusi in un concetto più ampio e
onnicomprensivo di religiosità.
Neanche
dai giuristi dell’età imperiale viene maggior chiarezza sul
concetto di res sanctae, di cui resta emblematica la definizione
del giurista Gaio:
Gai Inst.
2.8: Sanctae quoque res, velut muri et
portae, quodammodo divini iuris sunt[60].
Altri
giuristi romani, quali Marciano, Paolo e Ulpiano citano le res sanctae accanto alle res
sacrae e alle res religiosae,
senza però ricomprenderle esplicitamente nella categoria delle res divini iuris[61]. Si potrebbe argomentare in negativo, rilevando
che i giuristi appena citati tendono comunque a differenziare
(contrapponendole) le res sanctae dalle res publicae. Questo si evince da Paolo in D. 39.3.17.3 e, ancora
prima, da un frammento del commento all’editto provinciale di Gaio (D. 41.3.9)[62], in cui appare altrettanto netta la
contrapposizione alle res publicae sia delle res sacrae sia delle res sanctae, che però non risultano accomunate
nello stesso genus.
Nel
pensiero dei giuristi romani la specificità delle res sanctae
sembra concretizzarsi piuttosto sotto il profilo della protezione giuridica ad
esse accordata[63]
e, quindi, della sanzione che ne vietava la violazione. È quanto si
legge nel frammento di Ulpiano D. 1.8.9.3[64]. Ma anche le Istituzioni
di Giustiniano (Inst. 2.1.10) collegano la santità di
una res alla sanzione che ne punisce la violazione[65].
Il
testo giustinianeo però ribadisce il carattere ‘santo’ delle
mura della città. Del resto, molti secoli prima, sul finire
dell’età repubblicana, proprio la santità delle mura era
stata utilizzata come caso esemplificativo di sanctum dal giurista Elio
Gallo[66], autore di un’opera
intitolata «De verborum, quae ad ius civile pertinent, significatione»,
laddove distingueva tria divini iuris genera[67]
Ora, a
proposito dei tria divini iuris genera, si può notare che, mentre
per sacrum e per religiosum il giurista individua sia le res
(edificio; sepolcro) sia le procedure operative (consecratio; inumazione
del cadavere), nel caso di sanctum indica invece solo l’oggetto
della santità, tacendo sulle procedure operative, e quindi sulla
competenza a rendere sancta una res.
Ci
soccorre al riguardo Cicerone, il quale nel de natura deorum ricollega
la santità delle mura alla teologia e al diritto elaborati dal collegio
dei pontefici («urbis muris, quos vos pontifices sanctos esse dicitis»)[68]. Ancora più importante appare la glossa Tesca
dell’epitome di Festo, pervenuta purtroppo irrimediabilmente mutila[69]. Tuttavia, nel testo
festino si leggono con sicurezza le parole sancta loca, pontifici
libri e dedicaverit. Si tratta, in tutta evidenza, di una
citazione testuale dai libri pontificum; sulla base della quale
non risulta difficile affermare – ritengo senza alcun dubbio – la
presenza nei libri pontificum[70] di formule solenni, di regole
rituali e di procedure relative alla santificazione dei luoghi; nonché
una competenza più generale dei pontefici in materia di sorveglianza e
regolamentazione dei loca sancta.
In relazione alla regolamentazione dei sancta loca,
i pontefici dovevano certo raccordare la loro attività a quella degli
àuguri; in quanto – scrive al rigurdo il Catalano – «Dapprima,
come ha dimostrato il Valeton (riferendosi alla dottrina dei glossatori
anteriori a Varrone), ciò che era inauguratus era sanctus;
anche se, ovviamente, la sanctitas non era esclusiva delle realtà
inaugurate»[71].
In questa prospettiva, non pare possibile accedere
alla tesi proposta da F. Fabbrini, il quale sostiene che la santità
delle mura sarebbe più tarda rispetto alle realtà inaugurate[72]. È certo, invece,
che la teologia e il diritto dei sacerdotes, considerava la
santità delle mura connessa agli stessi riti di fondazione
dell’Urbe; attraverso le prescrizioni di quei libri rituales
etruschi, a cui secondo la tradizione si sarebbe richiamato il fondatore di
Roma[73].
Anche
nella compilazione giustinianea numerose disposizioni tutelano la
santità delle mura cittadine e punivano con la massima severità
le infrazioni. Basterà citare, di seguito, alcuni dei testi più
significativi.
Nel frammento
D. 1.8.9.4, Ulpiano[74] attesta che non era
lecito alcun rifacimento delle mura (municipali), né affiancarvi o
sovrapporvi una costruzione, senza l’autorizzazione del principe o del
preside. Forse delle procedure relative a quest’autorizzazione, in età
repubblicana, erano competenti gli stessi pontefici: ipotesi già
prospettata nella tesi dottorale dedicata a questo collegio sacerdotale da
Eduard Lübbert, discussa «in Universitate Litterarum
Vratislaviensi» alla fine degli anni cinquanta dell’Ottocento[75].
In D.
1.8.11 Pomponio[76]
qualifica punibile con la pena capitale ogni violazione delle mura della
città, sia che si tratti di transcendere scalis admotis «scavalcare
le mura avendovi accostato delle scale», oppure alia quilibet ratione
«in qualsiasi altro modo», con la motivazione che per i cittadini
romani era un atto da traditori e da sacrileghi (hostile et abominandum)
uscire dalla città passando per vie diverse dalle porte; come dimostra
l’esempio canonico della morte di Remo[77]: occisus traditur ob
id, quod murum trascendere voluit[78].
Mentre
in un frammento del giurista Modestino, D. 49.16.3.17, questa santità
delle mura (forse perché attraverso l’inviolabilità dei loca
era volta, in ultima analisi, a tutelare la sicurezza degli homines)
risulta estesa anche al vallum degli accampamenti militari, che a
nessuno era lecito violare, pena la morte[79].
6. – Conclusione [sulla
giurisprudenza]
La
discussione fin qui condotta suggerisce, infatti, una riflessione più
generale sulle potenzialità di ricerca insite nell’uso sistematico
delle cosiddette fonti letterarie da parte dei giusromanisti contemporanei[80].
Ho
avuto modo di esporre le mie posizioni, soprattutto, nello studio che ho
dedicato ai giuristi del III secolo a.C.[81]. Un secolo emblematico e
significativo per la storia della scienza giuridica romana; che si apre con la lex Ogulnia de sacerdotibus ex plebe
creandis, cioè con l'ammissione dei plebei ai collegi sacerdotali[82] e si chiude con i tripertita di Sesto Elio Peto, peraltro
egli stesso appartenente ad una famiglia di tradizione sacerdotale[83].
Fu un
secolo di sviluppo della giurisprudenza romana interamente caratterizzato
dall'azione di pontefici-giuristi, i quali mostrarono di possedere una
molteplicità di interessi che investiva i diversi (ma non separati)
campi dello ius: sacrum, publicum, privatum.
A
ciò si combinava una salda capacità di interpretazione innovativa
(è il caso del decreto del pontefice massimo Tiberio Coruncanio su qui adstringatur sacris)[84] e di difesa intransigente
della tradizione dello ius publicum (tale è il caso
dell'intervento di un altro pontefice massimo, Cornelio Lentulo, sulle
prerogative popolari in materia di vota
publica)[85].
La
dottrina moderna, con alcune eccezioni, ha sottovalutato il contributo di
questi giuristi alla iuris scientia;
forse, in ragione delle tematiche dibattute, spesso difficili da classificare
negli schemi giuridici contemporanei; oppure, a causa dell'atteggiamento
preclusivo verso il problema dell'interazione tra ius pontificium e ius civile
presente nella romanistica odierna[86].
Emergono,
dunque, alcune questioni di metodo essenziali per lo studio dei giuristi romani
dell’età repubblicana. Ciò significa dover affrontare, in
primo luogo, il problema dell'interazione tra ius sacrum, ius publicum, ius privatum; mentre la seconda questione
da risolvere attiene al valore delle fonti che tramandano i loro frammenti[87].
Per
risolvere entrambe le questioni, appare indispensabile misurarsi con la
metodologia compilatoria (e con l'ideologia ad essa sottesa) della Palingenesia iuris civilis di Otto Lenel[88]; esplicitata nel
paragrafo iniziale della Praefatio[89], dove il giurista tedesco
dà conto dei criteri adottati per la scelta dei frammenti
giurisprudenziali, soffermandosi ampiamente anche sulle esclusioni operate[90].
Il
Lenel prosegue, quindi, illustrando la disposizione dei singoli giureconsulti[91], la restituzione delle
loro opere e l'esegesi dei frammenti ad essi attribuiti[92]. La lettura dei paragrafi
citati, mentre da un lato lascia emergere l'estremo rigore professato nella
scelta dei testi[93]
e nella loro esegesi[94]; dall'altro, con le
ragioni addotte a sostegno della lista delle omissioni, rivela le motivazioni
culturali e metodologiche, che hanno determinato la linea di condotta del Lenel
nella sua impresa palingenetica.
Più
che discutibile sono, invero, le omissioni: «Omissa sunt praeterea
quaecumque sive ius publicum sive sacrum spectant fagmenta extra digesta
tradita». Non si possono di certo condividere le motivazioni che
indussero il Lenel a omettere, seppure a suo dire «invitus et quodam modo
coactus», sia la quasi totalità dei testi in materia di ius publicum e di ius sacrum, sia i frammenti di opere giuridiche citati nel De verborum significatu di Sesto Pompeo
Festo.
Anche
a proposito di queste motivazioni conviene distinguere. Mentre per i frammenti
giurisprudenziali contenuti nell'epitome festina, si adducevano ragioni di
critica filologica, legate in gran parte alla consapevolezza della
«misera condicio» delle principali edizioni dell’opera allora
esistenti[95];
alla praticabilità (e utilità) di una Palingenesia iuris publici il Lenel opponeva obiezioni
metodologiche e “fattuali” ritenute veramente insuperabili.
Non a
caso il grande studioso sottolineava con vigore le immani difficoltà che
avrebbe dovuto affrontare colui che avesse voluto distinguere, con buona
approssimazione, fra le variegate fonti di ius
publicum e di ius sacrum «quaenam
ad ius proprie sic dictum spectent quaeve ad antiquitates referenda
sint». Prevaleva, insomma, nella valutazione del Lenel un radicato
pessimismo sulla qualità delle fonti, in gran parte
“letterarie”, da utilizzare per la raccolta di questo tipo di
materiali; dovendo muoversi più tra fonti storico-antiquarie che
giuridiche, il giurista moderno rischiava di smarrire in quel terreno infido e
senza confini la dimensione stessa del “giuridico”[96].
Mette
conto, infine, formulare un’ultima notazione riguardo all’assunto
leneliano che nello «ius proprie sic dictum» non potessero trovare
collocazione né lo ius publicum,
né lo ius sacrum[97]: la logica delle
omissioni opera così sui due piani della provenienza e del contenuto; il
Lenel omette, tendenzialmente, tutto ciò che non proviene dai Digesta[98], ma riserva un ruolo
attivo all'intervento dell'interprete, al quale è demandato il compito
di enucleare nel concreto i frammenti che per contenuto «sive ius
publicum sive sacrum spectant».
