Università
di Palermo
RICONOSCIMENTO E
TUTELA DELLE FATTISPECIE CONTRATTUALI ATIPICHE:
INTERFERENZE TRA
LOGICHE ARGOMENTATIVE E MODELLI PROCESSUALI *
Sommario: 1.
Il tema dei c.d. contratti innominati nella
più recente dottrina: breve sguardo introduttivo. – 2. La nozione
di contratto come rimedio pratico operativo: limiti e rilievi. Il caso
emblematico di Alberto Burdese. – 3. La tutela del contratto secondo un approccio logico di
tipo deduttivo. – 4 La tutela del contratto nella differente prospettiva di
un approccio analogico-paradigmatico. –
5. Ancora in tema di analogia. – 6. Rapporti
e interferenze tra le due logiche argomentative: soluzioni sostanzialmente e
formalmente assimilative. – 6.1. Azione ad
exemplum di tipo specifico con assimilazione sostanziale, ma non formale,
con approccio argomentativo di tipo paradigmatico.
– 6.2. Azioni ad exemplum di tipo
specifico, ma al di fuori di un procedere paradigmatico o deduttivo. – 6.3. Forme
di tutela in assenza di specifico modello di riferimento: analogia
plurima-atipicità in senso stretto.
– 6.4. Analogia plurima con
disomogeneità di schemi processuali di riferimento. – 6.5. Continua:
analogia plurima rispetto a vicende non tutte tutelate sul piano dello ius civile. – 7. Considerazioni
conclusive. – Abstract.
Provare a riassumere oggi, in un
affresco sintetico, lo stato degli studi romanistici in tema di tutela delle
fattispecie contrattuali atipiche rappresenta un’impresa per nulla
agevole. Ciò dipende dal fatto che negli ultimi venti anni, soprattutto
(con una vorticosa accelerazione, peraltro, negli ultimissimi anni), si
è venuta delineando, in dottrina, una varietà di posizioni
estremamente articolata, che non si presta a essere facilmente ricomposta in un
fedele quadro rappresentativo.
Affrontare un tempo la questione della
tutela dei c.d. contratti innominati significava tracciare una storia che si
muoveva lungo binari di sostanziale continuità, che, partendo da Labeone
e passando per il tramite di Aristone, giungeva senza significativi sconvolgimenti
sino all’età dei giuristi severiani, là dove Ulpiano, in
particolare, si sarebbe fatto carico di raccogliere l’eredità dei
propri predecessori, registrandone apporti e contributi in uno straordinario
sforzo ricostruttivo, al quale non doveva essere (probabilmente) del tutto
estraneo il proposito di arrivare a una sintesi innovativa (Ulp. 4 ad ed. D.2.14.7.2)[1].
Continuità, si diceva, che si
traduceva in una identità di dottrine, ma anche di logiche processuali:
di dottrine, perché nel solco della definizione labeoniana del contratto
di Ulp. 11 ad ed. D.50.16.19[2],
si sarebbe inserita la messa a punto aristoniana del sun£llagma attestata
in Ulp. 4 ad ed.[3],
di logiche processuali, perché nella prospettiva di un’assoluta
uniformità sul piano dell’individuazione dei meccanismi di tutela
si sarebbe mossa l’intera giurisprudenza classica.
Occuparsi degli aspetti processuali
legati alla tutela delle conventiones
sine nomine, significava sostanzialmente essere chiamati a confrontarsi con
il tema dell’actio o agere praescriptis verbis[4],
pur nella molteplicità lessicale con cui a tale rimedio processuale
avrebbero fatto riferimento le fonti (actio
civilis incerti, actio in factum
civilis, actio in factum). Per
quanto molti fossero (allora come oggi) i punti di discussione sul piano della
struttura[5],
della denominazione o ancora della natura di tale strumento processuale[6],
si era però fondamentalmente d’accordo nel guardare ad esso come a
un unico modello di giudizio.
Rimanevano ovviamente la condictio, l’actio de dolo o ancora, e soprattutto, l’actio in factum (ai sensi di Gai 4.46): ma si trattava di strumenti
che operavano piuttosto sul diverso piano extracontrattuale, diretti alla
ripetizione del dato o comunque al soddisfacimento del solo interesse c.d.
negativo[7],
ai quali si sarebbero principalmente affidati giuristi di area sabiniana, che,
al pari di Salvio Giuliano (Ulp. 4 ad ed.
D.2.14.7.2)[8],
si sarebbero opposti tenacemente alla possibilità di realizzare un
allargamento della sfera contrattuale al di là delle figure tipiche
riconosciute a livello edittale[9].
Si trattava forse, o magari
probabilmente, di una semplificazione; se non altro, per quanto riguarda la
contrapposizione, venutasi a delineare soprattutto a partire da Pernice, tra
‘Schadenstheorie’ sabiniana e la più innovativa
‘Vertragstheorie’ proculeiana, secondo un’impostazione
dogmatizzante che può dirsi oggi in larga misura superata[10]:
per lo meno, se non la si osserva guardando alla più ristretta
prospettiva giulianea, rispetto alla quale, l’opinione di un
atteggiamento di chiusura di fronte alla possibilità di una
ridefinizione dell’area dei rapporti contrattuali, continua a far presa
su un nutrito numero di autori[11], i quali non
riescono evidentemente a sottrarsi del tutto alle suggestioni esercitate da
Ulp. 4 ad ed., senza però
riflettere, sino in fondo, sulle implicazioni che ciò rischia di
comportare sulla tenuta di un più generale impianto ricostruttivo, che,
a differenza di quanto ritenesse la dottrina del secolo XIX[12],
tende invece a ricondurre (come si è del resto avuto modo di osservare)
già a Labeone[13] i primi
riconoscimenti, sul piano dello ius
civile, del fenomeno dell’atipicità contrattuale[14].
Pur coi limiti denunciati, tale quadro
d’insieme presentava comunque il vantaggio di offrire una
rappresentazione estremamente omogenea.
Col tempo gli studiosi hanno ritenuto,
non senza ragioni di fondo, inappagante questa omologazione sul piano
processuale e hanno cominciato a prendere in considerazione, senza riserve,
l’ipotesi che dietro le diverse e ulteriori denominazioni, con cui un
tempo si riteneva venisse indicata l’actio
o agere p.v., si
nascondesse in realtà una varietà di forme di intervento. Si
è così pensato all’esistenza (perlomeno) di due distinti
indirizzi processuali: il più antico agere
p.v. labeoniano, detto anche actio
civilis in factum o semplicemente in
factum (nella generica accezione di azione congegnata per il caso concreto
ai sensi di Pap. 8 quaest.
D.19.5.1pr.)[15],
al quale si sarebbe andata ad affiancare la più recente actio civilis incerti aristoniana.
Com’era in parte forse anche inevitabile, un tale processo di revisione
non si è arrestato ai soli aspetti processuali, ma si è esteso al
sottostante e connesso versante sostanziale, col risultato di revocare in
dubbio l’ipotesi stessa di una uniformità di dottrine.
Come si accennava, questa idea di fondo
ha sostanzialmente innescato un processo estremamente insidioso, che ha finito
per condurre a diverse forme di contaminazione, con conclusioni non sempre
compatibili con le premesse da cui hanno tratto origine. La principale e
più evidente conseguenza è che il panorama dottrinale che si
offre oggi allo studioso si presenta molto incerto, proprio perché le
posizioni della dottrina, pur muovendosi spesso all’insegna di una
direttrice comune, hanno però assunto (e non raramente) connotazioni
estremamente specifiche che rendono non poco difficoltoso ogni tentativo di
sintesi.
Per quanto non manchino studiosi, anche
autorevolissimi, che si mantengono nel solco dell’insegnamento che
potremmo definire ‘tradizionale’, il quale, come si è detto,
si orienta nel senso di una sostanziale invarianza di dottrine[16],
l’opinione oggi prevalente, grazie anche allo straordinario peso
scientifico dei suoi principali sostenitori (Burdese, Gallo, e in misura
diversa Talamanca), tende ad attribuire a Labeone e Aristone
l’elaborazione di due differenti teoriche, nettamente distinte quanto a
modalità e presupposti d’azione.
Mentre il giurista augusteo avrebbe
riconosciuto tutela alle convenzioni atipiche riconducibili allo schema
dell’ultro citroque obligatio,
da intendersi (in adesione alla dottrina maggioritaria)[17]
nel senso di atto (a base consensuale)[18] anche solo
potenzialmente produttivo di obbligazioni in capo a entrambe le parti (Ulp. 11 ad
ed. D.50.16.19)[19], concedendo a tal
fine un’azione in factum (in
quanto concessa per il caso concreto, come si è detto) da congegnarsi sul
modello dei iudicia bonae fidei[20],
Aristone al contrario, attraverso una profonda rivisitazione della dottrina
labeoniana[21],
alla quale, a detta di taluni, non sarebbe mancato uno spirito polemico nei
confronti del proprio predecessore[22], avrebbe
«più largamente»[23] legato la tutela
alla presenza di una corrispettività delle prestazioni (a condizione
però che almeno una delle due attribuzioni patrimoniali avesse trovato
esecuzione)[24],
accordando, se non addirittura introducendo[25], un’actio civilis incerti di stretto diritto[26].
Molti sono i punti che rimangono
fortemente dibattuti in relazione a entrambe le forme di tutela. Quanto
all’agere praescriptis verbis,
guardando al profilo strutturale dell’azione, continua a essere oggetto
di accese discussioni se l’indicazione del fatto fondativo della pretesa
si trovasse in una demonstratio
prescritta all’intentio[27],
o piuttosto in apposita praescriptio
apposta prima della iudicis nominatio[28], o magari anche inserta loco demonstrationis (e dunque al posto e con funzione di demonstratio)[29].
Egualmente incerto è se si trattasse di azione la cui concessione
dovesse ritenersi spettante di diritto o al contrario rimessa a una valutazione
discrezionale del magistrato giusdicente[30]; o ancora se si
fosse in presenza di una tecnica di adeguamento di specifico modello edittale
o, piuttosto, di uno schema processuale generale adattabile al caso specifico[31].
Nonostante le contrarie indicazioni che sembrerebbero doversi ricavare dalla
lettura di J.4.6.28 [32], non parrebbero
esservi diversamente più incertezze sul fatto che si trattasse di
‘azione’ ordinariamente caratterizzata dalla presenza di un oportere ex fide bona[33].
Per ciò che concerne, invece,
l’actio civilis incerti aristoniana,
se è possibile registrare un generale accordo nel ritenerla (come si
è accennato) di stretto diritto[34] e spettante iure civili[35],
non vi è però unità di vedute riguardo la concreta
formulazione che avrebbe assunto il programma di giudizio: controverso rimane
sia l’inserimento all’interno della condemnatio di un’apposita taxatio, da enunciarsi secondo il modello di Gai 4.43, 51 (‘dumtaxat X milia’)[36],
quanto la presenza di una demonstratio
descrittiva della res de qua agitur:
benché, con riferimento a quest’ultimo aspetto, debba ritenersi
prevalente l’opinione di considerare l’azione astratta[37],
con la possibilità però di inserire, a migliore precisazione
della pretesa, una praescriptio
anteposta alla formula[38]. Incerta, infine,
anche la natura edittale dell’azione[39].
Non è questa la sede per
impegnarsi in una specifica analisi dei diversi modelli contrattuali prima
indicati (ed in particolare di quello aristoniano) o in una valutazione
dell’attendibilità complessiva di questa ricostruzione, rispetto
alla quale sono comunque molte e serie le ragioni di perplessità, anche,
e forse soprattutto, sul versante processuale[40]. Piuttosto
è il caso di provare a riflettere, su un piano più generale,
sulle specificità delle logiche argomentative che si vorrebbero imputare
ai due giuristi e sui riflessi che ne sarebbero scaturiti in ambito
processuale.
A questo proposito occorre innanzitutto
considerare che, se indubbiamente l’elaborazione della dottrina
sinallagmatica aristoniana appare appositamente concepita nell’ottica di
offrire un contributo al tema della tutela dell’atipicità contrattuale
(perlomeno facendo affidamento sul resoconto ulpianeo), lo stesso non sembra
potersi affermare, quantomeno non con la medesima evidenza, per la definitio labeoniana, se non ignorando
che la testimonianza ulpianea non presenta alcun serio elemento che giustifichi
l’idea di una relazione funzionale con il tema
dell’atipicità contrattuale[41].
Se si è generalmente disposti ad
assegnare un rilievo così importante a Ulp. 11 ad ed. D.50.16.19, lo si deve (unicamente) alle suggestioni che
scaturiscono dalle informazioni contenute in Ulp. 4 ad ed. D.2.14.7.2, riuscendo comprensibilmente difficile ammettere
che il richiamo in entrambe le testimonianze alla medesima nozione (sun£llagma) sia da considerare il risultato di una
singolare coincidenza[42]. Tanto più
che Aristone avrebbe avuto una diretta e approfondita conoscenza del pensiero
di Labeone[43].
Ciò nonostante, l’opinione
oggi decisamente prevalente è quella di vedere (anche) nella definitio labeoniana il tentativo di una
precisazione concettuale consapevolmente orientata alla soluzione della
questione della tutela delle convenzioni atipiche[44].
In sostanza il giurista augusteo avrebbe messo a punto un «canone d’interpretazione»
col preciso scopo di assicurare una «estensione
dottrinale a nova negotia del iudicium ex fide bona»[45].
Al riguardo sembrano concordare sia
quanti si orientano per un’interpretazione di tipo oggettivo della definitio labeoniana[46],
sia quanti nel modello definitorio intravedono un più diretto
riferimento al momento soggettivistico del consenso[47].
Se non ci si arresta però a una
prima lettura, ma si va oltre le generiche formulazioni prima riportate, il
punto di vista concretamente adottato dagli autori non sembra sempre
corrispondere pienamente con l’ipotesi di una nozione pragmaticamente
orientata.
