Ripensare la legalità nello "spazio"
giuridico contemporaneo: un "ponte"
fra teoria e prassi
(pp. 21-93) dal volume: AA.VV., I
sentieri del giurista sulle tracce della fraternità. Ordinamenti a confronto, a cura di ADRIANA COSSEDDU,
Torino, G. Giappichelli Editore, 2016, XXVI-240 pp. – ISBN/EAN
978-88-921-0399-3
Università
di Sassari
Ripensare la legalità nello
"spazio" giuridico contemporaneo: un "ponte" fra teoria e prassi
SOMMARIO: 1. – L’oggi del diritto tra sfide e
complessità. Limite di un’indagine. – 2. Dalla Costituzione italiana una chiave di lettura e un
osservatorio “privilegiato” verso un paradigma “relazionale”. – 3. Relazioni
e genesi dell’offesa: l’orizzonte del diritto penale. – 4. Legalità
tra principio e
“valore”: una lettura costituzionale “oltre” la crisi. – 4.1. Principio
in materia penale. –
4.2. Fenomeni della criminalità. – 4.3. Una prospettiva costituzionale. – 5. Per una cultura della legalità tra
esigenze di garanzia e ambito della prevenzione. – 6. Modelli di responsabilità e “rete” di
relazioni: il caso emblematico delle attività economiche. – 7. Alle “radici” della legalità: nuovi
percorsi e “spazi” di fraternità. – Abstract.
L’epoca attuale, descritta come un tempo di rapidi cambiamenti, pone alla riflessione giuridica contemporanea questioni vecchie e nuove, domande che investono il senso stesso del diritto e le sue funzioni, temi da sempre ricorrenti, fino al più specifico ambito che affida alle norme il confine tra lecito e illecito. Ma oggi altra è la vastità dell’orizzonte tracciato dalla globalizzazione in atto e l’indagine, in tal senso, non può che essere in questa sede necessariamente limitata per oggetto e prospettive. Tuttavia, qualche cenno alle tante complessità può costituire lo sfondo dal quale rileggere concetti e criticità, a cui neanche il diritto si sottrae. La lettura alla quale ci si accinge tenterà pertanto di lasciarsi, per così dire, interpellare dalle questioni che il diritto nel mondo contemporaneo pone, in sé e in ordine alla sua efficacia; al contempo, si volgerà all’ordinamento costituzionale, italiano in particolare, quale “osservatorio” privilegiato da cui attingere possibili percorsi di ricerca per verificarne le necessarie implicazioni.
Il panorama attuale infatti, pur attraversato da esigenze ineludibili e domande di giustizia, sembra offrire una visione che rischia di ridurre il diritto da “strumento” di risposte a “pura forma”, così che la stessa, pur necessaria, appare ‘congedarsi’ dalla materia per dar vita a norme la cui validità parrebbe prescindere dal contenuto. Se ne avverte, quale possibile effetto, l’apparente riduzione a una mera validità procedurale, per quanto il diritto necessiti di una forma capace di fondare la possibilità del giudizio e nel giudizio accertare verità dei fatti e far valere responsabilità. Premessa e misura ne diventa l’astrattezza propria delle norme che, al di là della necessaria distinzione e astrazione, sembra «separare» la sfera del diritto dalla pluralità di esperienze, di cui si compone l’esistenza umana. Da un lato, all’osservatore il diritto si presenta come attività della ragione, che si apre alle ragioni della vita e si manifesta, secondo una recente definizione, come azione e attività guidata da regole, spesso rafforzate da sanzioni specifiche, e organizzate secondo procedure date, al fine di garantire e perseguire valori fondamentali della vita personale e sociale[1].
Dall’altro lato, nel tempo della “tecnica” e della “scienza”, la concezione del diritto non cessa di confrontarsi – come già nella riflessione heideggeriana “ripensata” a partire dal «proprium della filosofia»[2] – con una visione che tende alla calcolabilità della certezza di tutto ciò che, solo in quanto oggetto, entra in relazione col soggetto, dove la libertà è interpellata «nella riduzione della verità a certezza e del conoscere a scienza». Ripercorriamo brevemente antiche e “nuove” attualità, onde verificare possibili chiavi di lettura per l’oggi del diritto.
La premessa, che introduce all’inizio del nostro percorso, si colloca laddove la determinazione di sé fa comprendere come l’uomo, «autofondatosi», diventi «il metro di ogni qualificazione». L’ego cogito, assunto a sua volta quale fondamento della nuova certezza fino al manifestarsi come ego volo, darebbe origine al valore come ciò che è posto dalla volontà (rectius «volontà di potenza»). Così, se «il diritto è pensato a partire dalla ragione calcolante e dalla verità come certezza » si delinea la riduzione di «ogni rapporto coll’altro solamente ad un rapporto con ciò che è «utilizzabile». Questa restrizione dell’uomo ad elemento calcolabile», legata nella lettura in esame all’avvento di una tecnica che investe il diritto e tutte le sfere dell’essente (natura, cultura, politica), «tende ad eliminare l’«io» ed il «tu» come elementi dell’incontro tra gli uomini per lasciar posto alla sola sfera dell’anonimato. In questo processo l’ordine giuridico si restringe a momento tecnico esteriore dell’uomo, a pura forma il cui contenuto è storicamente [...] casuale». Eppure, se arriva a perdersi l’essenza originaria della stessa giustizia, mutata in «giustificazione», e il diritto diventa «prodotto della volontà di potenza»[3], la riflessione heideggeriana sembra trarre dal passato nuova linfa per introdurci nell’oggi.
Sono pagine[4] nelle quali l’indagine lascia pur sempre emergere l’uomo come l’«ec-sistente nel suo essere-con-gli-altri» e la giustizia chiede di essere ‘ripensata’ come «condizione per il rispetto e la deferenza degli ec-sistenti nelle loro relazioni»[5]. Parrebbe questo unicamente uno sguardo retrospettivo; in realtà, non mancano rilievi capaci di ridisegnare nella dimensione positiva della socialità le basi umane del diritto, che – si osserva – «non possono essere negate senza distruggere la stessa esperienza giuridica»[6].
Quest’ultima, del resto, assumerebbe il suo contenuto dalle attività dei soggetti, che tutti insieme arrivano a «dar vita a un ordinamento nel quale la vita si esplica e l’azione si realizza in modo conforme […] ai suoi fini umani»[7]. Quei “frammenti” in cui si snoda la vita dell’uomo, familiare, sociale, affettiva, in realtà si incastonano nell’esistenza umana che è o dovrebbe essere totalità che si esprime in forme diverse. Nella comune umanità «ognuno di questi momenti è una relazione con l’altro uomo: esistenza dell’uomo è la totalità di queste relazioni », alcune scaturite per l’incontro in un interesse comune, in cui si uniscono le volontà (contratti-società), altre realizzate in una consapevole comunione di vita (famiglia), altre correlate per un cammino solidale (vita nello Stato), altre suggerite dal bisogno dell’aiuto reciproco. «L’uomo che si è riconosciuto come natura comune di queste relazioni, […] unità di tutto questo variare di fini, e centro di questo moltiplicarsi di azioni è la persona», che vive nella dimensione giuridica. La persona, «possibilità originaria di tutte le relazioni», è dunque «realtà attiva», “unità viva” nella «pienezza di relazione e di rapporti», è «la relazione per eccellenza nella sua intrinseca sostanza e nel suo valore intrinseco»[8]. Se, si osserva ancora, «tra tutte le cose, che si scontrano con la sua vita, il soggetto ne trova alcune nelle quali vede come rispecchiata la sua vita», vite simili alla sua, ciò è prova di quella connessione tra i soggetti, che si esprime nella parola e si determina nell’azione. È la percezione di altri soggetti simili a sé, «riprova che l’esperienza dà […] dell’idea che mostra nell’universale visione dell’essere, la fraternità di tutte le cose»[9]. In questo senso, «il diritto – come realtà della persona – è […] ordine per le azioni umane», venendo ad integrare quell’elemento di oggettività e garanzia che assicura il loro continuo tradursi in vita[10].
Vi è tuttavia una dimensione ulteriore, dalla quale emerge oggi la “centralità della persona umana”, in una lettura volta a indicare piuttosto nel c.d. “principio dell’antropocentrismo” la posizione dell’uomo anche rispetto a entità non umane, come l’ambiente o l’ecosistema. Se, infatti, l’oggettivarsi della volontà nella condotta ha come sua componente l’attribuzione di responsabilità, rimane l’uomo l’unico essere capace di assumere una «‘consapevole responsabilità’», nei confronti di ciò che lo circonda[11]. Si tratta di questioni mai sopite e oggi di particolare attualità, che più specificamente investono, almeno nell’ambito della dottrina italiana, i confini della stessa tutela penale in riferimento alle componenti naturali e ambientali e al rapporto con l’uomo. Diventa in tale contesto significativa negli studi più recenti l’introduzione di una chiave di lettura orientata a un bene giuridico, come tale meritevole di protezione, ma configurato come relazionale interspecifico, a includere l’uomo e in particolare gli animali, quali “esseri senzienti”, nella contestualità dell’oggetto giuridico focalizzato nella «relazione uomo-animale». La premessa per ridefinire il profilo della tutela penale amplia l’orizzonte fino ad affermare: «Il diritto, ontologicamente umano, è anche ontologicamente relazionale: la materia di cui ci occupiamo spinge la relazionalità giuridica in territori inesplorati ed estremi, in cui l’ordinamento giuridico, soprattutto penale, si trova ancora ai suoi albori»[12]. Non possiamo che fermarci qui, pur se un dato emerge.
L’oggetto della tutela normativa o se si vuole i beni, che attendono dall’ordinamento protezione, non starebbero unicamente entro i confini delle cose o dell’uomo quale entità astrattamente intesa; si tratta piuttosto di declinare la tutela anche in considerazione di un «rapporto», una relazione, che ne diventa elemento fondante.
In quest’ottica, ed ampliandone la prospettiva, può acquistare evidenza un’ulteriore chiave di lettura. Quasi a superamento della categoria che nell’astrazione, propria delle norme, rilegge la conseguente “estraneità” dell’uno verso l’altro, potremmo riprendere e condividere quanto, a conclusione dell’indagine sull’“esperienza giuridica”, si dice della stessa: «trova la formula e crea il mondo della [...] vita comune», delle varie esperienze, della loro comunione di vita allorché ne scopre «la legge comune»; compone «la unità nella pluralità la pluralità nell’unità»[13]. Anche nella più ampia prospettiva, dianzi tracciata a segnare un «confine “dialogico” tra l’uomo e l’animale», si evidenzia oggi quale ulteriore implicazione l’alterità come valore, ovvero l’«ammonire al rispetto dell’altro – a maggior ragione dell’altro-uomo». È all’uomo, dunque, termine e soggetto della relazione anzitutto con i suoi simili, che viene chiesta all’origine della convivenza una responsabilità capace di riconoscere l’eguaglianza per la comune umanità, ma nel contempo la diversità per la propria identità; e in questo riconoscersi in una comune appartenenza il legame si esprime nella reciprocità costitutiva di un rapporto, trama del tessuto sociale.
Se così è, si comprende anche nell’ambito del diritto la prospettata necessità di un superamento della propria “individualità”, per aprire e condividere la prospettiva di tutela dalla dimensione dei diritti “propri” a quella dei diritti “altrui”. Del resto, recenti linee di ricerca note in ambito internazionale con l’espressione Law and Literature aprono a ulteriori percorsi, focalizzati piuttosto sul binomio «Giustizia e Letteratura». In tale contesto, all’esigenza di un più saldo radicamento orientato alle idee di libertà e dignità della persona, si accosta «la stessa possibilità di stabilire e avvertire una comunanza tra gli uomini: tra il “me” e l’“altro”, tra il “noi” e il “loro”»[14]. Occorre forse in questa direzione un nuovo “paradigma”, capace di coniugare il particolare e l’universale, far dialogare l’uno e il molteplice. In tal senso, le stesse Dichiarazioni dei diritti – a partire dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (10 dicembre 1948) – in tutta la loro ricchezza e positività e nelle loro multiformi proclamazioni tracciano essenziali sentieri nel cammino dell’umanità: l’uomo del resto non vive come soggetto astratto, ma nella sua concretezza e storicità.
Da un’altra angolazione, e quasi a conferma, si è intravista proprio con la Dichiarazione del 1948 una fase in cui «l’affermazione dei diritti è insieme universale e positiva: universale nel senso che destinatari dei principi ivi contenuti non sono più soltanto i cittadini di questo o quello stato ma tutti gli uomini; positiva nel senso che essa pone in moto un processo alla fine del quale i diritti dell’uomo dovrebbero essere non più soltanto proclamati o soltanto idealmente riconosciuti ma effettivamente protetti»[15].
Vi si può intravedere, ci sembra, un “fattore unificante” dinanzi al quale la ricerca, specchio di dubbi e inquietudini, ma anche fonte di certezza e nuove aperture, pare cogliere come un legame, che unisce l’umanità dal singolo ai popoli. Da qui una domanda: come rispondere a quell’esigenza di un nuovo stile nelle relazioni, che nell’orizzonte inclusivo della globalizzazione e sul fondamento di una pari dignità non può andare disgiunto da nuove forme di responsabilità? Se le relazioni come tali danno vita all’essenza stessa del diritto[16], si richiede oggi una risposta anche in termini di «concretezza» ed effettività; ma ancor prima occorre rinvenire paradigmi che nella vita concreta delle relazioni umane prevengano nei comportamenti le ingiuste alterazioni in una nuova consapevolezza di «reciprocità».
Non manca del resto chi configura il «vero diritto umano» quale diritto «aperto all’uomo nella sua esistenza concreta», per affermare altresì: «Ciò che viene cercato non può essere che l’uomo. Ma non l’uomo puramente empirico, e certo neanche l’uomo puramente noumeno, bensì l’uomo come persona, vale a dire come complesso di rapporti, nei quali l’uomo sta in relazione ad altri uomini ed alle cose. Sotto ogni riguardo – si conclude – l’ordinamento ha il carattere della relazionalità»[17].
L’osservatorio, dal quale tentare di cogliere una necessaria prospettiva d’indagine, non può non trovare a questo punto nuovi elementi, anche attraverso la peculiarità di una recente analisi, che pare tracciare una linea ideale tra presente e passato.
È la prospettiva assunta nel confronto tra le categorie giuridiche coessenziali dello “spazio” – segnato dai luoghi – e del “tempo”, in cui si incardina la storicità del diritto. Si tratta di categorie che insieme definiscono quel criterio dell’appartenenza, con cui l’uomo individua e distingue, onde separare il “mio” e il “tuo”, il “nostro” e il “loro”. Si tracciano i confini, per cui uno spazio è avvertito come altro, mentre un luogo, al di là del termine che lo delimita, dà inizio al diverso[18].
Tali espressioni introducono, quasi per contrasto, il confronto con una globalizzazione che oggi non si misura unicamente sull’economia. Proprio quest’ultima infatti si svolge, se è consentita l’espressione, tra “attori” in un palcoscenico “virtuale”, nel quale operano soggetti anonimi, senza una precisa individualità. Gli spazi virtuali e “funzionali” prendono così il posto dei luoghi della storia e delle tradizioni, e con essi dei rapporti “veri” tra persone “concrete”, dal volto umano. Si relativizzano i confini, mentre la tecnica detta le sue regole fino a domandarsi: “il diritto governa la tecnica?” La ‘rete globale’ sembra prendere il posto della realtà fisica e «l’appartenenza, sciogliendosi dai confini, si affida all’impiego della tecnologia: così l’utente della rete telematica corrisponde al consumatore del mercato globale»[19].
Mutano gli scenari e con l’informatica si afferma al contempo un progresso che, nel generare inevitabilmente nuovi esclusi, pare sottrarre il “dominio” della storia dalle mani dell’uomo per tracciare “vie” nuove e altre modalità nella convivenza: dal “right to be alone”, ovvero “diritto ad essere lasciato solo”, alla ricerca piuttosto di relazioni sul web. L’obiettivo di tutela si sposta nella dimensione della “rete” e la libertà personale si relaziona, è vero, con ogni altro, ma attraverso il “filtro” del mezzo informatico[20].
Nuove criticità emergono, con il rischio di generare nel tessuto sociale un’alterazione nel rapporto fiduciario posto di fronte a identità, per così dire, ‘mascherate’ e come tali sottratte a una conoscenza reale. È significativo che di recente, proprio nella ricerca di nuovi paradigmi, si sia fatto ricorso a una metafora: da una concezione dell’ordinamento che, passando per Kelsen, lo configura come “costruzione a gradini” (Stufenbau), di cui la “piramide” costituirebbe il simbolo stesso del diritto nel rapporto tra norme, si è prospettata una concezione che evoca come sua immagine la “rete”[21].
L’“immagine reticolare” del diritto ben si presta, del resto, a un confronto con la dimensione informatica e a-spaziale, che investe attraverso la tecnica il diritto stesso. Tale concezione, ripresa in ambito giuridico a più livelli, viene rappresentata per simbologie riferite a due componenti: il nodo, a raffigurare «“tanto un legame che unisce, quanto qualcosa che lega”», e la rete, che nella sua ambivalenza «può essere tanto la rete del tessuto, quanto la rete di una trappola»[22].
La metafora è suggestiva, ma la sua valenza vorremmo rileggerla piuttosto orientandola a una “rete” di relazioni, dove la persona, per la sua costitutiva dimensione relazionale, non resti avvinta quale possibile “preda”. Se tale può essere il senso della “rete”, diventa possibile delineare un altro spazio: quello abitato dalle relazioni anche giuridiche, che necessitano della garanzia da accordarsi al soggetto, affinché quest’ultimo veda non solo tutelata, bensì pienamente riconosciuta nella “trama” dei rapporti, la sua personalità e con essa la stessa dignità.
Nella ricerca a cui ci si accinge, che coincide con l’oggi del diritto e la sua “crisi” in un difficile rapporto tra norme e vita, regole e principi, la “radice” da cui muovere può scaturire da una premessa: fare dell’essenziale dimensione relazionale del diritto un “osservatorio” capace di fondarne una necessaria “rilettura”, se è vero che il diritto regola e informa di sé la vita del tessuto sociale nelle relazioni.
È la prospettiva in cui vorremmo collocarci non già per farne seguire una ‘digressione’ rispetto ai più stretti profili penalistici, piuttosto per operare, della stessa, una doverosa quanto necessaria verifica. Lo sfondo, proprio in ragione di una lettura orientata al sistema penale, in senso lato, non potrà prescindere in questa sede dalla Costituzione italiana, fonte di principi e “tavola di valori”.
In premessa, e a far da cornice a una lettura costituzionale, si può richiamare la prospettiva in termini relazionali di recente ripresa da chi, accanto al diritto come «realtà normativa», colloca la definizione dello stesso come «fatto di relazione» fra distinte sfere giuridiche dei soggetti. L’ordinamento diventa così un sistema di rapporti giuridici, secondo l’affermazione che segue: «Tutto ciò che è giuridico necessariamente si traduce in un fatto di relazione, mentre non può essere giuridico tutto ciò che per sua natura ha carattere esclusivamente individuale»[23]. Una conferma si può trarre del resto da talune notazioni a margine del suicidio, quale disperato gesto di solitudine: «si sottrae al diritto, che regola la relazionalità, non la sua assenza».
La qualificazione giuridica interverrebbe, così intesa, a modulare il «rapportarsi dell’uomo all’altro uomo, dell’uomo con le cose in quanto utilizzabili», ed è a margine della relazionalità giuridica, riconducibile all’essere relazionale dell’uomo, che si richiama quanto E. Husserl ha scritto del diritto: «non è una costruzione culturale che derivi come un semplice risultato dell’operare reciproco degli uomini che si relazionano […] bensì un solido vincolo comunitario, che crea unità […], unità di doveri e di diritti»[24].
Lo stesso Bobbio, in uno dei suoi ultimi interventi, interrogato circa il dovere che avrebbe collocato per primo nel decalogo per il cittadino rispose: «Il dovere di rispettare gli altri. Il superamento dell’egoismo personale. Accettare l’altro». E ancora, spiegò il dovere giuridico come «dovere verso gli altri», essendo quello verso se stessi il dovere morale[25]. Di un certo interesse è ancora la notazione che segue circa l’etimologia del termine dovere, quale derivazione da debeo, ovvero de habere: starebbe a indicare che «qualcuno ha da avere da noi, appunto, il debito».
Da qui un ulteriore confronto. Si è prospettata in ambito giuridico la differenza tra una cultura dell’avere, propria di epoche passate, e il “costituzionalismo” contemporaneo diversamente improntato alla cultura dell’essere, nella quale la «persona è la relazione interumana regolata dal diritto», che riflette come tale «il “volto” sociale dell’uomo»[26]. Se ne comprende al contempo, in quanto essenziale premessa, il riconoscimento della fondamentale dignità umana e il conseguente sviluppo della personalità inscritta nell’identità stessa del singolo. In tale contesto acquista altresì evidenza la definizione del diritto medesimo quale «paradigma relazionale fondamentale», laddove la relazionalità si misura proprio nel nostro rapportarci all’altro. Tale relazionalità assume – si rileva – una struttura costitutivamente giuridica, in quanto attiene al modo di atteggiarsi del nostro essere sociale, fino a rileggere nel «paradigma della giuridicità» la chiave del «riconoscimento dell’alterità soggettiva», ovvero, dei diritti dell’altro[27].
Al contempo, il co-esistere genera rapporti interpersonali e relazioni, il cui presupposto non è dato dall’identità dei soggetti tra loro, ma da una eguaglianza che si misura sulla «“dissimiglianza fraterna”», a cui concorrono le diverse individualità, che attendono a loro volta riconoscimento. Sono queste le premesse per fondare «una comunità concepita come comunione di soggetti»[28], che – se tale – non segna la scomparsa delle individualità, ma “converte” l’“unicità individuale” di ciascuno in “radice” delle relazioni sociali.
La ricerca, in tale prospettiva, non può prescindere da un’ulteriore indagine, che ne rinvenga i fondamenti all’interno dell’ordinamento giuridico.
Una prima indicazione emerge in tal senso già dalle Costituzioni del dopoguerra, che nel riconoscere la dignità della persona e i suoi diritti ne tracciano, come quella italiana, la personalità attraverso l’appartenenza alla società e alle formazioni sociali, in una «apertura relazionale» che si assume «costitutiva» della persona stessa e «condizione ineludibile del suo sviluppo»[29]. Ne consegue la correlazione tra diritti e doveri, libertà e solidarietà, che nella Costituzione apre alla dimensione della «pari dignità sociale» (artt. 2-3). La si colloca in una comunità intesa quale rete di relazioni e reciprocità, fondata sul dono che l’individuo riceve da altri come possibilità di vita, e al quale rispondere attraverso il contributo «a conservare una società che dia la stessa possibilità ad altri»[30].
Se tale dato si fa “chiave di lettura”, la trattazione che segue tenterà di rinvenire attraverso paradigmi e principi, fatti propri dalla Costituzione italiana, una sua possibile essenza relazionale, quale premessa e fondamento anche in una dimensione normativa. L’incipit lo si può collocare nella configurazione di diritti e doveri che si intersecano, secondo il testo costituzionale, a dar vita a «Rapporti » di varia natura. In tale cornice, anche il luogo della libertà, che nel dettato dell’art. 41 Cost. si esprime nella stessa iniziativa economica, si converte in «luogo di relazioni e di espansione della persona»[31]. Una prospettiva rivolta altresì al c.d. mercato: ad esso è assegnato un limite che esclude anzitutto modalità che possano recare danno alla sicurezza, alla dignità della persona e alla sua libertà, impedendone lo svolgersi in contrasto con l’utilità sociale – secondo il contenuto del comma 2 del cit. art. 41. Se ne supera dunque la pretesa autonomia e frammentazione per risalire alla sua complessità, in quanto «centro unificatore di una trama di relazioni». Così anche le relazioni economiche, innestate nel contesto dei più ampi rapporti di cui si compone la società, coniugano libertà e responsabilità nella esplicazione di uno spazio di libertà che nello svolgimento dell’attività economica «si rende responsabile dell’altro»[32].
L’essenziale premessa si colloca del resto, sempre in ambito costituzionale, nei fondamentali doveri inderogabili di «solidarietà politica, economica e sociale », espressamente previsti dall’art. 2 Cost., e riletti di recente come “via” nella quale prenderebbe corpo il «principio di fraternità»[33]. Ciò significa che gli stessi realmente possono favorire le relazioni a tutti i livelli e generare una condivisione capace di innervare la struttura stessa del diritto. Sta forse qui la misura di un vivere giuridico che «supera ogni esclusione e discriminazione, realizzando una rete di relazioni paritarie e pacifiche tra gli uomini»[34].
Può certo la stessa solidarietà essere fonte, come sottolineato, di dubbi e ambiguità[35]; eppure, in quanto costituzionalmente orientata, non si è esitato a definirla «fondamentale canone ermeneutico che vivifica e innerva il sistema del diritto civile». La conclusione ne sottolinea il valore, espresso nel richiamo al mondo della solidarietà sociale, che si fa anche «mondo dell’accoglienza reciproca»[36].
Se così è, non solo la persona è posta al centro dell’ordinamento che riconosce, all’origine dei suoi «principi fondamentali», i diritti inviolabili dell’uomo, ma la stessa ‘individualità’ assume una proiezione sociale in forza della partecipazione alle formazioni di cui si compone la società[37].
Analogamente, anche la «pari dignità sociale», collocata dall’art. 3 della Costituzione italiana nell’ambito del principio di eguaglianza, pare indicare un ‘oltre’ rispetto a una sua valenza meramente formale. La conferma può venire da una rilettura recente della solidarietà: non una semplice apertura all’altro, ma un «impegno per la realizzazione [...] di un sistema ordinamentale, economico e sociale che costituisca tutti i cittadini in un rapporto reciproco caratterizzato appunto dalla pari dignità sociale», ovvero un «rapporto intersoggettivo come donazione dell’uno all’altro»[38].
Si evidenzia qui, a fronte dei bisogni dell’uno, o della debolezza dell’altro, allorché il proprio status manifesta la necessità dell’apporto altrui, quel farsi carico dell’altro, che va oltre la logica dello scambio, per introdurre la dimensione della gratuità; è risposta all’uomo che diventa in sé “emblema” della relazione con gli altri, «di cui ha bisogno per formarsi un’identità e per vivere»[39]. È della persona, così in Hannah Arendt, «la capacità di entrare in relazione con gli altri e soprattutto di mettersi al posto dell’altro».
A tale prospettiva il sistema penale parrebbe come tale sottrarsi, per custodire al suo interno tipicità e peculiarità ad esso proprie. Eppure, è nell’ambito del diritto penale italiano, previsto in uno «Stato sociale-solidaristico di diritto»[40], che la stessa ricostruzione operata nella dottrina degli obblighi di garanzia, ex art. 40, comma 2, c.p., muove dalla considerazione – fra gli altri – del principio costituzionale di solidarietà (art. 2 Cost.). Tali obblighi, riletti in considerazione del predetto principio, darebbero vita ad altrettanti obblighi di controllo e protezione nei confronti di chi sia incapace di provvedere da sé alla propria tutela rispetto a eventi lesivi. Alla loro violazione, in quanto obblighi giuridici di adempimento, l’ordinamento fa seguire la responsabilità per omissione in capo al soggetto garante, secondo la formula normativa per la quale: “non impedire l’evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”.
Analogamente, e in un più ampio contesto, nell’interrogarsi su fraternità e solidarietà, si è intesa quest’ultima «come sbarramento all’individualismo esasperato, che calpesta la dignità della persona e ignora i sentimenti di fratellanza e di reciproco sostegno tra gli uomini, tra i cittadini, tra le categorie sociali»[41]. In forma non dissimile, in un’analisi giuridica non distante nel tempo, si è sottolineato: «il diritto è razionalità di rapporti [...], è reciprocità [...]; non è chiusura ma potenzialità universalizzante [...], totalità di azioni, di relazioni, di prospettive»[42]. E in ambito costituzionale si arriva a distinguere ulteriormente la componente, propria della fraternità, legata a una relazione personale non disgiunta dalla “prossimità”, laddove la solidarietà, genericamente intesa, può sussistere anche in assenza di un rapporto interpersonale.
Il diritto dunque non può trovare la sua unica misura nella riduzione del sistema giuridico a una «procedura», né la legalità, a esso essenziale, coincidere unicamente con il mero rispetto delle regole poste, se è vero che «persona» e «comunità» precedono il diritto, a cui domandano norme per la con-vivenza. Si è del resto affermato che «l’attuazione della legalità tende a identificarsi con l’attuazione dei valori costituzionali», così che il diritto non può limitarsi a coincidere con la sola legge, se anche il giudizio di conformità delle norme ai dettami della Costituzione pone queste ultime a confronto con i principi posti alla base dell’ordinamento e della vita dello Stato[43]. È l’ambito del diritto nel quale proprio i principi si configurano come capisaldi indiscussi a partire dalla libertà ed eguaglianza. Punto di riferimento ne è la persona umana, sintesi di unicità e socialità, da cui origina ogni forma di comunità ed esigenza di tutela.
Alcune considerazioni nel merito, per quanto datate e svolte nel contesto di una particolare corrente dottrinale, potrebbero ancor oggi introdurci alla chiave di lettura che segue, in ragione di esigenze mai sopite. Muovendo dalla concezione propria del pluralismo giuridico, quale presa di posizione nei confronti dello Stato moderno, vi è chi[44] ha inteso tracciare, a fronte di una concezione “transpersonalistica” della società, il «diritto sociale» quale «diritto di integrazione », ovvero, di comunione e di collaborazione. Riconducibile a un noi, base della vita di ogni gruppo, e «fondato sulla fiducia, sullo sforzo comune, sulla solidarietà », troverebbe la sua premessa in un pluralismo, nel quale varietà e unità si comporrebbero nel principio di equivalenza «fra i valori personali e quelli collettivi, principio che si realizza per mezzo della varietà nell’unità». La varietà infatti, riflesso della libertà, e l’unità si realizzerebbero piuttosto nella «fraternità», capace di portare a sintesi libertà e uguaglianza. Ognuno di questi principi verrebbe così ad implicare e presupporre gli altri due, in particolare: l’uguaglianza, che non è identità, «ma equivalenza fra individui e gruppi dissimili», è intesa quale principio costitutivo di «un insieme immanente e fraterno, di una comunità fondata sulla collaborazione, unione in un noi». A sua volta la libertà, così della collettività come dell’individuo, presupporrebbe «l’equivalenza di gruppi autonomi e di persone libere in una unione fraterna».
Proviamo a questo punto a percorrere i sentieri del giurista, allorché nel tessuto costituzionale contemporaneo si dà evidenza ai concetti propri delle categorie giuridiche poc’anzi menzionate, ed erette a principi fondamentali. Ancora una volta, attraverso la Costituzione italiana, potremmo coglierne la ricchezza di significato.
Una prima chiarificazione è addotta in dottrina a segnare la differenza tra il concetto di identità e quello di eguaglianza[45]. Il primo riconosce – si rileva quasi in analogia con quanto appena riportato – che «ci troviamo di fronte ad un unico oggetto», mentre il secondo «presuppone due oggetti comunque diversi. Il concetto di eguaglianza comporta, necessariamente, il concetto di diversità».
Il giudizio di eguaglianza anche giuridica evidenzia pertanto, già sul piano concettuale, che «l’eguaglianza, in sé, è un concetto tipicamente relazionale», aspetto peraltro necessario al riconoscimento delle differenze. La Corte costituzionale italiana[46] sottolinea a sua volta come la stessa eguaglianza, dal punto di vista giuridico, non esprima «la concettualizzazione di una categoria astratta», ma definisca piuttosto «l’essenza di un giudizio di relazione». Da qui le domande (già espresse da Bobbio): «“eguaglianza tra chi?”», ovvero «“rispetto a che cosa?”»; e l’art. 3 della Costituzione italiana, che sancisce il principio, ne indica al contempo un novum. Al di là infatti dei divieti di discriminazione, il dettatocostituzionale reca in apertura il fondamento della «pari dignità sociale».
L’espressione acquista un connotato positivo, fino a essere riletta efficacemente (nel richiamo a G. Ferrara) come «proiezione del valore paritario della dignità umana su tutti i rapporti riferibili ai cittadini», ovvero «corollario della libertà e dell’eguaglianza di tutti, considerate come presupposti e strumenti per il pieno sviluppo della persona umana». Si innestano in questa dimensione le conseguenti azioni positive spiegate dalla stessa Corte costituzionale[47] come misure che, promuovendo l’eguaglianza «dei punti di partenza», sono volte a realizzare la pari dignità sociale.
Dunque, una dimensione necessariamente sociale e fondamentalmente relazionale quella che l’eguaglianza comporta: nel suo significato sostanziale richiede infatti di tradursi in una pari opportunità per tutti, senza la quale la stessa eguaglianza mancherebbe di effettività.
Analogamente, anche la libertà si attua pur sempre all’interno di un contesto sociale, nel quale può essere pensata e realizzata non solo nella dimensione delle c.d. libertà negative a protezione della individualità dell’uomo, ambito da difendere dall’ingerenza degli altri e dell’autorità, ma anch’essa quale «“libertà attiva e positiva”»[48], in quanto spazio che non esclude – ma si realizza con – l’altro.