Proprio
l'esclusione di queste parti rilevantissime degli iura populi Romani[99], ha provocato reazioni
contrarie nella dottrina più avvertita[100]; fra cui mette conto
ricordare, per l'autorevolezza dello studioso, le posizioni di R. Orestano: il
quale, nell'ultima edizione del suo libro Introduzione
allo studio del diritto romano, ha sollecitato ancora una volta un
ripensamento critico sulle omissioni leneliane, raccomandando come
«sommamente utile una Palingenesia
iuris romani publici»[101].
«La pensée des plus anciens Romains regagne
l'estime qu'elle merite»: iniziano con questa frase le «Remarques
préliminaires sur la dignité et l'antiquité de la pensée
romaine», che Georges Dumézil scrisse alla fine degli anni
sessanta del XX Secolo, per il suo libro Idées
romaines; dove l'illustre studioso dimostra, fra l'altro, che «des
techniques aussi complexes que l'augurale
ius et le ius civile
étaient constituées dès la fin des temps royaux, avec la
réglementation rigoureuse que nous leur connaissons au seuil de
l'Empire»[102].
Sono
sempre stato convinto che anche negli studi sulla giurisprudenza romana si
potrebbe trarre profitto dalla lezione di quelle «remarques
préliminaires». Assumendo, infatti, come dato acquisito la
contestuale risalente elaborazione dello ius
augurium e dello ius civile, si
supera l'ingiustificabile discrasia di considerare i primi «Fachjuristen
der antikokzidentalen Welt»[103], per un verso arcaici e
primitivi nella iuris civilis scientia
e, contestualmente, capaci di raffinata concretezza nella teologia e di
ammirevole perizia nell'interpretatio
dello ius sacrum.
Si
tratta, insomma, di rovesciare la valutazione, che risale allo Schulz e, a tutt'oggi,
predominante nei nostri studi, secondo cui solo nell'ultimo secolo della
repubblica la giurisprudenza romana «raggiunse la sua adolescenza»[104]; per riscoprire la prudentia e la sapientia di quegli antichi giuristi: a quibus iura civibus praescribebantur[105].
Indagine
sui concetti fondanti delle visioni romane del rapporto spazio-tempo e della
proiezione umana e divina del Territorio di Roma. La ricerca chiarisce la
tecnica definitoria dei giuristi romani, mostrando come essi partissero da dati
di evidenza immediata, come il solco tracciato con l’aratro o il confine
segnato dalle mura, per costruire nozioni più sofisticate, legate
all’auspicium. Si indaga su Urbs e pomerium nelle loro connessioni con i riti di fondazione della
città. L’inizio della città costituisce la potissima pars delle sue istituzioni,
mentre l’intervento degli dei e la presenza del “sacro”
appaiono nella dinamicità che consegue all’apertura ai sacra peregrina ed al ricorso alle evocationes delle divinità dei
nemici.
Posta
in evidenza la sacralità del luogo su cui sorgeva Roma, unico possibile
per la determinazione dell’identità religiosa e giuridica del
popolo romano, si approfondiscono le implicazioni che ne derivavano, come la
santità delle mura, risalendo alle origini del significato di
santità, legato all’uso del sangue e cogliendone i successivi
sviluppi, che accanto alla santità dei luoghi abbracciarono gli
“uomini che partecipavano alla protezione sacra”.
Le
conclusioni tratte dalle fonti mettono in risalto il contributo dato dalla
giurisprudenza pontificale alla scientia
iuris e consentono di porre in evidenza alcune manchevolezze della Palingenesia del Lenel, soprattutto per
l’omissione, operata dall’autore tedesco nella ricostruzione del
pensiero giuridico dei romani, di tutto ciò che ci è pervenuto
fuori dai Digesta di Giustiniano.
Investigation of the fundamental concepts
of Roman visions of the relationship between space-time and the human and
divine’s projection of Rome’s territory. The research clarifies the
Roman
jurist‘s definition technique,
showing how they started from immediate evidence data, as the path traced by a plow or the border marked by the boundary walls, to create more sophisticated notions,
linked to the auspicium.
There‘s an investigation on Urbs
and pomerium about their connection
to the rites of the founding of the city. The beginning of a city is the potissima pars of its institutions
while the intervention of the Gods and the presence of the sacred appear
in the dynamism that
follows the opening to the sacra peregrina and the evocationes of
the enemies Gods.
Once highlighted the sacredness of the
place where Rome
was born, the only one possible to determinate
the religious and juridical identity of the Romans, we’ll deepen the implications that derive from
it, as the sacredness of the walls,
back to the origins of the meaning of holiness, related to the use of
blood and taking the later developments, that in addition to the sanctity of
the places embraces
all the “men who
participated in the sacred protection”.
The conclusions drawn from sources
emphasize the contribution of the pontifical jurisprudence to the scientia iuris and allows to highlight some deficiencies of the Palingenesia, especially for the omission, perpetrated by the german author in the reconstruction of the
Roman’s juridical
thought and everything that
we reached out from the Digesta of Justinian.
[Per la pubblicazione degli articoli della
sezione “Tradizione Romana” si è applicato, in maniera
rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato
valutato positivamente da due referees,
che hanno operato con il sistema del double-blind].
*
L’articolo sviluppa, nel testo e nelle note, la relazione presentata nel
«XXVII Seminario Internazionale di Studi Storici “Da Roma alla
Terza Roma”: Il Popolo nella storia
e nel diritto da Roma a Costantinopoli a Mosca» (Campidoglio, 19-21
aprile 2007), organizzato per iniziativa dei professori Pierangelo Catalano e
Paolo Siniscalco, in occasione del MMDCCLX Natale di Roma (in base alla
Deliberazione unanime del Consiglio Comunale del 22 settembre 1983), con
l’intervento del Consiglio Nazionale delle Ricerche, dell’Accademia
delle Scienze di Russia e dell’Università di Roma ‘La
Sapienza’.
[1] Sul tema, penetranti riflessioni,
di F.P. Casavola, Il concetto
di urbs Roma: giuristi e imperatori
romani, in L'idea giuridica e
politica di Roma e personalità storiche I (Roma 1991) 39 ss- 55 [= Labeo 38 (1992) 20 ss.]
[2] Sul tema sono ormai
imprescindibili i risultati delle ricerche di P.
Catalano: Contributi allo studio
del diritto augurale I (Torino 1960) 292 ss.; Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt II.16.1 (Berlin-New
York 1978) 479 ss.
[3] D. 50.16.87 (Marcellus libro XII digestorum) Ut Alfenus ait, "urbs" est
"Roma", quae muro cingeretur, "Roma" est etiam, qua
continentia aedificia essent: nam Romam non muro tenus existimari ex
consuetudine cotidiana posse intellegi, cum diceremus Romam nos ire, etiamsi
extra urbem habitaremus. Valutazione
di sintesi sul giurista: H. Ankum, Quelques
observations sur la méthode et les opinions juridiques d’Ulpius
Marcellus, in Au-delà
des frontières. Melanges de droit romain offerts à Witold
Wolodkiewicz, I, édités par Maria Zablocka et Jerzy Krzynówek,
Jabuk Urbanik, Zuzanna Sluzewska, (Varsovie 2000), 17 ss.
[4] D. 50.16.2
pr.(Paulus libro primo ad edictum)
"Urbis" appellatio
muris, "Romae" autem continentibus aedificiis finitur, quod latius
patet. Più in generale sul giurista: C. A. Maschi, La conclusione della giurisprudenza classica
all’età dei Severi: Iulius Paulus, in Aufstieg und Niedergang
der römische Welt II.15 (Berlin-New York 1976) 667 ss.; sulla carriera,
vedi H. Tapani Klami, Iulius Paulus. Comments
on a Roman lawyer's career in the III Century, in Sodalitas.
Scritti in onore di Antonio Guarino IV (Napoli 1984) 1829 ss.
[5] Sulla dimensione storica del giurista rinvio
all’accurato studio di D. Nörr,
Pomponius oder “Zum
Geschichtsverständnis der römischen Juristen”, in Aufstieg und Niedergang der römischen
Welt II.15 (Berlin-New York 1976) 497 ss.[trad. it. D. Nörr, Pomponio o «della intelligenza storica dei giuristi romani»,
con una «nota di lettura» di A. Schiavone, a cura di M.A. Fino e E.
Stolfi, in Rivista di Diritto Romano
II (2002) = http://www.ledonline.it/rivistadirittoromano/allegati/dirittoromano02noerr.pdf].
Quanto poi ai problemi di critica testuale, vedi i risultati delle ricerche
"pomponiane'' di M. Bretone,
ora raccolte nel suo Tecniche e ideologie
dei giuristi romani, 2ª ed. (Napoli 1982) 209 ss.; più di
recente, sempre sul giurista, da vedere il lavoro di E. Stolfi, Studi sui
«libri ad edictum» di Pomponio. I. Trasmissione e fonti (Napoli
2002); II. Contesti e pensiero
(Collana della Rivista di Diritto Romano – LED Edizioni universitarie 2002).
[6] Fra la dottrina basterà citare: A. von Blumenthal, v. Pomerium,
in Real-Encyclopädie der classischen
Altertumswissenschaft 21.2 (Stuttgart 1952) coll. 1867 ss.; J. Le
Gall, A propos de la Muraille Servienne et du Pomerium. Quelques
rappels et quelques remarques, in Etudes d’archéologie
classique 2 (1959) 41 ss.; P.
Catalano, v. Pomerio, in Novissimo Digesto Italiano XIII
(Torino 1966) 263 ss.; G. Lugli, I
confini del pomerio suburbano di Roma primitiva, in Mélanges d’archéologie, d’épigraphie
et d’histoire offerts à J. Carcopino (Rome 1966) 641 ss.; J. Gagé, La ligne
pomériale el les catégories sociales de la Rome primitive. A
propos de l’origine des Poplifugia et des «Nones
Caprotines», in Revue Historique de Droit français et
étranger 48 (1970) 5 ss. (ora in Id.,
Enquêtes sur les structures sociales et religieuses de la Rome
primitive [Bruxelles 1977] 162 ss.);
F. De Martino Storia della
costituzione romana, I, 2a ed. (Napoli 1972) 126 ss.; A. Magdelain, Le “pomerium”
archaïque et le “mundus”,
in Revue des études latines 54 (1976) 71 ss. (= ora in Id., Jus imperum
auctoritas. études
de droit romain [Rome 1990] 155
ss.); R. Antaya, The Etymology
of “pomerium”, in American Journal of Philology 101
(1980) 184 ss.; B. Liou-Gille, Le
pomerium, in Museum Helveticum 50 (1993) 94 ss.
[7] Sulla connessione di urbs e ager secondo lo ius augurium,
vedi P. Catalano, Aspetti spaziali del sistema
giuridico-religioso romano cit. 491 ss.
[8] Varr. De ling. Lat.
5.33: Ut nostri augures pubblici
dixerunt, agrorum sunt genera quinque: Romanus, Gabinus, peregrinus, hosticus,
incertus. Romanus dictus unde Roma ab Rom<ul>o; Gabinus ab oppido Gabis;
peregrinus ager pacatus, qui extra Romanum et Gabinum, quod uno modo in his
servantur auspicia; dictus peregrinus a pergendo, id est a progrediendo: eo
[quod] enim ex agro Romano primum progrediebantur. Quocirca Gabinus quoque
peregrinus, sed quod auspicia habet singularia, ab reliquo discretus; hosticus
dictus ab hostibus; incertus is, qui de his quattuor qui sit ignoratur. A. Brause, Librorum de disciplina augurali ante Augusti mortem scriptorum
reliquiae (Lipsiae 1875), 42 fr. XXVII.