Anzi, se guardiamo al ruolo che in
concreto tale elaborazione avrebbe assunto sul piano della valutazione del tipo
di tutela da accordare di fronte a operazioni negoziali non del tutto
riconducibili all’interno dei modelli edittali, dobbiamo piuttosto
constatare come spesso, da parte degli stessi studiosi, si sia sostanzialmente
finito per ridimensionarne il rilievo. Volendo prescindere da certe commistioni
concettuali[48],
il percorso argomentativo attribuito al giurista augusteo (e più in
generale a quanti ne avrebbero recepito l’impostazione) sembra in effetti
corrispondere ad altri meccanismi giuridici di riconoscimento, che adottano
piuttosto gli schemi di un ragionamento di tipo analogico[49],
e dunque di una tecnica argomentativa il cui nesso di dipendenza rispetto alla
predisposizione di una categoria generale si sarebbe rivelato sensibilmente
affievolito rispetto a uno sviluppo logico di tipo sillogistico-sussuntivo.
E del resto, in non rare occasioni, sono
stati gli stessi autori a insistere sul fatto che a un riconoscimento in
funzione della sussumibilità della fattispecie concreta
all’interno del modello generale di synallagma
si sarebbe arrivati solo con Aristone, il quale avrebbe per l’appunto
abbandonato l’impostazione labeoniana ancora legata al
‘Typenzwang’[50], per adottare un
più innovativo approccio risolutivo, diversamente impostato sulle
specificità proprie del ragionamento sillogistico-deduttivo[51].
Tanto per limitarsi al panorama
scientifico degli ultimi decenni[52], indicativa da
questo punto di vista può considerarsi la posizione assunta da Burdese,
che tra gli studiosi recenti si è distinto per aver rappresentato uno
dei maggiori e, senza dubbio, più autorevoli sostenitori della
connessione della definitio
labeoniana con il tema della tutela delle convenzioni atipiche. Per quanto
l’autore ponesse una relazione tra il «riconoscimento di tutela a
convenzioni obbligatorie atipiche» e «la riconducibilità di
esse, quantomeno per analogia, al concetto di contratto tecnicamente da lui
delimitato ai contratti consensuali a prestazioni reciproche»[53],
e dunque sembrasse sostanzialmente legare il riconoscimento della fattispecie
atipica a una sua riconducibilità (anche solo parziale, approssimativa)[54]
all’interno della nozione di ultro
citroque obligatio[55], di fatto
però scivolava verso una prospettiva di tipo analogico, richiedendo una
più concreta somiglianza con uno specifico modello contrattuale, ulteriormente supportata, peraltro, dalla
predisposizione a livello edittale di apposita azione di buona fede.
Ciò ha indotto lo studioso a
spiegare la decisione adottata da Giuliano in Ulp. 4 ad ed. D.2.14.7.2 di concedere una semplice actio in factum (ai sensi di Gai 4.46) — nel presupposto,
naturalmente, di una sua adesione alla prospettiva labeoniana[56]
— con l’«assenza di una affinità della fattispecie con
ipotesi di contratti tipici»[57]; o ancora a mettere in relazione il ricorso da parte di Labeone all’actio de dolo, anziché all’a.p.v. in Ulp. 11 ad ed. D.4.3.9.3 [58], con la «vicinanza
della convenzione atipica a una caso, oltreché di mandato, di deposito,
per il quale ultimo ancora non era stata introdotta una tutela di buona fede
che potesse far da modello all’agere
praescriptis verbis»[59].
È appena il caso di precisare che
analogia e ragionamento sillogistico-deduttivo costituiscono metodiche
argomentative che non presentano reali profili di incompatibilità sul
versante del loro impiego e che anzi possono tranquillamente coesistere, anche
là dove trovino applicazione sul medesimo piano del riconoscimento, non
essendovi naturalmente alcuna possibilità di interferenza in caso di
operatività sui differenti piani ‘ricognitivo’ e
‘regolativo’[60].
L’incongruenza nasce, però,
nel momento in cui si pretende di assegnare (come in effetti è avvenuto)
alla preventiva individuazione di tipo analogo, peraltro edittalmente tutelato
mediante iudicium bonae fidei, una
funzione sostanzialmente pregiudiziale ai fini del riconoscimento, non tenendo
evidentemente conto del fatto che l’impiego di un approccio argomentativo
fondantesi sulla riconduzione del caso atipico all’interno di preordinata
categoria concettuale (qui contrattuale) avviene attraverso l’adozione di
un percorso logico-argomentativo che, per definizione, non può che
prescindere dall’individuazione di un referente edittale (peraltro
qualificato sul piano delle modalità di tutela: con oportere ex fide bona), essendo piuttosto richiesta la verifica del
pieno soddisfacimento dei requisiti costitutivi della nozione, così come
preventivamente delineati in sede di perimetrazione concettuale della stessa.
Non ci si è inoltre avveduti che,
impostata in questi termini la questione, si è di fatto svuotato di
significato il senso stesso dell’operazione definitoria labeoniana, la
quale sarebbe rimasta paradossalmente inutilizzabile proprio nei casi (di
atipicità in senso stretto) in cui si sarebbe invece rivelato,
più che utile, addirittura indispensabile il ricorso
all’elaborazione di una nozione generale di contratto, circoscrivendone
invece l’applicazione in contesti negoziali c.d. di ‘confine’[61]
(caratterizzati da vicinanza a uno o più tipi contrattuali tutelati
mediante iudicia bonae fidei),
rispetto ai quali la questione della predisposizione di un apposito programma
di giudizio sarebbe stata risolvibile anche in assenza di preventiva
determinazione di una nozione contrattuale da prendere come modello di
riferimento.
È bene osservare, anche per
comprendere le ragioni di fondo che hanno indotto Burdese a conclusioni
certamente inattese rispetto alle premesse da cui l’autore muoveva, che
il problema qui posto si ricollega al tema molto dibattuto, come si accennato,
della ‘natura’ dell’actio
p.v. È fortemente controverso se questa costituisse un modello
generale applicato al caso concreto[62], che non sarebbe
improprio chiamare ‘ad exemplum
di tipo generico’, o se piuttosto rappresentasse una forma di adeguamento
di azione edittale tipica, che si potrebbe diversamente denominare ‘ad exemplum di tipo specifico’[63].
Per quanto sia sempre difficile
cimentarsi in precise valutazioni di tipo ‘statistico’, sembra non
del tutto irragionevole registrare una preminenza in dottrina della seconda
ipotesi (così, pur in quadro espressivo che talvolta poteva suggerire
diverse conclusioni, anche Burdese)[64], che, sulla scia
di Cuiacio[65],
vede nell’a.p.v. un adattamento formulare di azioni tipiche: nel
senso che, in assenza di uno specifico rimedio processuale i giuristi avrebbero
suggerito al pretore di accordare l’azione prevista a livello edittale
per la fattispecie contrattuale più vicina, opportunamente modificata in
aderenza al caso concreto[66].
Sulla formazione di una tale opinione
hanno pesato, come si può intuire, vari fattori.
Innanzi tutto l’aver scambiato la
prospettiva di un modello generale da causalizzare in concreto, con quella di
un’azione (‘tipica’) posta a generale tutela dei contratti
innominati, cui sarebbe approdato il diritto bizantino, con
un’impostazione che però, da un lato, confonde la questione della
generalità del modello con quella della tipicità
dell’azione[67],
dall’altro, si basa su un’interpretazione che, attraverso una serie
di evidenti scivolamenti semantici, finisce per interpretare la ‘genik»
¢gwg»’
(l’azione generale bizantina), nel senso (diverso e a lei estraneo) di
azione dall’impiego ‘generalizzato’[68],
attribuendo così agli antecessores
un avanzamento di prospettiva in realtà smentito dalle stesse fonti
bizantine, le quali semmai testimoniano una modesta estensione
dell’ambito applicativo dell’azione, sempre legata, però, al
presupposto di una datio ob causam (o
sub certa lege).
In secondo luogo, aver ritenuto di poter
riproporre in materia di atipicità contrattuale gli stessi meccanismi di
intervento documentati in tema di damnum
iniuria datum, ove il risultato di un allargamento della sfera
dell’illecito aquiliano sarebbe stato raggiunto (anche) attraverso la
concessione di actiones ad exemplum (legis Aquiliae), in adeguamento della
struttura formulare tipica dell’azione, nel presupposto,
com’è noto, di un mantenimento della natura civile della stessa
(c.d. ‘klageerweiternden actiones
in factum’)[69].
Non si è però considerato
che non sempre doveva risultare praticabile un accostamento con un contratto
tipico. Anzi, in molti casi il ricorso all’a.p.v. era determinato proprio dalla difficoltà di giungere
a un esatto inquadramento della concreta fattispecie negoziale, presentando
questa analogie con più di uno schema contrattuale tipico (c.d.
‘Die Zwischennominatkontrakte’)[70]. Ed è
evidente che, almeno nelle ipotesi appena indicate, l’a.p.v. non avrebbe potuto prendere a
riferimento un preciso modello processuale edittale[71].
Se guardiamo peraltro alle concrete modalità
con cui sarebbe dovuto avvenire l’indicato intervento adeguativo, potremo
renderci conto come in realtà la formula, che si sarebbe venuta
così a configurare, avrebbe finito per presentare un impianto giudiziale
per nulla distinguibile rispetto a quello di un’azione generale. Si
considerino, da questo punto di vista, le riflessioni di Burdese e Gallo. Pur
con diverse conclusioni sul piano dell’individuazione del segmento
formulare in cui si sarebbe dovuto procedere alla descrizione del fatto
(atipico) posto a fondamento della pretesa (se in una praescriptio anteposta alla formula, secondo quanto ipotizzato da
Gallo[72]
o in una praescriptio inserta loco demonstrationis — in
luogo e funzione di demonstratio
— secondo il diverso convincimento espresso da Burdese)[73],
è opinione di entrambi gli autori che tale intervento si sarebbe dovuto
intendere in sostituzione della demonstratio
tipica[74].
Solo che a questo punto riesce difficile
comprendere in che termini l’azione in questione dovrebbe considerarsi
congegnata su di uno specifico programma di giudizio, più di quanto la
si potrebbe ritenere modellata su qualsiasi altro iudicium bonae fidei. Il punto è che, una volta che si fosse
proceduto alla soppressione della demonstratio
tipica o, per meglio dire, che si fosse intervenuti avendo cura di togliere
ogni riferimento al rapporto giuridico sottostante (espresso dal nomen contractus), tutti questi giudizi
avrebbero finito per presentare la medesima struttura. Perché si possa
continuare a discutere di adattamento di uno specifico rimedio processuale (in
senso proprio), bisognerebbe piuttosto prendere in considerazione
l’eventualità di un adeguamento della struttura tipica non
incisivo però sulla identità del mezzo. Al di fuori dell’ipotesi
di un mantenimento del verbo espressivo dello schema contrattuale tipico preso
a riferimento, non sembra sussistano molti margini per continuare a difendere
l’idea di un’azione ‘ad
exemplum’ (di tipo specifico).
Per le ragioni indicate, non è
del tutto inutile provare a riflettere sui meccanismi di funzionamento delle
diverse tecniche argomentative, allo scopo di verificarne la diversa
funzionalità sul duplice piano del riconoscimento (attribuzione natura
contrattuale a operazione atipica) e della tutela (individuazione del mezzo processuale
e della disciplina da applicare), senza trascurare naturalmente di valutare le
possibili interferenze tra le due prospettive.
A tal fine è il caso di provare a
schematizzare i rispettivi sviluppi sul piano logico-argomentativo, per poi
tentare di ricostruire una sorta di ‘processualizzazione’ del
percorso di individuazione dello strumento processuale da accordare per il caso
specifico.
Lo stabilire se una fattispecie atipica
sia riconducibile all’interno di uno schema prefissato rappresenta
un’attività di logica giuridica che opera per il tramite di schemi
e meccanismi assai differenti da quelli analogici, quali la sussunzione
all’interno di un paradigma concettuale preordinato: nel nostro caso la
nozione di contractus o di sun£llagma.
Adeguato alle diverse (tali o supposte)
vedute labeoniana e aristoniana, il percorso logico potrebbe essere così
rispettivamente riassunto:
Il contratto è l’ultro
citroque obligatio Nel caso esaminato vi è una ultro
citroque obligatio Il caso esaminato è un
contratto |
Il sun£llagma consiste nel dedi tibi rem ut mihi aliam dares, dedi ut aliquid facias Nel caso esaminato vi è un dedi ut aliquid facias. Il caso
esaminato è un sun£llagma |
Si tratta con ogni evidenza di un
ragionamento di tipo sillogistico, che muovendo da una nozione generale
(‘il contratto è l’ultro
citroque obligatio’; il sun£llagma consiste nel dedi tibi rem ut mihi aliam dares, dedi ut aliquid facias) conduce
all’acquisizione di conclusioni di carattere particolare (‘il caso
esaminato è un contratto; il caso esaminato è un sun£llagma’)[75].
La prima considerazione da fare in
proposito è che l’impiego di una tale prospettiva non avrebbe
fornito precise indicazioni (per lo meno non esplicitamente) sul piano
dell’individuazione del programma di giudizio da adottare o del regime
giuridico da applicare nella soluzione della controversia, per quanto almeno la
prima questione sarebbe stata facilmente risolvibile attraverso il ricorso a un
ulteriore ragionamento deduttivo, svolto però sul versante processuale,
che, tenendo conto delle diverse prospettive (per lo più) attribuite ai
due giuristi, si potrebbe così sintetizzare:
Ogni contratto
(ultro citroque obligatio) è
tutelato con azione di buona fede Il caso
specifico è un contratto (ultro
citroque obligatio) Il caso
specifico sarà tutelato con azione di buona fede |
Aristone
concede a tutela del sun£llagma l’actio civilis
incerti Il caso esaminato è un sun£llagma Il caso
esaminato andrà tutelato con l’actio civilis incerti |
Non è il caso qui di affrontare
l’alternativa aristoniana. A tal fine sarebbe indispensabile una
più attenta valutazione degli argomenti sui cui si regge l’ipotesi
di una diversificazione dei rimedi processuali nei termini prima descritti,
che, come si è accennato, presenta più di un significativo
profilo problematico, anche sul piano della non facile determinazione dei
rapporti tra actio civilis incerti e condictio incerti[76].