Alla persona considerata in sé e nelle sue relazioni sociali[49] si riconduce altresì una nuova essenza della personalità umana: in essa al binomio “libertà-proprietà” subentra quello di “libertà-dignità umana”, di cui la prima è contrassegno. La sfera della libertà si apre così al confronto con «il mondo dei rapporti-di-vita, delle relazioni fra soggetti, fra diritti e doveri». Si esprime e vive in una rete di relazioni e intreccio di rapporti, spazio che ancora una volta per la relazionalità che lo struttura offre una particolare chiave di lettura.
È in tal senso che il concetto di una libertà pur rivendicata come mera autodeterminazione non può escludere per sé l’apporto dell’altro, per acquistare piuttosto – come anticipato – una valenza positiva, al di là di uno spazio da difendere.
Ancora una volta l’ambito economico pare offrire nel merito uno spunto di riflessione e un osservatorio privilegiato.
La libertà d’iniziativa in esso assicurata dall’art. 41 della Costituzione italiana trova infatti il suo limite (per dettato costituzionale) nella più ampia libertà dell’uomo da tutelare e garantire; si tratta dello stesso uomo, che operando nel mercato assume la veste di imprenditore, o il ruolo di lavoratore, o la qualifica di consumatore, cliente, fornitore e così via. La libertà dunque si declina in un contesto di relazioni, nelle quali attraverso le norme si intersecano identità personali e libertà particolari, queste ultime a distinguere figure e persone diversamente qualificate, ma soggetti tutti meritevoli di tutela.
Si coniugano libertà e responsabilità, ma anche operosità e iniziativa a favore dell’altro: una libertà attiva, che supera come tale la pretesa dell’“io” di ridurre piuttosto l’altro a limite, con cui sarebbe ‘chiamato’ o ‘costretto’ a confrontarsi o da cui difendersi.
Si è cercato fin qui di seguire, quale necessaria premessa, le tracce di un itinerario che nella ‘cornice’ costituzionale renda possibile introdurci a una dimensione “altra” del diritto, mutandone la prospettiva di osservazione. Ne è emersa la possibile dimensione relazionale; ma la stessa non può non essere verificata sul terreno più problematico che inerisce al sistema penale e alle sue prerogative.
La criticità si evidenzia del resto nella c.d. “patologia” del diritto, allorché cioè è negata la legge, sono violate le istituzioni e l’illecito diventa negazione dell’obbligo giuridico, realizzata attraverso la condotta di un soggetto. Eppure, se quest’ultima, come si afferma, «è comunicazione e relazione»[50], realmente anche il reato, che esige una condotta (attiva od omissiva), si può leggere come «negazione della naturale dialogicità umana su cui si fonda e si regge la stessa società»[51]. Ne comprendiamo l’«ontologia», descritta «nel rifiuto per sé della legge della corrispettività, inscrivendosi [il delitto] nell’orizzonte intenzionale della separazione dagli altri, dell’anomia e della solitudine»[52]. È una ferita al tessuto delle relazioni, alla socialità inscritta nella stessa natura umana, e come tale, «pur riguardando direttamente il singolo, investe nella sua essenza anche l’intera società»[53].
In questa chiave di lettura, si comprende come la stessa giustizia a cui vorrebbe tendere il sistema penale sia stata di recente spiegata come volta a «ricostruire un rapporto intersoggettivo incrinato o spezzato»[54], fino alla “riconciliazione”, capace di ripristinare la reciprocità.
In essa, la relazionalità vive e desume il suo contenuto dai rapporti fra gli uomini[55], quasi a coniugare l’astrattezza di una categoria normativa con la concretezza sottesa ad ogni vita, ovvero riconducibile alla centralità della persona umana, sede delle relazioni, a cui orientare la tutela attraverso le norme. In tale prospettiva, non si tratta soltanto di dare rilievo a un bene scelto dal legislatore, a cui accordare protezione dall’offesa, ma del bene in relazione alla persona stessa e al «rapporto offeso» nel suo valore per la persona e la comunità.
Già uno dei progetti di riforma del codice penale italiano[56], su cui si tornerà più oltre, ha voluto rileggere in questa chiave le categorie dei reati, prospettando una tutela della persona «nel suo inserirsi in relazioni della vita associata» (rapporti di lavoro, famiglia, libertà religiosa) o ancora, una tutela della persona umana nel momento del suo proiettarsi in una comunità di soggetti (ambiente, economia, vita dello Stato, rapporti tra le genti).
Quasi a sottolineare che è possibile ridefinire anche il sistema penale alla luce della relazione tra persone, può essere significativo riprendere, mutatis mutandis, la lettura, dianzi accennata, orientata all’ambiente quale oggetto di tutela giuridica: in un’antropologia di relazionalità, si osserva, «non si tratta di proteggere una cosa materiale oppure l’uomo astrattamente inteso, bensì un rapporto, una relazione di equilibrio in continuo divenire»[57]. Se la relazione, che si costituisce tra persona umana e ambiente, diventa come tale oggetto di protezione, ancor più meritevole di tutela parrebbe nella molteplicità dei suoi contenuti la relazione tra persona e persona, i cui rapporti sostanziano il diritto.
È in tale orizzonte che nel diritto penale diventa fondamentale un’altra e diversa relazione, la più emblematica, in cui persona è la vittima del reato, ma tale è anche l’offensore. Di più: di fronte a una tutela penale che non attiene soltanto al singolo soggetto ma coinvolge i diritti dell’intera società, che chiede per sé garanzie e sicurezza, quali risposte può dare il giurista?
Paul Ricoeur ha posto l’accento su un diritto penale che in epoca moderna avrebbe perso di vista il binomio offeso-offensore per assumere quello di leggeinfrazione, considerata quest’ultima come lesione alla legge più che offesa alla vittima[58]. Spostare l’accento su vittima e offensore significherebbe sottolinearne il disvalore e prospettare la possibilità di ripristinare e ricostituire il vincolo sociale.
Alcuni cenni potrebbero valere a titolo esemplificativo e quale conferma nella loro attualità: emblematico, anche per la gravità degli eventi delittuosi, l’ambito lavorativo, ma anche quello familiare, o più in generale il contesto tipizzato da dinamiche relazionali a carattere intersoggettivo, al cui interno i “fatti offensivi” hanno trovato una recente definizione come “reati relazionali”[59].
È in particolare il fenomeno oggi noto come mobbing, dove accanto alla tutela della persona si prospetta la tutela dei «presupposti di serenità e fiducia della relazione lavorativa», che evidenzia l’humus relazionale in cui si generano potenziali episodi criminosi. Analogamente lo stalking, non certo estraneo anche all’ambito delle relazioni familiari, diventa indice di una offensività che investe la dignità e l’integrità della persona nel suo estrinsecarsi all’interno di dinamiche relazionali[60]. Nuove schiavitù diventano al contempo il ‘segnale’ di una profonda mutazione delle relazioni tra gli uomini.
Sono profili di offensività che sottolineano un disvalore penale insito nell’alterazione di un rapporto, anche nel contesto familiare, la cui natura muta unitamente alla posizione dei soggetti: l’uno si fa offensore, l’altro ne diviene vittima. Eppure, si fa notare, forse quest’ultima, pur vittima, può nonostante tutto non voler «rompere la relazione», il che porta a ravvisare l’opportunità di «ripensare non solo e non tanto il ruolo del diritto penale rispetto a questi fatti, ma ancor prima il ruolo del diritto rispetto a queste relazioni particolari». Si ipotizza di conseguenza un intervento non di stampo penalistico, ma «in termini conciliativi e/o provvedimentali amministrativi», quasi un «modello alternativo». Comunque lo si voglia definire o articolare, resterebbe il rilievo di un «percorso riconciliativo», capace di ricomporre la relazione, che del resto può essere per sé ‘necessitata’ (come in ambito lavorativo), o non sempre eludibile (come in ambito familiare).
Ma un’ulteriore prospettiva relazionale emerge oggi, pur se attraverso segnali piuttosto modesti, anche a livello internazionale. Una apertura in sé significativa si può cogliere attraverso una più ampia tutela da accordarsi alla ‘famiglia umana’; il dato di un qualche rilievo è costituito dall’istituzione dell’International Criminal Court. La sua giurisdizione – prevista dallo Statuto (adottato il 17 luglio 1998) entrato in vigore dal 1° luglio 2002 – attiene anche ai crimini contro l’umanità, nella consapevolezza, recita il Preambolo, «che tutti i popoli sono uniti da stretti vincoli e che le loro culture formano un patrimonio da tutti condiviso, un delicato mosaico». È frutto di un incontro tra realtà giuridiche differenti: Paesi che si collocano nella tradizione del common law e Paesi orientati al sistema di civil law. Nello Statuto, pur improntato a una «responsabilità penale
individuale», tutti i crimini che rientrano nella competenza materiale della Corte sono i crimini «più gravi, motivo di allarme per l’intera comunità internazionale » (art. 5)[61].
Dalla comune umanità pare dunque possibile attingere un ulteriore significato anche per il binomio offensore-offeso, reo-vittima e ciò concordemente a istanze oggi diffuse. Le stesse, puntando a una «giustizia riparativa», ricercano altresì vie alternative alla risoluzione dei conflitti, nelle quali diventi possibile ristabilire una relazione, ricomporre un rapporto fino alla riconciliazione fra le parti.
Espressione di tali vie, per citare solo alcune fonti, sono le Risoluzioni sul tema «Diversion e Mediazione», le Raccomandazioni circa la protezione della vittima nell’ambito del diritto e della procedura penale; scelte fondate sulla “persona” – reo e vittima – paiono emergere in diversi Paesi (Stati Uniti, Austria, Belgio, Francia, Italia ed altri) attraverso modalità proprie della mediazione o ad essa parallele[62]. Prendono vita negli USA progetti alternativi di recupero dei tossicodipendenti, nell’ambito dell’attività di Corti specializzate; apre a una trasformazione del sistema criminale di giustizia il “Georgia Justice Project”, approccio innovativo per la difesa e il recupero dei criminali indigenti.
Oggi, dalle più recenti analisi sul tema della giustizia volte alla ricerca di nuove forme di risoluzione alternativa dei conflitti (ADR) fino alla Restorative Justice, emergono soluzioni improntate a una giustizia secondo un “approccio riparativo”, che rilegge l’illecito come offesa alla persona e al tessuto delle relazioni. Già l’analisi di Howard Zehr e Mark S. Umbreit intendeva, fin dagli anni ‘80, ricercare una risposta al conflitto secondo una logica di riparazione[63].
Da ultimo, e possiamo solo accennarlo, a seguito di gravi crimini connessi alla segregazione e al regime di apartheid in Sudafrica, ma più in generale, connessi alla violazione dei diritti umani, anche in Paesi del Sud America, si è cercata una via per ricostruire, capire e accettare il passato, ma soprattutto aprire verso la riconciliazione, attraverso un sistema di risoluzione dei conflitti affidato alla Truth and Reconciliation Commission. Le Commissioni per la Verità e la Riconciliazione diventano luoghi in cui le vittime vengono ascoltate nella dolorosa ricostruzione del passato; la loro voce fonda la ricerca della verità nel fine ultimo di vincere ogni azione di vendetta e promuovere la riconciliazione nazionale[64]. Emerge qui, dall’evidente asimmetria propria di tali modalità relazionali, la possibile dimensione della gratuità, ricercata quale “via” di pacificazione.
Sono forse “strade” che imprimono nuovi percorsi alla giustizia, efficacemente definita «“custode delle relazioni tra le persone e i popoli”»[65], ma è pur sempre il diritto che pone le condizioni e la garanzia stessa della coesistenza nel suo molteplice divenire storico, e ne investe necessariamente, tra i vari aspetti, anche quello dell’ingiusta alterazione dell’intersoggettività relazionale. Laddove il reato, come si è in precedenza cercato di sottolineare, esprime una volontà negativa del soggetto, più o meno intensa, il diritto penale interviene con una sanzione “commisurata” al reato commesso e in proporzione alla gravità dello stesso. Da qui prendono vita le due situazioni destinate a incidere profondamente non solo nella vita dei singoli ma dell’intera collettività: una procedura, espressa dalle diverse fasi del procedimento penale fino alla condanna (o assoluzione) dell’imputato, ed una esecuzione che segue alla condanna. Se quest’ultima è destinata a stigmatizzare il fatto commesso, la stessa non dovrebbe precludere lo sguardo su colui che è indicato come colpevole nell’essenza della sua dignità, di cui sono emanazione i «diritti fondamentali», incancellabili e che, come tali, attendono in ogni relazione un nuovo riconoscimento[66].
Val la pena riprendere qui alcuni rilievi a margine della mediazione penale, con i quali si è inteso sottolineare come la riflessione sull’offesa, radicata nel binomio crimine-sanzione, abbia posto in evidenza «la doppia rottura relazionale che scaturisce dalla commissione di un reato (rottura di legami tra autore e vittima cagionata dalla realizzazione del fatto e rottura del rapporto tra autore e società derivante dall’esecuzione della pena)», così da determinare il progressivo affermarsi del paradigma della giustizia riparativa e della mediazione[67].
Si comprende allora, pur sempre sul terreno più problematico del diritto penale, l’espressione che a margine della “giustizia” nell’ambito di un confronto tra concezioni diverse ricorre in Zagrebelsky: «[…] reintegrare il diritto e quindi il rapporto». Ciò parrebbe confermare il suo contrario: ovvero la “ferita” nelle relazioni prodotta dalla violazione della legge, che si può spingere fino al delitto. Ma ancora un tratto è significativo: nel merito della riflessione sulla peculiarità della giustizia africana, orientata alla riconciliazione e al recupero di una pacifica convivenza, emerge il particolare valore della persona: la stessa – si spiega – «è tale attraverso altre persone. Non si concepisce nei termini di “esisto, quindi ho diritti e pretese”, ma di: io sono un essere umano perché faccio parte di una cerchia di persone che riconoscono reciprocamente il loro valore»[68]. È un mutamento di orizzonte, a conferma di una possibile ulteriore chiave di lettura.
Del resto, proprio nell’ambito più specifico del diritto penale si è riletta l’offesa come lesione al «legame di alterità», laddove venga meno, con il mancato riconoscimento dell’altro, lo stesso legame relazionale. Da qui la necessità, nella reazione punitiva, di un differente paradigma che consenta la riabilitazione di una capacità di relazione[69] e con essa la ricostruzione del legame sociale. Non meno significativa, pur se di valenza critica, è l’analisi di chi prospetta il «senso di oscurità», generato nella post-modernità da «insufficienze e [...] incapacità», che sottolineano profili di “ineffettività” del sistema penale. Si delinea da qui l’obiettivo di non lasciare unicamente al legislatore i contenuti qualificanti il diritto penale medesimo, quasi in «un disimpegno valutativo a favore di una neutralità scientifica»[70].
Ed è nel merito che non si può non dare evidenza a ulteriori e più recenti percorsi, volti ad accordare rilievo piuttosto all’«operare di fattori soggettivi ed emozionali in grado di attivare l’orientamento normativo»[71]. La prospettiva inerisce a quelle «“ragioni extrapenali dell’osservanza della legge penale”», che pur non disconoscendo il ruolo attribuito alle relazioni interpersonali, ai valori e alle norme nel contesto di una c.d. «“prevenzione di comunità”», di cui si dà riscontro, offrono in realtà motivo per trarre dall’analisi conferma del «ruolo residuale svolto dal diritto penale nella prevenzione del crimine». Si tratterebbe, in tal senso, anche per il penalista di assumere «nelle proprie categorie e nei propri principi un parametro di effettività necessariamente agganciato alle componenti emozionali della persona»[72], peraltro non disgiunte dalle capacità, che insite nella persona stessa nascono a loro volta da «un meccanismo di reciproco riconoscimento e rispetto».
In un contesto pur sempre personalistico ma di carattere normativo, si possono altresì riprendere le notazioni svolte in altro ordine di idee a margine di uno tra i diversi progetti di riforma del codice penale italiano[73], già citato in precedenza. Al suo interno, l’esigenza di assegnare alla persona umana un «ruolo primario» nella tutela traspare dall’opzione, nell’ordine delle incriminazioni, di dare «rilievo per così dire “visivo” al riconoscimento della posizione prioritaria», ovvero alla centralità che la persona umana riveste nella Costituzione.
Nell’ambito del Progetto in parola, circa i Principi generali, si sono così tipizzati i reati in riferimento alla «posizione» del soggetto nel rapporto offeso. È interessante la struttura, allora predisposta, per dar vita a un sistema penale concernente, nella Parte speciale (Libro II), «i reati contro i rapporti civili, sociali ed economici, tutelando la persona nel suo inserirsi in relazioni della vita associata », e rendendo così tangibile ed effettivo l’impianto costituzionale. Il Libro III mirava a sua volta a tutelare la persona nel suo proiettarsi in una «comunità di soggetti» (tra gli illeciti, i reati ambientali e contro l’economia). Nel Libro IV, è ancora la persona tutelata nella «organizzazione formale di quella collettività», che dà vita all’assetto istituzionale dello Stato (ordine costituzionale, giurisdizione, pubblica amministrazione).
Ma anche in dottrina, nella ricorrente questione in ordine ai “criteri di criminalizzazione” nelle scelte della tutela penale, si è preso atto della «indiscutibile “crisi” che il bene giuridico ha subito nella attuale realtà legislativa», tanto da ricercare «più realistici ed efficaci criteri di razionale concretizzazione ed individuazione degli interessi meritevoli di tutela»[74]. Sulla base di tali premesse si è ripresa la concezione, nota ai penalisti, del reato inteso come offesa al bene giuridico[75], categoria quest’ultima ritenuta peraltro «discutibile» a fronte della «molteplicità di relazioni » emotive e sociali che, ad es., sono sottese alla soppressione di una vita umana. Si evidenzia dunque l’astrazione, tipica del concetto di bene giuridico, posta a confronto con il «significato empirico», che il reato ha per autore e vittima.
Non è certo questa la sede per affrontare tematiche di estrema vastità per contenuto e implicazioni, ma può essere significativo dar rilievo in via conclusiva all’orientamento volto comunque, anche nella vicenda penale, a riprendere la centralità della persona, così da lasciare intravedere un «contenuto offensivo del reato [..] modellato – almeno di regola – su una relazione interpersonale di rilevanza sociale»[76].
Può costituire questo l’incipit che, a partire dai fondamentali principi in materia penale, consente di tracciare itinerari ulteriori a cominciare dalla legalità, considerata nella sua funzione tipizzante il sistema penale medesimo, e contestualmente avvertita come presupposto minimo della convivenza.
La premessa, da cui muovere, coincide con la complessità che l’ambito penale fa emergere allo sguardo del giurista; la stessa tratteggia oggi un orizzonte che non solo investe le scelte di tutela, ma che, quasi in una antinomia dinanzi alla pluralità delle fonti di produzione del diritto, arriva a segnare l’eclissi di quell’intervento normativo ascritto ai Parlamenti nazionali, e oggi influenzato, se non determinato, da fonti sovranazionali. Il problema si può focalizzare anzitutto – già sul piano dei principi – su quel primo fondamento costituito, come accennato, dalla legalità. L’analisi normativa lo pone nell’ordinamento italiano quale principio costituzionale in materia penale (art. 25, comma 2, Cost.: Nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso), ma la stessa espressione ricorre anche quale prima garanzia che, nell’osservanza delle regole nell’agire, dovrebbe assicurare le linee guida minime nella convivenza.
La sua rilevanza emerge ai più vari livelli: dinanzi
a fenomeni di corruzione diffusa, criminalità organizzata, forme di violenza
personale e collettiva, forme di economia illegale, per citarne solo alcuni.
Tuttavia, se nell’illegalità è doveroso riaffermare il valore della legge, è
anche vero che quest’ultima sembra mancare oggi di effettività, quasi – come
inizialmente accennato – ridotta a dato “formale”, rispetto al quale sono
spesso assenti l’adesione personale e la necessità stessa dell’osservanza. Nel
merito, alcune notazioni a margine dell’ordinamento italiano possono concorrere
a sottolinearne il valore sotteso in riferimento alla “generalità” dei
soggetti, quale elemento proprio del diritto medesimo nel suo rivolgersi,
attraverso le norme, a chiunque. È il riflesso di garanzie diffuse di
cui si chiede il rispetto, e alle quali accordare tutela. In tal senso, e in
questa sede, non si può prescindere, quale dato preliminare, da quel primo
fondamento che, come accennato, nella Costituzione italiana declina sotto forma
di principi categorie giuridiche essenziali. Tra queste, specie nell’ambito del
sistema penale, legalità appunto e responsabilità.
Non è certo possibile in questa sede affrontare nella sua portata di estrema rilevanza e vastità la questione così essenziale all’ordinamento penale, che vede nel principio di legalità il proprio caposaldo. La letteratura è sterminata, e la sua autorevolezza risale nel tempo a esponenti come Feuerbach e Beccaria, per citare solo alcuni tra quanti hanno assunto una posizione originaria di centralità nella storia e nella scienza del diritto penale, in una pluralità di voci e ricchezza di contributi[77], che si sono susseguiti nella dottrina italiana e straniera.
Non si tratta dunque di ripercorrere qui consolidate garanzie sottese al principio di legalità, nei suoi noti corollari della riserva di legge, determinatezza del precetto e principio di tassatività[78], quanto evidenziarne lo scopo più ampio che la stessa Costituzione italiana orienta ai diritti fondamentali, in risposta alle esigenze di certezza per i cittadini e di garanzia dagli arbitri del potere esecutivo e giudiziario.
Vi è peraltro un dato che ci induce ad abbandonare, seppur momentaneamente, il terreno più consueto al diritto penale; è una componente, che affiora da qualche tempo anche nel dibattito interno alla dottrina penalistica, e non è forse di oggi, ma assume una valenza che sollecita oggi nuove domande: è la “crisi della legalità”, che emerge a vari livelli. Per comprenderla meglio si possono ripercorrere alcuni rilievi che ne divengono il “segnale” e ne indicano al contempo la genesi.
Se, infatti, la competenza riservata al potere legislativo, costituzionalmente prevista dall’art. 25, comma 2, offre nell’ordinamento penale italiano la garanzia per il cittadino assicurata dal confronto tra maggioranza e opposizione al momento dell’emanazione delle leggi, e ciò nel rispetto di obiettivi il più possibile condivisi, è altrettanto vero che il ricorso frequente alla normazione d’urgenza da parte dell’esecutivo (ben al di là dei presupposti di cui all’art. 77 Cost.), non fa che alimentare, come rilevato, uno «scemare generalizzato della fiducia nella legge, ricollegabile alla perdita di autorevolezza del legislatore»[79]. Al contempo, e in apparente contrasto, il diritto rischia di essere ridotto alla sola legge, mentre quest’ultima non può essere al contempo disattesa, quasi nell’insignificanza di un ruolo che resta pur sempre fondamentale, e che ne fa come tale lo strumento per dare attuazione alle garanzie costituzionali.
Non si tratta pertanto di mettere in discussione il primato della legge, piuttosto di riaffermarlo dinanzi alle «trasformazioni subite dalla legalità, compresa quella penale»[80]. La realtà dei fatti, si annota, parrebbe non trovare più in parallelo risposte adeguate sulla base delle originarie formulazioni illuministiche del principio in discorso, mentre si rende necessario recuperare i «valori sostanziali e profondi » sottesi alla legalità. A fronte di tali premesse, si evidenzia anzitutto nell’analisi del fenomeno il «declino della legge», la cui misura, specie in riferimento alla materia penale, sarebbe verificabile in considerazione della «reale capacità di motivare il comportamento dei consociati». Il campo d’indagine, insito nella legalità, amplia conseguentemente la sua portata per collocare, accanto alle domande sull’efficacia regolativa della legge, un’ulteriore ricognizione che ne evidenzia le criticità. Si assume la legalità, in quanto risposta alle esigenze di certezza ed eguaglianza tra gli uomini, quale garanzia che la legge nella sua astrattezza dovrebbe poter assicurare. Del resto, la crisi da più parti evidenziata non metterebbe al riparo neanche la stessa legalità penale, tanto da prospettare un ambito più generale connotato da una “triplice” crisi: “filosofica”, “giuridica”, “istituzionale”[81].
Il percorso muove dalle trasformazioni subite dalle categorie proprie del diritto, anche per effetto della globalizzazione in atto, per arrivare a lambire il fenomeno di un «nichilismo imperante», fino ad affrontare in particolare la “crisi giuridica” della legalità. Oggi, si rileva, ai fondamenti illuministici di una legalità ancorata alla certezza della norma, in grado di «controllare il conflitto di interessi, si è sostituita l’idea del diritto come strumento di governance dei plurimi interessi in gioco». Il mutamento di paradigma lo si intravede nella sostituzione, all’unitarietà della volontà della legge nella prescrizione normativa, di una pluralità di valutazioni che i soggetti, parti, giudici, opererebbero secondo una ponderazione argomentativa: «‘valutare e decidere argomentando’». Con una conseguenza: «alla certezza della decisione giuridica» (garantita dalla legge) subentrerebbe piuttosto l’“equilibrio”, riconducibile alla «flessibilità mutevole della soluzione giuridica che tenta di conciliare i plurimi interessi in un assetto (l’“equilibrio”) suscettibile della massima condivisione e accettazione»[82].
Una nuova “antinomia”, dunque, metterebbe a confronto il «diritto come certezza» con il «diritto come equilibrio», crinale lungo il quale muterebbe il concetto stesso di diritto. L’ultima tappa, nell’analisi in esame, investirebbe la “crisi istituzionale”, ovvero lo stesso principio democratico che informa di sé la vita dell’ordinamento. Nel particolare ambito del diritto penale, il consenso sociale, specie su materie per così dire “sensibili” all’interno del contesto della collettività, finirebbe per risentire – si osserva – del ruolo dei mass-media, ma anche di un «rafforzamento della maggioranza parlamentare», che nel principio maggioritario segnerebbe la contestuale erosione di «quel principio democratico, su cui era edificata la dignità della legge e la consistenza assiologica della legalità. […] Il che avvierebbe il sistema verso una involuzione di regime, in cui il trionfo della legge segnerebbe la sconfitta della legalità»[83].
Resterebbe peraltro, a fronte delle criticità esposte, un ulteriore orizzonte, non eludibile, segnato dall’indisponibilità per lo stesso organo legislativo dei valori che oggi le Costituzioni sottraggono anche all’onnipotenza delle leggi, e la cui esistenza è altresì ammessa anche nell’area del diritto penale[84]. Si comprende in tal senso come la stessa libertà personale, nel suo fondamento costituzionale che ne sancisce l’inviolabilità, trovi necessariamente nella legalità la garanzia di un limite posto all’esercizio del potere giudiziario da espletare nella sottoposizione alla legge (così, ex artt. 13 e 101, comma 2, Cost.), mentre la determinatezza della norma, quale suo corollario, assicura attraverso la legalità l’eguaglianza nel trattamento e il diritto di difesa.
La conclusione dell’indagine in esame pone così l’attuale scenario non in un «deserto nichilistico», piuttosto in un panorama complesso, dove «la legalità non muore ma si trasfigura, richiedendo al giurista un impegno nuovo»[85].
Si potrebbe arrivare a pensare nell’oggi che legge e legalità non siano più, per così dire, “alleate”. Se del resto la centralità della legge vuole costituire nel tempo una garanzia per i cittadini, la portata formale del principio di legalità avrebbe condotto nelle vicende della storia – si rileva – a un «apparente paradosso»: da un lato, «scoraggia l’individuazione dei limiti sostantivi giuridicamente opponibili al sovrano, ma, per un altro verso, costituisce anche uno sbarramento nei confronti delle tendenze espansionistiche del potere ‘puro’»[86].
Nella tensione tra superamento dei limiti sostanziali opponibili al potere, e primato della norma nei suoi vincoli formali, si snoda il dispiegarsi delle ‘tappe’ scandite dal diritto, il cui terreno maggiormente significativo, almeno nell’Europa continentale, sarà proprio quello della legalità penale. La cornice diventa per la storia quella dei regimi totalitari del Novecento, dove il processo di tensione, che ha caratterizzato il principio di legalità nell’Ottocento, si esprime decisamente nel potere puro dello Stato: in esso il principio non viene messo al bando, «si preferisce piuttosto bloccarne il moto pendolare sul polo dell’autorità, anziché su quello della garanzia»[87]. In Italia, in particolare, la legalità assunta a «semplice conferma dell’onnipotenza statuale» porterà con sé la «strategia dell’eccezione», e con essa la compressione delle regole a fronte degli interventi repressivi[88].
Saranno i costituzionalismi del secondo dopoguerra a generare non un ritorno alla legalità di matrice ottocentesca, ma a imprimere «all’interno del nuovo costituzionalismo, un’inedita immagine della legalità»[89]. Quel “pendolo”, che collocava il principio di legalità tra i poli opposti: legge-potenza e legge-garanzia, ora è superato in un nuovo fondamento collocato nella persona umana. Così i diritti fondamentali della persona accordano allo Stato «il supporto strutturale e il criterio di legittimità». Di più. Enunciati nella Costituzione diventano il criterio al quale «ricondurre (e dal quale far dipendere) l’intero ‘discorso della legalità’»[90].
Quest’ultima si colloca pertanto all’interno del «sistema di valori» recepiti e posti alla base dell’assetto istituzionale[91]. E se, come già si è tentato di evidenziare, il richiamo a parametri di valore, quali indicatori nell’ordinamento atti a fondare scelte normative, non ha mancato di suscitare rilievi e criticità, in una recente indagine volta a riflettere sulla crisi della legalità anche alla luce dell’operare della giurisprudenza (a sua volta oggetto di analisi critica), la conclusione guarda ancora alla «custodia della legalità». Nella cornice di un’ampia disamina non si esita a sottolineare: «Solo un’etica pubblica che si dia cura del principio [di] responsabilità, nel quotidiano modo di essere e di operare della società e delle istituzioni, può opporsi ad un tempo alle tentazioni del giustizialismo e alla sottocultura dell’illegalità»[92].
Si potrebbe a tal punto obiettare, senza tema di smentita, che la prospettiva suaccennata è difficilmente riscontrabile nella quotidianità. Se dovessimo infatti rileggere l’oggi con lo sguardo del penalista, la realtà darebbe conferma ai noti studi di Sutherland che, già nei primi decenni del XX secolo, sottolineava l’evolversi dalla “criminalità di strada” al“white collar crime”; forme, peraltro, entrambe coesistenti nelle società attuali. Il mutamento radicale intervenuto ai più vari livelli nell’epoca della globalizzazione viene collocato, nell’analisi più specifica dei profili penali, in considerazione anzitutto delle attività economiche, senza peraltro dimenticare l’«invasiva, e non innocente, presenza della tecnologia nella vita quotidiana»[93]. Quei fenomeni, che la “società stabile” non conosceva, oggi si traducono, nella società “liquida”, nell’esposizione di beni e persone ad aggressioni e comportamenti pregiudizievoli.
Pensiamo, per l’evidente rilevanza, all’ambito della sicurezza nel lavoro e ai nuovi rischi ad essa collegati[94]; alla salute nella collettività rispetto a fenomeni di inquinamento ambientale, alla sicurezza dei cittadini rispetto a una crescente criminalità, spesso legata alla logica degli affari e incrementata dalle speculazioni finanziarie.
Possiamo convenire che è oggi profonda la crisi dei legami sociali e al contempo più stringente la ricerca di tutela da ogni forma di violenza: donne, minori, famiglia emergono quale “segno” tangibile di ricorrenti offese e aggressioni, vittime di innumerevoli drammi, non ultimi la tratta di esseri umani e le nuove “forme” di schiavitù.
Si è aperta, per così dire, quale conseguenza una nuova frontiera al cuore del diritto penale in particolare, e con essa riemerge la perenne attualità della riflessione sul piano della prevenzione[95]. La stessa investe l’operare delle norme, che con il disporre sanzioni per le violazioni, vorrebbero quasi svolgere altresì, attraverso l’intimidazione, una forma di orientamento culturale nei comportamenti all’interno della collettività[96]. Ma le norme non bastano a se stesse.
In realtà oggi assistiamo, da un lato, a una sorta di indifferenza per regole e precetti e per la conseguente minaccia di sanzioni; dall’altro, si fa strada anche nell’ambito penalistico un progressivo riconoscimento della categoria del rischio, nel tentativo di introdurre forme anticipate di tutela per i beni e le persone, mirate alla necessaria prevenzione di condotte illecite. Non possono essere taciute nel merito anche incognite e perplessità, se solo si riflette che il diritto penale è volto per sé a reagire al fatto commesso, mentre «non è propriamente attrezzato per la gestione del rischio»[97].
Incerta e variamente definibile ne è la portata e come tale fonte di perplessità: si pensi alla normativa in materia di antiriciclaggio, d.lgs. 21 novembre 2007 n. 231, e successive modificazioni e integrazioni, laddove accanto al rischio riciclaggio si è introdotto l’ulteriore parametro del “sospetto” circa eventuali operazioni di riciclaggio. Le medesime categorie sono state oggi riprese all’interno della IV Direttiva (UE) 2015/849 del Parlamento europeo e del Consiglio (20 maggio 2015), che nello stesso ambito abroga altresì le precedenti direttive (2005/ 60/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, e 2006/70/CE della Commissione). È altrettanto vero, all’opposto, che lo svolgimento di attività rischiose nella società attuale può verificarsi e viene a coincidere con l’area del «giuridicamente consentito» (per tutte, l’attività d’impresa). Si tratta di attività ritenute socialmente rilevanti, nel cui ambito il «rischio consentito» ne implica peraltro la misura e il limite al medesimo posto in forza dell’autorizzazione giuridica[98].