La
divisione dello spazio in cinque agrorum genera rappresenta un
mirabile esempio della semplicità, dell’efficacia interpretativa e
delle potenzialità universalistiche della scienza sacerdotale. Pur
salvaguardando la centralità dell’ager romanus (anche
verso gli Dèi), la classificazione dei genera agrorum
mostra una fortissima propensione teologica e giuridica ad instaurare rapporti
– tanto reali quanto potenziali – con la molteplicità degli
spazi terrestri; con gli homines che hanno relazioni a vario titolo con
questi spazi; con gli innumerevoli Dèi che quegli spazi (e quanti li
abitano) presiedono e tutelano.
[9] A. Cenderelli,
Varroniana. Istituti e terminologia
giuridica nelle opere di M. Terenzio Varrone (Milano 1983) 35 fr. 67. Cfr.
anche Ovid. Fast. 4.819 ss.; Fest. De verb. sign., p. 358 L. Per
la dottrina, vedi P. Catalano, Aspetti spaziali del sistema
giuridico-religioso romano cit. 479 ss.
[10] Per la bibliografia
più recente, rinvio a Y. Lehmann,
Varron théologien et philosophe romain [Collection Latomus, 237]
(Bruxelles 1997).
[11] Pur senza arrivare alle
posizioni di C. Cichorius, Römische
Studien. Historisches, Epigraphisches, Literargeschichtliches aus vier
Jahrhunderten Roms (Leipzig-Berlin 1922) 198 ss., il quale riteneva
probabile l’appartenenza di Varrone al collegio dei Quindecimviri
sacris faciundis; la dottrina romanistica dominante è piuttosto
unanime nel dare per scontate la conoscenza diretta e l’utilizzazione di
prima mano dei documenti ufficiali dei collegi sacerdotali da parte del grande
Reatino: cfr. per tutti G. Rohde,
Die Kultsatzungen der römischen
Pontifices (Berlin 1936) 19 ss.; B. Cardauns,
M. Terentius Varro Antiquitates rerum
divinarum, II. Kommentar
(Wiesbaden 1976) 239 ss.
[12] Penso alla vecchia tesi di F.D. Sanio, Varroniana in den Schriften der
römischen Juristen, Leipzig 1867.
[13] H. Funaioli, Grammaticae
Romanae fragmenta (Lipsiae 1907, rist. an. Roma 1961) 429 fr. 9,
attribuisce la definizione ai libri de
auspiciis dell’augure M. Valerio Messala.
[14] I §§ 4-6 del
passo di Gellio sono classificati fra i frammenti di Messala ex incertis libris da F. P. Bremer,
Iurisprudentiae Antehadrianae que supersunt, I. Liberae rei publicae
iuris consulti (Lipsiae 1896, rist. an. Roma 1964) 2640 fr. 3.; mentre li
considera escerpiti dai libri De
auspiciis Ph.E. Huschke,
Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquias, editione sexta aucta et
emendata ediderunt E. Seckel et B. Kuebler, I (Lipsiae 1908, Reprint der
Originalausgabe Leipzig 1988) 48 fr. 3.
[15] Marta Sordi, Silla e lo
"ius pomerii proferendi", in Il
confine nel mondo classico, a cura di M. Sordi (Milano 1987) 200-211.
[16] Tac. Ann. 12.23.2: et
pomerium urbis auxit Caesar, more prisco, quo iis, qui protulere imperium,
etiam terminos urbis propagare datur.
[17] Gell. Noct. Att. 15.27.5: Item in eodem
libro hoc scriptum est: 'Cum ex generibus hominum suffragium feratur, 'curiata'
comitia esse; cum ex censu et aetate, 'centuriata'; cum ex regionibus et locis,
'tributa'; centuriata autem comitia intra pomerium fieri nefas esse, quia
exercitum extra urbem imperari oporteat, intra urbem imperari ius non sit.
[19] Sul passo vedi commenti
di j. bayet, Tite Live. Histoire romaine I (Paris 1965) 72 n. 3; R.M. Ogilvie, A Commentary on Livy. Books 1-5 (Oxford 1965 [reprinted 1998]) 179 s.
[22] Questa rilevanza
giuridico-religiosa del rito di fondazione non sfugge a R. Orestano, I fatti di normazione nell’esperienza
romana arcaica (Torino 1967) 47: «per tutto il corso
dell’esperienza romana s’attribuirà al compimento di tale
rito valore costitutivo per l’esistenza giuridica di una città,
proprio in quanto determinazione del “punto di riferimento” di
situazioni giuridiche».
[23] Macr. Sat. 5.19.13
(Sed Carminii <viri> curiosissimi et docti, verba ponam, qui in libro
de Italia secundo sic ait: prius itaque et Tuscos aeneo vomere uti cum
conderentur urbes solitos, in Tageticis eorum sacris invenio et in Sabinis ex
aere cultros quibus sacerdotes tonderentur). Sul punto vedi P. de Francisci, Primordia civitatis
(Roma 1959) 104; P. Catalano, Linee
del sistema sovrannazionale romano cit. 104; Id., Aspetti spaziali
del sistema giuridico-religioso romano cit. 485.
[24] Per il testo seguo
l’edizione di H. Le Bonniec,
Ovide, Les fastes, tome II (Bologna
1970). Sulla figura del poeta non è possibile dare qui referenze
bibliografiche complete: cfr., per tutti, F.
Stella Maranca, Ius pontificium nelle opere dei giureconsulti
e nei fasti di Ovidio, in Annali del
Seminario giuridico dell’Università di Bari 1 (1927) 3 ss.; R. Düll,
«Ovidius iudex». Rechtshistorische Studien zu Ovids Werken,
in Studi in onore di Biondo Biondi I
(Milano 1965), 73 ss.; R. Schilling,
Ovide interpréte de la religion romaine, in Revue des études
Latines 46 (1968) 222 ss.; A.W.J.
Holleman, Ovid and politics,
in Historia 20 (1971) 458 ss.; R. Syme, History in Ovid (Oxford 1978) in part. 21 ss.: «Evidence in
the Fasti»; D. Porte, L’étiologie religieuse dans les
‘Fastes’ d’Ovide (Paris 1985), ivi ampia rassegna
bibliografica, 539 ss.
[25] J.H. Vanggaard, On Parilia, in Temenos 7 (1971) 93 ss.; D.
Sabbatucci, La religione di Roma
antica, dal calendario festivo all’ordine cosmico (Milano 1988) 128
ss.
[26] Tutto questo è
stato già dimostrato da P.
Catalano, Contributi allo studio
del diritto augurale cit. 580 ss.; lo studioso aveva anche evidenziato
quanto siano correttamente descritte da Ovidio «l’inaugurazione di
scelta circa il regnum (versi
812-818); implicitamente, l’auspicazione circa il dies (versi 819 ss.); e infine l’inaugurazione di
approvazione del luogo, cioè del pomerio (verso 825 ss.)» (582).
[27] Ovid. Fast. 4.809-810: Iam luerat poenas frater Numitoris, et omne / pastorum gemino sub duce
vulgus erat.
[28] Ovid. Fast. 4.819-836: Apta dies legitur, qua moenia signet aratro; / sacra Pales suberant:
inde movetur opus. / Fossa fit ad solidum, fruges iaciuntur in ima / et de
vicino terra petita solo; / fossa repletur humo, plenaeque imponitur ara, / et
novus accenso finditur igne focus. / Inde premens stivam designat moenia sulco;
/ alba iugum niveo com bove vacca tulit. / Vox fuit haec regis:
«Condenti, Iuppiter, urbem, / et genitor Mavors Vestaque mater, ades, /
quosque pium est adhibere deos, advertite cuncti! / auspicibus vobis hoc surgat
opus. / Longa sit huic aetas dominaeque potentia terrae, / sitque sub hac
oriens occiduusque dies». / Ille praecabatur, tonitru dedit omina laevo /
Iuppiter et laevo fulmina missa polo. / Augurio laeti iaciunt fundamina cives,
/ et novus exiguo tempore murus erat.
[30] Liv. 9.17.10: Horum in quolibet cum indoles eadem,
quae in Alexandro, erat animi ingeniique, tum disciplina militaris, iam inde ab
initiis urbis tradita per manus, in artis perpetuis praeceptis ordinatae modum
venerat. L’annalista, peraltro, utilizza
anche i termini primordia e origo: Praef. 1-2: Facturus
ne operae pretium sim, si a primordio urbis res populi Romani perscripserim,
nec satis scio nec, si sciam, dicere ausim, quippe qui cum veterem tum vulgatam
esse rem videam, dum novi semper scriptores aut in rebus certius aliquid
allaturos se aut scribendi arte rudem vetustatem superaturos credunt. Praef.
7: Datur haec venia antiquitati, ut miscendo humana divinis primordia urbium
augustiora faciat; et si cui populo licere oportet consecrare origines suas et
ad deos referre auctores: ea belli gloria est populo Romano, ut, cum suum
conditorisque sui parentem Martem potissimum ferat, tam et hoc gentes humanae
patiantur aequo animo, quam imperium patiuntur. Cfr. Giustin. Epitoma
hist. 43.1.2: Breviter igitur initia Romani imperii perstringit, ut nec
modum propositi operis excedat nec utique originem urbis, quae est caput totius
orbis, silentio praetermittat.
[31] Quint. Inst. orat.
1.6.12: Quaedam sine dubio conantur eruditi defendere, ut, cum deprensum
est, ‘lepus’ et ‘lupus’ similia positione quantum
casibus numerisque dissentiant, ita respondent non esse paria, quia
‘lepus’ epicoenon sit, ‘lupus’ masculinum, quamquam
Varro in eo libro, quo initia urbis [Romanae] enarrat, lupum feminam dicit
Ennium Pictoremque Fabium secutus.
[32] «Nell’accingermi
all'interpretazione degli antichi “versetti” ho ritenuto che,
occorresse necessariamente in primo luogo risalire agli inizi della
città, non perché voglia scrivere commentari prolissi ma
perché in tutte le cose ritengo perfetto solo ciò che consti di
tutte le sue parti: e certo di ciascuna cosa è il principio la parte
più importante»: trad. di L.
Lantella, ‘Potissima pars principium est’ (D. 1.2.1),
in Studi in onore di C. Sanfilippo IV (Milano 1983) 283 s. Sul testo
gaiano, vedi anche F. Gallo, La storia in Gaio, in Il
modello di Gaio nella formazione del giurista. Atti del Convegno
Torinese 4-5 maggio 1978 in onore del Prof. Silvio Romano (Milano 1981) 89
ss.; S. Morgese, Appunti su Gaio «Ad legem duodecim
tabularum», ibid., 109 ss.
[33] Cfr. Th. Mommsen, Gaius ein Provinzialjurist (1868),
in Id., Gesammelte Schriften. II.