Una riflessione in ogni caso va fatta.
Si deve cioè osservare che mentre nell’impostazione labeoniana
all’acquisizione dell’informazione processuale (‘il caso
specifico sarà tutelato con azione di buona fede’) si sarebbe
potuti facilmente pervenire sulla base di una mera osservazione empirica
— l’essere tutti i contratti (rectius obligationes ultro citroque) tutelati mediante azioni di buona fede
—, e dunque indipendentemente da una più precisa conoscenza degli
aspetti processuali della dottrina del giurista augusteo (e ciò
permetterebbe anche di comprendere attraverso quale percorso logico lo stesso
Labeone sarebbe approdato all’elaborazione, o comunque, all’impiego
di un modello processuale impostato sullo schema dei bonae fidei iudicia), nella diversa prospettiva aristoniana la
medesima informazione sarebbe stata invece ricavabile unicamente in via, per
così dire, precognitiva: il che, come si intuisce, pone seri
interrogativi sul piano della logica argomentativa seguita da Aristone nella
scelta di abbandonare l’approccio processuale labeoniano, per orientarsi
(non ci capisce in base a quali riflessioni) verso un nuovo modello giudiziale
dai tratti così insoliti e innovativi sul piano della configurazione
dell’impianto processuale, privo soprattutto di riscontri applicativi
nella pur ampia ed eterogenea area di tutela della tipicità contrattuale[77].
Come si diceva, conviene piuttosto
concentrare la nostra attenzione sulla sola prospettiva labeoniana. La prima
considerazione da fare in proposito è che non si sarebbe trattato di
azione ricavata su un tipo specifico di azione (seppur di buona fede), ma sul
modello stesso dei iudicia bonaei fidei,
per cui non sarebbe improprio discutere di azione ad exemplum di tipo generico, con una soluzione che d’altra
parte appare decisamente più coerente con un’impostazione
ricognitiva operante attraverso il ricorso a una logica deduttiva di
predeterminato ‘Oberbegriff’.
Si potrebbe riassumere: generale la
nozione, generale l’azione. Dal punto di vista del regime giuridico, in
virtù della presenza della clausola ex
fide bona si sarebbe venuta (innanzi tutto) a delineare una situazione per
certi versi accostabile, quantomeno sul piano della logica applicativa, allo
strumento dell’analogia iuris[78],
nel senso che avrebbero trovato applicazione in via deduttiva[79]
regole e principi variamente ricollegabili al generale principio di buona fede,
e che appunto costituivano il c.d. regime (comune) dei iudicia bonae fidei[80].
In assenza di un nomen iuris qualificante la res
de qua agitur al giudice sarebbe però mancata una precisa griglia
normativa alla quale rifarsi per una puntuale determinazione del regime da
applicare: soprattutto sul piano dell’individuazione dei criteri di
responsabilità o di accollo del periculum.
La mancanza di un referente ‘normativo’ non avrebbe naturalmente
impedito l’elaborazione, anche in virtù del criterio della bona fides[81],
di una disciplina appositamente calibrata sulla specificità
dell’operazione negoziale e che dunque tenesse esattamente conto dei sottostanti interessi dei contraenti.
Allo stesso fine avrebbe potuto
però rivelarsi, se non indispensabile, come si è detto,
certamente utile provare a ricercare una più specifica somiglianza con
fattispecie contrattuali tipiche, venendo così a configurarsi una
situazione simile a quella della c.d. analogia
legis, operante attraverso un apposito intervento valutativo del giudice,
in assenza di preordinate indicazioni a livello di schema formulare.
Significativo da questo punto di vista
potrebbe ritenersi
D.19.4.2 (Paul. 5 ad Plaut.): Aristo ait, quoniam permutatio vicina esset
emptioni, sanum quoque furtis noxisque solutum et non esse fugitivum servum
praestandum, qui ex causa daretur.
Il brano deve buona parte della propria
notorietà al tratto finale ‘qui
ex causa daretur’ in cui molti, seppure da posizioni diverse e spesso
contrastanti, hanno creduto di poter intravedere un cenno alla dottrina della causa di Ulp. 4 ad ed. D.2.14.7.2 [82], con una (per la
verità) incerta[83] proposta
esegetica che sembra unicamente sorretta dal desiderio di volere trovare
elementi di conferma alle diverse ipotesi avanzate sul piano
dell’interpretazione della nozione aristoniana di causa (in chiave funzionale[84] o di precisazione
dei meccanismi perfezionativi delle vicende contrattuali atipiche)[85],
e che non tiene invece conto della limpidità espressiva della
testimonianza paolina, ove, anche a non voler prendere in considerazione la
possibilità di guasti sul piano della tradizione testuale[86],
appare comunque evidente che con l’impiego del sintagma ‘ex causa’ ci si sta qui riferendo
al titolo (cioè alla permuta, più che alla funzione della stessa)[87]
in base al quale avviene la datio[88].
Ciò che comunque in questa sede
conta osservare è che l’individuazione, da parte di Aristone, di
una relazione analogica[89] con la
compravendita (‘quoniam permutatio
vicina esset emptioni’) non doveva risultare qui finalizzata al
riconoscimento della contrattualità dell’operazione, ma doveva
piuttosto mirare alla concreta determinazione del contenuto del rapporto
obbligatorio[90],
allo scopo (e col risultato) di estendere così anche alla permuta
l’obbligo (qui gravante su entrambi i contraenti)[91]
di prestare garanzia che il servo permutato, trasferito a titolo di permuta (qui ex causa daretur), non risultasse
affetto da vizi: ‘sanum quoque
furtis noxisque solutum et non esse fugitivum’.
Si tratta di un dato che non sempre
è stato esattamente valutato e che ha indotto un numero non trascurabile
di studiosi a denunciare uno scarto metodologico rispetto alla prospettiva di
Ulp. 4 ad ed., se non addirittura
un’insopportabile stonatura logica»[92], da risolversi
attraverso la congettura di un intervento compilatorio[93],
o di un’evoluzione del punto di vista aristoniano[94],
o ancora di un’apertura del giurista traianeo all’impiego
dell’actio in factum labeoniana
«a estensione della tutela edittale» di contratti tipici[95].
Incongruenza che andrebbe certamente a
configurarsi nell’ipotesi si potesse dimostrare — ma il brano non
lo consente — l’adozione da parte di Aristone di un approccio
analogico anche sul (logicamente e cronologicamente precedente) versante del
riconoscimento. Non che le due prospettive siano, come si accennava,
incompatibili: solo che ci sarebbe da chiedersi quale utilità in
concreto avrebbe dovuto presentare la ricerca di affinità con uno
specifico modello edittale (emptio-venditio) in relazione a una vicenda
negoziale che senza dubbio rientrava all’interno della nozione
sinallagmatica messa a punto dal giurista traianeo e di cui anzi costituiva una
delle principali tipologie di riferimento: non essendoci, da questo punto di
vista, seri elementi per mettere anche solo in discussione l’esistenza di
una piena corrispondenza tra la permuta e lo schema del do ut des (dares)
richiamato a livello esemplificativo da Aristone in Ulp. 4 ad ed. D.2.14.7.2, secondo quanto si è talvolta invece
ritenuto, in base a un risalente[96] (ma per lo
più isolato) indirizzo interpretativo, che ha provato a delimitare la
nozione di permutatio ai soli casi di
scambio immediatamente e pienamente attuato, con una proposta che anche in
tempi non così distanti aveva trovato qualche sostenitore, oltralpe[97].
Si legga appunto il brano:
D.2.14.7.2 (Ulp. 4 ad ed.): Sed si in alium contractum res non transeat, subsit tamen
causa, eleganter Aristo Celso respondit esse obligationem. Ut puta dedi tibi
rem ut mihi aliam dares, dedi ut aliquid facias: hoc sun£llagma esse et hinc nasci civilem
obligationem.
Un ragionamento analogico, seguendo
quantomeno la tradizionale configurazione schematica già adottata da
Aristotele[98],
presenterebbe piuttosto il seguente sviluppo
La compravendita
è un contratto.
Il caso esaminato
è simile alla compravendita.
Il caso esaminato
è dunque un contratto
Volendo adeguare il ragionamento alla
più probabile sequenza logica e cronologica con cui il giurista avrebbe
impostato la propria analisi valutativa (dovendo ogni considerazione sulla
natura contrattuale della compravendita essere rimandata, per ovvie ragioni, a
una fase successiva a quella dell’avvenuto accertamento di una relazione
di somiglianza con il caso esaminato) si sarebbe detto ancor meglio:
Il caso esaminato
è simile alla compravendita.
La compravendita
è un contratto.
Il caso esaminato
è dunque un contratto
A differenza dal ragionamento
sillogistico, che costituisce l’espressione più appropriata di un
sapere scientifico, questo modo di procedere può essere considerato un
aspetto peculiare di una logica argomentativa ‘debole’[99],
che si muove attraverso il raffronto con casi paradigmatici
‘certi’, in cui, piuttosto che ricorrere all’applicazione, in
via deduttiva, di categorie generali ben delineate e salde, si preferisce
procedere di passo in passo, partendo da punti di riferimento ritenuti sicuri,
indiscussi, per approdare gradualmente a nuove acquisizioni, anch’esse
potenzialmente suscettibili di una valenza paradigmatica, e dunque in grado di
tradursi in nuovi punti fermi, di appoggio, dai quali procedere oltre, in un
continuo percorso esplorativo.
Sull’impiego da parte dei giuristi
romani di tale forma argomentativa non possono esservi dubbi[100].
Né può da questo punto di vista accogliersi l’idea di
quanti ritengono incompatibile la prospettiva analogica, in senso genuino,
nell’ambito di un’esperienza giuridica che non aveva ancora
maturato una concezione rigorosamente normativistica e statualistica del
fenomeno giuridico[101].
Come ogni categoria giuridica anche
quella analogica non è chiaramente riconducibile a un’unica
configurazione dogmatica[102], risentendo in
particolare dei concreti assetti che gli ordinamenti giuridici hanno variamente
assunto o sono in grado di assumere sul piano soprattutto della relazione tra i
connessi fenomeni di produzione e interpretazione del diritto[103].
Questione, questa, sulla quale in definitiva si innesta l’acceso
dibattito sulla natura creativa o meramente ricognitivo-interpretativa del
ragionamento analogico[104], e più in
generale del fenomeno interpretativo. Così come d’altra parte il
richiamo all’analogia, quale strumento per colmare in via autointegrativa
lacune dell’ordinamento[105], costituisce in
effetti un evidente corollario del dogma della completezza[106],
e dunque dell’autosufficienza dell’ordinamento: dogmi e principi
nei quali trovano d’altra parte espressione sottostanti e non
trascurabili istanze di ordine ideologico[107].
Non è pertanto immotivato il
richiamo di quanti invitano a considerare con maggiore consapevolezza il
diverso atteggiarsi dell’analogia nell’ambito di un sistema
normativo rispetto a un sistema c.d. giurisprudenziale[108].
Si tratta di questioni serie, che
incidono, come si è detto, sui «limiti formali»[109]
nei quali è chiamato ad operare l’interprete; alle quali non sono
certamente estranee precise (se non forse più propriamente, pretese)
implicazioni sul piano della configurazione del procedere per analogia in
termini di attività creativa o meramente interpretativo-applicativa[110];
ma che devono ritenersi comunque assolutamente non incisive sull’identità
della struttura logico-argomentativa[111].
A un’acquisizione di tale tecnica
si dovette probabilmente arrivare attraverso quel più generale processo
di recezione della cultura greca che soprattutto a partire dalla metà
del primo secolo a. C. portò il mondo romano a confrontarsi sempre
più fittamente con le più sofisticate nozioni logiche e
argomentative messe a punto dal pensiero filosofico greco.
Il ragionamento analogico era certamente
noto ad Aristotele[112], il quale si
riferiva a esso, non attraverso la nozione di analogia, com’è
stato da tempo giustamente evidenziato[113],
ma mediante il termine par£deigma[114]. Si trattava in particolare di un
procedimento logico con un profilo specifico rispetto ai ragionamenti di tipo
induttivo (™pagwg») e deduttivo, per quanto non siano mancati accostamenti
all’induzione (c.d. imperfetta o incompleta)[115],
sulla base di taluni spunti già presenti nello stesso pensiero
aristotelico (An Pr. II.24; 69 a, 17 e 20; Rhet. 1.2 1356b, ll. 2-6 ‘par£deigma
d ™pagwg¾n ·htorik»n’)[116].
Mentre l’induzione procede dal particolare al generale, la deduzione dal
generale al particolare, il ragionamento paradigmatico, muove dal particolare
al particolare[117]; corrisponde a
quel modello logico-argomentativo che nel linguaggio della logica scolastica
verrà indicato come exemplum o
argumentatio per exemplum[118]
(o anche, come si è visto, inductio
imperfecta)[119].
Al pari del ragionamento entimematico (c.d.
sillogismo imperfetto o retorico)[120] costituisce un
ragionamento composto[121], o, come si
è efficacemente affermato, «una formulazione abbreviata di un
ragionamento complesso»[122]. Se, infatti,
nella sua più semplice struttura schematica esso può esprimersi
nella assai nota formulazione: Q è P; S è simile a Q; S è
P, è anche vero però che l’affermazione S è simile a
Q riassume in sé il risultato di un non formalizzato processo
argomentativo a sua volta traducibile nei termini: S è M; Q è M,
in cui M indica l’elemento comune su cui si è impostata la
relazione di somiglianza, con la conseguenza che il ragionamento per analogia
potrebbe essere diversamente descritto attraverso il ricorso alla differente, e
meno consueta, enunciazione: Q è P; Q è M, S è M, S
è P, nella quale, come è stato opportunamente evidenziato,
«non appare più la relazione di somiglianza»[123].