La realtà diffusa, dunque, si struttura oggi in ragione delle diverse tipologie di rischio e in considerazione di quel criterio regolativo, noto come necessario affidamento, tale per cui «ciascun soggetto può e deve potere confidare nel corretto comportamento degli altri soggetti»[99], da cui attendere il rispetto delle regole. Non è certo questa la sede per affrontare tematiche estremamente complesse, ma l’accenno è posto per sottolineare come nella convivenza ai più vari livelli sia al contempo sotto gli occhi di tutti la distanza che si sperimenta nel tessuto sociale tra “norme” e “vita”: laddove la norma chiede di essere rispettata, la vita sociale ne offre spesso l’elusione, prima ancora della violazione. La legalità, qui intesa nella sua accezione più generale, esige anzitutto l’osservanza della legge; in essa è riposta la garanzia per i cittadini. Ma ancor prima la stessa dovrebbe informare di sé la cultura di una società, nella quale il dovere si adempia e il bene comune si persegua come sforzo di tutti, oltre gli interessi particolari. Dobbiamo constatare, e non resta che ribadirlo, come il carattere coercitivo della norma giuridica non basti per sé a superare la logica della pretesa e della sopraffazione, spesso fonte di nuova conflittualità. La contrapposizione arriva a creare la categoria del “nemico”[100], da cui difendersi o al quale opporsi. Ma l’incapacità di relazioni inclusive delle ragioni dell’altro, considerato piuttosto come “limite”, o “ostacolo” (alla propria persona), non esaurisce in realtà la “percezione” diffusa di una alterazione nel tessuto sociale. Quest’ultima infatti investe non più solo la dimensione dei rapporti intersoggettivi, ma acquista la “proporzione” di un fenomeno di ben altra portata.
Si pensi, per tutti, a quello che di recente è stato definito «un fenomeno imponente nel mondo dei fatti sociali», ossia la pericolosa «venalità nell’esercizio dei pubblici poteri», rispetto al quale la «normalità della tangente» si innesta in un fenomeno più ampio: l’indifferenza circa il rispetto delle regole[101]. Sullo sfondo emerge la «crisi nel sistema dei rapporti tra ceto produttivo e politica», tra pubblico e privato per interferenze indebite; un «tema smisurato», così lo si definisce, ma che non può certo trovare adeguate risposte solo nella repressione penale, piuttosto – si conclude – «rimanda alla formazione della cultura civile e del senso dello Stato e delle istituzioni»[102]. Fra le tante occasioni d’indagine e analisi in ordine al fenomeno della corruzione, una ricerca, volta a penetrarne la sua dimensione “pubblica”, onde individuarne strumenti di contrasto preventivi e repressivi, ha trovato un’espressione di particolare efficacia: «In effetti, mentre terrorismo e mafia sono realtà criminali che si pongono fuori dello Stato e anzi contro di esso, la pubblica amministrazione in cui alligna la corruzione sta dentro lo Stato, e addirittura il fenomeno corruttivo s’insinua nei gangli più alti dell’apparato politico»[103].
Non possiamo che fermarci qui, in una sorta di mera esemplificazione, peraltro solo accennata; tuttavia la stessa consente, pur nei suoi limiti, di comprendere come proprio la legalità, oggetto della nostra indagine, non sia più “esauribile” nell’enunciazione di un principio per la necessità di consolidarsi piuttosto in cultura e prassi.
È del resto a margine di una corruzione assurta a fenomeno, in ragione di un «uso del potere legale come merce di scambio» a fronte di una corresponsione di denaro, che si traduce la crisi della legalità nella «crisi della pratica della legge »[104]. Laddove sono gli stessi detentori del potere a disattenderne il rispetto, la legge arriva ad essere percepita dal cittadino come ostacolo da eludere o aggirare nel raggiungimento di un obiettivo proprio e personale. Il privilegio dà spazio alle differenze fino a elidere l’“eguaglianza di fronte alla legge”, pur consacrata all’art. 3 della Costituzione italiana. E se in quest’ultima, come dianzi sottolineato, l’intero discorso della legalità trova oggi il suo fondamento, le garanzie costituzionali dovrebbero, nella loro effettività, reintrodurre anche il «senso della legalità », che è senso delle regole, così che la legalità «non è mera conformità alla legge […] ma è un vincolo» che riguarda tutti[105]. Del resto, e soprattutto, la corruzione è in sé il ‘sintomo’ di un’alterazione nelle relazioni dentro le istituzioni e tra le istituzioni e i cittadini.
La legalità, dunque, oscilla oggi tra «valori strutturali» – in quanto procedura da osservare – e «valori sostanziali», anzitutto da riconoscere. Se la crisi della legalità viene a coincidere, in ultima analisi, con la crisi della legge, questa può essere sì custodita nella forma, conseguente a una data procedura da rispettare, ma può non essere riconosciuta nei contenuti. Diremmo, in altri termini, che difficilmente la legge viene oggi recepita come regola di comportamento in una visione capace di superare l’individuo e la sua sfera di interesse, così da far maturare la consapevolezza che occorrono strumenti anche normativi per concorrere attraverso le regole all’edificazione della società[106].
Quanto andiamo indagando acquista maggiore evidenza, tanto da meritare qualche cenno, per effetto della stessa globalizzazione che pone nuove domande e nuove sfide al diritto. Ed è qui un ulteriore ambito per la ricerca: se infatti le relazioni, come tali, danno vita all’essenza del diritto che interviene a regolarle, occorre forse riflettere circa una relazionalità a cui ricorrere quale “chiave” ermeneutica, che renda possibile rileggere anche la norma nell’orizzonte “inclusivo” dell’altro, al quale ogni comportamento si rivolge, o sul quale gli effetti dei comportamenti ricadono. La relazione giuridica, nel suo costituirsi, può essere in tal senso “ripensata” non in una sua funzione escludente, ma necessariamente “aperta” e rivolta all’altro, quale apporto all’edificazione di una coesione sociale fondata su principi e valori condivisi.
Rileggere il diritto nella prospettiva di un sistema che apre all’“inclusione” dell’alterità richiama del resto alcune espressioni contenute, ad es., in una sentenza della Corte costituzionale italiana[107] ancora del 1989, proprio in margine al principio di legalità: il fine perseguito nella normazione – vi si legge –, in particolare quella penale, è la tutela dell’ordinamento e di conseguenza «della vita sociale in libertà, uguaglianza e reciproco rispetto». Non una formula, piuttosto significato e dimensione di un “vivere giuridico” capace di generare e custodire una rete di relazioni attraverso il superamento di ogni esclusione o discriminazione.
Elemento indefettibile diventa dunque la persona, come tale “interpellata”, per così dire, dalla norma, che attraverso il rispetto delle regole “media” la relazione con l’altro e con la società civile. I piani s’intersecano per trovare una possibile risposta laddove la persona, per la sua costitutiva relazionalità, è chiamata a “riconoscere” nel suo agire, anche giuridico, l’“altro”, termine analogo del rapporto e ad esso al contempo necessario, perché quest’ultimo sussista.
L’osservanza della norma, riletta in chiave relazionale[108], rimette così al centro del diritto, come regola di coesistenza, quella reciprocità delle relazioni giuridiche, che coniugate come diritti e doveri, libertà e responsabilità, si sostanziano nel riconoscimento dovuto alla “dignità umana” dell’altro.
È la sfera nella quale l’apertura all’alterità può colmare una distanza e rendere possibile una convivenza capace di tradursi in condivisione: la stessa si colloca evidentemente al di là di una dimensione strettamente giuridica propria di persone che vivono l’una accanto all’altra, se non nell’antagonismo tra parti contrapposte[109]. Eppure, non si tratta di una prospettiva lontana se da più parti si sottolinea come già nella Costituzione italiana lo stesso principio di legalità assuma un significato innovativo. In un contesto normativo che prevede la solidarietà come «dovere inderogabile»[110] ad aprire la vita sociale ed economica alla partecipazione dei cittadini, la stessa legalità supera il dato formale riducibile in sé all’osservanza della legge nel rispetto delle procedure. Vi si rilegge piuttosto l’apertura della comunità civile a una partecipazione alla situazione di vita dell’altro; si sostanzia la stessa eguaglianza in una pari dignità sociale, che ne diventa al contempo fondamento. Ciò traspone sul piano giuridico le relazioni, cellula costitutiva del tessuto sociale.
Val qui la pena ricordare come in sede costituente, allorché la previsione dei diritti e doveri veniva introdotta nella Costituzione a caratterizzare i Rapporti (civili, etico-sociali, economici e politici), si sia sottolineato che tale regolazione «ha luogo non col semplice rinvio alla legge, ma con l’indicazione di criteri nei quali la legge troverà insieme l’infrangibile limite e le direttive da seguire»[111].
Si è visto del resto come assumere la legalità nella più generale e nota accezione che inerisce al rispetto delle norme, che regolano i comportamenti esterni, non ne escluda la valenza come fattore conseguentemente rivolto alla generalità dei consociati. La stessa richiede altresì la necessità di coniugare norma e vita, il che ne evidenzia l’indefettibile incidenza nelle relazioni sociali. Così, laddove oggi parrebbe essere la “legge” unica fonte cui ricorrere per creare legami nella comunità, attraverso le regole dettate per i rapporti, la legalità può invece assumere il suo significato più autentico: non solo in riferimento a una mera obbedienza alla legge, quanto piuttosto impegno, anche attraverso il rispetto delle “regole”, a realizzare un legame tra le persone, che ha la sua radice nell’apertura e rispetto reciproci.
Se del resto globalizzazione e pluralismo culturale costituiscono fattori componenti le società attuali, in un mondo che diviene “casa comune” per gli uomini, è essenziale riconoscere nella Costituzione – almeno nel nostro Stato – la «fonte di principi e di valori fondamentali, “permanenti”» in quanto «fondamento (normativo) e inizio giuridico di un ordinamento»[112]. La società pluralista troverebbe in tal modo nella stessa Costituzione valori di unità, così da superare una frammentazione che potrebbe significare divisione; rischio, quest’ultimo, superabile in quei principi/valori permanenti di libertà, eguaglianza e rispetto della dignità umana che, lungi dal dividere, concorrono nella condivisione a costituire un popolo[113].
Non si ha certo in questa sede la pretesa di affrontare i contenuti, né riprodurre la ricchezza di un dibattito tanto ampio quanto quello che investe nell’epoca attuale anche la Costituzione italiana[114]; si intende unicamente sottolineare nel «sistema costituzionale dei diritti dell’uomo» quella positivizzazione che «trasforma questi principi in significati normativi specificamente giuridici», tanto da essere richiamati a definire i «topoi fondamentali della “legalità costituzionale”»[115].
Al contempo, il diritto, nella sua ‘vocazione’ all’universalità, si rivolge non solo alla molteplicità, ma a ogni “singolo soggetto” e riguarda – come detto – l’“altro”, in quanto termine del rapporto. Ciò può dare nuovo significato anche all’astrazione normativa negli ordinamenti in cui la stessa ricorre: la norma infatti, per il co-esistere degli uomini e nell’attualizzarsi della relazione giuridica, che mira a disciplinare, pone ciascuno dei soggetti coinvolti dinanzi al riconoscimento reciproco non solo del ‘ruolo’ di “ogni altro”, ma della “persona” dell’altro, parte del rapporto.
Così la regola giuridica, che attraverso la previsione generale rende oggettivo il comportamento, ne garantisce «l’apertura a chiunque»[116], a rifletterne la potenziale universalità. Sta qui l’innesto del «terzo», l’estraneo, come lo si è definito, che, collocato al di fuori del rapporto binario «io-tu», varrebbe a caratterizzare un diritto considerato, come tale, «anonimo e impersonale», in cui la terza persona consentirebbe la «neutralità» propria del diritto stesso[117]. Eppure, è proprio quest’ultimo, sede del binomio diritti-doveri, che dovrebbe porsi – si è sottolineato in altra prospettiva – come «l’antitesi della diffusa cultura egoisticoindividualistica dei soli “diritti propri”, chiusa ai propri doveri, alla solidarietà, alla alterità»[118].
Il diritto è, d’altronde, non solo attribuzione dei diritti, ma anche ambito nel quale viene chiesto conto del proprio agire e delle sue conseguenze; viene ascritta al soggetto l’imputazione degli effetti giuridici prodotti e dei danni causati, è l’ambito della «responsabilità».
Nota alla morale, tale categoria è altresì fondante nel diritto civile (si pensi alle ipotesi di risarcimento danni) ed essenziale nell’ordinamento penale, tanto da essere declinata, in ragione del diverso atteggiarsi della volontà, sotto varie forme (dolosa, colposa).
È del resto nel ritorno ad ambiti propriamente normativi che diventa possibile riprendere, pur se per cenni, quella chiave di lettura relazionale, che ben riflette la prospettiva assunta in precedenza.
Restando nei limiti di taluni brevissimi cenni, può qui richiamarsi quanto emerso in dottrina[119] circa la struttura «prevalentemente monologica» della colpa penale, in contrapposizione a una possibile «struttura prevalentemente relazionale della colpa civile». Infatti, a fronte di una «natura relazionale» della regola di condotta[120], si prospetta quale suo corollario la ineludibile «rilevanza giuridica del profilo relazionale precedente la produzione del danno»; ne conseguirebbe che «una concezione della colpa che affermi la prevalenza della funzione preventiva su quella punitiva [...] deve necessariamente spostare il suo obiettivo temporale alla fase precedente l’interazione produttiva di danno»[121]. In altri termini, la prevenzione varrebbe come tale a sottolineare il dato relazionale nell’osservanza stessa della norma.
Ma è in particolare a margine della «colpa omissiva» che se ne assume la regola, oggetto dell’adempimento e ad esso sottostante, come «intrinsecamente relazionale, dal momento che il dovere di agire sorge in relazione a (in dipendenza da) una condotta altrui»[122].
In termini analoghi, un concetto di colpa «tendenzialmente o prevalentemente relazionale o interazionale» viene altresì ripreso in ambito penale, in considerazione dei fattori connotanti l’intersoggettività[123]. Si prospetta, fra gli altri, l’ambito delle attività all’interno di strutture organizzative complesse, quali quelle proprie del settore produttivo, nel cui ambito il dovere di diligenza (parametro assunto a definire la colpa dall’art. 43, comma 1, terzo alinea, c.p.) investe anche il comportamento di soggetti terzi. Più in generale, si richiamano i rapporti riferibili all’adempimento dei doveri di diligenza in considerazione del principio di affidamento circa la corretta osservanza delle regole, nelle relazioni tra soggetti interagenti (emblematico, per tutti, lo stesso ambito della circolazione stradale).
È altresì in sede giudiziale, nella fase di accertamento delle responsabilità in ambito lavorativo, che si prospetta un «dovere di diligenza relazionale» in capo all’agente, quale componente riferibile all’applicazione del criterio di prevedibilità[124]. Si assumono in tale contesto quali obblighi «relazionali» quelli di vigilanza sull’operato altrui, gravanti sui soggetti ‘apicali’ e normativamente individuati in ragione dei profili di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro.
In termini non certo conclusivi, ma unicamente esplicativi della prospettiva emersa, si può qui richiamare altresì, nel settore oggi disciplinato dal d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, concernente la tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro (modif. dal d.lgs. n. 106/2009), la previsione, accanto alle altre, di talune ipotesi di responsabilità riconducibili a ‘forme’ di cura responsabile. Recita infatti l’art. 20 circa gli obblighi degli stessi lavoratori: «Ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e con i mezzi forniti dal datore di lavoro».
Tale previsione può o (forse) dovrebbe trovare la sua necessaria cornice nella più ampia previsione costituzionale, più volte richiamata: è infatti l’art. 41 Cost. a tracciare un modello d’impresa, che pur nella cornice della libertà d’iniziativa non può peraltro recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità della persona, né essere in contrasto con l’utilità sociale.
Legalità e rispetto delle garanzie richiedono evidentemente, potremmo concludere, nei soggetti e nei comportamenti «un’interiorizzazione» dei valori giuridici insiti nelle relazioni ai più vari livelli. Ma queste ultime ne comportano al tempo stesso la condivisione in quello che diventa ‘luogo’ della “responsabilità”, che coincide – si è annotato – con quello delle relazioni sociali[125]. È del resto significativo
che proprio la dimensione della relazionalità sia stata riletta «in dipendenza del rapporto “con l’altro” ed altresì, di conseguenza, “con gli altri”», per riconnettere a tale dimensione la giuridicità, e in essa l’assicurazione dell’aiuto reciproco e il bisogno di regole comuni[126]. Neanche il diritto penale potrebbe, e a maggior ragione, sottrarsi alle questioni che il tema della responsabilità pone, se è vero che si è chiamati a rispondere dei propri comportamenti “verso gli altri”[127].
Quel che in questa sede è possibile aggiungere attiene a un aspetto essenziale del sistema penale che, come si è di recente ribadito, si sviluppa e dipende dal principio di legalità, tanto da rifletterne la crisi che attraversa quest’ultimo anche sul versante degli stessi rapporti tra legge e giurisdizione[128]. Piani, a rigore, distinti: la prima, la legge, posta a definire nei suoi elementi il fatto penalmente sanzionato e ivi descritto secondo un modello astratto; la seconda, la giurisdizione, inerente alla fase applicativa delle norme in ragione del fatto commesso. È peraltro quella dell’accertamento la fase nella quale astrazione e concretezza trovano la necessaria “interferenza” nel fatto “conforme” alla fattispecie di reato, oggetto del giudizio. Attraverso le varie fasi del procedimento e nella ‘ricostruzione’ del fatto commesso si risale all’addebito, e con esso al soggetto responsabile.
Eppure, e ancor prima, la legalità può non essere disgiunta dalla componente della responsabilità nel suo proiettarsi verso gli altri. In un documento pubblicato oggi, ma risalente al 1940, emergono rilievi non privi di attualità. La necessaria astrattezza della legge, propria della legalità quale principio fondante l’ordinamento, viene intesa, infatti, non solo come strumento che manifesta «una esigenza di ugual trattamento», sia nella tutela dei soggetti che nella previsione della sanzione, ma anche come qualcosa di più: «il diritto e il dovere – si legge – è sempre affermato in forma reciproca, in modo che ciascuno sa che nel momento stesso in cui afferma il diritto suo proprio, nello stesso momento egli riconosce, basato sulla stessa legge, il diritto del suo simile e il suo proprio dovere dinanzi a lui». Proseguendo nella lettura a margine della astratta formulazione delle leggi, tipica dei sistemi di civil law, vi si sottolinea ancora: «il diritto non è fatto per me o per te, ma per tutti gli uomini […] non può essere pensato se non in forma di correlazione reciproca; […] non può essere affermato in me senza esser affermato contemporaneamente in tutti i miei simili; […] non può essere offeso nel mio simile senza offendere me»; l’astrattezza, che pure si identifica con la “forma” del diritto espresso nella legge, consente a tutti noi – si conclude – di «sentire nella sorte altrui la nostra stessa sorte», fino a rileggere nel principio di legalità il comando: «non fare agli altri ciò che non si vuole sia fatto a noi stessi»[129].
Parrebbe, prima facie, che quanto appena riportato esuli dalla lettura che della legalità compete al penalista, allorché ne affronta l’oggetto focalizzato sulla previsione del “fatto” di reato e della conseguente sanzione. Eppure, se si intendesse ascrivere oggi una qualche effettività alla prevenzione, lo stesso principio di legalità, riconsiderato anche nella prospettiva dei contenuti citati, potrebbe realmente valere come “argine”[130] o premessa a un’assunzione di responsabilità per generare e/o consolidare una cultura della prevenzione medesima.
Non sembri il termine cultura estraneo al diritto, posto che esiste una dimensione culturale tipica che la globalizzazione introduce proprio in termini di cultura giuridica: dal legalismo dell’Europa continentale si è venuto oggi a creare un confronto tra valori e culture diverse, a cui il giurista non può certo sottrarsi, specie a fronte di nuove sfide ma anche grandi “rischi”[131].
Non si tratta, del resto, di una chiave di lettura isolata se, pur in altro contesto, nel 1995 la Commissione delle Nazioni Unite, Commission on Global Governance, nel Rapporto dal titolo “Our Global Neighbourhood”, ha indicato l’essenza della c.d. regola aurea quale principio fondamentale per realizzare una dimensione etica universale, nella quale le persone siano legate insieme da qualcosa di più della stessa prossimità, o della comunanza di interessi o identità: «People should treat others as they would themselves wish to be treated», trattare gli altri così come si vorrebbe essere trattati. La reciprocità, dunque, chiede di trattare l’altro nella comune umanità, dove nell’universalità dialogano le diversità, e i rapporti non le cancellano perché «manifestazione della ricchezza dell’essere di ogni persona» o popolo[132].
Quasi in una anticipata sintonia, Piero Calamandrei, nella presentazione della Rivista Il Ponte (che ha visto la luce il 1° aprile 1945), dirà: «Noi siamo convinti che […] si debba cominciare a ricostruire in tutti i campi […] questo senso operoso di fraterna solidarietà umana per cui ciascuno sente rispecchiata nella sua libertà e nella sua dignità la libertà e la dignità di tutti gli altri»[133].
È vero, peraltro, come già si è rilevato, che la realtà mostra piuttosto una sorta di indifferenza per il rispetto anche minimo di principi e norme, mentre, e quasi per contrasto, aumenta un progressivo riconoscimento nella legislazione della categoria del rischio, introdotto nell’obiettivo di perseguire al contempo una più efficace prevenzione delle condotte illecite[134].
È quanto sta avvenendo, fra l’altro, nell’estensione della categoria della responsabilità per fatti di reato commessi anche all’interno dell’attività di società commerciali, imprese societarie, associazioni ed enti collettivi in genere. La normativa, da tempo presente nel mondo anglosassone, è oggi diffusa in Europa e dal 2001 è stata introdotta anche in Italia, rispetto ad attività che, pur lecite, possono essere peraltro perseguite attraverso il ricorso a mezzi illeciti.
Richiamarla in questa sede avrebbe una valenza necessariamente limitata, volta a cogliere unicamente, proprio all’interno della vita societaria in generale, quegli elementi che possono peraltro sottolineare come una cultura della legalità, pretesa da società e/o persone giuridiche, sia in realtà difficilmente raggiungibile in assenza di una visione che, anche nell’attività d’impresa, muova dalla considerazione di una “rete di relazioni” tra i soggetti coinvolti ai più vari livelli.
Parola-chiave ne diventa la condivisione di regole e obiettivi di tutela, così da superare la logica di interessi contrapposti e comporre la frammentarietà. Del resto, proprio l’ambito societario è stato recentemente richiamato per sottolinearne «la desertificazione culturale e relazionale», unitamente alla patrimonializzazione degli interessi tutelati in ambito penale, così da «subordinare nichilisticamente i beni relazionali a quelli “posizionali”»[135]. Se si ritiene dunque essenziale riprendere le questioni di fondo che ineriscono alla persona, è lo stesso parametro relazionale ad assumere un ruolo determinante.
Alcuni cenni, riferibili all’ambito in parola, si rendono in tal senso doverosi.
In Italia il d.lgs. 8 giugno 2001 n. 231 (Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, società e associazioni non riconosciute, a norma dell’art. 11, l. 29 settembre 2000 n. 300) introduce come argine all’illecito penale commesso dai soggetti apicali o dipendenti all’interno dell’ente collettivo una responsabilità conseguente, essenzialmente, a un deficit di organizzazione. Si richiede cioè, perché l’ente possa non incorrere nella responsabilità da reato, secondo la tipizzazione contemplata nella normativa in un’ottica di prevenzione, l’adozione di modelli di organizzazione e gestione, ispirati ai compliance programs sul modello statunitense e integrati da un Codice interno di autodisciplina[136].
Gli oltre dieci anni ormai trascorsi nell’applicazione della normativa hanno visto consolidarsi il riconoscimento anche in sede giudiziale della c.d. colpevolezza di organizzazione basata o sull’assenza dei modelli prescritti, ai fini preventivi, ma non già obbligatori, o su un giudizio di inidoneità o di inefficace attuazione del modello medesimo predisposto dall’ente. Da qui l’addebito a quest’ultimo per l’illecito amministrativo dipendente dal reato realizzato dalla persona fisica, alla stregua dei criteri d’imputazione normativamente previsti (artt. 5, 6 e 7, d.lgs. n. 231/2001) e in riferimento alle categorie dei reati presupposto in costante espansione.
Il settore evidenzia, anche nelle sue dinamiche processuali, che non basta l’osservanza delle norme e la predisposizione di quelle interne, occorre altresì un’effettività delle stesse a garantire una reale prevenzione degli illeciti. Una conferma, dunque, che la norma per sé non è sufficiente a garantire una vera cultura della legalità. La stessa non è realizzabile se i soggetti chiamati all’adempimento non si riconoscono corresponsabili all’interno dell’organizzazione, o all’esterno nei confronti di clienti, fornitori, enti pubblici che erogano finanziamenti, o ancora rispetto all’ambiente da tutelare a garanzia della collettività, dando vita a una vera “rete di relazioni” e circolarità di responsabilità. È a margine della Stakeholder Theory che si rappresenta infatti l’impresa come un “fascio di relazioni”, che genera il declinarsi di tre distinte “forme di responsabilità”: economica, legale, sociale, tra loro interconnesse[137]. La seconda naturalmente è quella che risponde all’osservanza delle norme, ma nell’ambito di un sistema condiviso. La veste giuridica di una siffatta responsabilità ha radici dentro l’impresa stessa, in un complesso “sistema di relazioni”.
Immaginiamo dunque la vita nell’impresa societaria come l’essenza di una comunità che si compone di soggetti e ruoli diversi, ma concorrenti nella responsabilità di operare anche nei confronti della più ampia comunità esterna. A sottolineare la rilevanza di quanto diciamo si può richiamare l’iniziativa promossa, nel 1999 al World Economic Forum di Davos, da Kofi Annan, allora Segretario generale delle Nazioni Unite. Si tratta del Global Compact, un “Patto globale”,
al cui interno i principi elaborati nelle tre distinte aree di intervento (diritti umani, lavoro, ambiente) riconducono sostanzialmente a tre atti internazionali, che ne fondano il substrato giuridico:
– La Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo (10 dic. 1948)
– La Dichiarazione dell’Organizzazione Internazionale del lavoro (OIL) sui
principi e diritti fondamentali nel lavoro (18 giu. 1998)
– La Dichiarazione di Rio sull’ambiente e lo sviluppo (3-14 giu. 1992).
L’estrema rilevanza degli ambiti citati può, per così dire, concorrere a definire la “cornice” propria dell’attività economica, nella quale per instaurare proficue relazioni anzitutto intra-aziendali diventano necessari modelli, che oggi in Italia trovano un percorso tracciato anche attraverso le Guidelines, disposte a presidio della legalità.
Eppure, la necessità di un’organizzazione idonea a prevenire i reati per sé nonbasta se non è accompagnata da una rinnovata cultura. L’adozione di modelli di gestione e controllo può infatti per sé costituire solo un “costo” da pagare per evitare sanzioni all’ente societario, più che garantire l’acquisizione di uno “stile” rispondente all’impegno per una legalità, che deve diventare vera e primaria condivisione di scelte e valori (peraltro inequivocabile alla luce del dettato della nostra Costituzione, ex art. 41).
Si comprende allora quel legame tra legalità e libertà, tipica quest’ultima dell’attività economica, così espressa a suo tempo da Calamandrei: «I diritti di libertà non devono [..] concepirsi [..] come il recinto di filo spinato entro cui il singolo cerca scampo contro gli assalti della comunità ostile, ma piuttosto come la porta che gli consente di uscir dal suo piccolo giardino sulla strada e di portare il suo contributo al lavoro comune»[138].
È la conferma che anche ogni libertà nel suo declinarsi può trovare nelle norme la regola, ma nella condivisione l’espressione più autentica per l’apertura alle relazioni, seconde le molteplici forme che il diritto prevede. Se è vero, d’altronde, come sostiene Alessandri[139], che l’impegno coinvolge tutti, ne consegue che la strada indicata dalla stessa Costituzione italiana, anche in ambito economico, mantiene ancor oggi tutta la sua attualità. Nelle pagine che riportano i lavori dell’Assemblea costituente, a margine degli artt. 45 e 46 Cost. in materia di rapporti economici, emerge il rilievo ascritto alla cooperazione, in quanto «fenomeno economico e sociale […] che costituisce un sostanziale elemento di fraternità, che non può essere frutto di una semplice formula economica – in cui si sommano aritmeticamente gli egoismi individuali – ma di una superiore ispirazione in cui l’uomo si sente vicino all’altro uomo nell’impresa comune, […] attraverso l’aiuto solidale e la reciproca collaborazione». Allo stesso modo, circa la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende si mirava fin da allora a trasformare e superare «l’attuale organizzazione sociale […] perché risponda, non solo al principio della massima produttività, ma altresì a quello della giustizia sociale». In una più ampia visione fondata sulla “collaborazione del capitale e del lavoro”, si ammetteva che la dottrina attuale potesse al momento dar torto, ma – si concludeva – «i fatti [...] daranno ragione» se fondati sulla «fraternità umana».
Non è dunque taciuta quest’ultima quale possibile “legame” innestato nella dinamica delle relazioni giuridiche anche all’interno di un’impresa, la cui attività non può prescindere da scelte che chiedono una responsabilità condivisa. Qualche cenno a conferma può essere tratto dalla citata normativa vigente.
Il fondamento della responsabilità amministrativa, oggi prevista – ex d.lgs. n. 231/2001 – per quanto attiene agli enti collettivi, sul presupposto dei modelli organizzativi, è ricostruibile non solo in ragione dell’adozione dei modelli stessi, ma altresì di una loro efficace attuazione. La pluralità degli “attori” coinvolti, a fronte della necessaria osservanza e del dovuto controllo dei modelli di organizzazione e gestione, farebbe pensare a una costante valutazione della struttura organizzativa in termini di efficienza e adeguatezza, ovvero, un’“idoneità in concreto” dell’organizzazione a garantire anzitutto il rispetto della legalità e con essa correttezza e trasparenza nell’attività. Non si può certo, in questa sede, operare un’attenta disamina della complessa normativa, ma se la struttura organizzativa attraverso il corpus di regole parrebbe assumere una regolamentazione «sostanzialmente piramidale»[140], in quanto ‘calata’ dal vertice d’impresa per diramarsi nelle varie espressioni dell’attività dell’ente, potrebbe diversamente la stessa, per la necessaria risposta nella prassi insita nella pluralità delle relazioni, realizzare l’ineludibile estensione “dalla piramide alla rete”.
L’astrazione normativa, e con essa l’apparato sanzionatorio previsto dal legislatore, non può infatti per sé garantire l’idoneità del modello, se non perché ne segua la concreta osservanza nella pluralità dei rapporti in cui si articola l’attività, sia al suo interno, sia rispetto ai destinatari della stessa, verso l’esterno. La legalità aziendale si struttura dunque in un “convergere” di responsabilità e condivisione di obiettivi, ma prima ancora esigerebbe una “normazione partecipata”, ovvero adottata secondo i criteri di partecipazione non estranei alla stessa Costituzione. Una conferma può venire oggi dal c. d. rating di legalità, di recente introdotto (art. 5-ter, comma 1, d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla l. 24 marzo 2012, n. 27), a indicare, in forma per così dire premiale, i parametri minimi di affidabilità e legalità dell’impresa[141]. E ciò non tanto in considerazione di una “riscoperta” dell’etica in veste “aziendale”, quanto in considerazione di un “recupero” del senso vero della legalità, riletta in vista di quell’effetto ultimo, per il quale non basta evitare comportamenti ad essa contrari, piuttosto promuovere una cultura d’impresa nella quale la legalità si traduca altresì in percorsi di solidarietà, ovvero, assunzione di responsabilità anche verso terzi e prevenzione autentica.
Un concetto, si direbbe, suscettibile di rivestirsi di un contenuto “positivo” e “attivo”, capace come tale di esperire ulteriori possibilità.
La prospettiva intrapresa, che trova la sua cornice nella Costituzione italiana, esige come doverosa premessa, anche se la stessa non potrà di certo essere in questa sede esaustiva, una ‘rilettura’ della legalità a partire dall’aspetto, che più strettamente ad essa si collega, ovvero l’astrattezza della legge. A quest’ultima è necessario ritornare in quanto capace di assicurare certezza al diritto e al contempo, come sottolineato, offrire «garanzia di umana dignità»[142].