Juristische Schriften II (Berlin 1905), 33 n. 15; W. Kalb, Das Juristenlatein. Versuch
einer Charakteristik auf Grundlage der Digesten, 2a ed. (Nürnberg
1888) 65; G. Beseler, Beiträge
zur Kritik der römischen Rechtsquellen III (Tübingen 1913) 131;
IV (Tübingen 1920) 233; F. Schulz,
Einführung in das Studium der Digesten (Tübingen 1916) 18; Id., Storia della giurisprudenza
romana (Oxford, 1946), trad. it (Firenze 1968) 333 s.; F. Pringsheim, Beryt und Bologna, in Festschrift O. Lenel (Leipzig 1921) 267 s.; E. Albertario, Sulla dotis datio ante
nuptias (1925), in Id., Studi
di diritto romano I (Milano 1933), 324 n. 6; A. Berger, Some remarks on D. 1.2.1, and CIL 6.10298, in
Iura II (1951) 102 ss.; C.A. Maschi,
Il diritto romano. I. La
prospettiva storica della giurisprudenza classica (Milano (1957)
1966) 132 ss.; A.M. Honoré,
Gaius (Oxford 1962) 105
s.; M. Lauria, Jus romanum I.1
(Napoli 1963) 33; M. Wlassak, Rechtshistorische
Abhandlungen, in Österreichische Akademie der Wissenschaften,
Phil.-hist. Klasse, Sitzungsbericht 248 (Wien 1965) 128 ss.; F. Casavola, Gaio nel suo tempo, in Gaio nel suo tempo (Napoli 1966) 9 ss.; F. Guizzi, Aspetti giuridici del
sacerdozio romano. Il
sacerdozio di Vesta (Napoli 1968) 16 ss.; G.G. Archi, Interpretatio iuris -
interpretatio legis - interpretatio legum, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte
(Rom. Abt.) 87 (1970) 8 n. 8 (= in Studi F. Santoro-Passarelli VI (Napoli 1972) 10 n. 8); M. Fuhrmann, Intepretatio. Notizen zur
Wortgeschichte, in Sympotica
F. Wieacker (Göttingen
1970) 101; D. Nörr, Divisio
und Partitio (Berlin 1972)
49 s.; M. Talamanca, Lo schema
‘genus-species’ nelle sistematiche dei giuristi romani, in
La filosofia greca e il diritto romano, Quad. Lincei 221.II (Roma 1977) 189 n. 539.
[34] S. Schipani, Principia iuris. Potissima pars principium est.
Principi generali del diritto. Schede sulla formazione di un concetto,
in Nozione formazione e intepretazione del diritto, dall’età
romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al Professor Filippo Gallo
(Napoli 1997) 631 ss.
[35] S. Schipani, Principia iuris. Potissima pars principium est.
Principi generali del diritto cit. 649 ss.
[36] L. Lantella, ‘Potissima pars principium est’
(D. 1.2.1) cit. 293: «Orbene, se su questa frase non vi fossero
perplessità di critica testuale si potrebbe serenamente sostenere
ciò che segue. Il testo dice, in sostanza, che occorre risalire agli
inizi della città: ne risulta allora che il correlato di ‘principium’
parrebbe identificarsi con la fondazione di Roma e tempi circostanti (inseriti
in un racconto che purtroppo non è pervenuto e non possiamo certo
immaginare, ma che avrà pur sempre utilizzato, analogamente a Pomponio,
i ben noti elementi della tradizione)».
[37] L. Lantella, ‘Potissima pars principium est’
(D. 1.2.1) cit. 294: «se il testo originario fosse così
occorrerebbe sostenere questa volta una diversa soluzione: infatti, come
correlato di ' principium ', non potremmo più pensare
genericamente a “gli inizi della città”, ma dovremmo invece
pensare specificamente a “diritto del popolo romano agli inizi della
città”. La differenza può sembrare minima tuttavia,
quantomeno nella formulazione e nel senso, è abbastanza netta ed appare
identificabile così: nel primo caso abbiamo “gli inizi della
città di Roma”; nel secondo caso abbiamo, invece, “gli inizi
del diritto romano”. La prima formulazione (quella pervenuta) sembra
più liberale in quanto apre il campo alla storia tout court; la seconda
(quella ipotizzata) sembra invece più ristretta in quanto fa riferimento
a una storia settoriale e cioè alla storia giuridica in senso
proprio».
[38] D.
1.2.2.1 (Pomponius libro singulari enchiridii): Et quidem initio
civitatis nostrae populus sine lege certa, sine iure certo primum agere
istituit omniaque manu a regibus gubernabantur.
Legge
il frammento in altra prospettiva G.
Lobrano, Pater et filius eadem persona. Per lo studio della patria
potestas (Milano 1984) 65: «La manus, con la quale
“all’inizio” i re tutto governavano, non può, infatti,
non rinviare il pensiero al (omonimo?) potere, così importante
nell’ambito della organizzazione familiare».
[39] Serv. Dan. in Verg. Aen. 2.351: excessere quia ante
expugnationem evocabantur ab hostibus numina propter vitanda sacrilegia. Inde
est, quod Romani celatum esse voluerunt, in cuius dei tutela urbs Roma sit. Et
iure pontificum cautum est, ne suis nominibus dii Romani appellarentur, ne
exaugurari possint. Et in Capitolio fuit clipeus consecratus, cui inscriptum
erat ‘genio urbis Romae, sive mas sive femina’. Et pontifices ita
precabantur ‘Iuppiter optime maxime, sive quo alio nomine te appellari
volueris. Macr. Sat. 3.9.3 nam propterea ipsi Romani et deum in cuius
tutela urbs Roma est et ipsius urbis Latinum nomen ignotum esse voluerunt.
[40] Fest. De verb. sign.,
v. Peregrina sacra, p. 268 L.: Peregrina
sacra appellantur, quae aut evocatis dis in oppugnandis urbibus Romam sunt
† conata † [conlata Gothofr.; coacta Augustin.], aut quae ob
quasdam religiones per pacem sunt petita, ut ex Phrygia Matris Magnae, ex
Graecia Cereris, Epidauro Aesculapi: quae coluntur eorum more, a quibus sunt
accepta. Sui sacra peregrina
vedi, per tutti, J. Marquardt, Römische Staatsverwaltung III cit.
42 ss., 74 ss. = Id.,
Le culte chez les Romains I (Paris
1889) 44 ss., 81 ss.; G. Wissowa,
Religion und Kultus der Römer
cit. 348 ss.; M. van Doren, Peregrina sacra. Offizielle
Kultübertragungen im alten Rom, in Historia
3 (1955) 488 ss. Cfr. R. Turcan, Lois romaines, dieux étrangers et
«religion d’Etat», in Diritto
e religione da Roma a Costantinopoli a Mosca, a cura di M.P. Baccari (Roma
1994) 23 ss.; F. Sini, Dai peregrina sacra alle pravae et externae religiones dei Baccanali: alcune riflessioni su
‘alieni’ e sistema giuridico-religioso romano, in La Condition des “autres” dans
les systèmes juridiques de la Méditerranée, sous la
direction de F. Castro et P. Catalano (Paris 2001, pubbl. 2004)
59 ss.
[41] Liv. 5.21.3: Te
simul, Iuno regina, quae nunc Veios colis, precor ut nos victores in nostram
tuamque mox futuram urbem sequare, ubi te dignum amplitudine tua templum
accipiat. L’evocatio di
Giunone Regina è stata studiata, fra gli altri, da V. Basanoff, Evocatio. Étude
d’un rituel militaire romain cit. 42 ss.; S. Ferri, La Iuno Regina di Veii, in Studi Etruschi
24 (1955) 106 ss.; J. Hubaux, Rome et Véies. Recherches
sur la chronologie légendaire du moyen âge romain (Paris 1958) 154 ss.; R.E.A.
Palmer, Roman Religion and Roman
Empire. Five Essays (Philadelphia 1974) 21 ss.; G. Dumézil, La
religion romaine archaïque cit. 426 s. [= Id., La religione
romana arcaica cit. 370 s.]; R.
Bloch, Interpretatio
cit. 15 ss.
Macr.
Sat. 3.9.6-9: Nam repperi in libro quinto
rerum reconditarum Sammonici Sereni utrumque carmen, quod ille se in cuiusdam
Furii vetustissimo libro repperisse professus est. Est autem carmen huius modi
quo di evocantur cum oppugnatione civitas cingitur: “Si deus, si dea est,
cui populus civitasque Carthaginiensis est in tutela, teque maxime, ille qui
urbis huius populique tutelam recepisti, precor venerorque, veniamque a vobis
peto ut vos populum civitatemque Carthaginiensem deseratis, loca templa sacra
urbemque eorum relinquatis, absque his abeatis eique populo civitatique metum
formidinem oblivionem iniciatis, propitiique Romam ad me meosque veniatis,
nostraque vobis loca templa sacra urbs acceptior probatiorque sit, mihique
populoque Romano militibusque meis propitii sitis. Si <haec> ita
faceritis ut sciamus intellegamusque, voveo vobis templa ludosque facturum”.
In eadem verba hostias fieri oportet, auctoritatemque videri extorum, ut ea
promittant futura. P. Preibisch,
Fragmenta librorum pontificiorum (Tilsit 1878) 11 fr. 52; F.P. Bremer, Iurisprudentiae
antehadrianae quae supersunt I cit. 29 fr. 1; C. Thulin, Italische sakrale Poesie und Prosa. Eine metrische Untersuchung
(Berlin 1906) 59 ss.; Huschke-Seckel-Kübler,
Iurisprudentiae anteiustinianae reliquias I cit. 15 fr. 1. Quanto
all’identità del Furio autore del vetustissimus liber, non
sembrano esservi dubbi sull’identificazione di esso con L. Furio Filo,
uomo politico e giurista amico di Scipione Emiliano, console nel 136 a. C.:
così M. Schanz - C. Hosius, Geschichte der
römischen Literatur I, 4ª ed. (München 1927, rist. an. 1966)234; sul personaggio
vedi F. Munzer, v. Furius,
in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft
VII.1 (Stuttgart 1910) 360; O. Behrends,
Tiberius Gracchus und die Juristen seiner Zeit - die römische
Jurisprudenz gegenüber der Staatskrise des Jahres 133 v. Chr., in Das
Profil des Juristen in der europäischen Tradition. Symposion aus Anlass des 70. Geburtstages
von F. Wieacker (Ebelbach 1980) 113 ss.; R.A. Bauman, Lawyers in Roman republican
politics: a study of the Roman jurists in their political setting,
316-82 BC cit. 282 ss.
[42] Già G. Scherillo, Il diritto pubblico romano in Tito Livio, in Liviana (Milano 1943) 79 ss., sottolineava, a ragione, la notevole
rilevanza dei libri ab urbe condita
quale fonte privilegiata per la conoscenza della complessa materia dello ius publicum in età repubblicana;
nello stesso senso, C.St. Tomulescu, La valeur juridique de l’histoire de Tite-Live, in Labeo 21 (1975) 295 ss.
[43] Liv. 5.51.4-5: Equidem,
si nobis cum urbe simul positae traditaeque per manus religiones nullae essent,
tamen tam evidens numen hac tempestate rebus adfuit Romanis, ut omnem
neglegentiam divini cultus exemptam hominibus putem. Intuemini enim horum
deinceps annorum vel secundas res vel adversas; invenietis omnia prospera
evenisse sequentibus deos, adversa spernentibus. Cfr. Liv. 1.9.3-4: Urbes quoque, ut cetera, ex infimo nasci; dein, quas sua virtus
ac dii iuvent, magnas opes sibi magnumque nomen facere; satis scire origini Romanae et deos adfuisse et non defuturam virtutem. 1.21.1-2: Ad haec consultanda
procurandaque multitudine omni a vi
et armis conversa, et animi
aliquid agendo occupati erant, et deorum adsidua insidens cura, cum interesse
rebus humanis caeleste numen videretur, ea pietate omnium pectora imbuerat, ut fides ac ius
iurandum pro legum ac poenarum
metu civitatem regerent. Et cum
ipsi se homines in regis
velut unici exempli mores formarent, tum finitimi etiam populi, qui antea
castra non urbem positam in medio ad sollicitandam
omnium pacem crediderant, in eam
verecundiam adducti sunt, ut civitatem
totam in cultum versam deorum violare ducerent nefas. 1.55.3-4: Inter principia condendi huius operis movisse numen ad indicandam
tanti imperii molem traditur deos; nam cum omnium
sacellorum exaugurationes admitterent
aves, in Termini fano non
addixere; idque omen auguriumque ita acceptum est, non
motam Termini sedem unumque eum deorum non evocatum
sacratis sibi finibus firma stabiliaque cuncta portendere. 8.3.10: Hoc demum proelium Samnitium res ita infregit,
ut omnibus conciliis fremerent minime id quidem mirum esse, si impio
bello et contra foedus suscepto, infestioribus merito deis quam hominibus, nihil prospere agerent. 28.11.1: In civitate tanto discrimine belli sollicita, cum omnium secundorum adversorumque causas in deos
verterent, multa prodigia nuntiabantur.