L’acquisizione della nozione
aristotelica passò attraverso un’intensa attività di
elaborazione, forse anche di «riordino»[124] concettuale, da
parte della retorica latina, che si tradusse nella messa a punto di un
variegato e non sempre (probabilmente) ben codificato lessico — in cui si
fece affidamento sull’impiego di termini come inductio[125], similitudo ed exemplum —[126] sul quale non
sarebbe forse del tutto inopportuno avviare, almeno in alcuni punti, una nuova
e più approfondita riflessione[127].
Si deve osservare che il ricorso a un
approccio argomentativo di tipo analogico, declinato nei termini prima indicati
(Il caso esaminato è simile alla compravendita; La compravendita
è un contratto; Il caso esaminato è dunque un contratto), doveva
presentare scarsa utilità pratica per una giurisprudenza il cui
interesse era innanzi tutto, e principalmente, rivolto alla individuazione di
forme di tutela piuttosto che alla soluzione di astratte questioni di carattere
dogmatico o configurativo: perlomeno laddove queste non fossero ritenute
indispensabili ai fini proprio della determinazione del tipo di tutela da
accordare.
Per questa ragione è utile
abbandonare il punto di vista sostanziale e adottare piuttosto una prospettiva
di tipo processuale, certamente più congeniale al
‘Gedankengang’ romano. In un approccio specificamente diretto a
valutare l’azionabilità di una concreta operazione negoziale, si
può pensare al seguente impianto logico:
(soluzione n. 1)
La compravendita
è tutelata mediante azione di buona fede.
Il caso esaminato
è simile alla compravendita.
Dunque è
tutelabile mediante azione di buona fede.
Guardando ancor più direttamente
alle specifiche azioni da questa derivanti, lo stesso ragionamento potrebbe però
assumere un sviluppo ancora differente:
(soluzione n. 2)
La compravendita
è tutelata mediante l’actio
empti e venditi.
Il caso esaminato
è simile alla compravendita.
Dunque è
tutelabile mediante un’azione simile all’actio empti e venditi.
Si potrebbe infine prospettare (con una
solo apparente forzatura, se si considera, in realtà, che la nozione
stessa di somiglianza esprime un concetto evidentemente relativo, suscettibile
di diverse gradazioni)[128] il seguente
impianto logico:
(soluzione n. 3)
La compravendita
è tutelata mediante l’actio
empti e venditi.
Il caso esaminato
è simile alla compravendita.
Dunque è
tutelabile mediante l’actio empti
e venditi.
Come si può agevolmente
osservare, la stessa tecnica argomentativa è in grado di approdare a tre
soluzioni giuridicamente ben distinte. Mentre nella soluzione n. 3 a essere
concesse saranno le stesse azioni poste a tutela del contratto di
compravendita, nelle soluzioni nn. 1 e 2, invece, si procederà
attraverso la predisposizione di apposite azioni in factum (civilis), con
la differenza che nella soluzione n. 2 tale azione, oltre a essere di buona
fede, dovrebbe anche presentare una maggior livello di
‘familiarità’ rispetto alle azioni (sempre di buona fede)
scaturenti dalla compravendita consensuale (a.
empti, a. venditi)[129].
Il dato qui evidenziato deve servire
innanzi tutto a riconsiderare più attentamente il rilievo che
normalmente si tende ad attribuire al ragionamento analogico, non essendo in
effetti questo in grado di fornire precise indicazioni sul piano
dell’individuazione dell’azione concretamente da concedere, potendo
condurre, sul versante processuale, all’adozione di una soluzione
propriamente assimilativa (soluzione n. 3) o anche solo parzialmente
assimilativa (come vedremo, anche n. 2).
La prima riflessione da fare, dunque,
è che il ragionamento analogico è comune sia all’analogia
che all’assimilazione, nel senso che può muoversi in entrambe le
direzioni[130].
Ciò essenzialmente dipende dal fatto che altro è il ragionamento
analogico (meglio sarebbe dire ‘paradigmatico’), altro è
l’analogia come criterio (non da intendersi necessariamente in senso
normativo) giuridico. Al pari dell’assimilazione, la seconda rappresenta,
in effetti, uno dei possibili esiti del ragionamento paradigmatico, essendo
peraltro entrambe espressione sostanzialmente di una (differente) opzione sul
piano della valorizzazione degli elementi di continuità o
sovrapponibilità tra fattispecie formalmente differenti.
Ed è solo tenendo ciò
presente che si può capire appieno, e al tempo stesso ritenere nelle sue
linee essenziali in quale misura ancora utilizzabile — sempre che si sia
naturalmente disposti (tra le altre cose)[131]
a sorvolare sui limiti di una teoria che, già nelle infelici e
contraddittorie opzioni nomenclatorie adottate dal suo ideatore[132],
dà un’esatta misura del non trascurabile disordine concettuale nel
quale fu concepita[133] — la
contrapposizione che specialmente la dottrina meno recente era solita porre[134],
tra l’analogista atteggiamento proculeiano, che si vorrebbe incline alla
differenziazione tra tipi — dal duplice (ma connesso) punto di vista
sostanziale (nomen contractus) e
processuale (nomen actionis):
soluzione n. 1 —, e il più cauto modo di procedere anomalista
sabiniano, diversamente orientato a una dilatazione processuale dei modelli
edittali (soluzioni n. 2 e 3)[135], i quali
rappresentano, a una più attenta valutazione, articolazioni interne di
un medesimo metodo argomentativo, piuttosto che metodi tra loro propriamente
differenti[136].
Così come, da altro punto di
vista, è proprio dalla identità di «struttura logica»
che trae in definitiva origine il dibattito che ancora oggi tiene impegnati gli
studiosi di diritto moderno circa l’opportunità di mantenere la
distinzione tra analogia e interpretazione estensiva, e che ha portato taluni
autori a respingere l’indicata distinzione, ritenendola frutto di
un’erronea impostazione[137].
Il dato risulta ancora più
apprezzabile attraverso l’impiego di uno schema che riassuma le due
prospettive:
La
compravendita è tutelata mediante l’actio empti e venditi.
Il caso
esaminato è simile alla compravendita.
(Assimilazione) Dunque è tutelabile mediante
l’actio empti e venditi. |
(Analogia) Dunque è tutelabile mediante
un’azione simile all’actio
empti e venditi. |
Se dunque è doveroso distinguere tra
analogia-esito e analogia-ragionamento, si deve anche precisare che altro
ancora infine è l’analogia da intendersi nel senso di
‘relazione di somiglianza’, la quale esprime piuttosto la misura
dei punti di contatto tra fattispecie formalmente differenti, e rappresenta non
l’esito del ragionamento analogico, ma una parte o se vogliamo un momento
del(lo sviluppo del) ragionamento: costituendo essa stessa, come si è
visto, espressione di un ragionamento non esplicitato[138]. Tale concetto,
peraltro, è quello che maggiormente si avvicina (o, se si preferisce,
è meno distante d)alla nozione greca (aristotelica in particolare) di ¢nalog…a[139], nei suoi
fondamentali significati: sia in quello che parrebbe originario[140] di proporzione
(matematica), sia in quello, forse generico[141] (ma probabilmente
più significativo), di comparazione.
Significati che, attraverso la
mediazione di retori e matematici[142],
vennero espressi, in assenza di una specifica nomenclatura che non fosse la
semplice traslitterazione o il ricorso alla stessa voce greca[143],
soprattutto[144]
mediante l’utilizzo dei termini proportio
e comparatio, tra loro peraltro
abbinati in un noto brano ciceroniano[145],
come
Cic., Tim. 13: ‘quae Graece ¢nalog…a, Latine — audendum est enim,
quoniam haec primum a nobis novatur — conparatio proportione(ve) dici
potest’
in cui le incertezze che sembrano
delinearsi sul versante della tradizione testuale (non essendo del tutto sicuro
se debba leggersi conparatio pro-portiove[146]
o piuttosto proportione)[147],
non sono senza conseguenze sul piano dell’interpretazione del pensiero
dell’Arpinate[148], soprattutto dal
punto di vista dell’esatta precisazione dei rapporti tra le due nozioni[149];
così come rendono anche difficoltoso ogni tentativo di comparazione con
la (coeva) messa a punto varroniana che è possibile leggere in
Varr. de l.l. 10.37: sequitur [...] quae sit ratio pro portione; ea
Graece vocatur ¢n£ lógon; ab analogo dicta analogia. Ex eodem genere quae res inter se
aliqua parte dissimiles rationem habent aliquam. Si ad eas duas alterae duae
res allatae sunt, quae rationem habent eandem, quod ea verba bina habent eundem
lógon, dicitur utrumque separatim ¢n£logon, simul collata quattor ¢nalog…a[150].
Sempre proportio è il termine che ritroviamo adoperato in
D.12.4.16 (Cels. 3 <8> dig.): Dedi tibi pecuniam, ut mihi Stichum dares: utrum id contractus
genus pro portione emptionis et venditionis est, an nulla hic alia obligatio
est quam ob rem dati re non secuta? in quod proclivior sum rell.
notissima quanto controversa
testimonianza celsina[151], il cui il
giurista proculeiano, con un atteggiamento che appare scarsamente compatibile
con la prospettiva di un impiego in via deduttiva della nozione generale di
contratto[152],
e che a volere guardar bene sembra addirittura evidenziare un atteggiamento di
(personale) chiusura rispetto all’ipotesi di un allargamento della
categoria contrattuale oltre i tipi riconosciuti (anche per analogia)[153],
si pronuncia nel senso di una tutela meramente ripetitiva rispetto a
fattispecie (solo) negoziale con evidenti punti di contatto con la
compravendita (pro-portione[154] emptionis venditionisque) sul versante
economico dello scambio (cosa contro prezzo), ma che, stando perlomeno
all’interpretazione ancor oggi maggiormente accreditata, si sarebbe
diversificata sul distinto, per quanto connesso, piano giuridico
dell’individuazione dei meccanismi attuativi (dare rem in luogo del tradere
rem proprio dell’emptio-venditio)[155].
Chiarito per sommi capi gli aspetti
specifici del ragionamento analogico e sillogistico, è il caso di
passare a valutare in concreto se ed eventualmente quali tipi di interferenze
potessero verificarsi in sede processuale.
In sostanza, si tratta di comprendere in
quali ipotesi fosse utile o indispensabile ricorrere all’impiego di una
nozione generale di contratto, e in quali invece la questione
dell’individuazione o predisposizione di uno strumento di tutela potesse
venire risolta attraverso un percorso valutativo che si basasse piuttosto su un
impianto argomentativo di tipo analogico (con esito magari assimilativo).
A questo proposito è bene subito
precisare che non tutti i casi in cui si presentasse un problema di tutela
richiedevano l’adozione di una delle due forme argomentative. Questo
perché, com’è stato, anche recentemente (e bene)
evidenziato[156],
e come d’altra parte era già stato messo in luce, a suo tempo, da
Pernice[157],
occorre assolutamente evitare di confondere la questione
dell’atipicità contrattuale, con quella
dell’atipicità dei mezzi processuali.
Si deve da questo punto di vista
considerare che le incertezze che potevano delinearsi sul piano
dell’applicazione del rimedio processuale tipico e che potevano
richiederne un intervento adeguativo, non erano necessariamente legate alla
particolare configurazione causale della fattispecie concreta, e dunque alla
sua riassumibilità, sul piano espressivo, in un nomen contractus tipico (atipicità in senso stretto).
Era anzi tutt’altro che
infrequente che le riserve sull’applicabilità degli ordinari
rimedi edittali fossero piuttosto da imputare a deviazioni intervenute sul
piano della determinazione del programma obbligatorio, della sua regolamentazione,
magari anche solo dal punto di vista dei meccanismi costitutivi del rapporto,
in termini che non dovevano necessariamente costituire una ragione per mettere
in discussione la qualificazione giuridica della fattispecie e dunque una sua
riconduzione agli schemi tipici edittali. Peraltro, in altri casi, le
perplessità sul piano del ricorso alle consuete formulazioni processuali
potevano diversamente e più propriamente dipendere da anomalie,
verificatesi nelle fasi formative della vicenda contrattuale, tali far sorgere
il dubbio di una sua piena integrazione.
Qui è ancor più evidente
che il giurista sarebbe stato chiamato a confrontarsi con situazioni che non
richiedevano l’adozione di un’argomentazione analogica (raffronto
per tipi) o deduttiva (contratto), e rispetto alle quali il ricorso a entrambi
i processi argomentativi non sarebbe stato anzi in grado di fornire elementi
risolutivi, visto che, in queste circostanze, il quesito che si sarebbe posto
non sarebbe stato (certamente) quello di stabilire se il caso A fosse
comparabile alla fattispecie edittale B, ma neppure se il caso A fosse o meno
un contratto: il problema era piuttosto quello di precisare se si potesse agire
per il caso A (sicuramente contrattuale e sicuramente riconducibile dal punto di
vista causale a precisa fattispecie edittale) in assenza di un suo
perfezionamento.
Tenendo ciò presente, è
utile provare a descrivere lo schema logico (e cronologico) con il quale il
giurista probabilmente avrebbe affrontato, di volta in volta, la questione
della tutela delle vicende (negoziali) poste alla sua attenzione.
Non v’è dubbio che in
presenza di un’operazione negoziale, egli avrebbe dovuto procedere
andando innanzi tutto a verificarne la riconducibilità a una delle
fattispecie contrattuali previste a livello edittale. Se vi fosse stata una
piena corrispondenza, non si sarebbe posta ovviamente alcuna incertezza,
trovando applicazione l’azione edittalmente prevista.
Era però pure possibile, come si
diceva, che il caso concreto presentasse deviazioni rispetto alla
configurazione tipica: deviazioni, lo ripetiamo, che non dovevano investire
necessariamente il profilo causale della fattispecie.