L’espressione ora citata assume come suo riferimento la legge, in quanto nel predisporre la sanzione «fa appello prima di tutto alla libera determinazione dell’uomo», a cui ricondurre l’obbligazione quale richiamo rivolto alla volontà e responsabilità del singolo. È in tale chiave di lettura che la legge astratta viene considerata «lo strumento logico», nel quale si renderebbe visibile il senso della solidarietà e della «uguaglianza spirituale che affratella gli uomini». E se “la legge è uguale per tutti”, ciò darebbe assicurazione che le leggi «siano applicate in modo uguale ai casi uguali, senza parzialità, senza dimenticanze, senza favori»[143], mentre l’astrattezza diventerebbe «formula logica della solidarietà e della reciprocità umana, che è la più efficace forza di coesione della società e la condizione essenziale d’ogni civiltà vera»[144]. In un’epoca, quale quella alle soglie dei primi anni ’40, segnata da una profonda crisi del diritto legata ai drammi della storia, sembra peraltro emergere una ulteriore dimensione della legalità non già o non solo in senso “legalitario”, ma nel suo fondamento ritenuto capace di declinare “solidarietà” e “civiltà”[145].
Con altro e più recente linguaggio potremmo quanto alla prima, la solidarietà, riprendere i rilievi appena esposti anche in una dimensione più ampia, ovvero quella di una comunità nella quale, per dirla con Habermas, «gli individui si aspettano l’uno dall’altro quel “pari trattamento” implicito al fatto che ogni persona tratti qualsiasi altra come “uno dei nostri”»[146]. È l’orizzonte nel quale si delinea altresì un concetto di giustizia che esprime solidarietà, e «intesa in senso universalistico pretende che ciascuno sia responsabile per l’altro […] anche per l’estraneo». Similmente, il chiunque introduce la persona dell’altro (degli altri) in un “circuito” di «pari rispetto […] e di una responsabilità generale e solidale dell’uno verso l’altro», fino all’inclusione nella comunità anche di chi ne è estraneo[147].
Di più. La stessa «solidarietà tra estranei» è stata accostata all’orizzonte della “reciprocità”, a fronte di un diritto che «garantisce l’ordine relazionale della vita in comune degli esseri umani», argine all’arbitrio e alla prevaricazione[148]. In tale cornice si delinea il profilo sostanziale dello Stato di diritto, nel quale il principio di legalità, inteso come primato della legge, si connette al «principio di legittimità, che riguarda la conformità della legge ai valori costituzionali, indisponibili, che vanno riconosciuti e rispettati». Dunque, astrattezza e generalità della legge si confermano garanzia di una eguaglianza nell’interpretazione e applicazione della stessa, unitamente all’imparzialità e all’esclusione di ogni eccesso o abuso anche nell’amministrazione della giustizia: una legalità che si inscrive nei rapporti e incide nella convivenza.
La dimensione del diritto che si va qui delineando sottolinea quelli che vengono indicati come «presupposti basilari» dell’interazione sociale, ovvero i principi della dignità della persona, eguaglianza e responsabilità, ulteriore premessa all’instaurarsi di rapporti in «una reciprocità di aspettative fra chi detiene il potere, e dà le regole, e chi vi è soggetto», in modo da assicurare certezza nel rapporto a monte tra libertà e autorità, quale «vera essenza del principio di legalità»[149]. Ed è quest’ultimo a esigere che le stesse relazioni acquistino una dimensione normativa, nella quale si diventa “soggetti” consapevoli della relazione giuridica in forza degli «obblighi normativi che dobbiamo rispettare di fronte agli altri». L’affidamento si fa nell’interazione criterio giuridico[150] ed esige che la supremazia della legge si coniughi con il principio della sua conformità ai parametri e valori costituzionali. Se così è, la solidarietà, espressamente collocata dalla Costituzione italiana tra i principi fondamentali all’art. 2, diventa a sua volta fondamento imprescindibile anche sul piano dell’interazione normativa, informando di sé un diritto a cui è richiesto di farsi “solidale”.
L’orizzonte della relazionalità che così si delinea troverebbe qui una necessaria conferma in ragione del «complesso di rapporti che collegano il sé all’altro», prospettiva quest’ultima non disgiunta da una lettura interna al sistema, che rinvia alle modalità della discorsività e inclusione[151]. La strada in tale contesto intrapresa consente altresì di affermare che anche la positivizzazione dei diritti umani non andrebbe separata dalla solidarietà, se è vero che essa «postula la socialità come qualità essenziale della persona»[152]. La lettura che ne consegue comporta una prima implicazione in forza di un principio di solidarietà che diventa “fonte di doveri” e «componente del legame sociale», così da richiedere «un impegno volto a “farsi carico” delle esigenze connesse al sostegno […] dello stare insieme in società»[153]. È evidente che la prospettiva in parola assume una valenza che supera confini e luoghi, per trovare la sua radice in quella dimensione sociale della persona umana, che nel suo farsi solidale con la comunità segnerà per Amorth l’innesto della “dimenticata” fraternità nell’ambito dei principi, accanto a libertà ed eguaglianza[154].
Una solidarietà così intesa, nel rinviare a una dimensione capace nella ‘convivenza tra estranei’ di introdurre la prospettiva di una «unione nella diversità», apre altresì, almeno nella lettura fin qui esposta, a una rinnovata “co-responsabilità”. Ovvero, un agire responsabile anche nell’osservanza di regole e norme, in ragione di un vincolo solidale e nella consapevolezza di un suo effettivo riflettersi sulla con-vivenza. Sta forse qui l’innesto, nel più ampio orizzonte dell’umanità, di quel dettato dell’art. 1 della Dichiarazione Universale del 1948, a margine del quale si ritiene che la fratellanza, legandosi alla solidarietà, comporti il necessario rinvio a «un’appartenenza comune, all’interdipendenza tra pari, ad una sorte condivisa», tanto da sottolineare che, ancor prima della solidarietà, esisteva la fraternità[155]. Ma sul punto si tornerà più oltre. Resta peraltro da evidenziare, nell’approccio a una lettura siffatta, che la stessa libertà nell’adesione alle regole della convivenza, misurata sul reciproco rispetto e affidamento, delinea un ambito di responsabilità non misurabile su individui isolati, ma in forza di legami imprescindibili.
In senso analogo, la “responsabilità” viene altresì declinata come «disponibilità al rispetto sostanziale delle regole e delle norme», il cui contenuto ne richiederebbe peraltro la coerenza con i valori, a garanzia della persona, così da tracciare, accanto alla più nota categoria della legalità formale, quella della legalità sostanziale[156]. Dal confronto tra la prima, riferibile al complesso di “forme” e “norme” emanate secondo procedure date, e la seconda, che rimanda alla regola quale fonte di responsabilità, emerge un tentativo di ridefinizione della legalità sostanziale che, al di là del concetto di osservanza formale, consenta di fondare la responsabilità personale su quell’atteggiamento di rispetto dei diritti altrui per il quale ciascuno diventa capace di vivere la regola dentro di sé e, aggiungiamo, in riferimento all’altro.
A tale prospettiva, anche in chiave costituzionale, può non essere estranea la dimensione già anticipata di una cultura della legalità, se, come emerge, la stessa diventa traducibile in cultura dell’eguaglianza (non già egualitarismo, in quanto esclusione del valore delle differenze), ma anche cultura delle istituzioni, chiamate esse stesse alla responsabilità nell’esercizio della funzione e al rispetto della legge[157].
Altra, tuttavia, potrebbe apparire la lettura, a margine del diritto moderno, in chi sottolinea una componente di novità, collocata piuttosto «nella forma “legale”, o “convenzionale”, o “artificiale”, ovvero “positiva” del diritto vigente conseguente alla mutata fonte di legittimazione: non più la veritas, ma precisamente l’auctoritas»[158]. Eppure, anche in una cornice siffatta, il principio di legalità manterrebbe pur sempre la propria valenza come «principio costitutivo dell’esperienza giuridica moderna». In tal senso il garantismo, nel suo declinarsi attraverso il diritto come strumento, troverebbe l’equivalenza tra «primato assiologico» e «primato della persona come valore», inclusivo quindi di tutte le diverse identità, per l’attribuzione a ciascuna del medesimo valore. Da qui l’efficace notazione circa un’uguaglianza che «consiste precisamente nell’uguale valore assegnato a tutte le differenti identità che fanno di ciascuna persona un individuo diverso dagli altri e di ciascun individuo una persona come tutte le altre»[159].
È in tale lettura che trova menzione il rapporto fra i tre classici principi della Rivoluzione francese – liberté, égalité, fraternité – per ricondurre la categoria dei diritti sociali alla fratellanza promessa in forza di una «uguaglianza sostanziale». Né vi risulta estraneo il principio di legalità, posto che le conseguenti prestazioni, in risposta e adempimento alla garanzia sottesa ai diritti sociali, esigono leggi che ne impongano i corrispondenti obblighi ai poteri dello Stato[160]. Da una funzione unicamente difensiva del diritto a una di intervento positivo.
Non manca tuttavia nel merito, accanto alla “più immediata” elaborazione teorica e normativa, il più complesso livello della pratica delle garanzie enunciate, che non si esita a sottolineare. Può valer la pena riportarne testualmente le espressioni nella loro efficacia: «l’esperienza insegna che nessuna garanzia giuridica può reggersi esclusivamente sulle norme; che nessun diritto fondamentale può concretamente sopravvivere se non è sorretto dalla lotta per la sua attuazione […] e dalla solidarietà»[161]. A fronte di un sistema giuridico che, pur tecnicamente perfetto, non può come tale garantire alcunché, si prospetta piuttosto un substrato culturale del diritto, fatto di lealtà da parte dei pubblici poteri rispetto alle “regole del gioco”, consapevolezza nei cittadini dei diritti propri e altrui, impegno civile contro le deviazioni dei poteri a tutti i livelli. Si delinea la prassi del garantismo, nella quale si radica, insieme alla solidarietà, il «riconoscimento degli altri come persone, dotate del medesimo valore associato alla propria persona»[162], per giungere nella sua espressione ultima alla «comunanza tra persone», sulla base di diritti fondamentali che accomunano.
Le conclusioni, per quanto qui solo accennate, valgono a segnare nella convivenza il punto di intersezione fra teoria e prassi in una duplice e necessaria prospettiva: la prima, in forza di regole dettate da norme capaci di “riflettere in sé” il valore della persona, riconosciuta nella sua dinamica relazionale, e la seconda, in quanto “vita nel rispetto delle norme”, che non può prescindere da una cultura condivisa, radice a una prassi responsabile.
Al cuore del diritto e dei diritti vi è dunque l’uomo, non tanto come individuo, ma membro della società, la cui personalità matura nella convivenza sociale. È l’orizzonte sotteso alla stessa Costituzione italiana fin dai suoi «principi fondamentali», da cui emerge quella logica dell’inclusione riconducibile a un patto, che proprio nella votazione conclusiva dell’Assemblea Costituente è stato definito di amicizia e fraternità. Vi coesistono proclamazione di diritti e assunzione di doveri da parte della società, in una «integrazione – dirà Vittorio Emanuele Orlando nella Costituente – dei principi di libertà e di eguaglianza con quello di fraternità»[163]. Un primo passo in tal senso richiede forse di ripensare oggi a quell’esperienza giuridica, che in quanto fondata sui rapporti con gli altri, non può che essere un’esperienza di correlazione e reciprocità. In essa l’eguaglianza nella accennata dimensione relazionale esclude per sé la coincidenza con l’identità, sul presupposto evidente che, se l’umanità ci accomuna, la diversità ci distingue, e ciò a qualunque latitudine. Ecco allora che la fraternità non varrà tanto in una sua autonomia come principio accanto a libertà ed eguaglianza, piuttosto, nella relazionalità di cui si sostanzia potrà concorrere a realizzare pienamente anzitutto l’eguaglianza. Se l’altro è infatti necessario “termine di paragone”, ecco la fraternità quale paradigma capace di inscrivere nell’eguaglianza la diversità, riconosciuta quale ricchezza che segna nell’individualità l’unicità di cui ognuno è portatore.
Se così è, la ricerca, nel suo volgere al termine, non può prescindere da una nuova “tappa”, ovvero la possibilità di pensare il diritto non unicamente come spazio che unisce e separa, ma che per l’interazione dei soggetti tra loro e con “ogni altro” può divenire, per la dimensione relazionale di diritti e doveri, ‘luogo’ aperto al “di più” della fraternità, dimenticata certo, ma non taciuta. Il suo fondamento traspare in una delle pagine scritte in un tempo non troppo lontano ove il diritto, proprio per la sua caratteristica bilateralità, coinciderebbe con «l’emergere dell’altro», per tradursi nel riconoscimento della sua vita come «autonoma e indisponibile da noi»: è qui «la scoperta dell’altro come un ostacolo che non possiamo, perché non dobbiamo superare». Nell’esperienza giuridica, si spiega, il ritrovamento degli altri come diversi e uguali diventa ritrovamento dell’umanità stessa dell’uomo, che – si conclude – «si presenta come fraternità […] necessaria, inderogabile»[164], che incide sulla vita.
Non vuole essere questo solo uno sguardo volto al passato, se anche la più recente dottrina non ha mancato di occuparsene, così da verificare la sussistenza della stessa fraternità in quanto principio, pur non espressamente enunciato, ma sotteso agli altri che la Costituzione italiana, in particolare, colloca tra i principi fondamentali. Non si può certo in questa sede effettuarne una compiuta analisi, e altri del resto sarebbero gli ambiti da indagare; ci limiteremo piuttosto a “ripercorrere” alcune tracce emerse in dottrina nel tentativo di assumere, nell’epoca di un mondo globalizzato, un unico modello, ove ricomprendere libertà ed eguaglianza. Tale modello si prospetta per taluno sostenuto da una fraternità/solidarietà «coniugata al plurale, [...] necessaria per definire l’identità degli individui, ovvero per definire i criteri di fondo per valutare libertà e eguaglianza»[165].
In altri “itinerari di ricerca” la giuridicizzazione del “principio di fraternità” tenta altresì di risalire «fino alle radici stesse della libertà, rintracciate in un legame originario, non elettivo, della persona con l’altro da sé»[166]. La fraternità dunque darebbe evidenza al legame interpersonale, sotteso alla convivenza, in una duplice valenza: rispetto alla libertà, superandone la dimensione di mera “indipendenza”; rispetto all’eguaglianza, arricchendola di un contenuto che supera l’identità livellatrice o negatrice delle differenze, in una relazione di riconoscimento delle diversità[167].
La base normativa, pur sempre nel contesto italiano, non può che trovare la sua genesi anzitutto nell’art. 2 Cost., dal quale la persona emerge nella sua dimensione relazionale, ovvero, in considerazione di una personalità che si esprime anzitutto entro le “formazioni sociali”, ma si declina altresì in una “pari dignità sociale”. In forza di tale legame costitutivo, si afferma con efficacia: «la libertà individuale si colora di una dimensione di “debito” e, pertanto, di responsabilità nei confronti dell’altro da sé e, più in generale, di quel rapporto sociale da cui è generata, costantemente alimentata e a cui è chiamata a prendere parte attiva»[168].
Se la fraternità trova dunque la sua radice nella persona, è nei legami di cui si sostanzia il tessuto sociale che si declinano libertà responsabile e doverosità anche sul piano giuridico: assumere un obbligo significherà riconoscere il corrispondente diritto dell’altro. Ma sarà soprattutto nella sua dimensione più universale che la fraternità potrà consentire di “riconoscere” legami di solidarietà anche nella comunità più vasta dei popoli, laddove la globalizzazione ha reciso i confini ma non generato condizioni per una autentica condivisione e comunione di vita. Non mancano certo letture di segno opposto, accanto ad altre che, opportunamente, ne sottolineano tutta la problematicità e ambiguità. Queste ultime appaiono sottese alla recente espressione-sintesi: «fraternità conflittuale». La stessa, nella sua riconducibilità al costituzionalismo, racchiuderebbe in sé «l’idea di limite» a significare la «necessità continua dell’imposizione dall’esterno di un dovere di avvicinamento verso l’Altro, in quanto irriducibilmente diverso, nemico, nella consapevolezza che questo sia l’unico modo per consentire una convivenza nell’epoca presente»[169].
È il dato non taciuto della complessità, che si confronta peraltro ancor oggi con la prospettiva di chi sottolinea positivamente il passaggio, nell’ordinamento costituzionale vigente, «dalla razionalità del legismo positivista alla ragionevolezza della legalità costituzionale»[170]. In essa, la lettura si fa duplice: emerge, da un lato, il valore individuale dell’uomo, commisurato alla libertà, e dall’altro il valore socio-culturale della persona che si relaziona con gli altri nella convivenza. La dignità umana, premessa ineludibile ai diritti fondamentali, acquisterebbe dunque il significato di un valore che si pone “oltre” la storicità dei valori, indicando anche al legislatore il rispetto dei principi fondamentali e con essi la legittimità entro la quale deve esercitarsi la stessa legalità. Dinanzi a un formalismo che si assume fondato su una legalità senza aggettivi[171], legittimata come tale dalla procedura, si rilegge attraverso la legalità costituzionale il passaggio dalla legge al diritto, improntato a un sistema di valori. Ne conseguirebbe altresì la sua umanità, in un ambito nel quale sussistono autonomia e solidarietà dei soggetti, componenti che meglio si comprendono alla luce della considerazione che segue: «La sfera di diritti separata da quella dei doveri minaccia l’unità dello status personae privando il fenomeno giuridico del suo carattere relazionale e dialogico»[172]. La persona umana, dunque, e non qualsivoglia potere all’interno dell’apparato autoritario dello Stato, costituisce il centro della comunità, in vista della quale realizzare una vera solidarietà, declinabile anche in ragione dell’instaurarsi di una cultura della legalità[173]. Quest’ultima, in un contenuto per così dire “sostanziale”, si porrebbe quale garanzia di una convivenza sollecita verso la persona e le sue prerogative.
La lunga digressione, fin qui operata, potrebbe non allontanare dall’oggetto della ricerca se solo si riflette sulle questioni dianzi affrontate a margine di una “crisi”, da più parti sottolineata, vuoi del diritto, vuoi della stessa legalità, tanto da riproporre quest’ultima come “cultura” in qualche modo necessaria per cittadini e istituzioni. In un orizzonte segnato da una legalità che, riletta in chiave costituzionale, non può prescindere nella sua fondamentale struttura normativa dalla solidarietà (a sua volta non necessariamente alternativa all’ulteriore dimensione della fraternità), riprendiamo la metafora della “rete”, che bene può esprimere l’essenza relazionale del diritto. Nelle sue molteplici forme, ne sottolinea la struttura non già di vertice, quasi a dare piuttosto evidenza a un “vincolo solidale”, da cui rileggere anche diritti e doveri secondo una logica di riconoscimento
reciproco aperto alla relazione con l’altro.
È lo “spazio” nel quale il di più della condivisione e della co-responsabilità domanda di ripensare la struttura dell’ordinamento, tipica del diritto, non unicamente come ‘costruzione gerarchica’ tra norme, piuttosto, attraverso la metafora della rete, nel suo fondamento relazionale. Le maglie, di cui la rete si compone, ne indicherebbero i legami, a cui le persone anche attraverso le formazioni sociali darebbero vita, generando un soggetto terzo: la famiglia, la comunità e con essa i suoi mondi (l’impresa, la scuola e così via).
Guardare alla “fraternità” in tale prospettiva significherebbe di certo superare la visione più individualista, nella quale il singolo cerca nella tutela giuridica l’affermazione e la difesa di sé da ogni possibile interferenza, per orientare piuttosto all’intreccio delle relazioni, a cui il diritto stesso dà vita. Se tale ne è l’essenza, ne è al contempo l’orizzonte necessario sul quale poter altresì fondare legami capaci di accordare, nel rispetto delle diversità, una “pari dignità”, e per la comune umanità l’apertura a ogni altro, non più avvertito come antagonista. Una ‘via’ per rendere possibile una reale prevenzione del conflitto.
In tale lettura anche la legalità può ‘superare’ il dato puramente formale dell’osservanza della norma, non certo per eliderlo, ma per arricchirsi di una dimensione “sostanziale” capace di guardare ‘oltre’ la norma. Una visione che consente, se così può dirsi, di “attraversare” il rapporto giuridico astrattamente previsto dalla norma stessa per cogliervi, nella concretezza della vita, i tratti di un volto umano, l’altro per il quale la regola è posta. Anche libertà ed eguaglianza, del resto, attendono di “tradursi” dall’enunciazione del principio in effettività nel riconoscimento. Lo stesso Kelsen, nello scritto Staatsform und Weltanschauung guardava, pur nell’ambito dell’ordinamento giuridico, a un modello di uomo che, dotato di un alto senso di responsabilità, nel trovarsi di fronte all’altro ascolta una voce che gli dice: «das bist Du»[174]. Si direbbe, dal chiunque della norma al “ciascuno”.
È di oggi, in una significativa “analisi” della crisi della legalità, il richiamo, accanto a quest’ultima e quale ulteriore pilastro, del «principio di uguaglianza», così spiegato: «di fronte alla legge, si annullano i dislivelli sociali, si cancellano le differenze censitarie, sono irrilevanti le ascendenze familiari, la cerchia o i gruppi sociali di appartenenza, e così via. Esiste solo un indifferenziato, costante, paritario soggetto di diritto che è la “persona”, e cioè – secondo l’accezione etimologica – maschera unificante di individui concreti, la cui concretezza resta necessariamente celata dietro di essa». Ma la lettura attraversa e va oltre il dato formale. Proprio in forza dell’ulteriore considerazione per la quale allo Stato di diritto si è attribuito anche il compito di rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono il paritario godimento dei diritti, non si esita ad affermare ulteriormente: «un principio solidaristico ha dato corpo all’uguaglianza formale, trasformandola in un guscio che occorre riempire con precisi contenuti di valore»[175].
In tale prospettiva il principio di legalità diventa esso stesso misurabile nella sua effettività, tanto che, nella constatazione di una giuridicità debole[176], si fa al contempo imprescindibile la domanda: «che ne è del “valore” della legalità, e cioè dell’appello pressante rivolto all’osservanza delle leggi in nome di una convivenza ispirata ai principi che sorreggono e accompagnano la legalità, e quindi una convivenza sollecita verso la persona, sensibile alla rimozione della disuguaglianza, equa nel distribuire le opportunità e nel sostenere i bisogni? Che ne è, dunque, della «cultura della legalità», intesa nell’accezione primigenia di conformazione della società civile al paradigma della legalità, e non al suo inverso […]?»[177].
La citazione, pur nella sua estensione, diventa in sé doverosa premessa rispetto a una lettura conclusiva in cui la «cultura della legalità», lungi dal riferirsi a «qualunque legge sol perché tale», supera il rischio di ricadere in quelli che sono stati efficacemente definiti «illegalismi legali», per puntualizzare: «La cultura della legalità si riferisce ai testi normativi che da tale cultura sono ispirati e animati, e quindi in primo luogo alla Costituzione»[178].
Se la legalità, in ultima analisi, coincide con l’attuazione di un valore la cui origine prima è riconducibile alla persona umana, si comprende quanto è stato affermato: nell’«essere “rapporto con l’altro tra gli altri” il diritto è, per sua essenza, solidarietà», criterio a sua volta, quest’ultimo, che «conosce il comune denominatore delle diversità ma non si annega nell’indistinto di una generalità senza volto»[179].
Del resto lo stesso reato, nel suo realizzarsi in violazione della legge, trova una peculiare definizione come illecito di modalità di lesione pur senza cessare di comportare un “vulnus” nei rapporti sociali, così che le relazioni – materia del diritto – ne costituiscono evidente premessa e fondamento. Emerge dunque una visione del diritto che non sia limitata unicamente alla sua dimensione coercitiva, ma che ne riconosca misura ed efficacia come “strumento” di correlazione tra gli uomini, in un nuovo “paradigma” di responsabilità tra i soggetti[180].
Percorrendo oggi i «sentieri del giurista», la domanda ultima varca i confini anche della Costituzione italiana per rivolgersi a quel “principio dimenticato”, e ultimamente ripreso in dottrina, riconducibile come in precedenza argomentato alla fraternità. La stessa è stata fra l’altro riletta, in una portata generale, come «consapevolezza di dover prendere distanza dalle logiche dell’inimicizia e condividere spazi comuni a ogni altro individuo, con la sua vita, storia, dignità»[181].
Sta forse qui l’attualità “sopita” di un paradigma eretto a principio fin dal più noto trittico. La fraternità ripresa, come ricordato, dall’art. 1 della Dichiarazione Universale del 1948, e dalla stessa collocata nell’orizzonte della «famiglia umana», si converte oggi in un nuovo interrogativo: “utopia o necessità?”; ma, al contempo, diventa possibilità di aprire alla dimensione, sperimentabile e in sé difficilmente risolvibile, della mondialità ‘racchiusa’ in un “villaggio globale”.
Tale chiave di lettura, capace di introdurre la fraternità quale dimensione propria di legami relazionali, può altresì indicarne anche nel diritto la valenza positiva, per concorrere ad accordare effettività all’eguaglianza (fra tutti), in un rapporto tra pari, e autenticità alla libertà (di ciascuno), per il rispetto della diversità non riducibile alla dimensione dell’indifferenza. Quello che oggi è stato sottolineato come «sfaldamento del principio di legalità»[182] potrebbe dunque ritrovare, in una cornice costituzionale e al contempo internazionale quale quella tracciata per la fraternità, la misura di una rinnovata consapevolezza. Se, infatti, la legalità da principio fondamentale esige di tradursi in cultura, la stessa non si riduce a mera enunciazione o “culto della legge”, si fa impegno responsabile, anche attraverso il rispetto delle norme, per realizzare ‘legami’ tra le persone come “prassi” nelle relazioni, al di là di un “rapporto legale” con le norme.
La fraternità, ripensata nell’orizzonte del giurista, potrebbe costituire non solo “radice” ai rapporti che attendono accoglienza e rispetto in una reciprocità responsabile, così da unificare consapevolmente norma e vita, ma anche, come recita la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, proporsi come modo d’agire degli uni verso gli altri per concorrere a generare quella che, per dirla con Bobbio, diventa «l’auspicata unità del genere umano»[183]. In altre parole: concorrere a realizzare quel “insieme”, dimensione senza la quale le differenze restano irriducibili.
È forse il “passo” che la globalizzazione ci “costringe” a compiere, ma che la solidarietà come tale può non essere sufficiente a garantire. Quest’ultima infatti non esclude in sé rapporti di “forza” e “debolezza”, “potere” e “subordinazione”, laddove proprio la pari dignità è indicativa di soggetti che si pongono sullo stesso piano, alla pari, appunto, nel loro valore[184]. Se del resto lo stesso Habermas arriva a configurare l’operare del diritto come «una sorta di cinghia di trasmissione
», che provvede a trasferire – in forma astratta quanto vincolante – «le strutture di riconoscimento reciproco che sono familiari ai contesti dell’agire comunicativo in quelle interazioni tra estranei che sono diventate anonime e sistemicamente mediate»[185], ciò non esclude quella solidarietà che noi impariamo a conoscere nei rapporti concreti della vita, e che si fa al contempo principio e, nella Costituzione italiana, dovere inderogabile (art. 2).
Si è altresì sottolineata di recente, attraverso una metafora, la valenza della stessa solidarietà non nell’istituire confini, piuttosto come ponte, che nell’unire la distanza la preserva senza annullarla, ma nel collegare le due rive opposte rende quello spazio percorribile[186]. Si colma così un ‘vuoto’ altrimenti invalicabile; eppure ciò non basta a quel “riconoscimento” che “presuppone” e al contempo “genera” legami. Una qualche consapevolezza è emersa in sede di votazione conclusiva, nell’approvazione della Costituzione italiana, allorché la proclamazione dei diritti tradizionali della persona è stata ricondotta ai diritti «di libertà, di eguaglianza, di fraternità […] quella parte nuova di proclamazione di diritti, che riguarda l’uomo non come individuo, ma l’uomo come membro di questa società»[187]. Ed è nella considerazione dei mali sociali, tra cui trova collocazione lo stesso delitto, che si arriva a concludere: «Che fra le proclamazioni dei diritti della personalità umana si aggiunga anche quella del dovere della società di provvedere a questi mali, che essa determina e causa, […] è una integrazione dei principi di libertà e di eguaglianza con quello della fraternità».
Se anche la legalità, come si è cercato di evidenziare, la si deve assumere nel più vasto orizzonte di una legalità sostanziale riletta in chiave costituzionale[188], ovvero quale garanzia di una convivenza attenta alla persona e sollecita nel rispettodelle sue prerogative, la cornice in cui la stessa viene collocata può essere inclusiva di una fraternità, capace di innestarsi quale struttura portante nell’edificazione di un “ponte” anzitutto fra teoria e prassi. La prima, la teoria, riferibile a un diritto non misurato unicamente nella più consolidata dimensione meramente coercitiva, ma volto altresì a ordinare e promuovere nella reciprocità i rapporti ai più vari livelli: intersoggettivo e istituzionale; la seconda, la prassi, tesa a rendere effettivo un tessuto relazionale, essenziale alla trama di una comunità. Se volessimo trasferire tali rilievi sul più noto piano dei principi, potremmo tracciare una distinzione. Mentre libertà ed eguaglianza esprimono nei corrispondenti principi ciò che è proprio di ciascun uomo e attende da e con gli altri riconoscimento ed effettività, la fraternità esige per sua natura la relazione. È un principio che vive nel “tra” di uno spazio inter-soggettivo (between), quale possibilità e forma offerta alla condivisione: prende vita nel ‘legame’ da riconoscere o generare, nel “ponte”, simbolico o reale, ma necessario a unire o percorrere la distanza fra soggetti che, a livello pubblico o privato, sono chiamati a fondare nella pari dignità le molteplici relazioni. Diviene, dunque, principio vivente a tessere, nel linguaggio arendtiano, l’ordito dato dai legami umani.
Le contraddizioni nella quotidianità sono di certo evidenti e non possono essere taciute: la società attuale pare, da un lato, spersonalizzare l’individuo attraverso il ricorso alla tecnologia quale nuovo artifizio relazionale, eppure è vero, dall’altro, che si constata l’esigenza, pur sottaciuta, di un recupero delle relazioni. È la convivenza che nella diversità e pluralità dell’oggi le sollecita ma al contempo necessita della ricerca di nuove forme di relazione, come tali fondanti, in quanto contenuto anche della vita giuridica, e tese al superamento di un’individualità che nell’escludere l’altro verrebbe a negare con l’autoreferenzialità l’essenza stessa della relazione originata da un “noi”.
La premessa sta forse in quella “prossimità” che, facendo ricorso alle parole di Martha Nussbaum, chiede di arrivare a “preoccuparci del bene di altre persone le cui vite sono lontane dalla nostra”[189]; quel vissuto dell’altro che in qualche modo ci appartiene.
Più che la conclusione di una ricerca, ne siamo consapevoli, vuole essere questo l’inizio di nuovi “percorsi”, in risposta all’esigenza diffusa di sostituire alla logica dello s-contro quella dell’in-contro, ovvero della vita, riferita con la Arendt allo «spazio in cui gli uomini si incontrano e si riconoscono»[190].
È qui, pensiamo, che “locale” e “globale” s’intersecano e si confondono, ma è proprio qui che i “contatti” tra realtà diverse necessitano di trasformarsi in “rapporti”, a cui anche il diritto può concorrere, specie laddove se ne assuma la componente relazionale. Se del resto la solidarietà, da principio espressamente contemplato dalla Costituzione italiana, è riconosciuta oggi nel Preambolo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea quale «valore universale», e la fraternità non rimane un “appunto” nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, ma si fa stile dell’agire nella reciprocità, anche il diritto, universale per vocazione, vi può attingere per assumere, oltre ogni confine, la misura stessa dell’umanità, onde comporne le tante diversità e farsi strumento di giustizia. Complesso ne è lo scenario.
Oggi la tecnologia parrebbe condividere con il
diritto l’artificialità di una realtà “posta” a seguito di procedure e
identificata, nel secondo, con le norme come sua “forma”; eppure, l’umanità
rimane della stessa il presupposto primo, così che, pur nell’arcipelago di
fonti normative, una domanda[191]
permane: «Ma il diritto è veramente riducibile a norma, o la norma è solo uno
degli aspetti, forse il più vistoso, ma non quello che esaurisce in sé tutta la
realtà giuridica?». Uno
“spazio” che oscilla fra tramonto e nuovi albori.
The
current legal framework, especially about civil law, although urged by
unavoidable needs and demands of justice, seems to offer a vision that risks to
reduce law from “instrument” of answers to “pure form” or to a procedure.
So the
same, even if necessary, seems to “take leave” from the real matter of interest
thus generating norms whose legitimacy would appear as independent from the
content. The following research intends to focus the present time of law and
its “crisis”, revealing hard connection between norms and life, rules and
principles. The starting point results from a preliminary statement: the
fundamental relational dimensions of law become an “observatory” able to lay
the foundations for the required reinterpretation. Indeed, the law regulates
and forges the life of society within relationships.
This
is the point of view for a right and proper necessary verification. The
background, which involves also the system of criminal justice broadly
understood, cannot disregard the Constitution, particularly the Italian
Constitution, as source of principles and “table of values”. The aim for the
study is twofold: to verify a possible relational (re)interpretation of the
offence, on the difficult field of criminal justice system and its
prerogatives; to think over the legality beyond current “crisis”, in order to
convert it into culture of legality and responsible commitment for a research
developed on the signs of fraternity.
* Professore aggregato di Diritto penale commerciale e Istituzioni di diritto e procedura penale, Università di Sassari.