[44] M.-L. Deißmann-Merten, Fides
Romana bei Livius, Diss. 1964 (Frankfurt am Main 1965); W. Flurl, Deditio in fidem. Untersuchungen
zu Livius und Polybios (Diss.
München 1969) 127 ss.; P.
Boyancé, études
sur la religion romaine (Rome
1972) 105 ss. [Fides romana et la vie internationale], 135 ss. [Les
Romains, peuple de la Fides]; K.-J. Hölkeskamp, Fides -
deditio in fidem - dextra data et accepta: Recht, Religion und Ritual in Rom,
in The Roman middle republic. Politics, religion, and historiography c. 400 - 133
B.C., edited by C. Bruun (Rome 2000) 223 ss.; su fides e pietas vedi T.J. Moore, Artistry and Ideology: Livy’s Vocabulary of Virtue (Frankfurt
am Main 1989) in part. 35 ss., 56 ss.
[45] Livio 44.1.9-11: Paucis
post diebus consul contionem apud milites habuit. Orsus a parricidio Persei
perpetrato in fratrem, cogitato in parentem, adiecit post scelere partum regnum
veneficia, caedes, latrocinio nefando petitum Eumenen, iniurias in populum
Romanum, direptiones sociarum urbium contra foedus. Ea omnia quam dis quoque
invisa essent, sensurum in exitu rerum suarum; favere enim pietati fideique
deos, per quae populus Romanus ad tantum fastigii venerit. Per una visione
d’insieme delle concezioni religiose del sommo annalista romano, sono da
consultare G. Stübler, Die Religiosität des Livius
(Stuttgart-Berlin 1941); I. Kajanto,
God and fate in Livy (Turku 1957); A.
Pastorino, Religiosità
romana dalle Storie di Tito Livio (Torino 1961); W. Liebeschuetz, The
Religious position of Livy’s History, in The Journal of Roman Studies 67 (1967) 45 ss.; D.S. Levene, Religion in Livy (Leiden-New York-Köln 1993); per le formule
di preghiera, vedi invece F.V. Hickson,
Roman prayer language: Livy and the
Aeneid of Virgil (Stuttgart 1993).
[46] Liv. 5.52.1-3: Haec
culti neglectique numinis tanta monumenta in rebus humanis cernentes ecquid
sentitis, Quirites, quantum vixdum e naufragiis prioris culpae cladisque
emergentes paremus nefas? Urbem auspicato inauguratoque conditam habemus;
nullus locus in ea non religionum deorumque est plenus; sacrificiis sollemnibus
non dies magis stati quam loca sunt in quibus fiant. Hos omnes deos publicos
privatosque, Quirites, deserturi estis?
[47] Cfr., in tal senso, A.
Ferrabino, Urbs in aeternum condita (Padova 1942); J. Vogt, Römischer Glaube und römisches Weltreich (Padova 1943). Per
quanto riguarda, invece, più specificamente l’ideologia, vedi H. Haffter, Rom und römische Ideologie bei Livius, in Gymnasium 71 (1964) 236 ss. [= Id., Römische Politik und römische Politiker (Heidelberg 1967)
74 ss.]; M. Mazza, Storia e ideologia in Livio. Per
un’analisi storiografica della ‘praefatio’ ai ‘libri ab
urbe condita’ (Catania 1966) 129 ss.; G. Miles, Maiores, Conditores, and Livy’s Perspective of the Past,
in Transactions of the American
Philological Association 118 (1988) 185 ss.; B. Feichtinger, Ad maiorem gloriam Romae. Ideologie und Fiktion in der Historiographie des Livius, in Latomus 51 (1992) 3 ss.
[48] H. Fugier, Recherches sur l'expression du sacré
dans la langue latine (Paris 1963) 207: «En fait, le populus ne pourrait subsister s’il
perdait le milieu sacré qui le nourrit pour ainsi dire, en quittant
l’urbs fondée avec
l’acquiescement des auspices et par un acte inaugural; ou pour exprimer
la même idée à un niveau religieux un peu plus moderne, il
ne pourrait conserver la pax deorum, hors du cadre seul apte à
contenir les sacrifices réguliers, par lesquels cette “paix”
se maintient. Telles sont les vérités que lui rappelle Camille,
pour ruiner la folle suggestion des tribuns, d’émigrer en masse
vers le site de Véies». Vedi anche la riflessione di C.M. Ternes, Tantae molis erat… De la ‘nécessité’
de fonder Rome, vue par quelques écrivains romains du –1er
siècle, in “Condere
Urbem”. Actes des 2èmes Rencontres Scientifiques de Luxembourg
(janvier 1991) (Luxembourg 1992) 18 s.
[49] F. Sini, Impero Romano e religioni straniere: riflessioni
in tema di universalismo e “tolleranza” nella religione politeista
romana, in Sandalion. Quaderni di
cultura classica, cristiana e medievale 21-22 (1998-1999 [pubbl. 2001]) 57
ss.; Id., Sua cuique civitati
religio. Religione e diritto pubblico in
Roma antica (Torino 2001) 44 ss.; Id.,
Dai documenti dei sacerdoti romani: dinamiche dell’universalismo nella
religione e del diritto pubblico di Roma, in Diritto @ Storia 2 (Marzo 2003) < http://www.dirittoestoria.it/tradizione2/Sini-Dai-Documenti.htm >; Id., Dai peregrina sacra alle pravae et externae religiones dei Baccanali: alcune riflessioni su
‘alieni’ e sistema giuridico-religioso romano, in La Condition des “autres” dans
les systèmes juridiques de la Méditerranée, sous la
direction de F. Castro et P. Catalano (Paris 2001, pubbl. 2004) 59 ss.
[50] W. Seston, Les
murs, les portes et les tours des enceintes urbaines et le problème des res
sanctae en droit romain, in Mélanges
d’Archéologie et d’Histoire offerts à André
Piganiol, III, Paris, 1966, 1489 ss.
[51] Macr. Sat. 3.3.1: Et quia inter decreta
pontificum hoc maxime quaeritur quid sacrum, quid profanum, quid sanctum quid
religiosum, quaerendum utrum his secundum definitionem suam Vergilius usus sit
et singulis vocabuli sui proprietatem suo more servaverit. Cfr. Cic. De har. resp. 12: de sacris
publicis, de ludis maximis, de deorum penatium Vestaeque matris caerimoniis, de
illo ipso sacrificio quod fit pro salute populi Romani, quod post Romam
conditam huius unius casti tutoris religionum scelere violatum est, quod tres
pontifices statuissent, id semper populo Romano, semper senatui, semper ipsis
dis immortalibus satis sanctum, satis augustum, satis religiosum esse visum est.
[52] Decreta sacerdotali:
Cic. De div. 2.35; in Vat. 20; Liv. 4.7.3; 21.1.15-19; 27.37.4;
27.37.7; 31.8.2-3; 31.9.8; 32.1.9; 34.45.8; 39.22.4-5; 40.45.2; 41.21.10-11;
45.12.10; Fest. De verb. sign., p.
152 L. Responsa: Cic. De domo 39,
40; Liv. 5.23.8-10; 5.25.7; 36.3.7-12; 41.18.8.
Per
quanto riguarda i responsa, non
è neppure certo se, e in che misura, essi vincolassero il magistrato, il
senato o il privato che li avevano richiesti; tuttavia il prestigio dei
sacerdoti era tale da far sì che raramente venissero disattesi; cfr.
Cic. De har. resp. 6.12: Quae tanta religio est qua non in nostris
dubitationibus atque in maximis superstitionibus unius P. Servili ac M. Luculli
responso ac verbo liberemur? De sacris publicis, de ludis maximis, de deorum
penatium Vestaeque matris caerimoniis, de illo ipso sacrificio quod fit pro
salute populi Romani, quod post Romam conditam huius unius casti tutoris
religionum scelere violatum est quod tres pontifices statuissent, id semper
populo Romano, semper senatui, semper ipsis dis immortalibus satis sanctum,
satis augustum, satis religiosum esse visum est.
La
distinzione tra i decreta e i responsa sacerdotali non risulta del
tutto chiara: P. Jörs, Römische Rechtswissenschaft zur Zeit
der Republik, I. Bis auf die Catonen (Berlin
1888) 29 ss.; E. De Ruggiero, v. Decretum,
in Dizionario Epigrafico di
Antichità Romane II.2 (Roma 1910) 1497 ss.; G. Wissowa, Religion
und Kultus der Römer, 2ª ed. (München 1912) 541 s., 527 ss., 551; F. Schulz, History of Roman Legal Science , 2ª ed. (Oxford
1953) 15 ss. = Id., Storia della giurisprudenza romana,
trad. it. a cura di G. Nocera (Firenze 1968) 37 ss.; G. Mancuso, Studi sul decretum nell’esperienza giuridica romana,
in Annali del Seminario Giuridico
dell’Università di Palermo 40 (1988) 78 ss.; infine da
menzionare L.L. Cohee, Responsa and decreta of Roman priesthoods during the Republic, Dissertation University
of Colorado at Boulder 1994.
[53] M. Talamanca, Trebazio Testa tra retorica e diritto, in Questioni di giurisprudenza
tardo-repubblicana, a cura di G.
G. Archi (Milano 1985) 46 ss.
M. D’Orta, La giurisprudenza tra Repubblica e
Principato. Primi studi su C.
Trebazio Testa (Napoli 1990).
[54] Macr. Sat.
3.3.5: Sanctum est, ut idem Trebatius libro decimo Religionum refert,
interdum idem quod sacrum idemque quod religiosum, interdum aliud, hoc est nec
sacrum nec religiosum, est. F. P.
Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae que supersunt I cit. 406
fr. 9. Ph. E. Huschke,
Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquias, editione sexta I cit. 45 fr.
7.
[56] D. 1.8.8 (Marcianus libro quarto
regularum): Sanctum est, quod
ab iniuria hominum defensum atque munitum est. Sanctum autem dictum est a
sagminibus: sunt autem sagmina quaedam herbae, quas legati populi romani ferre solent,
ne quis eos violaret, sicut legati graecorum ferunt ea quae vocantur cerycia.
In municipiis quoque muros esse sanctos Sabinum recte respondisse Cassius
refert, prohiberique oportere ne quid in his immitteretur.
[57] Serv. in Verg. Aen.
12.200: ‘Sancire’ autem proprie est sanctum aliquid, id est
consecratum, facere fuso sanguine hostiae: et dictum ‘sanctum’,
quasi sanguine consecratum.