Di fronte a una situazione di questo
tipo sarebbero venute a profilarsi una varietà di soluzioni. In un primo
caso, si sarebbe potuto, per così dire, forzare il negozio nel tipo
negoziale: la res nella causa per adottare una terminologia non
propriamente corretta, ma che rende in termini sostanzialmente efficaci il
senso di ciò che diciamo. Si sarebbe così proceduto alla
concessione dell’azione tipica e all’applicazione del regime a
questa connesso. Si sarebbe sostanzialmente fatto ricorso a
un’assimilazione formale (interpretazione estensiva).
Certamente emblematico da questo punto
di vista è da ritenersi l’approccio sabiniano al tema della
permuta nella ben nota configurazione di species
emptionis venditionisque (Gai 3.141)[158].
Volendo in questa sede prescindere dalle
non certo trascurabili complicazioni che si sarebbero venute in concreto a
delineare sul piano pratico, sulle quali in più di un’occasione
è stata giustamente richiamata l’attenzione in dottrina[159],
e guardando piuttosto ai processi argomentativi e ai suoi esiti sul piano
processuale, si può in sintesi affermare che si sarebbe qui profilata una
soluzione di tipo processualmente e sostanzialmente assimilativo,
nell’ambito di un procedere logico di tipo paradigmatico, non
sillogistico, e dunque slegato dall’applicazione di una nozione generale
di contratto (ipotesi 1).
Poteva pure accadere che, pur
presentando l’operazione concreta più di un (significativo) punto
di contatto con lo schema edittale, la misura della corrispondenza non fosse
ritenuta in concreto sufficiente per giustificare l’adozione dello schema
processuale tipico. In questo caso il livello di
‘familiarità’, o se si preferisce l’‘area di
sovrapponibilità’ tra le due fattispecie, avrebbe potuto
però essere ritenuto tale da consentire la concessione di
un’azione decretale concretamente modellata sull’azione edittale,
con mantenimento del verbo tipico adottato all’interno della formula di
riferimento (ipotesi 2).
Situazione che sembrerebbe configurarsi,
sempre in tema di permuta, in
C.4.64.1 (Imp. Gord. A. Thraseae[160], a. 238): Si, cum patruus
tuus venalem possessionem haberet, pater tuus pretii nomine, licet non taxata
quantitate, aliam possessionem dedit, idque quod comparavit non iniuria iudicis
nec patris tui culpa evictum est, ad exemplum ex empto actionis non immerito id
quod tua interest, si in patris iura successisti, consequi desideras. At enim
si, cum venalis possessio non esset, permutatio facta est idque, quod ab
adversario praestitum est, evictum est, quod datum est (si hoc elegeris) cum
ratione restitui postulabis.
Si tratta di un brano di cui ci siamo
già occupati[161]. Tizio, zio del
richiedente Trasea, ha intenzione di procedere alla vendita di un proprio fondo.
All’acquisto si dimostra interessato Caio, padre del richiedente, il
quale in cambio offre, a titolo di prezzo, altro fondo di sua proprietà
(pretii nomine…aliam possessionem dedit). Avvenuto lo
scambio, Tizio viene convenuto e condannato nel giudizio di rivendica intentatogli
dal proprietario della possessio venalis.
Alla morte del padre (si in patris iura
successisti), Trasea si rivolge all’imperatore per sapere in che modo
potrà essere tutelato.
Nel risolvere la questione, la cancelleria
imperiale distingue due ipotesi, a seconda che si tratti o meno di possessio venalis[162]. Nel primo caso (che poi è quello prospettato dal
richiedente), essendovi elementi sufficienti per tenere distinti i ruoli delle
parti contraenti, l’erede avrebbe potuto agire per l’interesse c.d.
positivo con un’azione denominata ad
exemplum ex empto actionis, sempre che l’evizione non dipendesse da
fatto del giudice (iniuria iudicis) o
del padre del richiedente.
Diversamente, nel caso in cui non si
trattasse appunto di possessio venalis
(cum venalis possessio non esset), si
sarebbe agito per la ripetizione di quanto dato, fatta salva la
possibilità di optare anche in questo caso per l’azione di
adempimento: per lo meno così sembrerebbe, considerando che il ricorso
all’azione di ripetizione (‘quod datum est [...] cum ratione
restitui postulabis’) viene qui presentato come alternativa (‘si hoc elegeris’) rispetto
all’esercizio di ulteriore e non meglio precisato rimedio processuale
diversamente orientato all’attuazione del rapporto contrattuale, ma da doversi
ritenersi (per forza di cose) differente rispetto al modello prima indicato (ad exemplum ex empto actionis).
Lasciando da parte i molti problemi
interpretativi che la fonte pone[163],
soprattutto in relazione all’assai dubbia genuinità
dell’inciso ‘si hoc elegeris[164],
è piuttosto il caso di osservare come qui non si faccia ricorso
all’azione edittale prevista per il caso simile (l’actio empti)[165],
ma ad azione che è detta specificamente modellata sul suo esempio (ad exemplum ex empto actionis)[166].
Com’è noto, tale azione viene per lo più identificata con
l’actio p.v.[167]
e ricostruita pertanto, a prescindere da aspetti più specifici legati
alle differenti configurazioni strutturali a essa associate (praescriptio in senso stretto, praescriptio inserta loco demostrationis)[168],
nella comune prospettiva di un intervento sostitutivo, e dunque soppressivo,
della demonstratio tipica, ove
appunto si trovava indicato il nomen
contractus[169].
Si tratta di una soluzione che non
sembra potersi condividere, e che non tiene evidentemente conto del livello di
familiarità che il brano prospetta con l’actio empti, il quale induce diversamente a ritenere che si fosse
qui in presenza di azione congegnata attraverso un apposito intervento
adeguativo dello schema tipico dell’actio
empti, che non investisse però il piano della qualificazione del
fatto giuridico, del nomen iuris,
limitandosi al più a una precisazione dei caratteri realizzativi
dell’emptio, in termini che,
peraltro, non dovevano incidere sulla struttura formulare, non essendovi del
resto alcuna seria ragione per
anticipare la descrizione della res de
qua agitur in una praescriptio.
Rispetto, al caso precedente, si
configurerebbe dunque una soluzione sostanzialmente (ma non formalmente)
assimilativa, nell’ambito di una logica (egualmente) di tipo
paradigmatico, e dunque, ancora una volta, senza l’impiego di una
categoria generale di contratto. Dal punto di vista processuale la formula
sarebbe caratterizzata da una analogia (nel senso già chiarito di
‘relazione di somiglianza’)[170]
forte con quella dell’actio empti:
dunque actio ad exemplum di tipo
specifico.
Una soluzione analoga sembra delinearsi
(per lo meno da un punto di vista processuale) in
D.18.5.6 (Paul. 2 ad ed.): Si convenit, ut res quae venit, si intra certum tempus
displicuisset, redderetur, ex empto actio est, ut Sabinus putat, aut proxima
empti in factum datur.
Si tratta di un brano su cui da tempo si
sono concentrate le attenzioni degli studiosi, il cui interesse si è
comprensibilmente indirizzato sulla singolare espressione ‘aut proxima empti in factum datur’[171]
con cui viene qui denominata l’azione indicata da Paolo, quale possibile
alternativa rispetto all’actio ex
empto patrocinata da Sabino, in relazione a un’ipotesi di vendita con
c.d. pactum displicentiae[172].
Sulla genuinità della locuzione[173],
così come sulla classicità della soluzione, non possono
sussistere incertezze[174], dovendosi da
questo punto di vista ritenere superati i
sospetti nutriti dalla dottrina meno recente[175],
e che erano in larga misura dovuti alla più generale diffidenza mostrata
verso la classicità dell’agere
praescriptis verbis, con cui viene tradizionalmente identificata l’a. proxima empti in factum[176].
Dubbi sono stati invece avanzati da
Filippo Gallo in relazione all’eventualità che a suggerire il
ricorso all’actio proxima empti,
o comunque a condividere tale soluzione, possa essere stato il giurista
severiano, il quale si sarebbe piuttosto limitato a testimoniare
l’esistenza di una disputa al riguardo[177].
All’origine di tale ipotesi
interpretativa vi sarebbe l’esigenza di dover altrimenti spiegare
l’adozione di un atteggiamento processuale ritenuto scarsamente
compatibile con l’orientamento impostosi presso i giuristi di età
severiana[178],
e al quale avrebbe prestato la propria adesione lo stesso Paolo[179],
che avrebbe portato a configurare
il pactum displicentiae
— ma più generalmente l’intera gamma dei c.d.
‘Rüchktrittsvorbeahlte’ (in
diem addictio, lex commissoria)
— in termini di condizione[180]
risolutiva[181]
(o comunque di patto risolutivo sospensivamente condizionato)[182],
da tutelarsi attraverso il ricorso all’azione contrattuale edittale[183],
secondo quanto peraltro chiarito in via definitiva (‘declaratur’) in una serie di provvedimenti imperiali
adottati, in materia (però) di lex
commissoria, da Settimio Severo, prima, e Antonino Caracalla, poi[184].
Per quanto, ai fini della presente
indagine, la questione assuma un rilievo tutto sommato marginale, essendo
sostanzialmente ininfluente l’esatta determinazione della
paternità della soluzione sul piano della ricostruzione
dell’approccio logico-argomentativo, non si può fare a meno
però di rilevare che si tratta di una proposta ricostruttiva che non sembra
potersi accogliere, per diverse ragioni: non ultima il fatto che si basa su
un’ipotesi di alterazione testuale[185],
che se non può essere in astratto (naturalmente) esclusa[186],
appare però, in concreto, scarsamente probabile (negli esiti)[187],
ma soprattutto infondata nei presupposti, in quanto muove da un assunto
(l’essere la vicenda processuale all’epoca definitivamente
chiarita), che rimane in realtà indimostrato e che anzi viene per certi
versi sconfessato dallo stesso studioso, là dove ammette la possibilità
che ancora al tempo di Paolo fosse «sostenuta la concessione, per il pactum displicentiae, di un’actio in factum proxima a quella empti, o almeno che lo era stata dopo la
redazione adriano-giulianea dell’editto»[188].
Va più in generale osservato che
è l’intera analisi condotta dal Maestro torinese ad apparire
complessivamente inficiata dalla stretta relazione che si è voluto porre
tra l’alternativa processuale qui prospettata tra a. proxima empti in factum e actio
ex empto, e la più generale questione relativa alle differenti
ricostruzioni dogmatiche del pactum
displicentiae (patto sospensivo-patto risolutivo)[189],
senza che siano stati peraltro esattamente valutati i gravi profili
problematici che si sono venuti così a delineare.
Proprio da questo punto di vista deve
far riflettere la circostanza che, a seguire rigorosamente
l’interpretazione suggerita dallo studioso, il brano finirebbe per
attribuire a Sabino — e dunque a un giurista che si pretenderebbe ancora
legato (a differenza di Paolo) a una costruzione del «negozio come
compravendita condizionata» —[190]
la concessione dell’actio ex empto,
ovvero dello stesso modello processuale verso cui si si sarebbero (più
tardi)[191]
indirizzati quanti avrebbero configurato il pactum
displicentiae nei differenti termini di condizione risolutiva[192],
con una soluzione che, questa sì, avrebbe dovuto suscitare fondati
motivi di perplessità, considerato che la concessione dell’azione
contrattuale doveva risultare oggettivamente più difficile da
giustificare nell’ottica di una vicenda negoziale da ritenersi non ancora
perfezionata[193],
presentando profili problematici ben più significativi rispetto a quelli
adombrati, con riferimento alla differente ipotesi di vendita con lex commissoria, in Pomp. 9 ad Sab. D.18.1.6.1 [194],
ma anche in Ulp. 32 ad ed.
D.18.3.4pr. (‘et quidem finita est
emptio’)[195], e in relazione ai
quali non sembra possa ritenersi realmente appagante il tentativo di sorreggere
tale decisione invocando «l’indirizzo del giureconsulto di restare
ancorato ai mezzi processuali contemplati nell’editto, dilatando
all’occorrenza le fattispecie alle quali si applicavano»[196].
Nei termini in cui la questione è
stata impostata dall’autore, sarebbero anzi da condividere le riserve
avanzate nei confronti dell’attuale stesura del testo, da quanti avevano
in passato ipotizzato che il caposcuola sabiniano si fosse fatto piuttosto
promotore della concessione di un’azione pretoria in senso stretto: e
dunque di un’actio in factum[197].
Riserve che però vengono meno[198].
come si è detto, se ci si sottrae alla tentazione di considerare
l’opzione qui posta sul versante processuale quale riflesso della
contrapposizione tra il modello dell’emptio
condicionalis e la differente prospettiva dell’emptio pura (quae sub
condicione resolvitur)[199] e si torna a
esaminare il brano guardando al diverso piano della compatibilità di una
tale pattuizione con le finalità a cui era (più in generale)
indirizzato l’esercizio dell’azione contrattuale[200],
in una vicenda negoziale da ritenersi, però, in entrambi i casi non
sospensivamente configurata[201]. Tanto
più che a seguire Gallo entrambe le soluzioni sarebbero in definitiva
maturate nel solco del medesimo indirizzo dogmatico-ricostruttivo (emptio condicionalis).
Occorre per inciso ancora notare che
l’analisi dell’Autore risente di quel rigido dogmatismo
ricostruttivo, che non raramente si registra tra quanti si sono dedicati al
tema dei c.d. Rücktrittsvorbehalte,
e che come primo effetto ha avuto quello di indurre gli studiosi a una
omologazione delle decisioni prese di volta in volta dai singoli giuristi,
senza tener conto, invece, che le fonti testimoniano come il ricorso a uno dei
due modelli configurativi (emptio
condicionalis-emptio pura, quae sub condicione resolvitur), avvenisse
più in funzione delle specificità del caso concreto, del quid actum est, che in ragione di una
preventiva ed esclusiva adesione (quasi di scuola)[202]
a uno degli indicati indirizzi interpretativi: come del resto è efficacemente evidenziato (ancora)[203]
in piena età severiana da Ulp. 28 ad
Sab. D.18.2.2pr.[204], sulla cui
classicità devono ritenersi superati certi antichi pregiudizi[205],
o, proprio in tema di pactum displicentiae, dal ben noto
J.3.23.3[206].