[1] Così F. VIOLA-G. ZACCARIA, Le ragioni del diritto, il Mulino, Bologna, 2003, p. 39 s. Resta tuttavia, quale notazione significativa, quanto riporta G. ZAGREBELSKY, La legge e la sua giustizia, il Mulino, Bologna, 2008, p. 90, ovvero: «lo smarrimento, nella teoria e nella pratica del diritto, di ogni base o ancoraggio materiale della legge». Del resto, una conferma in tal senso parrebbe emergere dai rilievi svolti da N. IRTI, Il salvagente della forma, Laterza, Roma-Bari, 2007, pp. VII ss. e 6 ss. E se A. PAGLIARO, Il reato, in Trattato di diritto penale, dir. da C.F. Grosso-T. Padovani-A. Pagliaro – Parte generale – Giuffrè, Milano, 2007, p. 17, afferma che «il diritto è etica formalizzata», per cui anche ogni incriminazione di un fatto avviene «secondo le linee di una certa concezione del mondo», oggi, nel più ampio e problematico contesto della realtà caratterizzata da una «globalizzazione delle relazioni sociali e degli stili di vita», sarebbe proprio il diritto penale a evidenziare come la stessa previsione di fatti penalmente rilevanti possa segnare una situazione di conflitto normativo. E ciò qualora, come già accade, i medesimi comportamenti vietati e penalmente sanzionati siano diversamente accettati o giustificati in base alle norme culturali di un gruppo, a cui l’autore del reato appartenga – cfr., in argomento, A. BERNARDI, Modelli penali e società multiculturale, Giappichelli, Torino, 2006, p. 58 ss. Non va nel merito altresì taciuto come, attraverso una recente ricostruzione storico-dogmatica della teoria del bene giuridico, ne emerga non solo l’attuale criticità in materia penale, sottesa alla stessa definizione del «reato come lesione di un bene», ma analoga problematicità finisca per investirne il versante costituzionale nella sua dimensione assiologica – cfr. G. FIANDACA, Sul bene giuridico. Un consuntivo critico, Giappichelli, Torino, 2014, p. 18 ss. e, per i profili costituzionali, p. 49 ss. In tale prospettiva, e in ragione della garanzia che l’ordinamento è chiamato ad accordare ai cittadini, l’autore fa notare come la stessa interpretazione dei principi e dei valori costituzionali risenta degli orientamenti di fondo e della «differente sensibilità culturale dei singoli interpreti», così, ivi, p. 62. In altro senso, si rileva piuttosto come in assenza di «un criterio identitario dell’etica pubblica diverso dal diritto penale», si imponga «di recuperare un orientamento ai valori attraverso il diktat di qualche provvedimento giudiziario penale»: così nella presentazione del volume da parte dell’autore, M. DONINI, Il diritto penale come etica pubblica. Considerazioni sul politico quale ‘tipo d’autore’, Mucchi, Modena, 2014, in www.penalecontemporaneo.it (23 febbraio 2015). Ma l’evidenza data in dottrina alla crisi del bene giuridico è stata ripresa di recente anche da G. DE SANTIS, Diritto penale dell’ambiente un’ipotesi sistematica, Giuffrè, Milano, 2012, p. 63, allorché riporta l’affermazione ricorrente, secondo la quale un contributo alla crisi del concetto classico di bene giuridico sarebbe derivato dalla problematica, di cui si dirà, posta dall’ambiente in quanto oggetto di tutela penale.
[2] La complessità del pensiero filosofico consente in
questa sede solo alcuni cenni, rinviando il lettore, per i diversi apporti e le
doverose puntualizzazioni, ai contenuti sviluppati da B. ROMANO, Tecnica e
giustizia nel pensiero di Martin Heidegger, Giuffrè, Milano, 1969, pp. 1-6,
anche per quanto riportato in testo, e p. 17 s.; in particolare, circa la
concezione dell’«uomo [...] come il solo ec-sistente» (aperto al divino),
proiettato da Heidegger nella condizione generata nel fenomeno della tecnica
dal pensiero calcolante, ivi, p. 20 ss., nonché pp. 40 s. e 120 s.
Ulteriori riferimenti a Heidegger, e richiami a una «fenomenologia del diritto», sono sviluppati dall’autore nel contesto di una rilettura del «diritto» a partire dalla relazione giuridica come «relazione di riconoscimento»: cfr. B. ROMANO, Filosofia del diritto, Laterza, Roma-Bari, 2002, p. 3 ss. E p. 38 ss. (corsivi orig.); nel merito in precedenza, dello stesso Autore, Il riconoscimento come relazione giuridica fondamentale, Lezioni a.a. 1985-86, Bulzoni, Roma, 1986, in part., p. 87 ss.
[3] Per i necessari approfondimenti, e le citazioni
ricorrenti, si rinvia a B. ROMANO, Tecnica e giustizia, cit., pp. 83,
nota 49, e 84; ivi altresì pp. 56 ss., 101-105 e 117-119. Sul tema della
giustizia cfr., ivi, pp. 122-125 e 133 ss.; così, anche per il concetto
di diritto, ivi, in part. pp. 137 s. e 139, ove si spiega, fra l’altro,
la «nuova giustizia» non più intesa come principio volto a distinguere tra
giusto e ingiusto, piuttosto come «quella potenza che autoimpone ciò che è
giusto e ciò che giusto non è».
Analogamente, circa le essenziali premesse di cui in testo, i rilievi attingono nei contenuti alla citata analisi di B. ROMANO, ivi, pp. 105-113 e 209-211, pagine ove si ripercorrono le tappe della «conversione dell’ego cogito nell’ego volo», così p. 105.
[4] Cfr. B. ROMANO, Tecnica e giustizia, cit., p.
218 ss., in part., p. 227 s., e le conclusioni, p. 231 s., laddove il pensiero
si sofferma – secondo l’analisi in esame – sulla diversa lettura della δíκη
come ciò che accorda e coordina, da cui il rispetto (t…sij) degli «uni verso gli altri» (in un nesso che
«costituisce il momento essenziale della giuridicità»). È la dimensione, persa
dalla storia ma non cancellata nell’esistenza, del comune legame tra gli
uomini, in cui si collocano «la socialità [...] ed il dialogo autentico», dove
– si spiega – «i molti divengono uno, pur rimanendo autenticamente se stessi».
Così il diritto, «come una delle forme della socialità», rilegge nella stessa
la capacità di rendere autentica «l’esistenza umana liberandola dall’isolata
egoità», ivi, p. 212. Ancor oggi, il senso dell’espressione δíκη
mantiene in un percorso giuridico una sua attualità: cfr. N. IRTI, L’uso
giuridico della natura, Laterza, Roma-Bari, 2013, p. 5 ss.
[5] Cfr. B. ROMANO, Tecnica e giustizia, cit.,
rispettivamente, p. 230 – e ivi, i rilievi sul Dasein – nonché
pp. 214 e 216 s., dove si riprende quella visione del diritto, ricondotta
all’uomo nel suo originario modo d’essere, che «non è porre ma un cercare,
un trovare, un aprirsi all’ascolto».
Se le linee fin qui tracciate, e necessariamente limitate nella loro essenzialità, parrebbero collocarci in una dimensione forse ormai lontana, le stesse possono contribuire a comprendere l’incipit di un più recente confronto, che trova il suo inizio con N. IRTI-E. SEVERINO, Dialogo su diritto e tecnica, Laterza, Roma-Bari, 2001, le cui argomentazioni sono state ulteriormente riprese da N. IRTI, Nichilismo e metodo giuridico, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2002, p. 1159 ss. Per una lettura collocata nel contesto di «una dichiarata “crisi” del diritto» stesso, N. LIPARI, Luigi Mengoni ovvero la dogmatica dei valori, ibidem, p. 1065 ss. Ma proprio alla luce di un «diritto come misura dell’agire umano», particolare attualità acquistano le parole conclusive con cui l’autore intende aprire a una prospettiva capace di superare il senso di disorientamento e disgregazione: «Ridare al diritto la sua genuina dimensione umana quale strumento idoneo a restituire nuovo spessore a rapporti che la società della tecnica tende a disumanizzare» – così ID., Luigi Mengoni, cit., p. 1112 s.
[7] Si rinvia a G. CAPOGRASSI, Appunti sull’esperienza
giuridica, in ID., Opere, vol. III, Giuffrè, Milano, 1959, II –
Scritti postumi ed inediti, p. 410.
[8] Così, G. CAPOGRASSI, Saggio sullo Stato, in ID., Opere, vol. I, Giuffrè, Milano, 1959, p. 66 ss. Non mancano peraltro anche oggi significativi rilievi volti a sottolineare, nel contesto del diritto e dell’attività che ne costituisce l’espressione, la consapevolezza che matura nelle relazioni con gli altri, così da portare l’individuo a cogliere che «la sua azione e la sua umanità si arricchiscono – anzi sono – in quella relazione (tra soggetto e vita, tra soggetto e soggetto)»: cfr. A. ABIGNENTE, Riconoscimento, garanzia, certezza: temi della scienza giuridica nel confronto interdisciplinare, in Convergenza dei saperi e prospettive dell’umano, a cura di L. DE GIOVANNI-C. DONISI, E.S.I., Napoli, 2015, in part., p. 186 ss.
[9] Espressione tratta da G. CAPOGRASSI, Analisi dell’esperienza comune, in ID., Opere, vol. II, Giuffrè, Milano, 1959, pp. 40-42, mentre per quanto segue cfr. ID., Saggio sullo Stato, cit., p. 68. Per una recente chiave di lettura, orientata a una fraternità inclusiva del mondo animale, L. BATTAGLIA, Un’etica per il mondo vivente. Questioni di bioetica medica, ambientale, animale, Carocci, Roma, 2011, p. 217 ss., ove le categorie della vulnerabilità e dell’alterità animale veicolano le «fraternità terrestri».
[10] La concezione del diritto, del resto, nella tradizionale sintesi espressa nel “rapporto ad alterum”, trova spiegazione in quanto attività che si esplica come relazione, per formare il diritto quale insieme di rapporti tra individui, tra “sfere separate” che si compongono fino all’“aiuto reciproco”: cfr. G. CAPOGRASSI, Appunti sull’esperienza giuridica, cit., p. 414, ove fra l’altro si legge: «il diritto riguarda l’aiuto reciproco».
[11] Così M. CECCHETTI, Principi costituzionali per la tutela dell’ambiente, Giuffrè, Milano, 2000, p. 11 ss. e in part. p. 54 ss. Per una prospettiva nell’ambito dei valori costituzionali cfr., fra gli altri, E. LO MONTE, Diritto penale e tutela dell’ambiente. Tra esigenze di effettività e simbolismo involutivo, Giuffrè, Milano, 2004, p. 267 ss., nonché p. 326 ss. Per una lettura critica dell’antropocentrismo a partire dal significato che ne implica la strumentalizzazione della biosfera e dell’ecosfera in ragione della mera volontà dell’uomo, L. LOMBARDI VALLAURI, Prospettive antropocentriche, biocentriche, ecocentriche, in Trattato di biodiritto, dir. da S. Rodotà-P. Zatti, Ambito e fonti del biodiritto, a cura di S. RODOTÀ-M. TALLACCHINI, Giuffrè, Milano, 2010, p. 3 ss. È recente nel sistema penale l’introduzione delle fattispecie di “inquinamento” e “disastro” ambientale, ad opera della legge 22 maggio 2015 n. 68, che reca oggi l’espressa previsione dell’ecosistema come oggetto di tutela.
[12] È la prospettiva con cui la questione è affrontata da C. MAZZUCATO, Bene giuridico e “questione sentimento” nella tutela penale della relazione uomo-animale. Ridisegnare i confini, ripensare le sanzioni, in Trattato di biodiritto, dir. da S. Rodotà-P. Zatti, La questione animale, a cura di S. CASTIGNONE-L. LOMBARDI VALLAURI, Giuffrè, Milano, 2012, in part., p. 697 ss. (corsivo originale).
[13] Sono le parole conclusive di G. CAPOGRASSI, Incompiutezza dell’esperienza giuridica, in ID., Opere, vol. III, cit., p. 324; ed ivi, p. 327, l’autore dirà ancora: «L’individuo che acquista e arriva fino all’unità di tutta la sua esperienza [...] è la persona», che si apre alla «vita degli altri vista nella comunione». Di recente, nell’ottica di un superamento del formalismo giuridico e nella prospettiva unitaria di un raccordo necessario tra diritto e cultura, N. LIPARI, Il diritto quale crocevia fra le culture, in Convergenza dei saperi e prospettive dell’umano, cit., p. 61 ss., ripropone il dato dell’esperienza a partire dalla peculiarità del suo significato. Per quanto segue in testo, cfr. C. MAZZUCATO, Bene giuridico e “questione sentimento”, cit., p. 712.
[14] Su tali profili, nel primo senso, circa l’altruità dei diritti, F. MANTOVANI, La criminalità: il vero limite all’effettività dei diritti e libertà nello Stato di diritto, in Riv. it. dir. proc. pen., 2003, p. 718: la riflessione sulla ‘riconsiderazione’ dei diritti si colloca – ivi, p. 711 – in una visione del diritto penale, di cui si vuole sottolineare la «bidimensionalità», nel suo essere «ricostruito non soltanto come “limite alla libertà”, ma innanzitutto come “strumento di tutela della libertà”» (corsivi orig.). Sono espressioni che lasciano intravedere qualcosa di più di una semplice chiave di lettura, forse un richiamo o un appello in attesa di risposta. Per la prospettiva di ricerca che segue in testo, cfr. G. FORTI, La letteratura per la teoria e la pratica del diritto, in «Notiziario» della Banca Popolare di Sondrio, n. 123, dicembre 2013, p. 166 ss.; la stessa rimanda, per un’esposizione compiuta in merito agli iniziali percorsi di indagine e di studio in argomento, al volume Giustizia e letteratura, I, a cura di G. FORTI-C. MAZZUCATO-A. VISCONTI, Vita e Pensiero, Milano, 2012.
[15]
Cfr. N. BOBBIO, L’età dei diritti,
Einaudi, Torino, 1990, p. 21 ss. Sono parole forse non lontane o capaci di
evocare per analogia quel significato di “legge naturale” che, in un senso
«ancora impreciso e primitivo», esprime una legge «non fatta o costruita
dall’uomo»: così F. VIOLA-G. ZACCARIA, Le ragioni del diritto, cit., p.
98 ss. In tal senso, la stessa è anche oggettiva, in quanto conoscibile
dall’uomo, e per ogni uomo o popolo radice comune. Vi è, al contempo, una socialità
della natura umana, atta a coniugare dimensione individuale e valori
comunitari, a evidenziare «quel legame sociale che unisce fraternamente tutti
gli individui»: cfr. A. PISANÒ, Una teoria comunitaria dei diritti umani.
I diritti dell’uomo di Nicola Spedalieri, Giuffrè, Milano, 2004, p. 491.
Nell’ampio orizzonte dei “diritti umani”, diffusamente trattati, e a vari livelli, viene ulteriormente sottolineata la “consacrazione” dei diritti naturali all’interno delle Costituzioni, sotto «forma di principi normativi fondamentali», ascrivendo così «forma giuridica positiva» ai diritti «inviolabili » o «indisponibili», riconosciuti alla persona; sul punto, L. FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, VIII ed., Laterza, Roma-Bari, 2004, p. 348 ss. Un’interessante chiave di lettura, collocata nello spazio giuridico caratterizzato al contempo dalla globalizzazione e interdipendenza, è quella che emerge in S. CASSESE, Lo spazio giuridico globale, Laterza, Roma-Bari, 2003, p. 3 ss. L’autore, prendendo le mosse dalla lettura di Fernand Braudel, che ravvisa nel rimpicciolimento del mondo anche la sua unità, riconosce al diritto oggi, in assenza di un potere superiore riferibile a ordinamenti giuridici globali, «il compito regolatore». Nel delineare un diritto globale che non coincide con il diritto internazionale, che ne costituirebbe piuttosto una sua parte, se ne individuano altresì le peculiarità, non ultima, la cooperazione.
[16] Intendiamo qui tornare a una radice, che nel corso
della storia è stata espressa anche nella sua “giuridicità”. Affermava Aldo
Moro: «Il diritto è nella sua essenza rapporto; rapporto con la sua
caratteristica bilateralità ed obbiettività»: ID., Il Diritto 1944-1945,
Lezioni di Filosofia del diritto tenute presso l’università di Bari,
Cacucci, Bari, 1978, p. 143. Non è forse marginale annotare come dalla
«Relazione del Presidente della Commissione al Progetto di Costituzione della
Repubblica italiana», (presentata il 6 febbraio 1947), si evinca che «la
regolazione dei diritti e doveri» per i cittadini è oggetto di una ripartizione
nei titoli: Rapporti civili, Rapporti etico-sociali, Rapporti
economici, Rapporti politici. I criteri ivi indicati si porrebbero
quale riflesso di una concezione nella quale «diritti e doveri avvincono
reciprocamente la Repubblica e i cittadini»: cfr. La Costituzione della
Repubblica italiana nei lavori preparatori della Assemblea costituente,
vol. I, Roma, 1970, p. LXXVIII.
[17]
Così A. KAUFMANN, Filosofia del diritto ed
ermeneutica, (a cura di G. MARINO), Giuffrè, Milano, 2003 ed ivi, il
saggio, La filosofia del diritto oltre la modernità (tit. orig. Rechtsphilosophie in der
Nach-Neuzeit. Abschiedsvorlesung, Nachwort, 1992), in part. p. 305 ss. Dello stesso Autore, cfr. Il diritto tra identità e
differenza. Riflessioni su un tema non approfondito (tit. orig. Das Recht im
Spannungsfeld von Identität und Differenz. Meditationen über ein unauslotbares
Thema, 1972), ivi, in part. p. 82 ss. E nel riprendere la tesi del diritto come qualcosa di «relazionale»,
l’autore, ivi, p. 90 s., spiega: «un’unità relazionale, cioè una unità
di corrispondenza tra diversità di essenze: tra dovere ed essere, tra norma e
fatti della vita». È significativo, peraltro, che nell’ambito di una recente
analisi, nella quale non si esita a interrogarsi sulla attuale crisi di un
diritto volto, almeno così parrebbe, al declino o al suo crepuscolo, M.
VOGLIOTTI, Introduzione, in ID. (a cura di), Saggi sulla
globalizzazione giuridica e il pluralismo normativo, Giappichelli, Torino,
2013, p. 1 ss., si ponga la domanda se sia giunto il tempo di «congedarsi» dal
diritto. Ma, ammette lo stesso autore, la domanda si fa retorica se per diritto
si intende: «la trama di relazioni che consente un’ordinata convivenza e che
suscita, per i valori in essa circolanti, l’osservanza spontanea di una parte
significativa della popolazione. In questo senso il diritto […] non potrà mai
“finire”, almeno finché vi saranno relazioni tra gli uomini: ubi societas
ibi ius» – così, ivi, p. 3.
[18] Al diritto, si esemplifica, sono noti i rapporti di vicinato:
«rapporti resi necessari […] dalla “natura dei luoghi”» e in ragione di una diversità,
tracciata dall’oltre, «onde il nostro luogo si individua e si determina.
Insomma, – si conclude – una diversità, che ci è indispensabile per la nostra
stessa identità»: così N. IRTI, S-confinatezza, in E. DOLCINI-C.E.
PALIERO (a cura di), Studi in onore di Giorgio Marinucci, vol. III, Parte
speciale del diritto penale e legislazione speciale. Diritto processuale
penale. Diritto, storia e società, Giuffrè, Milano, 2006, p. 2925
ss. Tali rilievi sono ripresi dall’Autore nell’Introduzione ai lavori su
«Il diritto governa la tecnica?», oggi in Documenti n. 12, (Roma, maggio
2009), volume a cura di E. BROGI-M. POTENTE, che pubblica gli atti del
seminario CNEL “Il Diritto governa la tecnica?” Focus sulla
dematerializzazione dei documenti: stato dell’arte e prospettive, (Roma, 16
dicembre 2008), p. 10 ss. In chiave problematica, cfr., altresì, i
significativi rilievi svolti da U. VINCENTI, Diritto senza identità. La
crisi delle categorie giuridiche tradizionali, Laterza, Roma-Bari, 2007, in
part., p. 163 ss.
[19] N. IRTI, S-confinatezza, cit., p. 2931; in senso analogo, ID., Tecno-Diritto, in Studi in onore di Nicolò Lipari, tomo I, Giuffrè, Milano, 2008, p. 1302 s.
[20] Per un primo sguardo d’insieme anche in ragione delle criticità, V. ZENO ZENCOVICH, Repressione della criminalità informatica e tutela dei diritti fondamentali, in Diritto@Storia, Quaderno n. 7/2008 (www.dirittoestoria.it ).
[21] Non si vuole certo, nell’introdurre tali concetti, porre in dubbio quella validità che, a fronte dell’«esistenza di un inscindibile legame tra obblighi giuridici e doverosità morale», è stata oggetto dell’analisi volta a riconsiderare il dovere stesso di obbedire alla Costituzione: cfr. O. CHESSA, La validità delle costituzioni scritte. La teoria della norma fondamentale da Kelsen a Hart, in Diritto&Questioni pubbliche, n. 10/2010, pp. 56 ss. e 119. Tuttavia la medesima immagine è stata ripresa, a sottolinearne le ambiguità, da S. CASSESE, Le reti come figura organizzativa della collaborazione, in L’Europa delle reti, a cura di A. PREDIERI-M. MORISI, Giappichelli, Torino, 2001, p. 43 ss., mentre altri orientano l’analisi nel contesto della globalizzazione. Così, il modello piramidale e quello della rete sono stati di recente considerati rispetto a una crisi che preluderebbe alla transizione dall’uno all’altro: cfr. F. OST, Dalla piramide alla rete: un nuovo paradigma per la scienza giuridica?, in M. VOGLIOTTI (a cura di), Saggi sulla globalizzazione giuridica, cit., in part., p. 31 ss.
[22] Si rinvia a E. ANCONA, Figure dell’ordinamento. Dalla piramide alla rete, e oltre …, in “L’Ircocervo”, n. 1/2007, p. 1 ss., www.lircocervo.it/index . Nella prospettiva di una possibile «configurazione reticolare del diritto» P. HERITIER, Urbe-internet, vol. I. La rete figurale del diritto, Giappichelli, Torino, 2003, p. 44 ss. Quasi per contrasto, riacquistano particolare attualità le pagine di C. SCHMITT, Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum, Berlin, 1974 (volume pubblicato dall’autore nel 1950), trad. it. (E. Castrucci), Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «Jus Publicum Europaeum», V ed. (a cura di F. VOLPI), Adelphi, Milano, 2011, pp. 31 s. e 54 ss.: attraverso la storia, che riconduce nell’alveo dei grandi e molteplici complessi di poteri (i regni più vari, l’impero romano) la terra abitata dall’uomo e considerata il kosmos, la casa, si ripercorre altresì il legame tra ordinamento e spazio, definito dalla localizzazione che segna recinzioni e confini.
[23] Così A. CATELANI, Il diritto come struttura e come forma, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2013, pp. 11 e 22 ss. Cfr. altresì P. RESCIGNO, Manuale di diritto privato, a cura di G.P. CIRILLO, Kluwer Ipsoa, Milano, 2000, p. 199, allorché sottolinea come la relazione, che acquista rilievo per il diritto, vada intesa «tra soggetti». M. RONCO, Il principio di legalità, in La legge penale. Fonti, tempo, spazio, persone (op. dir. da M. Ronco, con la collaborazione di E.M. Ambrosetti-E. Mezzetti), II ed., Zanichelli, Bologna, 2010, p. 24, evidenzia a sua volta come il diritto non sia tutto racchiuso nella legge, ma viva, attraverso le relazioni intersoggettive, nella concreta esperienza giuridica. Per l’affermazione conclusiva, riportata in testo, F.P. CASAVOLA, “Innovazione ed Etica”, Lectio Magistralis (testo ined.), p. 39 (in occasione dell’Inaugurazione dell’a.a. 2007-2008, Università degli studi del Sannio).
[24] Cfr., per una più ampia analisi del pensiero qui ripreso, A. FILIPPONIO, Struttura, funzione, scopo nel diritto, in Riv. int. fil. dir., 1998, in part. p. 25 ss., in merito alla relazionalità quale sostanza che innerva il dover essere; e per la citazione, ivi, p. 30.
[25] N. BOBBIO-M. VIROLI, Dialogo intorno alla repubblica, Laterza, Roma-Bari, 2001, pp. 41 e 44 s., anche per il rilievo che segue in testo, pur se il debito, per l’elemento della costrizione, viene riletto da Viroli in contrapposizione alle libertà.
[26] F. CASAVOLA, Introduzione - Persona, VI Convegno culturale – Studium, Roma, 1995, pp. 501 e 503. Analogamente, N. LIPARI, «Spirito di liberalità» e «spirito di solidarietà», in Riv. trim. dir. proc. civ., 1997, p. 22 ss., osserva come la giuridicità vada colta essenzialmente nella misura dell’essere anziché dell’avere e ciò ne muterebbe la prospettiva. Se infatti il diritto, come si dirà, nell’«essere “rapporto con l’altro tra gli altri”», è traducibile in «un’esperienza di correlazione, reciprocità», potremmo collocare la radice stessa della giuridicità in una relazionalità, che si traduce in vita, fatta di rapporti, e trova nelle norme le regole del suo operare.
[27] F. D’AGOSTINO, Lezioni di filosofia del diritto, Giappichelli, Torino, 2006, p. 2 ss. Anche nella complessità propria di un «discorso sulla priorità della dignità rispetto all’autodeterminazione », non si esita a sottolineare che la stessa «libertà personale si esprime sempre in contesti relazionali »: così L. CORNACCHIA, Placing Care. Spunti in tema di paternalismo penale, in Criminalia, 2011, p. 258 ss. (corsivi orig.).
[28] Così G. CANTILLO, Con sé/oltre sé. Ricerche di etica, Guida, Napoli, 2009, p. 15. Altra tuttavia può essere la lettura della comunità. Prendendo le mosse da un’alterità riletta come espropriativa della «nostra proprietà soggettiva», ecco emergere gli individui moderni, che «divengono davvero tali – e cioè perfettamente individui, individui ‘assoluti’, circondati da un confine che a un tempo li isola e li protegge – solo se preventivamente liberati dal ‘debito’ che li vincola l’un l’altro». Ne consegue, da un lato, una comunità intesa come «sempre d’altri e mai di sé», abitata dall’assenza di soggettività, identità, proprietà; dall’altro, il soggetto nella comunità non sarebbe più lo stesso, in quanto la relazione non farebbe essere più tali – soggetti individuali – perché interromperebbe la loro identità nella misura in cui, rapportandoli agli altri, «li separa da se stessi». – cfr. l’analisi di stampo ermeneutico, condotta fin dall’etimologia della parola latina, da R. ESPOSITO, Communitas. Origine e destino della comunità, (nuova ed. ampl.), Einaudi, Torino, 2006, in part., rispettivamente, pp. XIII ss. e XXI e p. 148 ss.
[29] F. PIZZOLATO, Appunti sul principio di fraternità nell’ordinamento giuridico italiano, in Riv. int. dir. uomo, 2001, in part., pp. 753 ss. e 801 ss., nel cui ambito si delinea la fraternità come «principio di solidarietà orizzontale», così pp. 799 e supra 794. In argomento cfr. altresì, anche per taluni riferimenti storici, G. ALPA, Istituzioni di diritto privato, Utet, Torino, 1994, p. 31 ss., e per ulteriori approfondimenti A. MARZANATI-A. MATTIONI, La fraternità come principio del diritto pubblico, Città Nuova, Roma, 2007, passim.
[30] F. PIZZOLATO, Appunti, cit., p. 755. È interessante notare come nella «Relazione del Presidente della Commissione al Progetto di Costituzione», dianzi citata, assumano evidenza, accanto ai «diritti di libertà», i doveri di solidarietà, nel «bisogno di riaffermare che i rapporti tra gli uomini devono essere umani». Né i primi (i diritti) possono essere disgiunti dai secondi (i doveri); se infatti «le prime enunciazioni dei diritti dell’uomo erano avvolte da un’aureola di individualismo, si è poi sviluppato [..] il senso della solidarietà umana»: cfr. La Costituzione della Repubblica italiana nei lavori preparatori, vol. I, cit., p. LXXVII.
[31] F. PIZZOLATO, Appunti, cit., p. 780 ss., anche per la citazione che segue. Un efficace richiamo all’art. 41 Cost., in ragione di un modello d’impresa «rispettoso dei più elementari diritti della persona», è illustrato da V. BUONOCORE, Impresa, mercati finanziari Governance, in Competitività dei mercati finanziari e interessi protetti. Il pendolo del diritto americano e le prospettive del diritto italiano, a cura di C. AMATUCCI-V. BUONOCORE, in Quaderni di giur. comm., 2008, n. 320, p. 195 s.
[33] F. PIZZOLATO, Appunti, cit., p. 794. Cfr., in una più ampia prospettiva, i puntuali rilievi svolti da F. GORIA, Fraternidade e Direito: Algumas reflexões, in Direito & Fraternidade, LTr, Cidade Nova, São Paulo, 2008, p. 25 ss.
[34] G. DALLA TORRE, Introduzione agli Atti del Convegno di studio, 5-8 dicembre 1998, in Iustitia, n. 4, 1999, p. 368, ove si ravvisa la possibilità di ripensare una società nella quale i vincoli si traducono in un tessuto di relazioni interindividuali, «in cui ciascuno realizza se stesso», proprio in forza di quella solidarietà che «esprime più l’essere “prossimo” che l’essere “socio”», innervando di sé la struttura del diritto.
[35] Cfr. F.D. BUSNELLI, Solidarietà: aspetti di diritto privato, (Atti del Convegno, cit.), in Iustitia, n. 4, 1999, p. 435 ss., e ivi i rilievi sulla fraternità; per una rilettura della solidarietà che introduce a una «libertà positiva» e a una «eguaglianza attiva» cfr. F.P. CASAVOLA, Struttura dello Stato e solidarietà, ivi, p. 390 ss.
[37] G. GIACOBBE, Il fondamento giuridico della solidarietà sociale, (Atti del Convegno, cit.), in Iustitia, n. 4, 1999, p. 531. Tale partecipazione segna – si è osservato – una «dimensione che configura la formazione della persona umana attraverso i suoi rapporti sociali».
[39] F. PIZZOLATO, Appunti, cit., p. 754. Per quanto segue in testo A. PAPA, Nati per incominciare. Vita e politica in Hannah Arendt, Vita e Pensiero, Milano, 2011, p. 10.
[40] Cfr. F. MANTOVANI, L’obbligo di garanzia ricostruito alla luce dei principi di legalità, di solidarietà, di libertà e di responsabilità personale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2001, p. 337 ss. (corsivo orig.). Pur in altro contesto, orientamento non dissimile emerge dalle parole del Presidente emerito della Corte Costituzionale italiana G.M. Flick, a margine della dignità umana; in un suo intervento agli inizi del 2009, ebbe a ribadire che l’uomo non vive in un vuoto pneumatico che gli consenta di diventare arbitro assoluto di se stesso ma nel contesto di una relazione con gli altri. Tale concetto costituisce al contempo la premessa nell’orizzonte di una globalizzazione dal volto umano che, in forza della centralità della dignità della persona, realizzi i propri obiettivi nel coinvolgimento di tutti come soggetti e sul presupposto imprescindibile della solidarietà: cfr. G.M. FLICK, Globalizzazione e diritti umani, in Jus, 2000, in part. p. 181.
[42] N. LIPARI, «Spirito di liberalità» e «spirito di solidarietà», cit., p. 17; ID., Riflessioni di un giurista sul rapporto tra mercato e solidarietà, in Rass. dir. civ., 1995, p. 24 ss. Cfr. altresì F. PIZZOLATO, Il principio costituzionale di fraternità itinerario di ricerca a partire dalla Costituzione italiana, Città Nuova, Roma, 2012, p. 21 ss., ove emerge la puntualizzazione che segue in testo.
[43] Per
la citazione iniziale, peraltro estesa dall’autore alle costituzioni moderne,
si rinvia a G. SCACCIA, Ragionevolezza delle leggi, in Dizionario di
diritto pubblico, dir. da S. Cassese, vol. V, Giuffrè, Milano, 2006, p.
4805 s. La complessità che inerisce alla accennata prospettiva è stata
affrontata da G. ZAGREBELSKY, Diritto per: valori, principi o regole? (a
proposito della dottrina dei principi di Ronald Dworkin), in Quaderni
fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 31/2002, L’ordine
giuridico europeo: radici e prospettive, tomo II, p. 865 ss. Il significato
per il giurista dell’espressione principio è stato così definito da S.
RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto,
Feltrinelli, Milano, 2006, p. 117: «Si presenta come un riferimento fondativo e
ineludibile, come criterio ordinante dell’intero sistema», ben più che una
regola o un’indicazione.
Da qui, un cenno diventa essenziale ai capisaldi che nella giurisprudenza costituzionale sono indicati quali “principi supremi”, a comprendere anche quelli che, pur non espressamente menzionati, appartengono sempre all’essenza dei “valori supremi” posti a fondamento della Carta costituzionale. Tra questi, la laicità, che ha trovato una sua iniziale esplicazione nella sentenza C. cost. 11-12 aprile 1989, n. 203 e il cui ambito attraversa l’ordinamento – cfr., in tal senso, Laicità e Stato di diritto, Atti del IV Convegno di Facoltà, Università di Milano-Bicocca, 9-10 febbraio 2006, a cura di A. CERETTI-L. GARLATI, Giuffrè, Milano, 2007, passim. Ma anche altri principi acquistano in tal modo riconoscimento e valore: si pensi alla stessa ragionevolezza, e nell’ambito penale alla proporzionalità, sussidiarietà ed extrema ratio, per citarne solo alcuni.