Cfr. Isid. Orig. 15.4.2: Sancta
iuxta veteres exteriora templi sunt. Sancta autem sanctorum locus templi
secretior, ad quem nulli erat accessus nisi tantum sacerdotis. Dicta autem
Sancta sanctorum quia exteriori oraculo sanctiora sunt, vel quia sanctorum
conparatione sanctiora sunt; sicut Cantica canticorum, quia cantica universa
praecellunt. Sanctum autem a sanguine hostiae nuncupatum; nihil enim sanctum
apud veteres dicebatur nisi quod hostiae sanguine esset consecratum aut
consparsum. Item sanctum, quod extat esse sancitum. Sancire est autem
confirmare et inrogatione poenae ab iniuria defendere; sic et leges sanctae et
muri sancti esse dicuntur.
[60] M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano (Milano
1990) 382: «Le res sanctae non sono, in senso stretto, res
divini iuris: già Gaio affermava che esse vi rientravano
solo in un certo senso … Esse sono, in definitiva, res publicae
poste sotto una specifica protezione dal punto di vista sacrale».
L’opinione prevalente tenda a considerare le res sanctae come res
divini iuris, in quanto poste sotto la speciale protezione degli
Dèi: così ad es. P.F.
Girard, Manuel élémentaire de droit romain, I (Paris 1929); G. Branca, Le “res
extra commercium humani iuris”, in Annali dell’Università di Trieste (1941) 242 ss.; P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 19 (1953) pp. 38 ss. Tuttavia,
sul tema sono ben noti gli approfondimenti e le divergenti riflessioni di
studiosi insigni e autorevolissimi: P. Bonfante, Corso di diritto romano,
II. La proprietà, 1 (1926), rist. a cura di G. Bonfante e G.
Crifò (Milano 1966); G. La
Pira, La genesi del sistema nella
giurisprudenza romana classica I.
Problemi generali, in Studi Virgili (Firenze l935) 159 ss.; G. Grosso, Corso di diritto romano. Le cose (Torino 1941); Id., Problemi sistematici del diritto romano. Cose-Contratti (Torino
1974); C. Gioffredi, La sanctio della legge e la perfectio della norma giuridica, in Archivio
Penale 2.1 (1946) 166 ss.;
e di studiosi a noi più
vicini come F. Fabbrini, v. Res divini
iuris, in Novissimo Digesto Italiano
XV (Torino 1968) 510 ss.; Id., Dai Religiosa
loca alle Res religiosae, in Bullettino dell’Istituto di Diritto
Romano 73 (1970) 197 ss.; C. Busacca, «Ne
quid in loco sacro religioso sancto fiat»?, in Studia et Documenta
Historiae et Iuris 43 (1977) 265 ss. Studi sulla classificazione delle
cose nelle istituzioni di Gaio (Villa San Giovanni 1982); F. Salerno, Dalla
«consecratio» alla «publicatio bonorum» (Napoli 1990)
Del resto, neanche nei più recenti manuali di Istituzioni di diritto
romano si registra un’impostazione uniforme sul problema delle res sanctae:
G. Pugliese, Istituzioni di diritto romano (Padova
1986); M. Marrone, Istituzioni di diritto romano 2 (Palermo
1987); G. Nicosia, Institutiones
II (Catania 1990); D. Dalla-R. Lambertini, Istituzione di diritto
romano (Torino 1996); R. Martini, Appunti di diritto romano
privato (Milano 2000).
[61] D. 1.8.6.2 (Marcianus libro tertio
institutionum): Sacrae res et
religiosae et sanctae in nullius bonis sunt. D. 39.3.17.3 (Paulus libro
quinto decimo ad Plautium): Sic et si non proximo meo praedio servitutem vicinus debeat, sed
ulteriori, agere potero ius esse mihi ire agere ad illum fundum superiorem, quamvis
servitutem ipse per fundum meum non habeam, sicut interveniente via publica vel
flumine quod vado transiri potest. Sed loco sacro vel religioso vel sancto interveniente, quo fas
non sit uti, nulla eorum servitus imponi poterit. D. 11.7.2.4 (Ulpianus libro vicensimo
quinto ad edictum): Purus autem locus dicitur, qui neque sacer neque
sanctus est necque religiosus, sed ab omnibus huiusmodi nominibus vacare
videtur.
[62] D. 41.3.9 (Gaius libro quarto ad edictum provinciale): Usucapionem recipiunt [maxime] res
corporales, exceptis rebus sacris, sanctis, publicis, populi romani et
civitatium, item liberis hominibus.
[63] D. 1.8.8.pr. (Marcianus
libro quarto regularum): Sanctus est, quod ab iniuria hominum
defensum atque munitum est.
[64] D. 1.8.9.3 (Ulpianus libro
sexagensimo octavo ad edictum): Proprie dicimus sancta, quae neque sacra
neque profana sunt, sed sanctione quadam confirmata, ut leges sanctae sunt,
sanctione enim quadam sunt subnixae. Quod enim sanctione quadam subnixum est,
id sanctum est etsi deo non sit consecratum: et interdum in sanctionibus
addicitur, ut qui ibi aliquid commisit, capite puniatur.
[65] Inst. 2.1.10: Sanctae quoque res,
veluti muri et portae, quodammodo divini iuris sunt et ideo nullius in bonis
sunt. Ideo autem muros sanctos dicimus, quia poena capitis constituta sit in
eos, qui aliquid in muros deliquerit, ideo et legum eas partes, quibus poenas
constituimus adversus eos qui contra leges fecerint, sanctiones vocamus.
[66] Sul giurista vedi, tra
gli altri, E. Klebs, Aelius, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft 1.1
(Stuttgart 1893) 492 s.; H. Bardon,
La littérature latine inconnue,
I. L'époque républicaine
(Paris 1952) 302; II (1956) 110; R.
Orestano, Gallo C. Elio, in Novissimo Digesto Italiano VII (Torino
1961) 738; A. Guarino, Esegesi delle fonti del diritto romano,
a cura di L. Labruna, I (Napoli
1968) 145 s.; F. Bona, Alla ricerca del “De verborum, quae ad
ius civile pertinent, significatione” di C. Elio Gallo, in Bullettino dell’Istituto di diritto
romano 90 (1990) 119 ss.; G. Falcone,
Per una datazione del «de verborum
quae ad ius pertinent significatione» di Elio Gallo, in Annali del Seminario Giuridico
dell’Università di Palermo 41 (1991) 225 ss.; F. Sini, A quibus iura civibus
praescribebantur. Ricerche sui giuristi del III secolo a.C. (Torino
1995) 58 ss.
[67] Fest. De verb. sign., p. 348 L.: Inter sacrum autem,
et sanctum, et religiosum differentias bellissime refert: sacrum aedificium,
consecratum deo; sanctum murum, qui sit circum oppidum; religiosum sepulcrum,
ubi mortuus sepultus aut humatus sit, satis constare ait; sed ita †
portione † quadam, et temporibus eadem videri posse.
[68] Cic. De nat. deor.
3.94: Est enim mihi te cum pro aris et focis certamen et pro deorum templis
atque delubris proque urbis muris, quos vos pontifices sanctos esse dicitis
diligentiusque urbem religione quam ipsis moenibus cingitis; quae deseri a me,
dum quidem spirare potero, nefas iudico.
[69] P. Fest. De verb. sign.,
p. 488 L.: <Tesca sun>t loca augurio desig<nata> ---ino finis in
terra auguri. Op<[p]illus> ---lius loca consecrata ad ---sit. Sed
sancta loca undique ---nt pontifici[s] libri, in quibus ---que sedemque
tescumque --- dedicaverit, ubi eos ac --- propitiosque. Preibisch, Fragmenta librorum pontificiorum (Tilsit
1878) 15 fr. 74. Il passo è corrotto e la ricostruzione appare molto
problematica: il Preibisch, accettando le integrazioni di Orsini e Scaligero
accolte nell’ediz. del Müller, propone la seguente lettura: Sancta loca (undique saepta doce)nt
pontifici libri, in quibus (scriptum est: templum)que
sedemque tescumque (sive deo sive dea) dedicaverit, ubi ac(cipiat
volentes) propitiosque; ma vedi, ora, l’interpretazione di P.-Y. Chanut, Les
«tesca» du Capitole, in
Revue de philologie, de litterature et d’histoire anciennes 54 (1980)
295 ss. (in part. 300 s.). Per quanto riguarda la fonte di questo passo, ne
attribuisce la paternità ad Elio Stilone, sostituendo la lettura
comunemente accettata <Tesca Verrius
ai>t con <Tesca Aelius> ait, H.
Funaioli, Grammaticae Romanae
fragmenta I (Lipsiae 1907) 76 fr. 75, con la seguente argomentazione:
«Verrius certe qui vulgo suppletur reieci debet, quippe qui semper
ultimus a Festo afferatur». Su questo problema, e più in generale
sulle glosse derivate da questo grammatico, cfr. F. Bona, Contributo
allo studio della composizione del «De verborum significatu» di
verrio Flacco (Milano 1964) 142 ss., in part. 147 n.
[70] Da ultimo, F. Sini, Libri e commentarii nella tradizione documentaria dei grandi collegi sacerdotali romani,
in Studia et Documenta Historiae et Iuris
LXVII (2001) 375 ss. [pubblicato anche nella rivista elettronica Diritto @ Storia. Rivista Internazionale di
Scienze Giuridiche e Tradizione Romana 1 (Maggio 2002) < http://www.dirittoestoria.it/tradizione/F.%20Sini%20-%20Libri%20e%20commentarii%20sacerdotali.htm >]; Id.,
Diritto e documenti sacerdotali: verso
una palingenesi, in Ius
Antiquum-Drevnee pravo 16 (Moskva 2005) 22 ss. [pubblicato
anche in Diritto @ Storia 4 (Novembre 2005) < http://www.dirittoestoria.it/4/Tradizione-Romana/Sini-Diritto-documenti-sacerdotali-palingenesi.htm > ].
[71] P. Catalano, Aspetti spaziali del sistema
giuridico-religioso romano cit. 447; cfr., più in generale, Id., Contributi
allo studio del diritto augurale cit. 317 ss.
[72] F. Fabbrini, v. Res divini iuris,
in Novissimo Digesto Italiano XV
(Torino 1968) 542. «All’accezione
di sanctus come “inaugurato” subentra quella di sanctus
= “garantito”: garantito da un atto sacer, e garantito dagli
dèi. Ciò che è garantito dagli dèi è
considerato “immutabile”, “solido”,
“sicuro”. è in
questa accezione che va ricercato il significato di sanctus dato alle
mura e alle porte fin da età piuttosto antica».
[73] Fest. De verb. sign., p. 358 L.: Rituales nominantur Etruscorum libri, in quibus
perscribtum est, quo ritu condantur urbes, arae, aedes sacrentur, qua
sanctitate muri, quo iure portae, quomodo tribus, curiae, centuriae
distribuantur, exercitus constituant<ur>, ordinentur, ceteraque eiusmodi
ad bellum ac pacem pertinentia. Cfr.
Cic. De div. 1.72: Quorum alia sunt posita in monumentis et
disciplina, quod Etruscorum declarant et haruspicini et fulgurales et rituales
libri, vestri etiam augurales.
[74] D. 1.8.9.4 (Ulpianus libro
sexagensimo octavo ad edictum) Muros
autem municipales nec reficere licet sine principis vel praesidis auctoritate
nec aliud eis coniungere vel superponere.