L’ulteriore e forse ancor
più grave risultato è stato che, sulla base di singole e non
sempre bene intese indicazioni, si è preteso di tracciare le linee
evolutive di quella che si è presto e inevitabilmente trasformata in una
(ideale più che effettiva) storia di dottrine (ove non poco si è
speculato sull’alternarsi di nuovi e antichi modelli dogmatici)[207],
la cui ricostruzione si è andata ancor più complicando per
l’aver anche qui ritenuto di poter riunire in un unico intreccio
narrativo le diverse vicende legate alle singole clausole caducatorie[208],
senza tener adeguatamente conto delle peculiarità che ognuna di essa
presentava, e suggerendo per contro valutazioni comparative tra brani che, con
ogni evidenza, toccavano questioni e aspetti tra loro nettamente distinti[209].
Mettendo da parte tali questioni o altre
che si potrebbero certo porre in relazione all’innovatività della
soluzione sabiniana[210] o al modo in cui
essa si ponesse rispetto al punto di vista labeoniano[211],
e volendo anche prescindere da quale rilievo debba assumere il brano per una
più generale valutazione dell’atteggiamento tenuto da Sabino in
tema di tutela delle convenzioni atipiche[212],
conta piuttosto osservare come tra gli studiosi sia stata[213]
e sia tutt’ora nettamente prevalente l’opinione che pensa a
un’applicazione dell’actio
praescriptis verbis[214]. Opinione che,
peraltro, era sostanzialmente condivisa pure da quanti avevano avanzato
sospetti circa la genuinità della locuzione, (anche) per via della
dubbia utilità di un tale rimedio di fronte a una riconosciuta
esperibilità dell’actio ex
empto[215].
Nessuna adesione sembra oggi invece riscuotere l’ipotesi di un ricorso ad
azione pretoria in senso stretto[216],
magari modellata sull’esempio dell’azione contrattuale[217].
Al di là dei nomi, il punto da
chiarire riguarda ancora una volta il livello di
‘familiarità’ di tale azione con lo schema tipico
dell’actio empti. Come si
è prima osservato, l’aspetto essenziale da determinare ai fini di
una precisa valutazione del ‘tipo processuale’ è il
mantenimento o meno del verbo causale tipico. E da questo punto di vista la
marcata somiglianza prospettata con l’azione edittale, induce a ritenere
che si facesse per l’appunto qui ricorso a un programma di giudizio, in
cui il verbo espressivo dell’attività negoziale, al quale si
sarebbe fatto riferimento in sede di conceptio
formulare, sarebbe stato pur sempre emere[218].
Dovendosi escludere, con il resto
dell’intera dottrina, l’eventualità di un riferimento ad
azione in factum pretoria in senso
stretto per nomen contractus (Si
paret As As de No No […] ea lege emit,
ut si intra certum tempus displicuisset [..] redderetur, rell.), con
un’ipotesi in linea di principio non del tutto inammissibile[219],
ma che sembra scontrarsi col fatto che un tale impianto formulare difficilmente
si sarebbe potuto definire ‘proximus’
rispetto a quello dell’actio empti
(di buona fede)[220], non rimane che
pensare a un adattamento dello schema tipico dell’azione contrattuale,
attraverso un riferimento, all’interno della demonstratio, alla clausola convenuta[221]:
in modo da integrare o comunque meglio evidenziare il più articolato
programma obbligatorio a cui le parti avevano inteso vincolarsi, senza
trascurare la possibilità di una (ulteriore) specifica emersione del fatto dell’avvenuto esercizio
dello ius displicendi. Diverrebbero
altrimenti incomprensibili le ragioni della dichiarata prossimità con
l’actio empti, la quale
dovrebbe far pensare a una specifica e più marcata somiglianza con
l’azione in questione rispetto ad altre azioni di buona fede[222]:
somiglianza difficilmente concepibile, come si è appena accennato, al di
fuori dell’ipotesi di un mantenimento del nomen contractus.
Non si può d’altra parte
non considerare che l’anomalia non riguarda qui il profilo causale della
fattispecie, circostanza questa che avrebbe reso potenzialmente problematica
una qualificazione della res de qua
agitur nei dichiarati termini di emptio,
ma sembra piuttosto manifestarsi sul distinto piano della concreta
regolamentazione dell’asssetto di interessi, con evidenti riflessi sul
versante processuale.
Da questo punto di vista, è bene
però (nuovamente) precisare che — a differenza di Ulp. 11 ad ed. D.18.1.50, brano che verrà
successivamente esaminato — il ricorso qui a un’azione diversa da
quella edittale (nella specie, l’a.
proxima empti in factum) non va ricollegato a un problema di
perfezionamento della fattispecie contrattuale tipica, secondo quanto è
stato invece ritenuto (come si è visto) da Gallo[223],
il quale, tra le altre cose, non ha evidentemente valutato che ci troviamo di
fronte a una vicenda negoziale che ha trovato piena attuazione: il venditore ha
trasferito il possesso della res empta,
il compratore ha provveduto a pagare il prezzo. Ciò si desume dalla
circostanza che a promuovere l’azione sia qui il compratore[224]:
il che significa che egli sta agendo per chiedere la restituzione di quanto
pagato, dichiarandosi, naturalmente (il dato è da ritenere implicito), paratus a restituire la res[225].
Risulta quindi evidente che, almeno in questo caso, la soluzione di accordare
l’a. proxima empti in factum
non può dipendere dal doversi considerare la fattispecie non ancora
integrata o comunque sospesa sul piano degli effetti (sub condicione), a meno di non volersi rifugiare dietro
l’abnormità dogmatica di una spontanea attuazione di contratto non
integrato o non ancora efficace: e dunque non su questo argomento dovevano
fondare la propria decisione i fautori di tale soluzione processuale[226].
A essere qui in discussione doveva
essere, piuttosto, la proficua utilizzabilità dell’actio empti in funzione di adempimento
di un programma obbligatorio a essa normalmente estraneo e che anzi si muoveva
in una direzione addirittura opposta alle sue applicazioni ordinarie[227].
Quello che si sarebbe prospettato non
sarebbe stato, in effetti, un normale impiego dell’actio empti. L’azione non sarebbe stata rivolta
all’adempimento delle obbligazioni tipiche del venditore[228]
— il quale aveva evidentemente consegnato la cosa oggetto del contratto,
così come è anche da ritenere (lo si è già detto)
che il compratore avesse già effettuato il pagamento del prezzo —,
ma sarebbe stata piuttosto diretta a rimediare agli effetti tipici del
contratto attraverso l’adempimento delle obbligazioni che si sarebbero
venute a costituire con il mancato gradimento da parte dell’acquirente.
Il venditore avrebbe dovuto (ri)trasferire la proprietà dei nummi al compratore (inversamente a
quanto previsto da Paul. 32 <33> ad
ed. D.19.4.1.pr., Ulp. 32 ad ed.
D.19.1.11.2), il quale, a sua volta, sarebbe stato chiamato a tradere (vacuam)[229] possessionem della res (Paul. 32 <33> ad
ed. D.19.4.1.pr.) o, nel caso in cui si fosse fatto ricorso a una mancipatio (poniamo del fundus)[230],
a effettuare un analogo (ri)trasferimento in favore del proprietario.
Si potrà obiettare che
l’azione (l’a.empti proxima
in factum) era (comunque) volta a dare attuazione al pactum displicentiae. Ciò indubbiamente è vero, ma
questo non significa che il patto perdesse la propria configurazione di
elemento accessorio alla compravendita, per trasformarsi in autonoma vicenda
contrattuale (atipica) da farsi valere in via di azione[231]:
in sostanza non si pretendeva l’adempimento di un contratto, ma di una
clausola contrattuale, ove il contratto (di riferimento) sarebbe rimasto pur
sempre la compravendita[232].
Ecco che allora appare meno problematica
l’ipotesi di un adattamento formulare, che non si traducesse,
però, in un’alterazione della qualificazione causale del
‘Grundlage’ (Quod-emit).
Essa risulta, anzi, decisamente da preferire rispetto
all’eventualità di un’azione in factum di buona fede non meglio qualificativa della res costitutiva dell’oportere: anche perché riesce
oggettivamente difficile immaginare che nella descrizione della res de qua agitur si potesse realmente
prescindere da un riferimento all’avvenuta vendita.
Non si può peraltro trascurare
che il ricorso a un’azione per nomen
contractus (naturalmente opportunamente adattata) avrebbe presentato anche
il non trascurabile vantaggio di individuare per relationem il contenuto concreto del programma obbligatorio a
cui erano tenute le parti, dovendo queste sostanzialmente adottare un
comportamento simmetricamente opposto rispetto a quello previsto
nell’ambito di un rapporto di compravendita (fatta eccezione naturalmente
per la responsabilità per vizi o evizione).
Ciò potrebbe forse anche
spiegare, senza dover necessariamente ricorrere ad ipotesi di alterazioni
testuali[233],
il motivo per cui Paolo sembrerebbe ritenere praticabili entrambe le soluzioni
(ex empto actio est…aut proxima
empti in factum)[234], in termini che
non consentono di individuare una netta preferenza rispetto a uno dei due
modelli processuali[235]. Il che potrebbe
essere appunto dipeso dal fatto che non si trattava di soluzioni tra loro
propriamente alternative, secondo quanto si è talvolta (e da tempo)[236]
sostenuto[237],
accentuando (anche) il valore disgiuntivo della congiunzione ‘aut’[238],
ma di diverse opzioni maturate nell’ambito (per così dire) di uno
stesso indirizzo interpretativo[239], visto che
l’a.p.e. in factum avrebbe in
definitiva rappresentato nulla più che un approfondimento dell’a. venditi..
Ciò che conta comunque e infine
osservare è che nella soluzione del caso in questione, non ponendosi un
problema di atipicità in senso tecnico, non si sarebbe fatto ricorso a
nessuna delle due logiche argomentative prima indicate, mentre sul piano della
conformazione del programma di giudizio si sarebbe configurato un caso di
analogia processuale forte (actio ad
exemplum di tipo specifico).
Non dissimile è l’ipotesi
che si trova esaminata in
D.18.1.50
(Ulp. 11 ad ed.): Labeo scribit, si mihi bibliothecam ita
vendideris, si decuriones Campani locum mihi vendidissent, in quo eam ponerem,
et per me stet, quo minus id a Campanis impetrem, non esse dubitandum, quin
praescriptis verbis agi possit. Ego etiam ex vendito agi posse puto quasi
impleta condicione, cum per emptorem stet, quo minus impleatur.
La questione qui affrontata
dal
giurista augusteo riguardava
l’ipotesi di vendita di una biblioteca condizionata all’acquisto da
parte del compratore di un fondo nel quale collocarla. Anche in questo caso
sono da ritenersi ormai superati i dubbi[240] che (soprattutto)
in passato avevano indotto un discreto numero di studiosi a ipotizzare, in
considerazione anche del dato palingenetico[241], un originario
ricorso all’actio de dolo[242], o al più ad actio
in factum (concepta)[243]. A lasciare semmai
perplessi potrebbe essere il tono perentorio con cui il giurista si orienta
verso l’applicazione dell’actio
p.v., conciliandosi (questo) a fatica con l’ipotesi di uno strumento
processuale di recentissima introduzione, addirittura ideato dallo stesso
Labeone[244]. Ma anziché
rappresentare un motivo di dubbio sull’autenticità della
soluzione, ciò deve piuttosto costituire l’occasione per una più ponderata
riflessione sulle origini dell’azione[245]; così come,
da altro punto di vista, l’apertura da parte di Ulpiano (qui come altrove)
ad entrambi i rimedi processuali (ego
etiam ex vendito agi posse puto)[246] dovrebbe invitare
a riconsiderare[247] la consueta
(quanto priva di serie basi testuali) configurazione dell’agere p.v. come forma di intervento
sussidiario rispetto alle ordinarie applicazioni edittali[248].
Quanto alla specifica
clausola aggiunta al contratto di vendita, appare sostanzialmente pacifico che
si tratti di una condizione sospensiva[249]. Meno sicuro invece che sia
una condizione potestativa[250], non costituendo
l’acquisto del fondo su cui collocare la biblioteca un evento
ricollegabile alla sola volontà del compratore[251]. Si è così
pensato a una condizione mista[252]. Quanto al tipo di responsabilità che si
sarebbe fatto valere con l’azione in questione si è orientati nell’escludere una
responsabilità di tipo precontrattuale[253].
Incertezza vi
è piuttosto sul piano dell’individuazione
del rapporto che si sarebbe fatto valere in concreto. I più si
orientano per una accentuazione del profilo di atipicità
dell’operazione negoziale, ricollegando sostanzialmente la concessione
dell’a.p.v. da parte del
giurista augusteo all’individuazione di convenzione anche solo potenzialmente
produttiva di obbligazioni reciproche[254], o comunque
rispondente alla propria definizione del contratto[255]: in sostanza si avrebbe a che fare con
un’applicazione giustificata dalla corrispondenza della fattispecie con
la nozione generale di contratto elaborata dal giurista augusteo.
Si tratta di una soluzione
che non tiene conto del fatto che i dubbi del giurista non investono il profilo causale
dell’operazione contrattuale, sulla cui riconducibilità alla
compravendita non sembrano sussistere reali incertezze[256], ma sono piuttosto legati
all’incidenza del mancato avveramento della condizione sul piano della
azionabilità della pretesa, non essendosi ancora affermato, ai tempi di Labeone, il principio di finzione di
avveramento[257], conosciuto invece certamente da Ulpiano (Ulp. D.50.17.161) e da lui
applicato sulla falsariga[258] di Giuliano (Iul. 55 dig. D.35.1.24), ma che sembra doversi datare in
epoca a quest’ultimo precedente (‘iure civili receptum est’)[259]. Sembra abbiano pertanto ragione quanti ricollegano l’applicazione
dell’a.p.v. da parte di Labeone
alla mancata integrazione della fattispecie contrattuale tipica[260].