[44] Nell’iniziale rinvio alla Prefazione di N. Bobbio, i rilievi che seguono intendono riprendere il pensiero di G. GURVITCH, La Dichiarazione dei diritti sociali, (Tit. orig. La déclaration des droits sociaux, trad. it. di L. Foà), Ed. Comunità, Milano, 1949, in part. rispettivamente, pp. 96 s. e 81 s. per le citazioni di cui in testo, tese a contrapporre a un pluralismo di fatto, trama della vita sociale, un pluralismo come ideale, pur sempre di valenza giuridica. L’elaborazione dell’autore sfocia nella redazione di un Progetto di «Dichiarazione dei Diritti sociali», nel quale «la fratellanza degli uomini e dei gruppi» diventa il fine della società, che «si realizza mediante la varietà nell’unità», cfr., ivi, p. 107. In argomento, cfr. altresì la recente ricostruzione del pensiero dell’Autore, risalente a L’idée du droit social, Sirey, Paris, 1932, curata da A. SCERBO, Diritti sociali e pluralismo giuridico in Gurvitch, in Tigor: Rivista di scienze della comunicazione, n. 1/2011, p. 45 ss., ove si delinea un «diritto di pace, di aiuto scambievole, di lavoro in comune».
[45] Così, A. CELOTTO, sub art. 3, 1° co., Cost., in Commentario alla Costituzione, a cura di R. BIFULCO-A. CELOTTO-M. OLIVETTI, Utet, Torino, 2006, vol. I, p. 67 ss., cui si rinvia anche per le successive citazioni e note a margine della «pari dignità sociale», ivi, p. 71 ss., e per la bibliografia citata. Le sentenze che seguono in testo – citate nel “Considerato in diritto”– sono consultabili nel sito: Consulta online – Decisioni. Di rilievo altresì, sui profili della solidarietà sociale ed eguaglianza sostanziale, Corte cost. 31 dicembre 1993 n. 500, in Giur. cost., 1993, p. 4012 ss.
[46] La sentenza n. 89/1996, par. 3 – citata nel “Considerato in diritto” – è consultabile nel sito: Consulta online – Decisioni.
[48] Cfr. F. PIZZOLATO, Appunti, cit., p. 774, nt. 99 e p. 803, a cui si rinvia per i rilievi a margine della fraternità. In una analoga prospettiva, E. ROSSI-A. BONOMI, La fraternità fra “obbligo” e “libertà”. Alcune riflessioni sul principio di solidarietà nell’ordinamento costituzionale, in A. MARZANATI-A. MATTIONI (edd.), La fraternità come principio del diritto pubblico, cit., p. 61 ss.
[49] Cfr., per quanto segue in testo, A. BALDASSARRE, Libertà, I) Problemi generali, in Enc. giur., vol. XXI, Roma, 1990, pp. 20 e 27; ID., Diritti sociali, in Enc. giur., vol. XII, Roma, 1989, p. 6, dove sul fondamento del concetto di persona emerge il singolo, considerato «come relazione sociale»; cfr. altresì, ivi, p. 10 ss. I limiti della presente trattazione non consentono approfondimenti ulteriori; basti, per tutti, un cenno ad altre interpretazioni che delineano differenti significati a margine della dignità e dell’autodeterminazione: cfr., rispettivamente, G. RESTA, La dignità, in Ambito e fonti del biodiritto, a cura di S. RODOTÀ-M. TALLACCHINI, cit., p. 259 ss., e S. RODOTÀ, Il nuovo habeas corpus: la persona costituzionalizzata e la sua autodeterminazione, ivi, p. 169 ss.
[50] Tale lettura si colloca in quella spiegazione della “responsabilità”, di cui si scrive: «afferma dell’azione la sostanza profondamente unitaria con tutte le altre vite, la sua profonda realtà ed esigenza di comunicazione di vita con vita», così G. CAPOGRASSI, Analisi dell’esperienza comune, cit., p. 127. Cfr. altresì M. RONCO, Retribuzione e prevenzione generale, in Studi in ricordo di Giandomenico Pisapia, vol. I, Diritto penale, Giuffrè, Milano, 2000, in part. p. 483 s., circa il riferimento al «concreto rapporto giuridico» vissuto dal singolo nel contesto sociale insieme con gli altri.
[51] Cfr. F. REGGIO, Una riflessione sui concetti vichiani di «pena» e «penitenza», in F. ZANUSO-S. FUSELLI (a cura di), Ripensare la pena. Teorie e problemi nella riflessione moderna, Cedam, Padova, 2004, p. 261 ss. e in part. p. 285.
[52] Così M. RONCO, Il problema della pena. Alcuni profili relativi allo sviluppo della riflessione sulla pena, Giappichelli, Torino, 1996, p. 186. Proprio in relazione alla comunità, può essere degna di nota un’osservazione emblematica, che ne ha messo in luce le «figure di confine» come la “società criminosa”, per affermare: «Forse, non sembri un paradosso, nessun gruppo rivela più scoperto il bisogno umano d’incontro e di comunicazione», per quanto (cita l’autore dal Malinteso di Camus) «“pure il delitto è solitudine, anche se si è in mille a compierlo”», così P. RESCIGNO, nel saggio dal titolo Gruppi sociali e lealtà, in Persona e comunità. Saggi di diritto privato, il Mulino, Bologna, 1966, p. 70 s.
[54] Cfr. F. VIOLA-G. ZACCARIA, Le ragioni del diritto, cit., p. 67, e supra, p. 50 ss., le notazioni circa il valore della «regola aurea» in margine a quella cooperazione nella quale «il simile è riconosciuto come eguale per la comune umanità e, al tempo stesso, come diverso per la sua identità».
[55] Il valore ascritto ai “rapporti” ci sembra potersi collocare nell’orizzonte di una fraternità, che sa guardare all’uomo nella concretezza del suo modo d’essere, dove la relazionalità trae dalla persona, definita significativamente “unità viva”, la sua essenza. Tale prospettiva, che non ha certo la pretesa di dare soluzione a una tematica tanto dibattuta, e sulla quale si tornerà più avanti, intenderebbe piuttosto volgere lo sguardo oltre la più nota lettura kantiana, che interpreta la relazionalità quale criterio del «coordinamento delle “libertà esterne”» regolato dal diritto; al contempo vorrebbe porsi al di là della concezione neo-kantiana di Stammler, che legge in essa una «categoria», quale «forma a priori», ovvero, “vuota forma”, capace di assumere qualsiasi contenuto e come tale ancorata alla normazione del diritto positivo. Per ulteriori approfondimenti, e la necessaria sintesi, cfr. E. OPOCHER, Lezioni di filosofia del diritto, cit., in part. p. 199 ss. In una trattazione più ampia, a cui si rinvia anche per successive notazioni, cfr. altresì R. TREVES, Il diritto come relazione. Saggi di filosofia della cultura (a cura di A. CARRINO), E.S.I., Napoli, 1993, ove, nella ristampa de Il diritto come relazione. Saggio critico sul neokantismo contemporaneo, 1934, si approfondisce l’indagine volta a distinguere la concezione del «diritto come relazione pura e come relazione astratta» – p. 18 ss. e in part. p. 39 ss. Sempre in un confronto in ambito filosofico, si possono richiamare i rilievi conclusivi di B. ROMANO, Il riconoscimento come relazione giuridica fondamentale, cit., p. 239 ss.
[56] Il Progetto, redatto dalla Commissione istituita nel 1988 e presieduta dal prof. A. Pagliaro – unitamente alla Relazione –, La riforma del codice penale. Schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale, è pubblicato in Documenti Giustizia, n. 3/1992, c. 305 ss. Nel merito, a sottolineare la «posizione della persona umana nel rapporto offeso» e nel «ruolo di responsabile protagonista e di artefice della vita associata», A. PAGLIARO, Lo schema di legge delega per la riforma: metodo di lavoro e principi ispiratori, in AA.VV., Prospettive di riforma del codice penale e valori costituzionali, Giuffrè, Milano, 1996, in part. pp. 54-55.
[57] Cfr. M. CECCHETTI, Principi costituzionali per la tutela dell’ambiente, cit., p. 55 s. Non mancano tuttavia alcuni riferimenti anche nel settore che ci occupa. Difatti, il «pensiero antropocentrico», che considera l’uomo «sovraordinato allo Stato», diventa al contempo per Eser pista alle sue riflessioni nella ricerca di «una nuova impostazione» del diritto penale – cfr. A. ESER, Giustizia penale «a misura d’uomo». (Visione di un sistema penale e processuale orientato all’uomo come singolo e come essere sociale), in Riv. it. dir. proc. pen., 1998, p. 1063 ss. È qui che l’autore, dinanzi a fattispecie quali l’omicidio, il furto, sottolinea come primo correttivo, per una prospettiva “a misura d’uomo”, un dato: è fondamentale non «perdere di vista il nucleo interpersonale della trasgressione» – così, ivi, p. 1073.
[58] Si tratta di una “rilettura” del filosofo
recentemente scomparso: P. RICOEUR, La giustizia dello Stato e l’etica della
vittima, in Vita e Pensiero, n. 2/2005, p. 54 ss.
È tuttavia doveroso ricordare, pur se in questa sede sono possibili solo alcuni cenni, il contributo della dottrina che oggi con maggiore attenzione guarda al ruolo della vittima. Sul punto, anche per i necessari riferimenti bibliografici, cfr. per tutti, in chiave comparatistica, il contributo di R. HENHAM-G. MANNOZZI, Il ruolo delle vittime nel processo penale e nella commisurazione della pena: un’analisi delle scelte normative e politico-criminali effettuate nell’ordinamento inglese e in quello italiano, in Riv. it. dir. proc. pen., 2005, p. 706 ss.
[59] Cfr., anche per i rilievi che seguono in testo, R. BARTOLI, Mobbing e diritto penale, in Dir. pen. e processo, 1/2012, p. 85 ss.
[60] Nel merito ci sia consentito il rinvio alla dottrina che ha curato l’analisi della fattispecie, anche in considerazione delle recenti modifiche all’art. 612 bis c.p., introdotte dall’art. 1, comma 4, d.l. 14 agosto 2013, n. 93, conv. con modif. dalla l. 15 ottobre 2013, n. 119: per tutti, G. COCCO-E.M. AMBROSETTI (a cura di), I reati contro le persone, in Trattato breve di diritto penale, Parte speciale I, Cedam, Padova, 2014, p. 442 ss.; A.M. MAUGERI, Delitti contro la libertà morale, in D. PULITANÒ (a cura di), Diritto penale, Parte speciale, vol. I, Tutela penale della persona, II ed., Giappichelli, Torino, 2014, p. 244 ss.
[61] Cfr., per i primi commenti, i contributi a cura di G. CARLIZZI-G. DELLA MORTE-S. LAURENTI-A. MARCHESI, La Corte Penale internazionale. Problemi e prospettive, Vivarium, Napoli, 2003 e ibidem, p. 541 ss., Rome Statute of the International Criminal Court. Tra i diversi e autorevoli studi in argomento cfr., circa l’ambito più specificamente inerente ai crimini contro l’umanità, F. MONETA, Gli elementi costitutivi dei crimini internazionali: uno sguardo trasversale, in A. CASSESE-M. CHIAVARIO-G. DE FRANCESCO (a cura di), Problemi attuali della giustizia penale internazionale, Giappichelli, Torino, 2005, p. 3 ss. In merito alla posizione e dignità della «vittima», concetto di maggior incidenza rispetto alla più ricorrente espressione «persona offesa», cfr., anche per le fonti internazionali richiamate, L. SCOMPARIN, Il ruolo della vittima nella giurisdizione penale internazionale: alla ricerca di una possibile mediazione fra modelli processuali, ibidem, p. 365 ss. Di recente, V. FANCHIOTTI-M.MIRAGLIA-J.P. PIERINI, La Corte penale internazionale. Profili sostanziali e processuali, Giappichelli, Torino, 2014, mentre per i primi riflessi applicativi nel contesto della Corte Penale internazionale, si rinvia ai contributi pubblicati in Conflitti inter-etnici e tutela delle vittime fra Corte Penale internazionale e giurisdizione nazionale, a cura di V. MILITELLO, Giuffrè, Milano, 2008, passim. Significativi altresì taluni rilievi che, nell’orizzonte di un «“umanesimo giuridico”», riprendono lo stesso concetto di famiglia umana. È in tale chiave di lettura che M. DELMAS-MARTY, Umanità, specie umana e diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2012, p. 741 ss., prospetta anche per il diritto penale la possibilità di contribuire ad affermare «un umanesimo “della protezione” e “della responsabilità”»: così, p. 752.
[62] Cfr. le Risoluzioni del XIII Congresso
Internazionale di diritto penale sul tema «diversion e mediazione»
(Cairo, 1-7 ottobre 1984), in Cass. pen., 1985, p. 533 ss.; la
Raccomandazione N. R (85) 11 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa
(adottata il 28 giugno 1985 «on the position of the victim in the framework of
criminal law and procedure») e la N. R (99) 19 del 15 settembre 1999, nonché l’European
Convention on the Compensation of Victims of Violent Crimes (ETS No 116),
Strasbourg, 24.XI.1983. In margine ai vari profili, M. BOUCHARD, La
mediazione: una terza via per la giustizia penale?, in Questione
Giustizia, 1992, p. 757 ss. Di rilievo altresì la Dichiarazione di Vienna
del 2000 e oggi la Direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio
(25 ottobre 2012), che «istituisce norme minime in materia di diritti,
assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione
quadro 2001/220/GAI» (adottata dal Consiglio il 15 marzo 2001); alla stessa ha
dato attuazione il d. lgs. 15 dicembre 2015 n. 212. Nella Direttiva la
«giustizia riparativa», ivi prevista, trova definizione all’art. 2, lett. d),
come «qualsiasiprocedimento che permette alla vittima e all’autore del reato di
partecipare attivamente, se vi acconsentono liberamente, alla risoluzione delle
questioni risultanti dal reato con l’aiuto di un terzo imparziale». Testi e
lavori, nella pluralità dei contenuti, sono consultabili nel sito del Ministero
della Giustizia (http://www.giustizia.it).
Nella dottrina, in questa sede, è possibile solo un richiamo ai tanti e autorevoli interventi, tra i quali, anche per una più vasta prospettiva internazionale: La mediazione penale nel diritto italiano e nel diritto internazionale, a cura di F. PALAZZO-R. BARTOLI, Firenze University Press, Firenze, 2011, passim; Lo spazio della mediazione. Conflitto di diritti e confronto di interessi, a cura di G. COSI-M.A. FODDAI, Giuffrè, Milano, 2003; G. MANNOZZI, La giustizia senza spada. Uno studio comparato su giustizia riparativa e mediazione penale, Giuffrè, Milano, 2003, e A. CERETTI, Mediazione penale e giustizia. In-contrare una norma, in Studi in ricordo di Giandomenico Pisapia, vol. III. Criminologia, Giuffrè, Milano, 2000, p. 713 ss., e ivi, p. 737, nt. 34, cfr. i rilievi a margine del rapporto diritto-relazioni.
[63] Cfr. altresì P. RICOEUR, Il diritto di punire, in L. ALICI (ed.), Il diritto di punire. Testi di Paul Ricoeur, Morcellania, Brescia, 2012, p. 85 ss. nella prospettiva di «una giustizia restauratrice e ricostruttiva », mentre tra i tanti studi in argomento, nell’ambito del mondo anglo-americano: M.S. UMBREIT, The Handbook of Victim Offender Mediation, Jossey-Bass, San Francisco, 2001, in part. p. XXV ss.; per una visione d’insieme, J. HARDING, Reconciling mediation with criminal justice, e B. GALAWAY, Prospects, in Mediation and Criminal Justice. Victims, Offenders and Community, ed. by M. WRIGHT-B. GALAWAY, Sage Publications, London, 1989, rispettivamente p. 27 ss. e p. 270 ss. La tematica, oggi diffusamente studiata anche in Italia, è stata ripresa, fra gli altri, da M. BOUCHARD-G. MIEROLO, Offesa e riparazione. Per una nuova giustizia attraverso la mediazione, Bruno Mondadori, Milano, 2005, in part. p. 37 ss. e da F. REGGIO, Giustizia dialogica. Luci e ombre della Restorative Justice, FrancoAngeli, Milano, 2010, passim. Prospetta un percorso relazionale, proprio della restorative justice, G. FORTI, Explete poenologi munus novum: dal controllo delle “variabili usurpatrici” alla stimolazione delle “flessibilità” del sistema, in Silète poenologi in munere alieno! Teoria della pena e scienza penalistica, oggi, a cura di M. PAVARINI, Monduzzi, Bologna, 2006, in part. p. 123, e ivi i dovuti riferimenti bibliografici. Di recente, in una pluralità di prospettive, cfr. Giustizia riparativa. Ricostruire legami, ricostruire persone, a cura di G. MANNOZZI-G.A. LODIGIANI, il Mulino, Bologna, 2015, cui si rinvia per i molteplici contributi.
[64] Sui profili più generali, anche di carattere storico, cfr. A.M. GENTILI-A. LOLLINI, L’esperienza delle Commissioni per la verità e la riconciliazione: il caso sud-africano in una prospettiva giuridico-politica, in G. ILLUMINATI-L. STORTONI-M. VIRGILIO (a cura di), Crimini internazionali tra diritto e giustizia. Dai Tribunali Internazionali alle Commissioni Verità e Riconciliazione, Giappichelli, Torino, 2000, p. 163 ss. Il non facile cammino intrapreso dalla Commissione in Sudafrica emerge in un resoconto di R. ALLY, Sudafrica: la Commissione per la verità e la riconciliazione, in http://www.presentepassato.it/Dossier/Diritti_98/14commissione_verita.htm. Nel documento si ricorda il messaggio del Presidente Nelson Mandela all’uscita dal carcere dopo vari anni di prigionia: «riconciliazione e unità». Sulle dolorose vicende del Perù, G. CITRONI, L’orrore rivelato. L’esperienza della Commissione della verità e riconciliazione in Perù: 1980-2000, Giuffrè, Milano, 2004, in part. p. 119 ss. In argomento, anche per i necessari riferimenti bibliografici, R. BARTOLI, La «giustizia di transizione»: amnistia, giurisdizione, riconciliazione, in La mediazione penale nel diritto italiano, cit., p. 57 ss., e in part., sulle commissioni di verità e riconciliazione, p. 78 ss.; in argomento altresì, G. FIANDACA, Gli obiettivi della giustizia penale internazionale: tra punizione e riconciliazione, ivi, p. 110 ss.
[65] Cfr., per l’affermazione in testo, tratta dal “Messaggio per la giornata mondiale della pace” (1° gennaio 1998), P. CORSO, Il volto della giustizia nel pensiero di S.S. Giovanni Paolo II, in A. LOIODICE-M. VARI, Giovanni Paolo II. Le vie della giustizia, Bardi, Roma, 2003, p. 941. Una valorizzazione del fondamento relazionale ascrivibile al diritto si può cogliere nei percorsi e nelle riflessioni sottese al “discorso” sulla mediazione, prospettato anche in ambito penale: cfr. A. CERETTI, Mediazione: una ricognizione filosofica, in L. PICOTTI (a cura di), La mediazione nel sistema penale minorile, Cedam, Padova, 1998, in part. p. 40 ss.
[66] Cfr. K. PETERS, Il rispetto della persona umana nella procedura penale, in AA.VV., Il rispetto della persona umana nell’applicazione del diritto penale, Quad. Justitia, 1957, p. 53 ss. In senso analogo N. BOBBIO, nell’intervista «I diritti dell’uomo oggi» (14/6/1991), consultabile nel sito www. emsf.rai.it. Significativa diventa nel merito la particolare lettura operata da A. ESER, Giustizia penale, cit., p. 1065 ss. L’autore, sottolineando nell’uomo, accanto ai diritti individuali, anche l’ulteriore dimensione interna alla comunità quale «uomo tra gli uomini», fa conseguentemente emergere nella fase processuale «la responsabilità interpersonale del reo», in considerazione del danno alla vittima, così ivi, p. 1073. Analogamente, peraltro, non manca nelle conclusioni, in margine ai «principi-guida per un processo a misura d’uomo», la definizione dei «“diritti umani” processuali [...] come elementi immanenti di una relazione interpersonale», ivi, p. 1079 (corsivi orig.).
[67] F. PALAZZO, Presentazione, in La mediazione penale nel diritto italiano, cit., p. VII. Per uno “sguardo d’insieme” sull’evolversi della giustizia riparativa nella dimensione culturale, sociale e normativa, cfr. G. MANNOZZI, La giustizia riparativa: percorsi evolutivi culturali, giuridici e sociali, ivi, p. 27 ss.
[68] Cfr. C.M. MARTINI-G. ZAGREBELSKY, La domanda di giustizia, Einaudi, Torino, 2003, pp. 32 e 37, anche per i rilievi citati che precedono nell’analisi di Zagrebelsky.
[69] L. ALICI, Introduzione, in ID., Il diritto di punire. Testi di Paul Ricoeur, cit., p. 23 s., e P. RICOEUR, Il diritto di punire, ibidem, cit., p. 81 ss. In argomento, fra i tanti, cfr. L. EUSEBI, Appunti critici su un dogma: prevenzione mediante retribuzione, in Silète poenologi, cit., p. 75 ss.; in altra prospettiva e per le dovute puntualizzazioni, M. RONCO, Una proposta per la riacquisizione di senso della pena riabilitativa, ivi, p. 51 ss.
[70] Così F. PALAZZO, nelle “Conclusioni” al Convegno di Toledo, 13-15 aprile 2000, in L. STORTONI-L. FOFFANI (a cura di), Critica e giustificazione del diritto penale nel cambio di secolo. L’analisi critica della Scuola di Francoforte, Giuffrè, Milano, 2004, pp. 435 s. e 439. Se il diritto penale si fonda sul disvalore dell’evento e la meritevolezza della pena, si comprende la domanda posta da A. CARMONA, Premesse a un corso di diritto penale dell’economia. Mercato, regole e controllo penale nella postmodernità, Cedam, Padova, 2002, p. 117, allorché s’interroga sulla possibilità di un diritto penale neutrale rispetto alle diverse concezioni della vita. Nel merito si possono altresì richiamare i rilievi svolti da M. ROMANO, La legittimazione delle norme penali: ancora sui limiti e validità della teoria del bene giuridico, in Criminalia, 2011, in part., p. 43 s., ove l’autore evidenzia che i beni, nel loro preesistere al legislatore, sono definibili come «“unità funzionali di valore”» e non un «suo “prodotto”». Del resto, nell’originaria tensione volta a contrastare l’emergente fenomeno della c.d. criminalità economica, lo stesso autore non esitava a ricondurre l’accentuazione dell’intervento punitivo in ordine a interessi percepiti e largamente condivisi dalla coscienza dei cittadini, pur mantenendo la preminenza dell’uomo anche sull’economia: cfr. M. ROMANO, Diritto penale in materia economica, riforma del codice, abuso di finanziamenti pubblici, in Comportamenti economici e legislazione penale, Atti del Convegno «Arel» del 17 marzo 1978, Giuffrè, Milano, 1979, in part. p. 187 ss.
[71] Così G. FORTI, La letteratura e la riconoscibilità dei sentimenti nelle forme giuridiche, in Dossier. La vita nelle forme. Il diritto e le altre arti (Atti del VI Convegno Nazionale ISLL, Urbino 3-4 luglio 2014), a cura di L. ALFIERI-M.P. MITTICA, ISLL Papers, Vol. 8, 2015, p. 25 ss., in part. p. 31 ss.
[72] Le citazioni risalgono a G. FORTI, Le ragioni extrapenali dell’osservanza della legge penale: esperienze e prospettive, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, rispettivamente, pp. 1125-1127 e pp. 1118 e 1129. Alla sfera della consapevolezza delle proprie capacità e del senso di dignità della persona sarebbe riconducibile la forza motivazionale e con essa l’operare, «individuale e istituzionale, di “norme di salienza” tendenzialmente corrispondenti alla cornice assiologia in cui si colloca la norma penale»; per analoghi rilievi, ID., La letteratura, cit., p. 29 ss. La questione è altresì ripresa dall’autore in ragione dei presupposti necessari alla concreta osservanza della legge, ovvero in considerazione «delle condizioni che permettono al soggetto di riferire il precetto alla propria situazione di vita»; è in tale contesto che pare emergere l’insufficienza della «regolazione giuridica» come tale «per affrontare e risolvere il problema della relazione o del conflitto con l’Altro»: cfr. G. FORTI, L’ansia disumana del «raggiungimento», in Giustizia e Letteratura, II, a cura di G. FORTI-C. MAZZUCATO-A. VISCONTI, Vita e Pensiero, Milano, 2014, rispettivamente, pp. 813 e 821.
[73] A. PAGLIARO, Lo schema di legge delega per la riforma, cit., in part. p. 53 ss. Per la cornice costituzionale nella quale collocare spinte “innovatrici” e scelte di tutela penale, cfr. G. MARINUCCI-E. DOLCINI, Costituzione e politica dei beni giuridici, in Riv. it. dir. proc. pen., 1994, p. 333 ss., ove acquista evidenza – p. 363 – come l’unico modello di reato in un «diritto penale della prevenzione » sia quello che «pone al suo centro l’offesa a un bene giuridico», così, pp. 335 e 337. Oggi tuttavia, altra è la lettura emergente in dottrina, per la quale si rinvia, nel contesto della crisi inerente alla categoria del bene giuridico e per ulteriori percorsi, a G. FRANCOLINI, Abbandonare il bene giuridico? Una prospettiva procedurale per la legittimazione del diritto penale, Giappichelli, Torino, 2014, passim.
[74] F. PALAZZO, I confini della tutela penale: selezione dei beni e criteri di criminalizzazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992, p. 453 ss., in part. p. 458 s. In un’ampia prospettiva, volta a “rivisitare” il confine fra intervento penale e concetto di bene giuridico, C. ROXIN, Strafrecht Allgemeiner Teil, I, Grundlagen. Der Aufbau der Verbrechenslehre, 4.Aufl., C.H. Beck, München, 2006, p. 14 ss. Pur sempre nell’orizzonte dell’attuale “crisi” del bene giuridico e delle scelte di criminalizzazione tra “limite” e “confini” tracciati dalle categorie riconducibili a beni e/o valori, cfr. C. MAZZUCATO, Bene giuridico e “questione sentimento”, cit., p. 687 ss., ove, per il tramite di un’alterità capace di ri-declinare i contenuti stessi del bene giuridico, l’autrice conclude dando evidenza alla prospettiva di un potenziamento orientato a relazioni rispettose e responsabili verso tutte le creature.
[75] Cfr. F. PALAZZO, I confini della tutela penale, cit., p. 459 e, in chiave critica, G. FIANDACA, Sul bene giuridico, cit., p. 39 s., ove l’autore riprende altresì la lettura in argomento per rilevare come nel concetto personalistico di bene giuridico, adottato da Palazzo, gli elementi caratterizzanti permangano troppo vaghi e generici per costituire un criterio-guida per il legislatore. Risultano peraltro particolarmente significativi, e ne mantengono tutta l’attualità, i rilievi svolti da A. PAGLIARO, Lo schema di legge delega per la riforma, cit., p. 33 ss., ove si conclude con l’affermazione di una tutela giuridica, che l’impianto della Costituzione riconduce alla persona umana quale idea dominante. La vastità e complessità del tema non consente in questa sede che pochi ed essenziali cenni, anche in considerazione dell’ineludibile principio di offensività. Se dunque fondamentale, per una lettura in chiave costituzionale dei beni giuridici da tutelare, rimane ancor oggi la trattazione di F. BRICOLA, Teoria generale del reato, in Noviss. dig. it., Torino, 1973, XIX, p. 7 ss., non mancano peraltro rilievi critici. Nel merito, per una recente e ampia ‘rilettura’ a margine dell’offensività, anche in considerazione della categoria riconducibile alla “dannosità sociale” del reato e al suo declinarsi, fra le altre forme, nell’enunciato del harm principle, M. DONINI, Il principio di offensività. Dalla penalistica italiana ai programmi europei, in Dir. pen. cont.-Riv. trim., n. 4/2013, p. 4 ss. È tuttavia in ambiti specialistici, basti pensare alla tutela penale in campo economico, che emergono elementi volti a dare particolare evidenza a una categoria, quale quella del bene giuridico, di cui nel tempo non si è esitato a tracciare, per confini e contenuto, la problematicità: così C. PEDRAZZI, Interessi economici e tutela penale, oggi in ID., Diritto penale. Scritti di diritto penale dell’economia: problemi generali diritto penale societario, vol. III, Giuffrè, Milano, 2003, p. 187 ss., e ivi bibliografia citata. Ulteriori profili d’indagine sono affrontati da G.P. DEMURO, Il bene giuridico proprio quale contenuto dei reati a soggettività ristretta, in Riv. it. dir. proc. pen., 1998, p. 845 ss. e di recente ID., Diritto penale come ultima ratio: deflazione del sistema penale nella recente normativa, in G. COCCO (a cura di), Trattato breve di dir. pen. Temi contemporanei. Per un manifesto del neoilluminismo penale, Wolters Kluwer-Cedam, Milano, 2016, p. 62 ss.
[76] F. PALAZZO, I confini della tutela penale, cit., p. 463. Oggi, proprio le relazioni sociali introducono alla «concezione relazionale del bene giuridico» nei rilievi conclusivi di M. RONCO, Libertà di manifestazione del pensiero e nuove istanze punitive, in G. COCCO (a cura di), Per un manifesto del neoilluminismo penale, cit., p. 181 ss., a cui si rinvia anche per la bibliografia citata.
[77] Nell’ambito della vastissima trattazione non ci si può che limitare a un rinvio alle voci enciclopediche per una visione d’insieme: F. BRICOLA, sub Art. 25, 2° e 3° comma, in Commentario della Costituzione, a cura di G. BRANCA, Rapporti civili, Art. 24-26, Zanichelli, Bologna-Roma, 1981, p. 227 ss.; G. MARINI, Nullum crimen, nulla poena sine lege (Dir. pen.), in Enc. dir., vol. XXVIII, Milano, 1978, p. 950 ss., F. PALAZZO, Legge penale, in Digesto disc. pen., vol. VII, Torino, 1993, p. 338 ss., e ID., Sistema delle fonti e legalità penale, in G. INSOLERA (a cura di), Riserva di legge e democrazia penale: il ruolo della scienza penale, Monduzzi, Bologna, 2005, p. 89 ss.; G. VASSALLI, Nullum crimen, nulla poena sine lege, in Digesto disc. pen., vol. VIII, Torino, 1994, p. 278 ss., e in precedenza, ID., “Nullum crimen sine lege”, in Noviss. Dig. it., vol. XI, Torino, 1965, p. 493 ss. Cfr. per tutti, in una prospettiva filosofico-giuridica, M.A. CATTANEO, Anselm Feuerbach filosofo e giurista liberale, Edizioni di Comunità, Milano, 1970, p. 280 ss., ove emerge lo scopo della prevenzione generale ascritto alla pena in accordo con le esigenze del liberalismo giuridico e i principi dello Stato di diritto; segue ivi, p. 432 ss., il profilo che inerisce piuttosto ai motivi nell’inflizione della pena per un fatto previsto dalla legge come reato, in considerazione della garanzia della legalità e certezza del diritto. Al contempo, è a Cesare Beccaria che risale, quale prima conseguenza dei principi ritenuti fondamentali, il profilo di una prevenzione dei delitti in forza di leggi chiare e semplici, sul presupposto che le sole leggi possono decretare le pene per i delitti, per l’autorità unicamente rimessa al legislatore: cfr. C. BECCARIA, Dei delitti e delle pene, a cura di G.D. PISAPIA, Giuffrè, Milano, rist. 1973, rispettivamente, pp. 128 e 15. La sua concezione è riletta, fra gli altri, da A. CADOPPI, ‘La legge è uguale per tutti’. Ripensare Beccaria oggi in tema di legalità, tra favor libertatis e diritti fondamentali, in G. COCCO (a cura di), Per un manifesto del neoilluminismo penale, cit., p. 131 ss. Per un essenziale excursus storico e contenutistico del principio in oggetto, G. MARINUCCI-E. DOLCINI, Corso di diritto penale, 1, III ed., Giuffrè, Milano, 2001, p. 15 ss.