[75] E. Luebbertus, Commentationes pontificales (Berolini
1859) 48: «muros nec reficere licere sine principis vel praesidis
auctoritate, neque aliquid iis coniungere vel superponere, haud scio
vetustioribus temporibus pontificum arbitrii fuerit».
[76] D. 1.8.11 (Pomponius libro
secondo ex variis lectionibus): Si
quis violaverit muros, capite punitur, sicuti si quis transcendet scalis
admotis vel alia quilibet ratione. Nam cives Romanos alia quam per portas
egredi non licet, cum illud hostile et abominandum sit: nam et Romuli frater
Remus occisus traditur ob id, quod murum trascendere voluit.
[77] A. Johner,
Rome, la violence et le sacré: les doubles fondateurs, in Euphrosyne
19 (1991) 291 ss.
[78] B. Albanese, “Sacer esto”, in Bullettino dell’Istituto di Diritto
Romano 91 (1988, pubbl. 1992) 145-146: «L’idea di un automatico
incorrere nella sacertà, per il solo fatto d’aver commesso un atto
autoritativamente considerato illecito, dà l’impressione
d’essere più conforme ad una mentalità primitiva. Basti
accennare, ad es., all’antica tradizione relativa all’uccisione, da
parte di Romolo, del fratello Remo, quasi a sanzione immediata
dell’illecito costituito dal transiluisse
muros – un atto, questo, carico di illiceità sacrale, come
è evidente a chi consideri l’intrinseco carisma di
inviolabilità inerente alle mura civiche, che troviamo incluse tra le res sanctae in età progredita,
com'è notissimo».
[79] D. 49.16.3.17
(Modestinus libro quarto de poenis): Nec
non et si vallum quis transcendat aut per murum castra ingrediatur, capite
punitur.
[80] Quale esempio di
utilizzazione in senso giuridico di tali fonti, mi permetto di citare F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il
problema del "diritto internazionale antico" (Sassari 1991); ma
vedi anche O. Diliberto, La struttura del votum alla luce di alcune fonti letterarie, in
Studi in onore di A. Biscardi, IV
(Milano 1983) 297 ss.; G. Luraschi,
Foedus nell'ideologia virgiliana, in Atti del III Seminario Romanistico Gardesano.
Promosso dall'Istituto Milanese di
Diritto Romano e Storia dei Diritti Antichi. 22-25 Ottobre 1985 (Milano
1988) 279 ss.
[81] F. Sini, A quibus iura civibus praescribebantur. Ricerche sui giuristi del III secolo a.C.
(Torino 1995). Sulla giurisprudenza romana del III e II secolo a.C., rinvio
anche a F. D'ippolito: I giuristi e la città. Ricerche sulla
giurisprudenza romana della repubblica (Napoli 1978, ma 1979); Giuristi e sapienti in Roma arcaica
(Roma-Bari 1986); Sulla giurisprudenza
medio-repubblicana, Napoli 1988. La più brillante indagine
storiografica su questo secolo resta ancora il lavoro di F. Cassola, I gruppi politici romani nel III secolo a.C.
(Trieste 1962, rist. an. Roma 1968).
[82] Sulla lex Ogulnia de sacerdotibus ex plebe
creandis, vedi Liv. 10.6.1-6: M.
Valerio et Q. Apuleio consulibus satis pacatae foris res fuere; Etruscum adversae
belli res et indutiae quietum tenebant; Samnitem multorum annorum cladibus
domitum hauddum foederis novi paenitebat; Romae quoque plebem quietam et
exoneratam deducta in colonias multitudo praestabat. Tamen, ne
undique tranquillae res essent, certamen iniectum inter primores civitatis,
patricios plebeiosque, ab tribunis plebis Q. et Cn. Ogulniis, qui undique
criminandorum patrum apud plebem occasionibus quaesitis, postquam alia frustra
temptata erant, eam actionem susciperunt qua non infimam plebem accederent, sed
ipsa capita plebis, consulares triumphalesque plebeios, quorum honoribus nihil
praeter sacerdotia, quae nondum promiscua erant, deesset. Rogationem ergo
promulgarunt ut, cum quattuor augures, quattuor pontifices ea tempestate essent
placeretque augeri sacerdotum numerum, quattuor pontifices, quinque augures, de
plebe omnes, adlegerentur). Cfr.
Liv. 10.7 e 8; 10.9.1-2: Vocare tribus
extemplo populus iubebat, apparebatque accipi legem; ille tamen dies
intercessione est sublatus. Postero die deterritis tribunis ingenti consensu
accepta est. Pontifices creantur suasor legis P. Decius Mus, P. Sempronius
Sophus, C. Marcius Rutilus; M. Livius Denter; quinque augures item de plebe, C.
Genucius, P. Ailius Paetus, M. Minucius Faesus, C. Marcius, T. Publilius. Ita
octo pontificum, novem augurum numerus factus.
[83] Liv. 22.35.1-2: Cum
his orationibus accensa plebs esset, tribus patriciis petentibus, P. Cornelio
Merenda L. Manlio Vulsone M. Aemilio Lepido, duobus nobilium iam familiarum
plebeiis, C. Atilio Serrano et Q. Aelio Paeto, quorum alter pontifex, alter
augur erat, C. Terentius consul unus creatur, ut in manu eius essent comitia
rogando collegae; 23.21.7: Et tres
pontifices creati, Q. Caecilius Metellus et Q. Fabius Maximus et Q. Fulvius
Flaccus, in locum P. Scantinii demortui et L. Aemilii Pauli consulis et Q.
Aelii Paeti, qui ceciderant pugna Cannensi.
[86] Cfr. F. Bona, "Ius pontificium'' e "ius civile''
nell'esperienza giuridica tardo-repubblicana: un problema aperto, in Contractus e pactum. Tipicità e
libertà negoziale nell'esperienza tardo-repubblicana. Atti del convegno
di diritto romano e della presentazione della nuova riproduzione della
"littera Florentina''
(Napoli 1990) 210 s.: «Di fronte a ciò la romanistica,
costretta a misurarsi col problema dell'interazione tra ius pontificium e ius civile,
proprio nel momento in cui questo ha già dato i segni di costituirsi in
un insieme di regole e di istituti che sembrano voler affermare la loro
autonomia dal condizionamento religioso, la stessa romanistica, dicevo, sembra
versare in una situazione di stallo, tendendo, anzi, ad eludere il problema.
Se, poi, non avvenga che, in ragione del carattere delle fonti, in cui le
singole testimonianze sono prevalentemente conservate, il campo di indagine non
venga rivendicato da altre discipline o ad esse lasciato, ad es. alla storia
politica, per quanto concerne lo studio della collisione tra ius sacrum e ius publicum, di cui si trovano tracce notevoli nelle fonti
storiche, segnatamente in Livio e che vede come protagonisti autorevoli
esponenti del pontificato massimo plebeo. Eppure le fonti non sono così
avare di dati, da non giustificare un'indagine attenta in quel settore di
ricerche».
[87] Sul punto vedi, ora, F. Sini, Diritto e documenti
sacerdotali: verso una palingenesi, in Ius Antiquum - Drevnee pravo 16
(Moskva 2005) 22 ss. [pubbl. anche in Diritto @ Storia 4 (2005) = http://www.dirittoestoria.it/4/Tradizione-Romana/Sini-Diritto-documenti-sacerdotali-palingenesi.htm]; cfr.
anche L. Kofanov, Verso una palingenesi dei documenti
sacerdotali romani, in Diritto @
Storia 4 (2005) = http://www.dirittoestoria.it/4/Tradizione-Romana/Kofanov-Palingenesi-documenti-sacerdotali-romani.htm .
[88] O. Lenel, Palingenesia
iuris civilis, 2 voll. (Lipsiae 1889). Nella prestigiosa collana
"Antiqua'', diretta da L. Labruna, sono stati ripubblicati in due volumi
gli scritti del grande romanista tedesco: Gesammelte
Schriften, herausgegeben und eingeleitet von Okko Behrends und Federico
D'Ippolito (Napoli 1990); con due importanti saggi dei curatori (O. Behrends, Otto Lenel [13.12.1849 - 7.2.1935]. Positivismus im nationalen Rechtsstaat als
Haltung und Methode. Zur Herausgabe seiner gesammelten Schriften, XIII ss.; F.
D'Ippolito, Otto Lenel e la
giurisprudenza romana, XXXV ss.). Per il profilo biografico e
scientifico, nonché per la valutazione del suo contributo alla scienza
giuridica contemporanea, oltre i saggi appena citati, vedi fra gli altri: E. Al(bertario), Otto Lenel, in Enciclopedia
Italiana 20 (rist. 1933) col. 836; F. Pringsheim, In memoriam, in Studia et
documenta historiae et iuris 1 (1935) 466 ss.; M. Wlassak, Erinnerungen
an Otto Lenel, in Almanach der
Akademie der Wissenschaften in Wien 85 (1935, ma 1936), 309 ss.; E. Bund, Otto Lenel, in J. Vincke,
Freiburger Professoren des 19. und 20. Jahrhunderts
(Freiburg 1957) 77 ss. (ivi altra letteratura biografica); brevemente anche F. Wieacker, Storia del diritto privato moderno, II (Milano 1980) 108.
[89] O. Lenel, Palingenesia
iuris civilis I (Lipsiae 1889) Praefatio
§ I: «Exceptis igitur iis fragmentis quae mox enumerabuntur omnia
recepi quae Iustiniani digestis continentur quaeque praeterea e civili
Romanorum iuris prudentia servata sunt. Gai autem institutiones, Pauli
sententias, Ulpiani regularum librum singularem, Dositheana quae vocantur
fragmenta, fragmentum de iure fisci propterea exclusi, quod molem per se iam
satis amplam huius collectionis inutiliter auxissent. Omissa sunt praeterea
quaecumque sive ius publicum sive sacrum spectant fagmenta extra digesta
tradita: quod invitus et quodam modo coactus feci, cum propter difficultatem
satis accurate discernendi quaenam ad ius proprie sic dictum spectent quaeve ad
antiquitates refenda sint, tum ob miseram condicionem, qua longe maxima pars
fragmentorum quae huc faciunt – ea praesertim quae Festo debentur –
tradita sunt. Nec tamen nimis anxius fui in excludendis huius generis fragmentis,
cum tres illae iuris partes – ius sacrum publicum privatum – arta
saepe necessitate inter se connexa sint: eorum librorum, in quibus et de iure
sacro vel publico et de iure privato quaeritur, omnia fragmenta recepi vel
saltem indicavi».
[90] Non è certo
senza significato, che in merito all'adozione del termine palingenesia quale titolo della raccolta, quasi per certo
improntato sull'opera di C.F. Hommel (Hommelii,
Palingenesia librorum iuris veterum, sive
Pandectarum loca integra ad modum indicis Labitti et Wielingii oculis exposita
et ab exemplari Florentini Taurelli accuratissime descripta, 3 voll.
[Lipsiae 1767-1768]), il Lenel ricordasse di aver dovuto superare anche le
forti obiezioni espressegli dal Mommsen, il quale forse in tale titolo vedeva
un proposito quasi impossibile da mantenere: cfr. O. Behrends, Otto Lenel
cit. XIX n. 26. Valutazione critica del “programma” esegetico del
grande studioso tedesco, in F. Sini,
A quibus iura civibus praescribebantur.
Ricerche sui giuristi del III secolo a.C. cit. 51 ss.