È appena il caso di
osservare che l’adozione di una delle due logiche argomentative non
rimane senza conseguenze sul piano dell’individuazione del concreto programma di
giudizio messo a punto dal giurista augusteo. In base alla prima delle
prospettive indicate (vicenda contrattuale atipica, da tutelarsi in quanto
rispondente a modello generale di contratto), si dovrebbe pensare a un giudizio ad exemplum di modello generale (edittale)[261], per quanto gli studiosi (per lo più)
si guardino
bene dal proporre una dettagliata ricostruzione dell’impianto formulare[262]. Nella logica di un
superamento delle difficoltà legate ai presupposti di esercizio
dell’actio ex vendito, ci si
dovrebbe più propriamente indirizzare verso un’azione ‘ex empto in factum’, piuttosto che
verso azione con «praescriptio, sostituiva di demonstratio»
descrittiva del fatto fondativo della pretesa: nel caso in questione, si
è detto, «l’inerzia del compratore in violazione della bona fides (la mancata impetrazione dai decuriones Campani del locale in cui
collocare la biblioteca)»[263].
In tal senso sembra
muoversi, pur in un ordine di idee orientato a privilegiare la prospettiva di
tutela di un’obbligazione
accessoria (‘Nebenpflicht’) — essendo il compratore in qualche modo
tenuto, per lo meno sul piano della buona fede, ad attivarsi per
l’acquisto dell’area su cui collocare la biblioteca —[264], e in una logica
tendente a riversare l’operatività della condicio sugli effetti del negozio, più che sulla sua esistenza e dunque sul suo perfezionamento[265], Micael Artner, il quale ha proposto il seguente impianto formulare:
ea res agatur de condicione negotii, ut decuriones campani nono locum
venderent in quo bibliotecham poneret. quod AsAs NoNo
bibliotecham ita vendidit, quidquid ob eam rem NmNm Aoao dare facere oportet ex fide bona rell.[266].
Anche questa
proposta suscita perplessità. Ci troviamo di fronte a un modello di praescriptio di cui non abbiamo alcuna
attestazione dal punto di vista della formulazione. Indipendentemente da
aspetti tutto sommato marginali che rimangono imprecisati[267], conta osservare che, più che una praescriptio determinativa, quella qui
indicata sembra
rappresentare una praescriptio
limitativa alla sola obbligazione accessoria (‘de’), con una formulazione che ricorda molto da vicino Gai
4.131a. E in effetti è proprio lo studioso tedesco a evidenziare una precisa connessione con Gai 4.131 e
131a[268], affermando che i praescripta verba avrebbero perseguito l’obiettivo di limitare l’oggetto
del giudizio alla violazione dell’obbligazione accessoria derivante dal
contratto di compravendita[269], e per raggiungere questo scopo avrebbero dovuto indicare il
fatto della convenzione con il suo contenuto[270], al fine, appunto, di evidenziare che il giudizio avrebbe
dovuto riguardare solo questo aspetto della
vicenda contrattuale[271].
Solo che, in Gai 4.131a (Ea res agatur de fundo mancipando), la limitazione aveva la
funzione di consentire di agire successivamente per la traditio vacuae possessionis (‘si velimus vacuam possessionem nobis tradi)[272]. Qui, invece, non si capisce quale
obbligazione si sarebbe potuta far valere in seguito o in aggiunta, visto che
il presupposto su cui si fondava la richiesta di condanna (ovvero il mancato avveramento della condizione per fatto imputabile al compratore), significava sostanzialmente certificare il definitivo mancato
perfezionamento del contratto o, se vogliamo aderire all’ipotesi dello
studioso tedesco, la sua definitiva inefficacia. Non essendoci dunque obbligazioni da far valere in
futuro, non ci sarebbe stato di conseguenza alcun motivo per ricorrere, nel caso in esame, a una praescriptio (innanzi tutto) limitativa.
La questione di
fondo però è un’altra. C’è piuttosto da chiedersi quale sarebbe
stato l’obiettivo dell’azione. Non c’è dubbio che si
trattasse di azione diretta al conseguimento dell’interesse positivo: interesse che nel
caso specifico non poteva essere altro, però, che quello di rendere effettiva la vendita, e dunque di vedere condannato il
compratore al pagamento del prezzo[273], a condizione ovviamente che
il venditore fosse pronto a provvedere all’adempimento della propria obbligazione,
dichiarandosi dunque paratus a tradere rem. Ciò
significa che oggetto
del giudizio
non sarebbe stata l’obbligazione accessoria[274], ma quella principale, che
sarebbe risultata azionabile nonostante il mancato avveramento della
condizione. Ciò si intuisce anche dal fatto che, per lo stesso fine, Ulpiano concedeva (preferibilmente)[275] l’actio ex vendito, nell’ambito della quale non ci sono ragioni per ritenere che con essa il venditore non facesse valere il proprio interesse
alla vendita della biblioteca, e cioè il pagamento del prezzo.
In altri termini, secondo Ulpiano, si sarebbe potuto agire
direttamente con la stessa actio venditi, in quanto si oramai imposto il principio dell’assimilazione
del mancato avveramento della condizione per fatto del debitore, a condizione
avverata (‘quasi impleta condicione, cum per emptorem stet, quo minus impleatur’)[276]. Si era dunque arrivati a una
finzione sostanziale (‘fictio iuris’) direttamente
rilevabile dal giudice senza che si rendesse necessario l’inserimento di
appositi riferimenti all’interno del programma di giudizio.
Con Labeone, invece, per far valere le
obbligazioni che sarebbero derivate dal contratto di compravendita sarebbe
occorso uno specifico
intervento adeguativo sulla formula che consentisse di trattare il caso in
questione come se si fosse verificata la condizione. Dunque attraverso
l’impiego di una finzione, per così dire, formale (fictio).
In sostanza doveva
trattarsi qui di
azione ficticia, in cui la descrizione del
fatto non era volta a
individuare il fondamento dell’azione (la c.d. causa petendi), che rimaneva sempre la vendita; né aveva lo scopo di limitare l’oggetto del giudizio, secondo quanto invece sostenuto dallo studioso tedesco. Non serviva neppure a
equiparare due distinte fattispecie sul piano causale: non si trattava in altri termini di assimilazione di cause, di
funzioni tra loro analoghe. Quella descritta non era una situazione causalmente
atipica. Il brano non ha attinenza con il tema dell’atipicità negoziale in senso
stretto[277], perché
l’atipicità (in senso rigoroso, appunto) riguarda più propriamente
l’ipotesi di deviazioni dallo schema causale tipico: al più vi
è atipicità di regime, non di nomen
contractus.
A mancare erano piuttosto i presupposti per il perfezionamento del
contratto, ma non potevano sussistere dubbi sul fatto che a delinearsi in caso di perfezionamento
sarebbe stata una
compravendita. Ciò significa che l’azione in questione non poteva considerarsi
propriamente
atipica[278].
Nonostante le
indicazioni contrarie che potrebbero astrattamente discendere dal modo in cui
è formulato il rilievo mosso da Ulpiano alla soluzione indicata dal
giurista augusteo, che potrebbe apparentemente far pensare a un rimedio dai
più marcati tratti distintivi[279], tutto porta a
ritenere che l’espressione
a.p.v. sia qui adoperata allo scopo di indicare un adeguamento mediante fictio di azione tipica di vendita. Si invitava il giudice
a considerare come verificatosi un presupposto in realtà mancante. Non si diceva di trattare
quel caso come se fosse una vendita, ma di trattare quella vendita come se si
fosse avverata la condizione: il che induce ancor più a ritenere che, fatta
eccezione per la presenza di una fictio
allusiva all’accordo condizionante, la formula non si allontanasse dallo
schema standard dell’actio venditi, dal duplice punto di
vista della qualificazione del fatto (quod
AsAs vendidit), nonché della struttura, non essendovi, da questo
punto di vista, ragioni che costringessero a rinunciare alla consueta
descrizione della res de qua agitur (demonstratorio modo), per ricorrere ad
apposita praescriptio con funzione
peraltro (proprio di) demonstratio,
anch’essa per forza di cose da congegnarsi non in factum (quod As As dedit
ut), ma per nomen iuris.
È dunque
lecito pensare, in alternativa ad altre possibili ipotesi ricostruttive sulla
cui reale efficacia occorrerebbe però una più meditata
riflessione[280], a una
formulazione del tipo
Titius iudex esto. Quod AsAs NoNo bibliotecham vendidit, quidquid ob eam
rem NmNm Ao Ao dare facere oporteret
(oportuisset) ex fide bona, si
decuriones Campani NoNo locum vendidissent in quo bibliotecham poneret,
in cui, come può osservarsi,
sarebbe stato sufficiente provvedere a un’integrazione del programma di
giudizio, inserendo il contenuto dell’accordo condizionante (si decuriones-poneret), e andando
contestualmente ad adeguare, sul piano sintattico-grammaticale, l’ordinaria
formulazione dell’intentio
(incerta), attraverso la sostituzione del presente indicativo oportet con il congiuntivo imperfetto
‘oporteret’ (meno probabile o comunque non
indispensabile il ricorso qui al congiuntivo piuccheperfetto ‘oportuisset’: del resto vd. Gai
4.34-36)[281].
con un intervento che avrebbe sostanzialmente imposto al giudice di valutare la
pretesa vantata dall’attore, sulla base di ciò che il convenuto
sarebbe tenuto (oporteret) o sarebbe
stato tenuto (oportuisset) a
prestare, nel caso in cui si fosse verificato l’evento dedotto in
condizione.
Poteva darsi il caso, infine, che
l’operazione posta in essere dalle parti presentasse una configurazione
tale da non consentire l’adozione di nessuna delle soluzioni prima
indicate. Come si intuisce, una tale eventualità si poteva verificare
per motivi fondamentalmente opposti: o perché il negozio, non presentava
(sufficienti) affinità con nessuno schema tipico, o perché al
contrario (e qui i casi dovevano essere certo più frequenti) il
contratto presentava affinità con più di uno schema contrattuale
(tipo o modello che fosse), senza che nessuno di questi potesse però
ritenersi effettivamente prevalente rispetto all’altro (o agli altri).
Entrambe le ipotesi sarebbero state
accomunate dal punto di vista processuale dall’assenza di uno specifico
‘Musterklage’. Ciò avrebbe comportato che la concessione di
uno strumento di tutela sarebbe dovuta avvenire attraverso la predisposizione, ex novo, di un apposito programma di
giudizio, che non avrebbe potuto ritenersi, in senso proprio, il risultato di
un intervento adeguativo di modello di giudizio individuabile sul piano del nomen actionis (o contractus).
Da altro punto di vista, però, si
trattava di situazioni che ponevano problemi sostanzialmente differenti,
richiedendo la prima un processo valutativo sicuramente più articolato.
Di fronte all’atipicità in senso stretto della vicenda negoziale (ipotesi 3), si sarebbe infatti
pregiudizialmente posta la questione del riconoscimento o meno della natura
contrattuale dell’operazione realizzata dalle parti, dovendosi concedere,
a seconda dell’esito di tale valutazione, o un’azione diretta
all’adempimento o diversamente un’azione ripetitiva (condictio) o comunque non propriamente
attuativa del programma contrattuale (actio
in factum, actio de dolo).
A tal fine si sarebbe reso
indispensabile operare attraverso diversi e più raffinati schemi logici,
che consentissero un salto di qualità sul piano del ragionamento
giuridico. Si sarebbe, dunque, dovuto abbandonare il piano
‘empirico’, o euristico, dell’analogia, o meglio della relazione
analogica (intesa, come si è detto, come individuazione di elementi
comuni con schemi tipici), per concentrarsi su un tipo di analisi, che, come
quella sillogistica, fosse in grado di affrontare la questione della natura
giuridica dell’operazione.
Per compiere una valutazione del genere
sarebbe stato necessario disporre di una preordinata categoria generale di
contratto. Valutata positivamente la riconducibilità della fattispecie
concreta all’interno nella nozione generale (sussunzione), si sarebbe
dovuto approntare un’apposita azione che, per quanto magari modellata in
concreto sulla specificità dell’operazione contrattuale che andava
a tutelare, avrebbe (inevitabilmente) presentato un carattere generale, come
generale era la nozione che ne costituiva il presupposto di impiego: con le
conseguenze che ciò, ancora una volta, avrebbe comportato sul piano
dell’individuazione del regime da applicare nella soluzione della
controversia[282].
Non sembra invece che il ricorso allo
stesso percorso argomentativo si rendesse necessario anche nell’ipotesi
opposta di ‘analogia plurima’. È bene osservare che sul
versante processuale un’ipotesi del genere avrebbe potuto tradursi in una
varietà di soluzioni, con un inevitabile livello di condizionamento
esercitato dalla tipologia di tutela degli schemi edittali coinvolti sul piano
dell’affinità analogica.
È ragionevole supporre che di
fronte a una omogeneità processuale dei tipi di riferimento, si
procedesse a costruire una formula
iudicii ‘analoga’ al modello (generale) di giudizio: se dunque
tutti i rapporti in questione fossero stati tutelati mediante azioni di buona
fede (ipotesi 4.1), non ci sono
ragioni per ritenere che ci si dovesse discostare da tale modello. Si deve
però osservare che, a differenza dell’ipotesi n. 2 (§ 6.1),
dovremmo qui discutere di azione ad
exemplum di tipo generico (iudicium
bonae fidei), non di tipo specifico (ad es. actio empti).
Paradigmatico da questo punto di vista
deve ritenersi il caso dell’aestimatum,
rispetto al quale ci fornisce preziose informazioni (ancora una volta) Ulpiano
in
D.19.3.1pr. (Ulp. 32 ad ed.): Actio de aestimato
proponitur tollendae dubitationis gratia: fuit enim magis dubitatum, cum res
aestimata vendenda datur, utrum ex vendito sit actio propter aestimationem, an
ex locato, quasi rem vendendam locasse videor, an ex conducto, quasi operas
conduxissem, an mandati: melius itaque visum est hanc actionem proponi:
quotiens enim de nomine contractus alicuius ambigeretur, conveniret tamen
aliquam actionem dari, dandam aestimatoriam praescriptis verbis actionem rell.