[78] Rinviando per i necessari approfondimenti alla
dottrina e alla manualistica, che hanno curato l’analisi e lo studio dei
capisaldi posti “a corredo” della legalità in materia penale, si può in questa
sede sottolineare come libertà, dignità umana e diritti
fondamentali costituiscano essenziale parametro di riferimento, tanto da
affermare: «V’è […], alla base del principio di legalità, un’esigenza, spesso
non espressa, più profonda, per cui il precetto penale dovrebbe imporsi al destinatario
non come comando eteronomo del potere coattivo dello Stato, bensì come
espressione di una ratio intrinseca di giuridicità», così, M. RONCO, Il
principio di legalità, cit., p. 6 ss. In riferimento pur sempre al
fondamento costituzionale, essenziale alla legalità in ambito penale, cfr.
altresì G. MARINUCCI-E. DOLCINI, Corso di diritto penale, cit., in
part., p. 119 ss., a margine del principio di precisione, ritenuto
indispensabile perché la pena svolga una funzione di prevenzione generale. È
peraltro di tutta evidenza come un notevole mutamento nella realtà normativa e
nelle conseguenti garanzie sia intervenuto a seguito delle fonti comunitarie e
della stessa giurisprudenza in ambito europeo: sul punto, oltre alla
manualistica più recente, cfr. per le attuali criticità O. DI GIOVINE, Ancora
sui rapporti tra legalità europea e legalità nazionale: primato del legislatore
o del giudice?, in www.penalecontemporaneo.it (pp. 1-31), oggi in Dir.
pen. cont.-Riv. trim., n. 1/2013 (Come la legalità europea sta riscrivendo
quella nazionale. Dal primato delle leggi a quello dell’interpretazione),
p. 159 ss.
Ma un ulteriore
profilo è stato di recente evidenziato nella dicotomia fra legalità della
legge e legalità dell’esperienza giuridica o “effettuale”, così da
far emergere il rischio e il pregiudizio sul piano della certezza e ancor prima
della tipicità propria del sistema penale: la questione è stata affrontata da
F. PALAZZO, Legalità fra law in the books e law in action
(Relazione svolta al Convegno sul tema «Cassazione e legalità penale», Parma,
9-10 ottobre 2015), in www.penalecontemporaneo.it (13 gennaio 2016).
[79] Così M. RONCO, Il principio di legalità, cit.,
p. 23, e ivi, p. 20 ss., gli ulteriori rilievi inerenti alle tante ragioni
sottese alla “crisi” del principio. Al tema della legalità in ambito penale
sono dedicati i contributi di Autori italiani e stranieri raccolti sotto il
titolo Principio di legalità e diritto penale (per Mario Sbriccoli), in Quaderni
Fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, n. 36/2007, tomi
I-II, a cui si rinvia per i complessivi profili storici e dottrinali di estrema
attualità. Si può rilevare peraltro come già da tempo fosse stata annunciata la
crisi della legalità, cfr. S. FOIS, Legalità (principio di), in Enc.
dir., vol. XXIII, Milano, 1973, in part. p. 698 ss., oggi in ID., La
crisi della legalità. Raccolta di scritti, Giuffrè, Milano, 2010, p.
383 ss. Nel merito, cfr. altresì i rilievi critici che, a fronte di «un sistema
pluralistico multilivello», intendono opportunamente sottolineare «la
necessità di un ancoraggio saldo alla legalità», quale irrinunciabile garanzia
in materia penale: tale la conclusione di C.E. PALIERO, Il diritto liquido.
Pensieri post-delmasiani sulla dialettica delle fonti penali, in Riv.
it. dir. proc. pen., 2014, p. 1099 ss., in part. p. 1129 ss.
[80] F. PALAZZO, Legalità penale: considerazioni su
trasformazione e complessità di un principio ‘fondamentale’, in Principio
di legalità e diritto penale, cit., tomo II, p. 1279 ss. anche per quanto
segue. Essenziali rimangono altresì i rilievi di Marcello Gallo, ripresi in
ID., Appunti di diritto penale, 1°, La legge penale,
Giappichelli, Torino, 1999, e oggi in ID., Diritto penale italiano. Appunti
di parte generale, 1°, Giappichelli, Torino, 2014, p. 27 ss. Pur nella più
ampia visione di un diritto che esige oggi nuovi approcci e mutamento di
paradigmi, M. VOGLIOTTI, Introduzione, cit., p. 25 s., richiama i
profili di una legalità penale, posta dinanzi alle trasformazioni dei
meccanismi di produzione del diritto, che «si traducono fatalmente nel declino
della legge come comando sovrano», così, p. 16. In argomento, cfr. da ultimo
J.-M.S. SÁNCHEZ, Sullo stato del principio di legalità penale, in I
principi fondamentali del diritto penale tra tradizioni nazionali e prospettive
sovranazionali, a cura di A.M. STILE-S. MANACORDA-V. MONGILLO, E.S.I.,
Napoli, 2015, p. 181 ss.
[81] F. PALAZZO, Legalità penale: considerazioni, cit., p. 1286 ss. Per una lettura ancorata all’efficacia attuale e al futuro del sistema penale con le sue prerogative, F. MANTOVANI, La «perenne crisi» e la «perenne vitalità» della pena. E la «crisi di solitudine» del diritto penale, in Studi in onore di Giorgio Marinucci, a cura di E. DOLCINI-C.E. PALIERO, Teoria della pena. Teoria del reato, tomo II, Giuffrè, Milano, 2006, p. 1171 ss.; l’autore non esita a ricondurne la crisi nell’essere rimasto (il diritto penale) «l’unica e solitaria controspinta» al crimine, una volta venuta meno «la prioritaria controspinta culturale-sociale», ivi, p. 1205.
[82] F. PALAZZO, Legalità penale: considerazioni, cit., p. 1287 ss. Sul punto, mutatis mutandis, può essere significativo quanto è emerso nella sentenza del G.U.P., Trib. Cagliari, 4.7.2011, n. 1188/11. In un caso di accertamento della responsabilità di un ente, a seguito di omicidio colposo plurimo in violazione delle norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro, il Giudice di merito nell’operazione ermeneutica richiesta dalle norme del d. lgs. n. 231/2001 (cfr. art. 6), a fronte della responsabilità di natura colposa della persona fisica autore del reato, così argomenta: «si tratta […] di operazioni ermeneutiche connotate da ampi margini di soggettività, per cui qualsiasi risultato interpretativo è talmente opinabile da essere più che un punto di equilibrio, un equilibrismo»; la sentenza è consultabile in www. penalecontemporaneo.it (11 novembre 2011, nota di D. LOY). Sulle attuali ragioni al fondo di una ‘crisi’ della legalità, T. PADOVANI, Jus non scriptum e crisi della legalità nel diritto penale, Editoriale Scientifica, Napoli, 2014, p. 34 ss., ove l’autore introduce il concetto di «giuridicità debole» consistente nella «sistematica propensione a disciplinare situazioni e rapporti mediante una legislazione derogatoria, istituendo organi e definendo procedure singolari o speciali per far fronte alle esigenze particolari di volta in volta emergenti».
[83] Così F. PALAZZO, Legalità penale: considerazioni,
cit., p. 1291 ss. Non va peraltro sottaciuto l’emergere del c.d. multiculturalismo,
quale fenomeno che oscilla tra una «mera neutralità ai valori (altrui)» e il
riflesso di una crisi del modello sociale tradizionale, segno di un mutamento
di paradigma anche in ambito giuridico: la convivenza forzata con le diversità
di cui l’altro è portatore può infatti comportare “conflitti” anche rispetto a
norme di cultura, differenti dalle nostre tradizioni. Ci sia consentito solo un
accenno per rinviare, fra i tanti, nel primo senso, a O. DI GIOVINE, Conclusioni
(ovvero: is multiculturalism bad for criminal law?), in Cultura,
culture e diritto penale, Atti del Convegno 12 dicembre 2011, a cura di L.
STORTONI-S. TORDINI CAGLI, Bononia University Press, Bologna, 2012, p. 171 ss.,
e ibidem, cfr. altresì i vari contributi; nel secondo senso, a fronte
dei grandi cambiamenti, C. DE MAGLIE, Multiculturalismo, in Dizionari
sistematici, Diritto penale, a cura di F. GIUNTA, Il Sole 24 ore,
Milano, 2008, p. 896 ss. Sull’argomento di recente, per una visione d’insieme
integrata da taluni casi giurisprudenziali, E. MEZZETTI, Diritto penale.
Casi e materiali, Zanichelli, Bologna, 2015, p. 89 ss., ed ivi
bibliografia citata.
[85] F. PALAZZO, Legalità penale: considerazioni,
cit., p. 1321 ss. Cfr. altresì in merito alla “crisi” della legalità penale,
che vedrebbe non di rado aggirato lo stesso divieto d’analogia, G. FIANDACA, La
legalità penale negli equilibri del sistema politico-costituzionale, in Foro
it., 2000, Parte V-7, c. 137 ss., in part. c. 141, dalle cui riflessioni
emergerebbe al contempo la prospettiva volta ad «accorciare le distanze tra
legalità astratta a livello normativo e legalità concreta a livello
giudiziario».
[86] Così P. COSTA, Pagina introduttiva (Il principio
di legalità: un campo di tensione nella modernità penale), in Principio
di legalità e diritto penale, cit., tomo I, in part. p. 14 ss.
[87] P. COSTA, Pagina introduttiva, cit., p. 16 s.
Per una lettura culturale e storica del principio di legalità, e in riferimento
alla sua attuale “crisi”, cfr. M. RONCO, Giustizia penale, in F.
D’AGOSTINO (a cura di), Valori giuridici fondamentali, (seconda serie),
Aracne, Roma, 2011, in part. p. 139 ss.; M. VOGLIOTTI, Legalità, in Enc.
dir., Annali, vol. VI, Milano, 2013, p. 371 ss.
[89] Ibidem. Il ruolo assunto dai «Principi
fondamentali» nella redazione della Carta costituzionale del 1948 viene
evidenziato da E. LO MONTE, Diritto penale e tutela dell’ambiente, cit.,
p. 270, per il quale gli stessi, nel contesto italiano, hanno assunto «il
preciso riconoscimento di disposizioni ad efficacia potenziata di legalità
costituzionale», capaci di esplicare «diretta e immediata cogenza normativa»,
in un ordinamento in cui «la persona umana è posta all’apice dei valori
costituzionali».
[90] P. COSTA, Pagina introduttiva, cit., p. 17. È
proprio in merito alla tutela penale che si è ribadita l’importanza dell’impersonalità
della stessa (a fronte del dato normativo), quale riflesso dell’eguaglianza
dei cittadini di fronte alla legge sul presupposto della pari dignità, così
A. PAGLIARO, Tutela della vittima nel sistema penale delle garanzie, in Riv.
it. dir. proc. pen, 2010, p. 44 ss.
[91] Cfr. i rilievi formulati da F. VIOLA, La legalità
come procedura e come prassi, in Per la filosofia, 10 (1993), n. 27,
p. 30; critico, rispetto a un fondamento basato sui valori, G. FIANDACA, Sul
bene giuridico, cit., p. 55 ss.
[92] D. PULITANÒ, Crisi della legalità e confronto con
la giurisprudenza, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, p. 29 ss. e,
per quanto citato in testo, pp. 54-56 (corsivo orig.).
[93] Cfr. A. ALESSANDRI, Diritto penale e attività
economiche, il Mulino, Bologna, 2010, p. 70, e p. 57 ss., cui si rinvia per
l’analisi circa la criminalità economica, a partire dalla «scoperta dei “white
collar crimes”», e i necessari riferimenti a Sutherland. Sull’argomento
cfr. altresì G. FORTI, Percorsi di legalità in campo economico: una
prospettiva criminologico-penalistica, in A. ALESSANDRI (a cura di), Diritto
penale dell’impresa. Materiali per lo studio, Giappichelli, Torino, 2007,
p. 46 ss.
[94] A fronte della pluralità di significati del concetto di rischio in ambito economico e per una disamina complessiva dello stesso, A. ALESSANDRI, Diritto penale e attività economiche, cit. p. 67 ss.; ivi, a margine delle recenti crisi, non si esita a sottolineare l’enorme diffusione dei comportamenti illeciti, unitamente al «clima d’indifferenza morale», così p. 116.
[95] In argomento, anche in prospettiva criminologica, G. FORTI, L’immane concretezza. Metamorfosi del crimine e controllo penale, R. Cortina, Milano, 2000, p. 106 ss. Cfr., circa le implicazioni riconducibili alla prevenzione generale quale finalità della pena, A. PAGLIARO, Commisurazione della pena e prevenzione generale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1981, p. 25 ss., mentre rilievi critici sono stati svolti da L. EUSEBI, Appunti critici su un dogma, cit., p. 73 ss. Analogamente G. FORTI, Explete poenologi munus novum, cit., p. 79 ss., riprende la questione del ruolo proprio del diritto penale, unitamente al richiamo a una rinnovata riflessione sulla concettualizzazione del bene giuridico e sull’idea di persona, che anche lo strumento penale è chiamato a promuovere e proteggere. Rilievi non dissimili emergono nella trattazione di F. STELLA, Giustizia e modernità. La protezione dell’innocente e la tutela delle vittime, III ed., Giuffrè, Milano, 2003, in part. p. 577, ove, pur a margine delle “società a rischio”, l’autore sottolinea come il diritto penale contemporaneo sia privo «nei fatti, di effetti di deterrenza» e «votato alla ineffettività». Resta peraltro, come evidenziato da A. PAGLIARO, Il reato, cit., p. 19, l’inevitabilità dell’incriminazione, e la necessaria tutela, per quei fatti la cui prevenzione esige il ricorso alla sanzione penale.
[96] Cfr. C. PEDRAZZI, Problemi di tecnica legislativa, in Comportamenti economici e legislazione penale, cit., p. 17 ss. e in part. p. 26 ss., il quale, pur sottolineando il senso di crescente sfiducia nell’efficacia terapeutica della pena detentiva, non disconosce in capo al legislatore penale «il diritto di assumere una funzione propulsiva, di guida e di stimolo». In un dibattito sempre vivo e attuale nella dottrina, cfr. per una essenziale visione d’insieme: W. NAUCKE, Prevenzione generale e diritti fondamentali della persona, in M. ROMANO-F. STELLA, (a cura di), Teoria e prassi della prevenzione generale dei reati, il Mulino, Bologna, 1980, p. 49 ss.; K. LÜDERSSEN, La funzione di prevenzione generale del sistema penale, ibidem, p. 99 ss.; W. HASSEMER, Prevenzione generale e commisurazione della pena, ibidem, p. 125 ss. e in part., p. 145 ss., ove emerge come un’influenza sulla coscienza giuridica, riconducibile al sistema penale unicamente in ragione di un inasprimento della pena, non assuma valenza positiva; M. ROMANO, Prevenzione generale e prospettive di riforma del codice penale italiano, ibidem, p. 151 ss. Fra i tanti anche in sedi internazionali, cfr. C. ROXIN nel suo intervento conclusivo al Convegno di Toledo, 13-15 aprile 2000, in L. STORTONI-L. FOFFANI (a cura di), Critica e giustificazione del diritto penale nel cambio di secolo, cit., p. 447 ss.; si legge, ivi, p. 455: «Nella ricerca di alternative al diritto penale si tratta dunque non solo di trovare forme più effettive di controllo sociale, bensì anche – e prima di tutto – di una conformazione più umana dei nostri rapporti sociali». Per ulteriori profili di criticità, K. LÜDERSSEN, Il declino del diritto penale, a cura di L. EUSEBI, Giuffrè, Milano, 2005, passim, e per le proposte conclusive dell’autore, ivi, p. 159 ss. Sulle questioni inerenti al principio di legalità e all’efficacia della prevenzione generale, cfr. V. MILITELLO, Prevenzione generale e commisurazione della pena, Giuffrè, Milano, 1982, in part. p. 104 ss.
[97] In una prospettiva interdisciplinare e in riferimento
ai criteri normativi adottabili, anche in considerazione della già controversa
categoria del pericolo astratto, G. FORTI, “Accesso” alle informazioni sul
rischio e responsabilità: una lettura del principio di precauzione, in Criminalia,
2006, p. 155 ss., in part. p. 177 per la citazione in testo; in argomento
altresì, D. PULITANÒ, L’anticipazione della tutela. I reati di pericolo,
riportato in A. ALESSANDRI, Diritto penale dell’impresa, cit., p. 120
ss., e di recente, in chiave critica, C.E. PALIERO, Il diritto liquido,
cit., p. 1124 ss. Il tema, nella sua attualità, è ripreso da A. ALESSANDRI, Diritto
penale e attività economiche, cit., p. 67 ss., il quale, in una «cultura
del rischio» dal carattere estremamente vago, configura il principio di
precauzione quale suo prodotto, così p. 78. È nel particolare ambito
dell’attività d’impresa che A. DI AMATO, Diritto penale dell’impresa,
VII ed., Giuffrè, Milano, 2011, p. 12 ss., evidenzia al contempo il delinearsi
di un diritto penale del rischio, a fronte di una «crescita esponenziale
dei reati di prevenzione, caratterizzati dall’avere come polo di riferimento il
rischio e strutturati secondo modelli di anticipazione della tutela»: un
diritto penale concepito come strumento di sicurezza e ispirato al principio di
precauzione. Per uno sguardo d’insieme su quest’ultimo, cfr. F. GIUNTA, Principio
di precauzione, in Dizionari sistematici Diritto penale, a cura di
F. GIUNTA, Il sole 24 ore, Milano, 2008, p. 905 ss., e dello stesso Autore, Il
diritto penale e le suggestioni del principio di precauzione, in Criminalia,
2006, p. 227 ss. Recenti approfondimenti sul tema sono stati curati da F.
CONSORTE, Tutela penale e principio di precauzione. Profili attuali,
problematicità, possibili sviluppi, Giappichelli, Torino, 2013 ed E. CORN, Il
principio di precauzione nel diritto penale. Studio sui limiti all’anticipazione
della tutela penale, Giappichelli, Torino, 2013, a cui si rinvia per i
necessari riferimenti alle fonti e alla bibliografia in argomento.
[98] Cfr. per i vari profili F. MANTOVANI, Il principio
di affidamento nel diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen.,
2009, p. 536 ss. e altresì, fra i tanti, G. FORTI, Colpa ed evento nel
diritto penale, Giuffrè, Milano, 1990, in part. pp. 265 ss. e 434 ss. In
merito alla distinzione concettuale tra “rischio” e categoria del pericolo in
ambito penale, cfr., per gli essenziali profili di analisi su quest’ultimo, F.
ANGIONI, Il pericolo concreto come elemento della fattispecie penale. La
struttura oggettiva, II ed., Giuffrè, Milano, 1994, p. 18 ss., e nel primo
senso, in considerazione di una distinzione, V. MILITELLO, Rischio e
responsabilità penale, Giuffrè, Milano, 1988, p. 17 ss., nonché
recentemente E. MEZZETTI, Diritto penale, cit., p. 214 ss. Per una
disamina in ambito dottrinale e l’analisi che ne segue, C. PERINI, Il
concetto di rischio nel diritto penale moderno, Giuffrè, Milano, 2010, pp.
4 ss. e 371 ss. A sottolineare l’incidenza del rischio, nella
molteplicità della sua valenza, è sufficiente in questa sede, a titolo
esemplificativo, rinviare ai contenuti del d. lgs. n. 231/2007, secondo quanto
si può evincere anche da F.C. BEVILACQUA, L’antiriciclaggio, in A.
ALESSANDRI (a cura di), Reati in materia economica, Giappichelli,
Torino, 2012, p. 285 ss.
[100] L’espressione pare oggi evocare concetti non
tramontati: nel richiamo critico di C. SCHMITT, Il nomos della terra,
cit., p. 31 ss., alla categoria dello straniero come nemico, in forza di
una “naturale” inimicizia tra i popoli antichi, fatta risalire allo stesso
mondo romano, acquistano particolare evidenza le notazioni a margine di E.
Castrucci, «La ricerca del nomos». Nella riflessione, ivi, p. 442 si
legge: «La riduzione della politica mondiale (Weltpolitik) a polizia
internazionale ha il suo rovescio nel riconoscimento che il nemico, il
disumano, cresce in noi stessi e che il rapporto amico/nemico tende a
riprodursi comunque»; parole che trovano nella Prefazione curata dallo
stesso Schmitt nell’estate del 1950 la conclusione rivolta agli «spiriti
pacifici», ivi, p. 15. Va peraltro annotato come anche nell’ambito
penale la categoria del nemico sia riemersa quale «paradigma concettuale»,
sulle cui origini e conseguenti riflessioni si rinvia a M. DONINI-M. PAPA (a
cura di), Diritto penale del nemico. Un dibattito internazionale,
Giuffrè, Milano, 2007, passim.
[101] Per uno sguardo complessivo ma significativo, cfr. la Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio e al Comitato economico e sociale europeo sulla lotta alla corruzione nell’UE [Bruxelles, 6.6.2011 COM (2011) 308 def.]. L’analisi, di estrema vastità nella sua portata, emerge in alcuni profili di criticità esposti da A. ALESSANDRI, I reati di riciclaggio e corruzione nell’ordinamento italiano: linee generali di riforma, in www.penalecontemporaneo.it (25 marzo 2013), in part. p. 3, intervento al quale si rinvia per i necessari riferimenti bibliografici, anche a margine della riforma oggetto della legge n. 190 del 2012; cfr. altresì, R. GAROFOLI, Il contrasto alla corruzione: il percorso normativo intrapreso con la l. 6 novembre 2012, n. 190, e le politiche ancora necessarie, ivi (22 febbraio 2013). Oggi la normativa volta a un ulteriore intervento di contrasto alla corruzione è stata introdotta con l. 27 maggio 2015, n. 69, recante modifiche alla precedente. Il fenomeno è stato analizzato a più riprese, fra gli altri, da Gabrio Forti, a cui si rinvia, anche per i profili non strettamente penalistici: cfr. ID., L’unità lacerata. Il prezzo dell’illegalità e della corruzione – Lo stivale … sgualcito –, in Appunti di cultura e politica, n. 5-2012, p. 13 ss.
[102] A. ALESSANDRI, I reati di riciclaggio e corruzione, cit., p. 25. La portata del fenomeno, di cui non è certo possibile dar conto in questa sede, è resa evidente anche dalle svariate fonti internazionali e comunitarie, a cui si aggiunge, a conferma di quanto appena enunciato, la Relazione della Commissione al Consiglio sulle modalità di partecipazione dell’Unione europea al Gruppo di Stati del Consiglio d’Europa contro la corruzione (GRECO) – COM (2011) 307 definitivo.
[103] F. PALAZZO, Conclusioni. Per una disciplina ‘integrata’ ed efficace contro la corruzione, in ID. (a cura di), Corruzione pubblica. Repressione penale e prevenzione amministrativa, Firenze University Press, Firenze, 2011, p. 100, ed ivi cfr. la molteplicità dei contributi anche in ordine ai profili internazionali del fenomeno. Circa la necessità di un’attenta «opera di prevenzione sul terreno civile ed amministrativo», e ancor prima in ordine all’educazione improntata all’etica pubblica e degli affari, M. PELISSERO, Le istanze di moralizzazione dell’etica pubblica e del mercato nel “pacchetto” anticorruzione: i limiti dello strumento penale, in Dir. pen. e processo, n. 3/2008, p. 277 ss.
[105] F. VIOLA, La legalità come procedura e come prassi, cit., p. 31 (corsivo orig.); cfr. altresì in merito, G. ACOCELLA, Paradigmi della legalità, in La legalità ambigua, a cura di G. ACOCELLA, Giappichelli, Torino, 2013, p. 1 ss.
[108] Non si intende con tale chiave di lettura, né sarebbe questa la sede, ripercorrere note dottrine filosofiche, ma non si può prescindere da pochi doverosi cenni, motivo di riflessioni ulteriori. Il pensiero filosofico ha infatti segnato percorsi ripresi dallo stesso N. BOBBIO, Prefazione, in R. TREVES, Il diritto come relazione, cit., p. VI ss. Ivi l’autore, attraverso Kant e la teoria delle categorie a priori della conoscenza, annota come i filosofi neo-kantiani «si proposero di fare anche del diritto una categoria a priori dell’esperienza, proponendo un concetto del diritto che avesse valore universale, non dipendesse dai dati mutevoli dell’esperienza storica e sociale, e fosse anzi esso stesso la condizione a priori di ogni possibile esperienza giuridica». Individuare l’a priori logico del diritto equivarrebbe a individuare – così nelle notazioni di E. OPOCHER, Lezioni di filosofia del diritto, cit., p. 201 – la «forma a priori» che consente di «definire giuridica una determinata esperienza ». La forma è la categoria della relazionalità, peraltro privata di quel contenuto che in Kant si addice comunque a un diritto quale norma che regola, secondo il principio di relazionalità (l’a priori giuridico), la libertà esterna: in una società intesa come somma di individui gli stessi non possono vivere indipendentemente l’uno dagli altri. L’uomo deve dunque entrare in rapporto con gli altri, ed ecco l’ambito della libertà esterna affidata al diritto. La concezione formale aprirà poi con Kelsen la strada alla dottrina pura del diritto. Quest’ultimo, in quanto sistema di rapporti di dovere (Sollrelationen), si fonda nella concezione kelseniana su una costruzione gerarchica a gradi, nella quale gli stessi sono prodotti da un rapporto fondamentale, la Grundnorm. Il rapporto si configura «come principio ontologico del diritto», così che i soggetti del diritto stanno entro l’ordinamento giuridico, come parti di un tutto, e il rapporto giuridico vi si pone «come una relazione di fatti istituita dalla norma giudica [...]. Il rapporto giuridico è quindi un rapporto tra fatti (Tatbeständen), non tra persone»: cfr. R. TREVES, Il diritto come relazione, cit., in part., pp. 46 s. e 50 s. Con la dottrina pura di Kelsen, il diritto costituirà dunque un sistema di norme giuridiche, intese come pure forme di relazione. Nella netta distinzione tra essere e dovere le norme, completamente prive di quel contenuto, che in quanto tale apparterrebbe al regno della natura, divengono «giudizi ipotetici» aventi carattere logico formale, forme pure «essenzialmente eteronome perché nel diritto». Si rinvia nel merito alle notazioni, peraltro critiche nelle conclusioni, di R. TREVES, Il diritto come relazione, cit., p. 57 s. Fondamentale, H. KELSEN, Reine Rechtslehre, Franz Deuticke, Wien, 1960 (trad. it. M.G. LOSANO, La dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino, 1975), p. 9 ss. Non sono mancate peraltro ulteriori chiavi di lettura orientate alla “relazionalità”, a cui si accenna solo per un confronto. Ai primi del ’900, il Cicala fra gli altri espose la concezione giuridica del diritto come relazione: «considerando l’essenzialità del fenomeno giuridico (e quindi l’essenza di esso come relazione), considerando la sua origine ed il suo scopo (disciplinare le relazioni sociali) […], siamo convinti di non andare errati, ponendo come nucleo logico […] del sistema, il concetto di “rapporto giuridico”»: citazione ripresa dallo stesso R. TREVES, Il diritto come relazione, cit., p. 52, nt. 31. Pur in altra prospettiva, cfr. A. LEVI, Teoria generale del diritto, (rist. anast., II ed.), Cedam, Padova, 1967, p. 10 ss., il quale spiega come la giuridicità consista «nell’apprezzamento dei comportamenti sotto il loro aspetto […] d’intersoggettività, cioè di complementarietà col comportamento d’uno o più altri soggetti, coi quali si pensi in relazione». Cfr., altresì, ivi, p. 26 ss., ove emerge come il rapporto sia relazione concreta, in quanto ha «per suoi termini soggetti concreti e determinati», fino a concludere che «ogni ordinamento è un sistema di rapporti giuridici», così pp. 31-33.
[109] Cfr. i rilievi che emergono in G. FORTI, Nuovi riverberi “infernali”. Le politiche penali securitarie di esclusione e criminalizzazione dell’“Altro oscuro”, in Munera, n. 2/2012, in part. p. 140.
[110] Il significato del dovere costituzionale è stato ripreso con particolare efficacia, in riferimento all’ambito antinfortunistico, da Cass. pen, Sez. IV, 5 novembre 2003. n. 41985, pronuncia nella quale si fa notare come l’osservanza delle norme, a tutela dell’incolumità del lavoratore, sia volta a garantire «la persona, che è il valore per eccellenza della Carta ostituzionale» (consultabile nel sito http://olympus.uniurb.it).
[111] Cfr. la «Relazione del Presidente della Commissione al Progetto di Costituzione», cit., in La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea Costituente, vol. I, Roma, 1970, in part. p. LXXVII s. e ivi, p. 227 s., l’intervento con cui l’on. Saragat ha dato evidenza nella struttura costituzionale ai diritti di libertà declinati, oltre ogni individualismo, con i doveri di necessaria solidarietà.
[112] A. BALDASSARRE, La normatività della Costituzione e i suoi «nemici», in Rivista di Diritto Costituzionale, 2007, pp. 47 e 44 (corsivi orig.). L’attualità delle questioni poste, che nella lettura costituzionale «“secondo valori”» verrebbe ad arricchire il «quadro dei principi», segna nella recente analisi di A. BARBERA, Costituzione della Repubblica italiana, in Enc. dir., Annali, VIII, Milano, 2015, p. 263 ss., il sussistere di un sistema normativo, che troverebbe la sua forza ordinante proprio sulla base di determinati principi e valori, così p. 265 s.
[115] L. MENGONI, Note sul rapporto tra diritto e morale, in Iustitia, n. 3/1998, p. 310, e altresì A. BALDASSARRE, La normatività della Costituzione, p. 49 s.; cfr. inoltre ID., Diritti sociali, cit., pp. 7 ss. e 14, ove emerge che il «punto di partenza» nella Costituzione è dato «dai luoghi e dai legami sociali» propri delle «relazioni esistenziali», premessa per una legalità ancorata al rispetto dei «valori di fondo» in essa recepiti.
[116] S. COTTA, Il diritto nell’esistenza. Linee di ontofenomenologia giuridica, Giuffrè, Milano, 1981, p. 102. Analoga parrebbe la prospettiva di chi, nel declinare l’universalità dei diritti umani, ne assume il fondamento in quanto «diritti che definiscono in senso normativo ciò che spetta ad ogni essere umano e ciò che accomuna tutti gli esseri umani», così che universale significa comune: cfr. M. ZANICHELLI, Diritti umani e bene comune, in Bene comune fondamenti e pratiche, a cura di F. BOTTURI-A. CAMPODONICO, Vita e Pensiero, Milano, 2014, p. 154 s.
[117] Tali notazioni emergono a margine di R. ESPOSITO, Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, Einaudi, Torino, 2007, a firma di R. BODEI, Vedersi come un terzo, in Il sole 24 ore, 12 agosto 2007, n. 220, p. 39; per l’analisi dell’autore, cfr. Terza persona, cit., in part. p. 127 ss.
[118] F. MANTOVANI, Umanità e razionalità del diritto penale, Cedam, Padova, 2008, p. 1624. Per un’attenta lettura dell’«odierno “paesaggio culturale”» con le sue criticità, L. ALICI, Il terzo escluso, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2004, pp. 11 s. e 65 ss.
[119] F. CAFAGGI, Profili di relazionalità della colpa. Contributo ad una teoria della responsabilità extracontrattuale, Cedam, Padova, 1996, p. 5 s.
[121] F. CAFAGGI, Profili di relazionalità della colpa, cit., p. 6 s. Cfr., in una più ampia ricognizione della categoria della responsabilità che, orientata a un’idea di prevenzione, assume una chiave di lettura relazionale, P. RICOEUR, Il concetto di responsabilità. Saggio di analisi semantica, in ID., Il giusto, SEI, Torino, 1998 (tit. orig. Le Juste, Esprit, 1995), p. 49 ss. Si introduce qui un «rovesciamento», per il quale «si diventa responsabili del danno poiché, innanzi tutto, si è responsabili di altri».
[124] A. PERIN, Colpa penale relazionale e sicurezza nei luoghi di lavoro, in www.penale.contemporaneo.it (4 maggio 2012), pp. 8 ss. e 14 ss., ora in Dir. pen. cont.-Riv. trim., n. 2/2012, p. 105 ss. Cfr. altresì L. CORNACCHIA, Concorso di colpe e principio di responsabilità penale per fatto proprio, Giappichelli, Torino, 2004, p. 538 ss., per una chiarificazione del concetto di relazionali-tà, assunta peraltro nell’ambito dell’art. 113 c.p.
[125] È il pensiero che emerge in Hannah Arendt – cfr. ID., Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano, 2012, Introduzione di A. DAL LAGO – già ripreso da M.A. FODDAI, Mediazione e giudizio: due nozioni di responsabilità, in ID. (a cura di), La scelta della mediazione. Itinerari ed esperienze a confronto, Giuffrè, Milano, 2009, p. 72. Efficacemente ivi, l’espressione trama della responsabilità sottolinea nella relazione con l’altro quella «condizione plurale e non individuale», propria degli esseri umani; tale concetto emerge altresì nel bisogno del «chi arendtiano […] di essere insieme ad altri chi», con i quali entrare in relazione in un ambito che domanda responsabilità – cfr. A. PAPA, Nati per incominciare, cit., p. 18 s.
[126] Cfr. P. SCHLESINGER, La persona (rilevanza della nozione e opportunità di rivederne le principali caratteristiche), in Studi in onore di Nicolò Lipari, tomo II, Giuffrè, Milano, 2008, in part. p. 2744 ss.
[127] Cfr. G. FORTI, Explete poenologi munus novum, cit., in part. p. 122 s. In una più ampia analisi concettuale, pur senza tralasciare il profilo giuridico della categoria della responsabilità, emerge il percorso per una «ricostruzione di un nuovo modello di agire responsabile», secondo la prospettiva assunta da M.A. FODDAI, Sulle tracce della responsabilità. Idee e norme dell’agire responsabile, Giappichelli, Torino, 2005, pp. 163 ss. e 251 ss.; cfr. altresì ivi, p. 378 s., l’esposizione in merito a una lettura relazionale nell’orizzonte di «una nuova cultura della solidarietà».