[91] O. Lenel, Palingenesia
iuris civilis I cit., Praefatio,
§ II: «Singulos scriptores, ratione habita non ubique gentis
nominis, sed quo designari solent, secundum litterarum ordinem disposui. Ita
ex. gr. Caelius Sabinus sub littera C, Masurius Sabinus sub littera S
invenientur. Qui ordo, praeterquam quod ad usum maiorem commoditatem praebet,
minoribus difficultatibus obnoxius est quam secundum tempora dispositio, quippe
cum non semper satis certo definire possit quo quisque saeculo ixerit. In fine totius operis duplex additur
index, alter alphabeticus, alter chronologicus». Sui
criteri adottati dal Lenel per ordinare i materiali dei singoli giureconsulti,
vedi la valutazione, stringata ma efficace, di L. Wenger, Die Quellen
des römischen Rechts (Wien 1953) 876 e n. 214.
[92] O. Lenel, Palingensia
iuris civilis I cit., Praefatio,
§ III: «Singulorum librorum fragmenta ita disponere conatus sum, ut
inde ratio et conexus totius operis e quo desumpta sunt perspiceretur. Quod ubi
fieri non potuit, hunc ordinem secutus sum, ut primum ponerentur e digestis
fragmenta, deinde quae in ceteris de iure libris inveniuntur, ultimo vero loco
quae alibi tradita sunt, insertis tamen inter digestorum fragmenta iis quae
similis argumenti videbantur. Caute autem in illa restitutione procedendum esse
censui et ita ut artis nesciendi numquam immemor essem. De varia ratione rerum
disponendarum, qua iuris auctores usi sint, suo quoque loco diximus neque hic
accuratius inquiremus. Singula singulorum librorum capita, ubi fieri potuit,
rubricis distinxi».
[93] Da notare che tale
rigore risulta, ancora oggi, condiviso almeno in parte da settori non
trascurabili della scienza romanistica: cfr., ad esempio, F. Bona, Cicerone e i libri iuris
civilis di Quinto Mucio Scevola,
in Questioni di giurisprudenza
tardo-repubblicana. Atti di un Seminario - Firenze 27-28 maggio 1983, a
cura di G. G. Archi (Milano 1985) 244-246: «Non si loderà mai
abbastanza la prudenza del Lenel. Ed a giustificarla basterebbe rifarsi alla
circostanza che di pari passo con il processo di laicizzazione della
giurisprudenza, alla produzione giuridico-letteraria di ius civile che andò infittendosi nel corso del 2° e
1° sec. a. Cr., si affiancò una autonoma produzione letteraria di ius pontificium,
che, se in un primo tempo sembra sia stata esclusiva opera di appartenenti al
collegio pontificale, venne espressa, a partire, almeno, dalla metà del
1° sec. a. Cr., anche da giuristi non pontefici». Tuttavia, non
sfugge allo studioso l'esigenza di temperare la rigidità del metodo
leneliano, quando avverte il bisogno «di esprimere qualche riflessione
che, se non vuole mettere in discussione la bontà in sé del
criterio di esclusione leneliano, metta in guardia dal pericolo di precluderci,
col suo impiego acritico, una più compiuta conoscenza delle opere
giurisprudenziali del 2° e 1° sec. a.Cr.».
[94] O. Behrends, Otto Lenel cit. XIX,
sottolinea, a proposito della Palingenesia,
la acribia ricostruttiva e la «methodische Strenge» del Lenel:
«Und auch die Palingenesie verdeutlicht, indem sie für die
historisch arbeitende Romanistik den Vorrang der klassischen Juristenschrift
gegenüber den Digesten klarstellt und mit methodischer Strenge in den
Digestenfragmenten eine Fülle von justinianischen Glättungen und
Interpolationen nachweist, mit grossem Nachdruck den Abstand zwischen dem
römischen und dem geltenden Recht».
[95] Sulla reale portata del
pensiero del Lenel, riguardo alla «misera condicio» delle edizioni
del testo festino, vedi la riflessione di F. Bona,
Cicerone e i libri iuris civilis di
Quinto Mucio Scevola cit. 244 n. 109 («Non so se – con riguardo
a Festo –, la ‘misera condicio’ lamentata, attraverso cui i
frammenti sono stati tramandati si debba intendere esclusivamente con riguardo
allo stato, veramente miserevole, in cui versa la tradizione testuale
dell'epitome, o se possa riferirsi anche alle difficoltà di una sua
lettura critica. Una domanda destinata forse a rimanere senza risposta è
se Lenel [...] abbia potuto o, pur potendolo, non abbia voluto tener conto
delle Verrianische Forschungen di R. Reitzenstein, che sono
del 1887 e che hanno aperto la strada all'esame stratigrafico delle glosse
delle “seconde” parti delle singole lettere, in cui si articola
l'epitome festina e che non avrebbe mancato di suggerire o qualche maggiore
cautela nell'ordine di idee perseguito dal Lenel o, viceversa, qualche maggiore
fiducia nell'allargare la scelta anche fuori dell'opera festina»);
aderisce, nella sostanza, F. D'Ippolito,
Otto Lenel e la giurisprudenza romana
cit. XLIII s.: «Vorrei qui attirare l'attenzione sulla scelta
dell'esclusione di Festo. Bisogna, infatti, considerare che, quando la Palingenesia vide la luce, l'edizione
più attendibile dell'epitome festina era quella di Karl Otfried
Müller, la cui edizione è del 1839. [...] è forse ragionevole pensare che Lenel considerasse
l'edizione di Müller poco affidabile. Né, del resto, appare
immotivata la diffidenza di Lenel sulla tradizione letteraria dei giuristi,
esterna, per così dire alla Compilazione, se pensiamo alla non grande
diffusione delle edizioni critiche».
[96] Questo atteggiamento
del Lenel, sembra trovare una qualche giustificazione da parte di F. D'Ippolito, Otto Lenel e la giurisprudenza romana cit. XLV, quando parla di un
«suo inevitabile ritrarsi di fronte alla sterminata platea della
tradizione “letteraria” della giurisprudenza romana (ancora tutta
da indagare)».
[97] Per la critica alle
posizioni del Lenel, vedi L. Raggi,
Storia esterna e storia interna del
diritto nella letteratura romanistica, in Bullettino dell'Istituto di Diritto Romano 62 (1959) 199 ss. [= Id., Scritti (Milano 1975) 72 ss.], il quale evidenzia il persistere in
esse della distinzione formulata dal Leibniz tra storia esterna e storia
interna del diritto: «Da sottolineare inoltre come questa concezione
leibniziana riecheggi la convinzione - a tutt'oggi non ancora scomparsa -
dell'estraneità dello jus publicum alla concezione romana dello jus» (85; ivi anche n. 30).
[98] Il pensiero del Lenel
non si discostava, dunque, dalla communis
opinio della pandettistica del suo
tempo, nel considerare oggetto dell'indagine giuridica unicamente quello che,
parafrasando il titolo di un celebre manuale di A. Heimberger, potrebbe
definirsi «il diritto romano privato e puro» (Heimberger, Il diritto romano privato e puro, trad. it. di C. Bosio, 3ª
ed. (Bellinzona 1851) 1.«Il Diritto romano in senso lato è quel
complesso di leggi civili che furono in vigore nell’antico Impero romano
dalla sua origine fino alla sua caduta in Oriente. Preso in questo senso, il Diritto romano abbraccia non solo le
leggi emanate da Giustiniano, ma ben anche tutte le altre che furono promulgate
prima e dopo di lui. Per Diritto romano però in senso stretto e
proprio s’intendono soltanto leggi dettate da Giustiniano».
Sarà facile perciò intendere come ius publicum e ius sacrum,
in questa prospettiva, non fossero ritenuti riconducibili al «vero
diritto romano», ma alla «parte storica e archeologica del
medesimo»: cfr. ad esempio quanto scriveva, a proposito delle ricerche
giuspubblicistiche di Carlo Sigonio, C. Bosio,
Prefazione del Traduttore, in A. Heimberger, op. cit. IX: «L'opera del Sigonio, De antiquo jure populi romani, ancorché utilissima anche al presente, più
che del vero Diritto romano, si occupa della parte storica e archeologica del
medesimo». Ma nello stesso senso, vedi anche S. Perozzi, Istituzioni
di diritto romano I (Roma 1928) 4: «Il nome di diritto romano indica
[...] per antonomasia il diritto romano privato e non comprende il pubblico.
Ciò pure dipende da ragioni storiche, dal fatto cioè che la
codificazione giustinianea nella parte prevalente e di maggior pregio è
una codificazione del diritto privato e quasi esclusivamente questa sola parte
ebbe nei paesi e dal tempo accennati valore di legge e trattazione
scientifica».
[99] Utilizzo non
casualmente l'espressione iura populi
Romani, in quanto terminologia specialistica del linguaggio giuridico
romano: cfr. Gaio, Inst. 1.2: Constant autem iura populi Romani ex
legibus, plebiscitis, senatusconsultis, constitutionibus principum, edictis
eorum, qui ius edicendi habent, responsis prudentium. Sull’importante
testo gaiano, vedi ora V.
Giodice-Sabbatelli, Gli iura
populi Romani nelle istitizioni di Gaio
(Bari 1996) 41 ss.
[100] Contro
tale tendenza omissiva vedi, ad esempio, le forti obiezioni di F. Stella Maranca, Il diritto pubblico romano nella storia delle istituzioni e delle
dottrine politiche, in Id., Scritti vari di diritto romano, Bari
1931, pp. 86 ss.
[101] R. Orestano, Introduzione allo studio del diritto romano (Bologna 1987) 533 n.
26: «A tal fine sarà sommamente utile – scrive lo studioso
– una Palingenesia iuris romani
publici in cui venissero raccolte tutte le testimonianze e tutti gli
squarci di autori giuridici e non giuridici concernenti lo ius publicum. Si pensi, al riguardo, che essi sono stati deliberatamente esclusi dal Lenel, nella
sua Palingenesia iuris civilis».
[102] G.
Dumézil, Idées
romaines (Paris 1969) 9 e 25; vale la pena di riflettere anche su quanto
segue: «A cet estimable niveau d'activité intellectuelle, devant
cette pensée elle-même avide de précision, l'observateur
est tenu d'interroger avec attention et avec respect, d'égal à
égal, si l'on peut dire, le mots, les récits, les institutions,
les figures divines dans lesquels elle s'est exprimée».
[103]
L'espressione è di F. Wieacker,
Altrömische Priesterjurisprudenz,
in Iuris professio. Festgabe
für Max Kaser zum 80. Geburtstag
(Wien-Graz-Köln 1986) 353, di cui vedi l'osservazione più generale:
«Die pontifices sind die ersten
greifbaren Fachjuristen der antikokzidentalen Welt, und spezifische Züge
ihrer Expertentechnik haben sich den späteren römischen Juristen und
ihren europäischen Erben bis unsere Zeit aufgeprägt. Eben hierin ist
ein auf den ersten Blick ein unerwartetes unmittelbares Interesse noch der
heutigen Juristen an der Pontifikaljurisprudenz der Römer
begründet». Cfr. Id., Römische Rechtsgeschichte.
Quellenkunde, Rechtsbildung, Jurisprudenz und Rechtsliteratur I
(München 1988) 310 ss.
[104] F. Schulz, Storia della giurisprudenza romana, trad. it. a cura di G. Nocera
(Firenze 1968) 18 s.: «Nel periodo che segue le XII Tavole, quella
giurisprudenza romana, che noi conosciamo così bene e che raggiunse
l'adolescenza nell'ultimo secolo della Repubblica e la maturità
nell'età di Adriano, era ancora alla sua infanzia».