[128] Si tratta di un ambito che potrebbe non apparire estraneo al profilo di una più ampia trattazione della responsabilità, se si arriva a configurare nei citati rapporti un’interpretazione che, attraverso «approdi ermeneutici del tutto eccentrici rispetto ai limiti normativi», ravvisa una riformulazione delle norme ad opera del giudice: così, T. PADOVANI, Jus non scriptum, cit., pp. 7 ss. e 17.
[129] P. CALAMANDREI, Fede nel diritto, a cura di S. CALAMANDREI, Laterza, Roma-Bari, 2008, pp. 85 e 104 ss.; in una concezione che pure intende prescindere dai contenuti del diritto, emergono elementi che inducono G. ALPA, Un atto di «fede nel diritto», ivi, p. 60, a concludere: «Il diritto di Calamandrei è un diritto intriso di valori umani, ed è quindi un diritto non ‘tecnico’ ma pieno di vita». Può trovare qui eco la recente prospettiva, che conosce peraltro la sua origine in ambito americano nella più ampia cornice dell’esperienza Law and Literature: la trattazione investe i temi della “giustizia”, per ricercarne il senso «anche oltre gli steccati del diritto e della norma », e tracciarne «una dimensione relazionale, se non altro perché le ingiustizie esigono, per essere sconfitte, di venire in primis conosciute e riconosciute, dunque comunicate e, così, narrate a qualcuno»: cfr., rispettivamente, G. FORTI, Introduzione, in Giustizia e letteratura, I, cit., p. XII ss., e C. MAZZUCATO-A. VISCONTI, Guida alla lettura. Uno sguardo all’intelaiatura, tra trama letteraria e ordito giuridico, e al ‘backstage’ di «Giustizia e letteratura – I», cit., p. XXVII s.
[130] Cfr. P. RESCIGNO, Il rifiuto del sistema normativo dei totalitarismi, in P. CALAMANDREI, La fede nel diritto, cit., p. 42. Per un’analisi circa il connesso concetto di prevenzione, G. FORTI, L’immane concretezza, cit., in part. p. 106 ss., e ivi, i rilievi a margine del rapporto tra “forme giuridiche” e “materiali d’esperienza”, p. 362 ss.
[131] Cfr. P. GROSSI, Globalizzazione, diritto, scienza giuridica, in Foro it., 2002, V, c. 151 ss., ove si riprende l’immagine della piramide per confrontare la “scala gerarchica” delle fonti del diritto con l’attuale immagine della rete, così c. 155. Riflesso di quanto enunciato possono considerarsi le questioni poste nell’ambito del sistema penale circa la categoria, di recente conio, dei reati culturalmente motivati. Si rimanda nel merito, per una visione d’insieme, ai contributi di G. GENTILE, Un’aggravante per i reati culturalmente motivati? Riflessioni critiche sulla proposta di legge Sbai, in Cultura, culture e diritto penale, Atti, cit., p. 59 ss.; D. TASSINARI, “Motivi culturali” e struttura del reato, ibidem, in part. p. 147 s. e L. MONTICELLI, La cultural defense, ibidem, p. 149 ss., specie in considerazione del rapporto tra “diversità”, “fonte” per un’eventuale previsione delle esimenti culturali, e crisi della funzione della norma penale in una dimensione general-preventiva. Nella prospettiva di una chiarificazione concettuale e in considerazione dei profili di criticità, cfr. O. DI GIOVINE, Conclusioni, cit., ibidem, p. 171 ss. In argomento altresì, A. BERNARDI, Società multiculturale e «reati culturali». Spunti per una riflessione, in Studi in onore di Giorgio Marinucci, a cura di E. DOLCINI-C.E. PALIERO, cit., tomo I, Teoria del diritto penale. Criminologia e politica criminale, p. 47 ss. e ID., L’ondivaga rilevanza penale del “fattore culturale”, in M. VOGLIOTTI (a cura di), Saggi sulla globalizzazione giuridica, cit., p. 113 ss.; sul tema inoltre C. DE MAGLIE, I reati culturalmente motivati. Ideologie e modelli penali, ETS, Pisa, 2010, in part. p. 30 ss. La complessità dell’oggi per effetto della globalizzazione emerge dall’analisi di H.P. GLENN, Legal Traditions of the World. Sustainable Diversity in Law, IV ed., Oxford University Press, Oxford-New York, 2010 (trad. it. a cura di S. Ferlito), Tradizioni giuridiche nel mondo. La sostenibilità della differenza, il Mulino, Bologna, 2011.
[132] Così G. CREPALDI, Etica pubblica e giustizia sociale, in Iustitia, 2003, p. 83. Per quanto più sopra richiamato circa il Rapporto cit., cfr. The Report of the Commission on Global Governance (pubblicato da Oxford University Press, 1995), in part., Chapter Two – Values for the Global Neighbourhood, (Neighbourhood Values) consultabile nel sito, che ne riporta il testo, www.gdrc.org/u-gov/global-neighbourhood. Attraverso il rilievo della correlazione tra diritti e doveri dell’uomo, il Rapporto viene ripreso anche da H. KÜNG, Etica mondiale per la politica e l’economia, Queriniana, Brescia, 2002, p. 380 ss., ove l’autore spiega il titolo stesso del Rapporto, tradotto nell’espressione «Vicini in un unico mondo».
[133] Così ripreso da P. BAGNOLI, Piero Calamandrei l’uomo del ponte, Fuori|onda, Arezzo, 2012, p. 66.
[134] Dinanzi alla contraddizione tra un ricorso sempre più
frequente all’incriminazione penale, quale strumento privilegiato per il
controllo sociale, e una sanzione diversamente incapace di controllare e
prevenire la commissione di reati, la domanda sul “perché” si delinque ha
trovato risposta nella teoria dell’anomia: ovvero nella «perdita di
valore delle norme di condotta, della legalità», così F. MANTOVANI, Criminalità
sommergente e cecità politico-criminale (segni anch’esse di una civiltà
decadente?), in Studi in ricordo di Giandomenico Pisapia, vol. I,
cit., p. 139 ss. e in part. p. 150 ss.
[135] G. FORTI, Percorsi e prospettive nel «deserto relazionale» della disciplina penale societaria – Introduzione al Tomo Primo, in www.penalecontemporaneo.it (11 novembre 2014) – Diritto penale delle società. Profili sostanziali e processuali, a cura di G. CANZIO-L.D. CERQUA-L. LUPARIA, Cedam, Padova, 2014: cfr., in part., p. 16 s., e altresì bibliografia, ibidem, cit.
[136] Per un’analisi comparata, con particolare riferimento al sistema statunitense, C. DE MAGLIE, L’etica e il mercato. La responsabilità penale delle società, Giuffrè, Milano, 2002, p. 32 ss.; per ulteriori riferimenti anche in una prospettiva criminologica, G. FORTI, Percorsi di legalità, cit., p. 33 ss. e ID., Uno sguardo ai “piani nobili” del d. lgs. 231/2001, in Riv. it. dir. proc. pen., 2012, p. 1249 ss. Ci permettiamo, per una prima indagine inerente all’entrata in vigore della disciplina in oggetto e per gli essenziali e iniziali riferimenti dottrinali e normativi, di rinviare ad A. COSSEDDU, Responsabilità da reato degli enti collettivi: criteri di imputazione e tipologia delle sanzioni, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2005, p. 1 ss. L’attualità dell’argomento e le numerose vicende giudiziarie, che in applicazione della normativa sono seguite, richiedono in questa sede un necessario quanto doveroso rinvio alla vasta dottrina anche manualistica e monografica, che ad oggi si è autorevolmente occupata dell’argomento e che parrebbe segnare il “tramonto” dell’antico brocardo societas delinquere non potest; per tutti, in una visione d’insieme, M. PELISSERO, Responsabilità degli enti, in F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Leggi complementari, II, XIII ed., a cura di C.F. GROSSO, Giuffrè, Milano, 2014, p. 685 ss. Per gli ulteriori effetti sulla normativa, a seguito della disciplina introdotta dal d.l. 24 giugno 2014, n. 90 (conv. con modif. dalla l. 11 agosto 2014, n. 114), R. GAROFOLI, Il contrasto ai reati di impresa nel d. lgs. n. 231 del 2001 e nel d. l. n. 90 del 2014: non solo repressione, ma prevenzione e continuità aziendale, in www.penalecontemporaneo.it (30 settembre 2015).
[137] La teoria in parola risale, fin dalla sua esposizione nel 1984, a R.E. FREEMAN, Strategic Management: A Stakeholder Approach, Cambridge University Press, Cambridge, 2010, p. 31 ss., a cui si rinvia per una sua ricostruzione. I riferimenti alla responsabilità in chiave relazionale sono esposti da F. MANZONI, La responsabilità sociale dell’impresa: analisi del fondamento etico, in C. MONESI (a cura di), I modelli organizzativi ex d. lgs. 231/2001. Etica d’impresa e punibilità degli enti, Giuffrè, Milano, 2005, p. 16 ss.
[139] Cfr. A. ALESSANDRI, Diritto penale e attività
economiche, cit., p. 219, ove, a margine della responsabilità degli enti,
l’autore sottolinea la scelta legislativa «di legare la responsabilità
dell’ente alla diligenza e accortezza dimostrata nel regolare l’attività di
tutti coloro che partecipano all’agire imprenditoriale». In tal senso,
l’oggetto del rimprovero all’ente, e con esso il fondamento della
responsabilità, viene efficacemente colto «in un’inaccettabile indifferenza
agli interessi altrui». La complessità si evince dagli ulteriori rilievi svolti
da A. ALESSANDRI, Attività d’impresa e responsabilità penali, in ID. (a
cura di), Diritto penale dell’impresa, cit., p. 3 ss. L’adottare una
struttura organizzativa adeguata nell’ambito dell’impresa viene altresì
configurata come la prima forma di adempimento degli obblighi posti dalla
legge: così A. DI AMATO, Diritto penale dell’impresa, cit., p. 152 s.,
ove il mercato è richiamato come «una ragnatela di rapporti tra i soggetti che
a vario titolo ne fanno parte». È peraltro significativo che il fondamento
etico nella gestione degli affari venga riletto da Mauro Ronco come
«indispensabile perno dello statuto giuridico dell’imprenditore post-moderno,
ove l’eticità del comportamento tende a coincidere con il rispetto di una
legalità estremamente rigorosa», cfr. E.M. AMBROSETTI-E. MEZZETTI-M. RONCO, Diritto
penale dell’impresa, III ed., Zanichelli, Bologna, 2012, p. 26 s. Per i
rilievi costituzionali che seguono, cfr. La Costituzione della Repubblica
italiana nei lavori preparatori della Assemblea costituente, vol. II, Roma,
1970, pp. 1716 e 1734 s.
[141] A tali fini è stato emanato, dal Ministero dell’economia e delle finanze, il Decreto 20 febbraio 2014, n. 57, avente ad oggetto il Regolamento concernente l’individuazione delle modalità in base alle quali si tiene conto del rating di legalità attribuito alle imprese ai fini della concessione di finanziamenti da parte delle pubbliche amministrazioni e di accesso al credito bancario, ai sensi dell’art. 5-ter, comma 1, d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27. In argomento, M. CAPUTO, La mano visibile. Codici etici e cultura d’impresa nell’imputazione della responsabilità agli enti, in Dir. pen. cont.-Riv. trim., n. 1/2013, in part. p. 110 ss.; ivi, p. 111 ss., cfr. l’analisi delle criticità emerse a margine delle intersezioni tra legalità e codici etici, tematica per la quale si rinvia alla dottrina citata. Nel collocare la questione nell’ambito della cultura d’impresa, l’autore pare ascrivere al codice etico la funzione di sostenere una coscienza di gruppo per la quale lo stesso codice dovrà «incorporare dosi massicce di relazionalità, ossia il punto di vista dell’altro», così p. 124. Si delinea in tal modo nella conclusione, ivi, p. 131, l’apporto di «un’etica transitiva, che non pensa all’impresa come a un’entità autoreferenziale, ma alla stregua di una rete di relazioni interne ed esterne all’ente». Nell’emergere di una relazionalità interpersonale, si mira a sottolineare al contempo il valore di una corporate culture che, rispettosa della legalità, sappia altresì promuovere l’impegno a riparare le conseguenze di un agire scorretto, adottando quella che viene definita una «terza sfera di giustizia», da cui potrà scaturire «una giustizia benevolente e riparatrice».
[142] Cfr. P. CALAMANDREI, Fede nel diritto, cit., p. 84 s., anche per i rilievi che seguono, ove traspare per l’autore il legame fra «cristiana solidarietà» e forma reciproca propria dell’affermazione diritto-dovere, quasi a segnarne un fondamento comune.
[143] P. CALAMANDREI, Fede nel diritto, cit., p. 103 ss., da cui emerge il concetto di diritto come altruismo.
[144] P. CALAMANDREI, Fede nel diritto, cit., p. 104. Le espressioni ora riportate non prescindono tuttavia, per l’autore, dalla rilevanza formale ascritta al diritto in quanto tale (cfr. p. 95 ss.), che viene anzi richiamata «indipendentemente dalla bontà del suo contenuto», per sottolineare contestualmente nello stesso principio di legalità «il riconoscimento della uguale dignità morale di tutti gli uomini, nell’osservanza individuale della legge […] la garanzia della pace e della libertà di ognuno», così p. 105.
[145] Sulla concezione del diritto di Calamandrei, G. ALPA, Un atto di «fede nel diritto», cit., p. 59 s., sottolinea da un lato il carattere riconosciuto allo stesso, in quanto giusto ed egalitario, dall’altro, richiama le parole con le quali Calamandrei delinea l’avvocatura: «professione di comprensione, di dedizione, di carità. Nel suo cuore l’avvocato deve mettere da parte i suoi dolori, per far entrare i dolori degli altri». È un diritto che si configura intriso di valori umani.
[146] J. HABERMAS, Die Einbeziehung des Anderen. Studien zur politischen Theorie, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1996, trad. it. L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, a cura di L. CEPPA, Feltrinelli, Milano, 2008, p. 43.
[147] J. HABERMAS, L’inclusione dell’altro, cit.,
pp. 42 s. e 9 (Prefazione dell’autore). Se da sempre la solidarietà coincide
con un principio oggetto di rilievi e puntualizzazioni, S. Rodotà ne affronta
altresì il confronto con la fraternità, di cui finirebbe per assumere le
«sembianze», così ID., Solidarietà. Un’utopia necessaria,
Laterza, Roma-Bari, 2014, p. 20 ss. Ciò, se da un lato verrebbe a segnare
«l’ambiguità […] rimproverata alla categoria della fraternità», dall’altro, il
descrivere quest’ultima come solidarietà varrebbe a «conferirle
effettività» (p. 25). Resta peraltro quale motivo di particolare riflessione
l’annotazione dell’autore che, sottolineando la «funzione unificante» ascritta
alla fraternità, ne intende spiegare al contempo la debolezza con una
efficace espressione: «Siamo di fronte a un classico conflitto tra inclusione
(fraterna) e esclusione (proprietaria)», così p. 23; un’incompatibilità dunque
rispetto alla logica che assume la proprietà quale misura prima dei rapporti
tra le persone.
[148] Anche per i rilievi che seguono, B. PASTORE, Pluralismo, fiducia, solidarietà. Questioni di filosofia del diritto, Carocci, Roma, 2007, p. 80 ss., in part., per quanto si cita, rispettivamente pp. 87 e 84. Cfr., altresì, per l’iniziale espressione riportata in testo, J. HABERMAS, Solidarietà tra estranei. Interventi su «Fatti e norme», a cura di L. CEPPA, Guerini e Ass., Milano, 1997, p. 11 ss.
[150] B. PASTORE, Pluralismo, fiducia, solidarietà, cit., p. 91 s., ove l’«interazione tra i diversi soggetti coinvolti» viene configurata come «“interdipendenza normativa”».
[151] Cfr. B. PASTORE, Pluralismo, fiducia, solidarietà, cit., p. 104 s., il quale, nel dare valore alla componente della fiducia alla radice del legame sociale, sottolinea al contempo come la stessa rimandi a «un’antropologia dell’esperienza che richiede una comprensione degli esseri umani e del loro “essere-nel-mondo”». Nel rifarsi al pensiero di J. HABERMAS, Teoria della morale, Laterza, Roma-Bari, 1994, ripreso ivi, p. 105, nota 169, l’autore ne richiama il concetto per il quale «gli esseri umani si individualizzano mediante la socializzazione “in modo da non poter affermare mai da soli la loro identità”».
[153] B. PASTORE, Pluralismo, fiducia, solidarietà, cit., p. 127 ss., nonché p. 135 s., ove emerge, come si dirà, una solidarietà che «rinvia all’idea di un’unione nella diversità». Nella stessa, e nel conseguente rilievo di una co-responsabilità, si dà evidenza a una società solidale, nella quale «vale l’impegno a trattare gli altri come si desidera essere trattati da loro» (così, p. 137). Sul tema cfr., altresì, B. MAGNI, Tra ponti e confini: l’idea di solidarietà, Presentazione a M.C. BLAIS, La solidarietà. Storia di un’idea, a cura di B. MAGNI, Giuffrè, Milano, 2012, p. VII ss. (Titolo orig., La solidarité. Histoire d’une idée, Paris, 2007).
[154] Cfr. A. AMORTH, La Costituzione italiana. Commento sistematico, Giuffrè, Milano, 1948, p. 42, nonché F. VIOLA, La fraternità nel bene comune, in Persona y Derecho, n. 49/2003, in part. p. 161, ove la fraternità è ricondotta al valore della persona.
[155] Per i rilievi esposti, B. PASTORE, Pluralismo, fiducia, solidarietà, cit., p. 112 s. Cfr. altresì A. CASSESE, I diritti umani nel mondo contemporaneo, VII ed., Laterza, Roma-Bari, 2002, p. 47 ss., ove alla Dichiarazione Universale del 1948, definita «decalogo» per miliardi di persone, si riconosce l’enorme merito di «costituire uno dei fattori di unificazione dell’umanità» (corsivo orig.).
[156] Cfr. G. BERTI, Dalla legalità formale alla legalità sostanziale, in Società & Politica, n. 3/1992, p. 10 ss. e, in part., p. 12, da cui si attinge l’espressione conclusiva che segue in testo, e che nell’autore implica l’impegno di «tradurre la regola in fonte della nostra responsabilità». Si intende qui assumere, rispetto al contesto più strettamente penalistico, una accezione volta all’essenza stessa del principio di legalità; diversamente, per l’ambito penale si rinvia alle notazioni di F. MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, IX ed., Wolters Kluwer-Cedam, Padova, 2015, p. 3 ss.
[157] Significativi i rilievi svolti da F. PALAZZO, Nuova legislatura e politica penale, in Diritto penale e processo, n. 7/2001, che individuando come «prioritario» il compito dell’educazione alla legalità ne orienta la valenza anche ai soggetti istituzionali, così, p. 801. Può non risultare estranea a tale contesto l’analisi di P. HÄBERLE, Per una dottrina della costituzione come scienza della cultura, (ed. it. a cura di J. LUTHER), Carocci, Roma, 2001, p. 28 ss., ove si sottolinea la «“simbiosi” tra diritto e cultura» fino alla formula Kulturrecht cui segue, più oltre, p. 38 s., la configurazione di una «cultura costituzionale».
[158] L. FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., p. 910 ss. e ivi i rilievi sul principio di legalità. L’autore peraltro non esita – così p. 898 – a rilevare che «la stretta legalità, subordinando tutti gli atti comprese le leggi ai contenuti dei diritti fondamentali, coincide con la loro legittimazione sostanziale».
[160] L. FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., pp. 950 ss. e 959. Si comprendono altresì in tale contesto i rilievi svolti, in via conclusiva, da F. PIZZOLATO, Il principio costituzionale di fraternità, cit., p. 181, dove tale principio, coniugato in senso personalistico, affiora «attraverso il riconoscimento e la valorizzazione istituzionale di un tessuto sociale ricco e solidale (le comunità), di un sistema di relazioni strutturato in formazioni sociali, in cui continuamente si ricrei l’interdipendenza tra i soggetti». Per l’autore – ivi, p. 50 ss. – la stessa sussidiarietà si fa “luogo” e «principio di modulazione » della fraternità, quasi a far emergere una funzione propositiva del diritto.
[161] Cfr. L. FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., p. 986 ss.; è nella parte conclusiva che l’autore – così p. 988 – riconduce alla norma costituzionale dell’art. 3, che nel suo capoverso sarebbe rimasta ignorata dalla cultura giuridica, l’orizzonte assiologico imposto ai pubblici poteri. Il non ottemperare avrebbe generato una “chiusura”, fonte anch’essa della crisi della legalità e delle garanzie giuridiche.
[163] Si possono richiamare oggi le parole di un esponente di allora, on. Terracini, chiamato, quale Presidente dell’Assemblea, a proclamare il risultato della votazione finale, 22 dicembre 1947: «L’Assemblea ha pensato e redatto la Costituzione come un solenne patto di amicizia e fraternità di tutto il popolo italiano, cui essa lo affida perché se ne faccia custode severo e disciplinato realizzatore. E noi stessi, onorevoli deputati, colleghi cari e fedeli di lunghe e degne fatiche, [...] diveniamo i più fedeli e rigidi servitori». Quanto riportato, sotto il titolo, «La Nascita della Costituzione. La votazione finale della Costituzione» è consultabile in http://www.nascitacostituzione.it. E l’on. De Gasperi, allora Presidente del Consiglio dei Ministri, nel richiamare all’obbligo e all’impegno che la Costituzione avrebbe comportato onde farla applicare, aggiungeva: «il soffio dello spirito animatore della nostra storia e della nostra civiltà cristiana passi su questa nostra faticosa opera, debole perché umana, ma grande nelle sue aspirazioni ideali, e consacri nel cuore del popolo questa legge fondamentale di fraternità e di giustizia». Le parole di V.E. Orlando, a cui si è data evidenza in testo, sono state pronunciate nell’ambito della discussione del Progetto di Costituzione nella seduta del 10 marzo 1947, consultabile nel sito www.camera.it (Assemblea Costituente, p. 1941).
[164] Così A. MORO, Il Diritto, cit., p. 141 ss. Nelle pagine precedenti l’autore, a conclusione dei rilievi con cui spiega come l’universale dell’individuo viva nella sua particolarità, afferma: «la relazione che esprime questo processo è da intendere come una comunione, per cui i particolari processi di vita di ogni persona confluiscano, senza confondersi, con quelli di tutte le altre» (p. 140).
[165] Cfr. A. MARTINELLI, Il progetto moderno e la democrazia globale, in A. MARTINELLI-M. SALVATI-S. VECA, Progetto ‘89. Tre saggi su libertà, eguaglianza, fraternità, (nuova ed.), il Saggiatore, Milano, 2009, (Vent’anni dopo. Postfazioni), p. 301. Nella precedente edizione 1989, dello stesso Autore, I principi della Rivoluzione francese e la società moderna, in part. p. 73 ss., sulla fraternità si rileva: «A differenza della libertà e dell’eguaglianza, le cui contraddizioni diventano più acute quanto più integrale è il tentativo di applicazione concreta dei principi, la fraternità sembra poter risolvere la sua contraddittorietà intrinseca soltanto dilatando la sua sfera di applicazione e riconoscendosi come valore integrale e assoluto di fratellanza universale di uomini e donne che condividono un comune destino; una concezione questa forse meno utopica oggi che in passato, a seguito della crescente interdipendenza economica e culturale dei popoli della terra», così, A. MARTINELLI, I principi, cit., in A. MARTINELLI, M. SALVATI, S. VECA, Progetto ’89. Tre saggi su libertà, eguaglianza, fraternità, il Saggiatore, Milano, 1989, p. 143.
[166] F. PIZZOLATO-P. COSTA, Principio di fraternità e modernità giuridica, in Costituzionalismo.it, fasc. 1/2013, par. 7, per un’indagine a più livelli, ma nell’obiettivo di declinare il principio nella dimensione giuridica. Cfr. altresì i rilievi svolti da G. ALPA, I principi generali, II ed., Giuffrè, Milano, 2006, p. 396 ss., circa il rapporto solidarietà e fraternità, definita quest’ultima nel corso della sua storia “valore insopprimibile” anche di natura giuridica; ID., Solidarietà, cit., p. 365.
[167] Cfr. F. PIZZOLATO- P.COSTA, Principio di fraternità, cit., par. 8. Nel merito ci permettiamo di rinviare al contributo che costituisce l’incipit e l’anticipazione del presente saggio: A. COSSEDDU, El horizonte del Derecho «lugar» de las relaciones, in A.M. BAGGIO-A. COSSEDDU-A. MÁRQUEZ PRIETO (coord.), Fraternidad y Justicia, Ed. Comares, S.L., Granada, 2012, p. 21 ss.; cfr. altresì, in vario senso, J.L. MONERERO PÉREZ, Prólogo, ivi, p. IX ss. e i diversi approfondimenti degli autori.
[168] Così F. PIZZOLATO, Fraternità (principio di),
in Digesto delle discipline pubblicistiche, Agg., Torino, 2012,
in part. p. 398 s., nonché, ivi, l’analisi che precede; ID., A
proposito di fraternità cristiana e fraternità giuridica, in Scritti in
onore di Angelo Mattioni, Vita e Pensiero, Milano, 2011, in part., p. 548
s. Nella cornice costituzionale, che pone al centro «la persona umana come
valore originario e finale» con i suoi diritti inviolabili e doveri
inderogabili, cfr. la lettura di N. OCCHIOCUPO, Liberazione e promozione
umana nella Costituzione. Unità di valori nella pluralità di posizioni,
Milano, Giuffrè, rist. 1988, p. 76 ss., ove sulla base dell’art. 2 Cost. emerge
la «vita di solidarietà » (per la citazione che precede, ivi, p. 110).
[169] Si rinvia agli approfondimenti di I. MASSA PINTO, Costituzione e fraternità. Una teoria della fraternità conflittuale: ‘come se’ fossimo fratelli, Jovene, Napoli, 2011, in part. p. 194 ss.; cfr. altresì ivi, p. 6, ove si mette in luce la problematicità per il giurista, nel momento in cui si tenti la «giuridicizzazione di un principio», che parrebbe dar vita a «un vero e proprio non senso a contatto con il diritto», posto che «la fraternità o è spontanea o non è».
[170] P. PERLINGIERI, Intervento, in Fatto e diritto. L’ordinamento tra realtà e norma, a cura di T.G. TASSO, E.S.I., Napoli, 2011, p. 115 ss. e in part. p. 122 ss.
[171] Cfr. P. PERLINGIERI, ‘Dittatura del relativismo’ e ‘tirannia dei valori’, in Fatto e diritto, cit., p. 133, nota 12, a cui si rinvia per i riferimenti a margine del nichilismo giuridico.
[173] P. PERLINGIERI, ‘Dittatura del relativismo’, cit., pp. 159 ss. e 161 s., ove emerge «un diritto inteso non come puro rispetto di una legalità formale ma come giustizia». È del resto significativo il contenuto del Preambolo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, il cui testo a seguito del Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007, trova espresso richiamo all’art. 6 par. 1. del Trattato sull’Unione europea, in quanto sostituisce, adattandola, la Carta proclamata il 7 dicembre 2000 a Nizza. Il citato Preambolo afferma che l’Unione «pone la persona al centro della sua azione» e richiama tra i valori universali, su cui l’Unione si fonda, la solidarietà.
[174] H. KELSEN, Staatsform und Weltanschauung, in Die Wiener rechtstheoretische Schule, Ausgewählte Schriften von H. Kelsen, A.J. Merkl und A. Verdross, Europa Verlag, Wien – Pustet, Salzburg, 1968, 2, p. 1923 ss., e per l’espressione citata, introdotta a margine dell’idea di libertà e uguaglianza nel confronto con l’altro, p. 1928.
[177] T. PADOVANI, Jus non scriptum, cit., p. 44 s. Nella considerazione del carattere proprio di ogni relazione giuridica, che sulla base di una scelta intenzionale può essere orientata al rispetto o alla violenza, A. RIVERA LLANO, nella Presentazione al volume AA.VV., Persona imputabilità ermeneutica, Giappichelli, Torino, 2014, p. VII, afferma nel merito: «la differenza tra le due condotte si lega alla formazione della legalità: un diritto positivo, inteso come affermazione del giusto nel legale, rinvia ad una condizione di rispetto dell’alterità. Da qui, la legalità si concretizza come bene comune, qualificando l’interezza della res publica».
[179] N. LIPARI, «Spirito di liberalità» e «spirito di solidarietà», cit., p. 22 ss. Così alla stessa esigenza di giustizia viene ricondotto, pur nella specificità dell’ambito tecnico-giuridico, lo «strumento concreto per capire [...] che in essa si misura davvero, nell’orizzonte dell’esperienza e con l’immediatezza della quotidianità, la garanzia dei rapporti sociali e quindi, in definitiva, l’epifania del diritto».
[180] Per una recente analisi orientata alla «ricerca di nuovi modelli di responsabilità», cfr. M.A. FODDAI, Responsabilità e soggettività, in Ambito e fonti del biodiritto, a cura di S. RODOTÀ-M. TALLACCHINI, cit., in part. p. 429 ss., ove a proposito di un modello di responsabilità complesso se ne evidenziano i significati plurimi e tra questi non solo il giudizio e la sanzione, ma anche la previsione e la precauzione e, non ultima, la relazionalità (p. 431).
[181] Così E. RESTA, Il diritto fraterno, (nuova ed.), Laterza, Roma-Bari, 2005, p. VII; per una visione d’insieme circa la concezione dell’autore cfr. ivi, p. 131 ss.
[182] Si tratta della visione critica, tra le altre ricorrenti, esposta da T. PADOVANI, Jus non scriptum, cit., p. 14 ss.
[184] Si rinvia per i necessari approfondimenti nei diversi
profili al volume curato da A.M. BAGGIO (ed.), Il principio dimenticato la
fraternità nella riflessione politologica contemporanea, Città Nuova, Roma,
2007, mentre nella prospettiva della storia del diritto cfr. P.P. ONIDA,
Fraternitas e societas: i termini di un connubio, in Diritto@Storia,
Quaderno n. 6/2007 (www.dirittoestoria.it
).
[185] J. HABERMAS, Faktizität und Geltung. Beiträge zur Diskurstheorie des Rechts und des demokratischen Rechtsstaats, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1992, trad it. Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della emocrazia, a cura di L. CEPPA, Guerini e Ass., Milano, 1996, p. 530 (Postfazione 1994).
[187] Anche per quanto segue, si rinvia ai rilievi conclusivi di Vittorio Emanuele Orlando in Assemblea Costituente nell’intervento dianzi riportato (cit. nota 163).
[188] Pur nelle dovute distinzioni, parrebbe non lontana dalla lettura che qui si propone, almeno nella sua genesi, quella definizione della legalità «c.d. “sostanziale”», prospettata in materia penale da I. CARACCIOLI, Manuale di diritto penale, Parte gen., II ed., Cedam, Padova, 2005, p. 25 ss. La stessa, ricondotta dall’autore alla «necessità della “tassatività”» della fattispecie criminosa, corollario della stretta legalità, si porrebbe al contempo – ci permettiamo di osservare – quale esigenza riflessa ed espressa nelle necessarie garanzie accordate, a livello costituzionale, proprio alla persona nell’ambito del medesimo sistema penale.
[189] M.C. NUSSBAUM, Poetic justice. The Literary Imagination and Public Life, Beacon Press, Boston, 1995, p. xvi; trad. it. di G. Bettini, Il giudizio del poeta. Immaginazione letteraria e vita civile, Feltrinelli, Milano, 1996, testo oggi rivisto a cura di E. GREBLO: M.C. NUSSBAUM, Giustizia poetica. Immaginazione letteraria e vita civile, Mimesis, Milano, 2012.
[191] L’orizzonte coincide con quello prospettato dal nichilismo giuridico, emergente dal “dialogo” tra diritto e tecnica, a cui in più occasioni in questa sede sì è fatto riferimento; ma la domanda riprende quella formulata da F. TODESCAN, Compendio di storia della filosofia del diritto, Cedam, Padova, 2009, p. 350, a conclusione del pensiero stammleriano, che troverebbe i suoi presupposti ideologici, in particolar modo, nell’individualismo e nel normativismo: cfr., ivi, p. 345 ss. L’interrogativo così espresso pare peraltro ricevere ulteriori declinazioni. Se infatti M. FIORAVANTI, Fine o metamorfosi?, in Fine del diritto?, a cura di P. ROSSI, il Mulino, Bologna, 2009, p. 62, conclude la sua analisi mettendo in evidenza «l’avvio di una possibile fine del diritto», dinanzi al ridursi della «razionalità giuridica a mera razionalità tecnica» (corsivo orig.), P. RESCIGNO, Pluralità di ordinamenti ed espansione della giuridicità, ibidem, p. 84, sottolinea a sua volta come il «fenomeno giuridico» non si esaurisca nella dimensione delle norme e del sistema positivo dello Stato.