Anche in questa circostanza ci troviamo
di fronte a una testimonianza notissima, che ha assunto un rilievo nevralgico,
più che per le vicende interne al contratto estimatorio[283]
— importanti indubbiamente, ma non tali da giustificare il grande interesse
che si è andato coagulando intorno al brano —, per le informazioni
che più generalmente si è ritenuto di poter rivacare sul piano
della ricostruzione delle concrete vicende evolutive dell’agere praescriptis verbis, essendo qui
documentato, secondo l’opinione assolutamente prevalente[284],
un esempio (l’unico esempio, in effetti)[285]
di riconoscimento, a livello edittale, di una delle sue ipotesi applicative.
Non è certo qui possibile affrontare le diverse opinioni che sono state
avanzate al riguardo in dottrina, anche in relazione a possibili (ma mai del
tutto spiegati) contestuali processi migratori della praescriptio all’interno del programma di giudizio[286].
Né ci si può soprattutto
addentrare in una più precisa valutazione in ordine
all’eventualità, variamente teorizzata, di un impiego
dell’indicata azione quale modello (Musterklage) da adattare in concreto
per la tutela di quei rapporti contrattuali che avrebbero continuato a
mantenersi al di fuori dell’ambito edittale[287]:
per quanto si può certamente affermare che si è trattato di
proposte congetturali estremamente incerte, per lo più determinate da
una non felice interpretazione del brano dovuta al fatto che non si è
stati in grado di distinguere, nella non poi così complessa trama
narrativa del passo, i differenti piani temporali su cui si muove il
ragionamento ulpianeo, in modo che considerazioni evidentemente appartenti al
passato (quotiens-actionem)[288],
anche se magari in una versione non del tutto coincidente con quella attuale[289],
si siano malauguratamente trasformate in linee guida, se non addirittura in
prescrizioni, per il futuro.
Ciò che interessa qui evidenziare
è che il giurista severiano si preoccupa di precisare come la
predisposizione a livello edittale (‘proponitur’)
dell’actio de aestimato[290]
si fosse resa opportuna allo scopo di risolvere le gravi incertezze sino ad
allora sussistenti sul piano della precisa configurazione del contratto,
presentando questo profili tali da rendere astrattamente possibile una sua
riconduzione a più schemi edittali, e dunque a più modelli
processuali di tutela: actio ex vendito
(propter aestimationem), ex locato (quasi rem vendendam locasse), ex
conducto (quasi operas conduxissem).
L’azione, anche
nell’originaria configurazione extraedittale cui accenna Ulpiano[291],
ricorrendo all’insolita e anche per questo sospetta(ta) locuzione ‘aestimatoria praescriptis verbis actio’[292],
si sarebbe discostata dagli schemi delle indicate azioni edittali sul (solo)[293]
piano della rappresentazione della res de
qua agitur, sostituendo alle consuete formulazioni (che, guardate dal punto
di vista di colui che aveva dato in vendita la res aestimata, sarebbero state: quod
[...] vendidit, quod [...]
locavit, quod [...] conduxit),
una più analitica descrizione della vicenda negoziale: quod asas nono rem
aestimatam vendendam dedit[294].
Si sarebbe dunque trattato di azione ad exemplum di tipo generico rispetto a
situazione negoziale la cui contrattualità era facilmente ricavabile (se
del caso) per analogia ai i tipi edittali, senza che fosse dunque necessario
ricorrere all’impiego di una nozione generale di contratto.
Una soluzione del genere non sarebbe
però altrettanto scontata di fronte a ipotesi di schemi processuali
disomogenei, non avendo qui il giurista a disposizione un modello processuale
unico. Peraltro nella valutazione molto sarebbe dipeso dalla natura concreta
delle azioni edittali di riferimento. Si sarebbe potuto configurare un
‘concorso’ teorico tra azioni di buona fede e di stretto diritto (ipotesi 4.2); o tra azioni di buona fede
e azioni in factum (ipotesi 4.3)[295].
Si pensi, ad es., all’ipotesi
affrontata in Afr. 8 quaest. 19.5.24,
dove l’operazione oscilla tra mutuo e mandato:
D.19.5.24 (Afr. 8 quaest.): Titius Sempronio triginta dedit, pactique sunt, ut ex
reditu eius pecuniae tributum, quod Titius pendere deberet, Sempronius
praestaret, computatis usuris semissibus, quantoque minus tributorum nomine
praestitum foret, quam earum usurarum quantitas esset, ut id Titio restitueret,
quod amplius esset, id est ex sorte decederet; aut si et sortem, et usuras
summa tributorum excessiset, id, quod amplius esset, Titius Sempronio
praestaret, neque de ea re ulla stipulatio interposita est. Titius consulebat,
id quod amplius ex usuris Sempronius redegisset, quam tributorum nomine
praestitisset, qua actione ab eo consequi posset? Respondit, pecuniae quidem
creditae usuras, nisi in stipulationem deductas, non deberi; verum in proposito
videndum, ne non tam foenerata pecunia intellegi debeat, quam quasi mandatum
inter eos contractum, nisi quod ultra semissem consecuturus esset. Sed ne
ipsius quidem sortis petitionem pecuniae creditae fuisse, quando, si Sempronius
eam pecuniam sine dolo malo vel amisisset, vel vacuam habuisset, dicendum,
nihil eum eo nomine praestare debuisse. Quare tutius esse praescriptis verbis
in factum actionem dari, praesertim quum illud quoque convenisset ut quod
amplius praestitum esset, quam ex usuris redigeretur, sorti decederet; quod
ipsum ius et causam pecuniae creditae excedat.
La fattispecie descritta risulta
estremamente articolata[296] e non
suscettibile di preciso inquadramento all’interno dei tradizionali schemi
sinallagmatici, almeno secondo le più elementari configurazioni in cui
ce li presenta il tractatus paolino
di D.19.5.5 [297].
Volendo provare a riassumere nei tratti essenziali la vicenda negoziale
intercorsa tra i contraenti, possiamo dire che essa prevedeva la consegna di
una somma di denaro con l’obbligo in capo all’accipiente (Sempronius) di provvedere al pagamento
del tributum dovuto da Titius, facendo ricorso agli interessi maturati sul capitale,
computati nella misura del 6%. Obbligo che, peraltro, andava ad aggiungersi a
quello di restituire il capitale più la somma di interessi eventualmente
rimasta. Nel caso in cui l’importo del tributum si fosse rivelato maggiore rispetto a quello degli
interessi così computati, Sempronius
avrebbe dovuto attingere al capitale, deducendo la somma prelevata da quella
che andava restituita a conclusione dell’intera operazione negoziale.
Da parte sua Titius si impegnava a rimborsare Sempronius, nel caso in cui l’insufficienza del capitale lo
avesse costretto ad aggiungere di tasca propria la somma necessaria per far
fronte al pagamento dell’imposta. Sempre a Sempronius veniva d’altra parte riconosciuta la
facoltà di trattenere per sé gli eventuali interessi percepiti in
misura maggiore rispetto al concordato 6%. Occorre inoltre tenere presente che
tra le parti non era intercorsa alcuna stipulatio
nella quale fosse stato riversato il contenuto dell’accordo: ‘neque de ea re ulla stipulatio interposita
est’.
A questo punto Titius si rivolgeva a Salvio Giuliano (Titius consulebat) per ottenere chiarimenti circa le
modalità con cui ottenere la somma di interessi rimasta dopo il
pagamento del tributum. Ciò
porta dunque legittimamente a ritenere che nel caso specifico
l’entità del tributo fosse risultato inferiore rispetto
all’importo delle usurae.
Questione pregiudiziale che si poneva all’attenzione
del giurista era ovviamente quella di procedere a una puntuale qualificazione
della fattispecie intercorsa tra le parti. Non occorre avvertire che se ci si
fosse orientati per un inquadramento della vicenda negoziale negli schemi propri
del mutuo, si sarebbe finito per negare al richiedente il diritto di pretendere
il pagamento degli interessi, essendo in tal caso l’azionabilità
della pretesa ‘usuraia’ legata all’adozione di
un’apposita stipulatio usurarum[298].
Al riguardo, Giuliano si poneva però
l’interrogativo se l’operazione posta in essere dalle parti andasse
più propriamente ricondotta all’interno del contratto di mandato[299],
o se comunque fosse a questo assimilabile[300],
con una soluzione che, in considerazione della natura di buona fede
dell’azione da questo scaturente, avrebbe certamente consentito a Titius di ottenere la corresponsione
degli interessi nonostante il mancato ricorso ad apposita stipulatio.
Anche quest’opzione presentava
però più di un inconveniente. Primo fra tutti il carattere essenzialmente
gratuito di tale figura contrattuale, essendo qui (almeno così si
ritiene) riconosciuto a Sempronius il
diritto di trattenere eventuali interessi ricavati in misura superiore
all’aliquota convenuta del 6%[301].
Si è anzi ipotizzato che ciò fosse il motivo che aveva portato
Sempronio a occuparsi del negozio[302].
A questa prima difficoltà se ne
aggiungeva un’altra che non investiva aspetti propriamente dogmatici, ma
che piuttosto nasceva da valutazioni che non avrebbero dovuto incidere sul
piano della qualificazione della fattispecie e che avrebbero dovuto piuttosto
costituirne il riflesso, ma che ciò nonostante assunsero un rilievo non
marginale nel processo di formazione del responso giulianeo[303].
Il parere di Giuliano appare infatti
significativamente condizionato dall’esigenza di rinvenire la soluzione
più adeguata anche sotto il profilo del regime giuridico applicabile. E
a questo riguardo il giurista non poteva sottrarsi dall’osservare che,
con l’inquadramento della fattispecie all’interno del contratto di
mandato, si sarebbe corso il rischio, che nel caso specifico assumeva
chiaramente una connotazione solo teorica[304].
di non poter addirittura pretendere la restituzione del capitale, qualora
questo fosse andato perduto per causa non imputabile a comportamento doloso da
parte di Sempronius (‘si Sempronius eam pecuniam sine dolo malo
vel amisisset, vel vacuam habuisset’)[305].
Ecco che, alla luce dell’insieme
di tali valutazioni (quare), Giuliano[306]
avrebbe finito per ritenere preferibile, in quanto più sicuro (tutius esse), agire praescriptis verbis in factum. Tanto più che (praesertim) la pattuizione (illud
quoque convenisset) in virtù della quale l’importo versato
oltre la misura degli interessi convenuti avrebbe dovuto essere scomputato
dalla sorte (ut quod amplius praestitum esset, quam ex usuris redigeretur,
sorti dederet) appariva difficilmente conciliabile con il contratto di
mutuo. Inconciliabilità che veniva riassunta dal giurista adrianeo in
una formulazione espressiva (‘ipsum
ius et causam pecuniae creditae excedat’)[307],
in cui risulta estremamente problematico intendere il senso preciso del
richiamo congiunto[308] alle nozioni di ius[309]
e causa, per quanto
debba ritenersi incerto il tentativo di individuare una relazione tra la causa qui richiamata da
Giuliano-Africano e la nozione aristoniana di causa[310], da intendersi
nei moderni termini di funzione contrattuale, quasi a volere sottolineare
un’incongruenza tra causa in concreto e causa in astratto, e dunque tra
tipo[311]
e specie[312].
È per certi superfluo osservare
che in passato il brano era stato sottoposto a severa critica, soprattutto da
parte della dottrina interpolazionistica, la quale, bisogna ammetterlo, era
stata sicuramente agevolata dall’andamento discontinuo che indubbiamente
affligge il testo.
I sospetti degli studiosi si sono in
particolare indirizzati verso la locuzione ‘actio in factum praescriptis verbis’[313].
Si è così inizialmente
ipotizzato un ricorso da parte di Giuliano alla stessa actio mandati[314], invocandosi al
riguardo Gai. 2 cott. D.17.1.2.4 [315],
con una proposta, che nonostante un’iniziale seguito[316],
è stata col tempo sostanzialmente abbandonata, non essendo riuscita a
chiarire per quale motivo i compilatori avrebbero dovuto inventarsi di sana
pianta la questione agitata in Afr. 8 quaest.
D.19.5.24, se Giuliano avesse preso posizione in favore dell’actio mandati.
Anche in considerazione della soluzione
indicata in Ulp. 4 ad ed. D.2.14.7.2,
ci si è allora orientati verso un’originaria applicazione di
azione decretale in factum concepta[317],
con un’ipotesi che anche recentemente sembra riscuotere parziale credito
tra gli studiosi[318].
Sulla genuinità della soluzione,
com’è noto, la dottrina più recente sembra però aver
mutato significativamente atteggiamento, per quanto (come si è appena
detto) non siano appunto mancate voci discordanti.
A questo proposito occorre riconoscere
che entrambi i rimedi si sarebbero rivelati in grado di assicurare una
soddisfacente risposta per tutti i rilievi sollevati dal giurista adrianeo. Sia
per ciò che concerne il
pagamento degli interessi, per il quale non vi era ovviamente alcuna
necessità di ricorrere all’adozione di un’azione di buona
fede[319],
potendo il fatto della pattuizione essere agevolmente recuperato
all’interno dell’intentio (in factum) assieme agli altri elementi costitutivi della
fattispecie; sia per quanto riguarda il profilo della
responsabilità, con l’unica differenza che nell’actio in factum (concepta) si sarebbe probabilmente trovato un esplicito riferimento
al criterio di responsabilità da applicare, sul modello ad es.
dell’actio depositi in factum,
in cui, com’è noto, ai fini della condanna era espressamente
richiesta una condotta dolosa da parte del convenuto (Gai 4.47:…eamque dolo malo Ni Ni Ao Ao redditam non
esse). Né del resto dal brano emergono elementi che consentano di
ipotizzare la sussistenza di un interesse positivo all’adempimento
quantificabile in una misura maggiore rispetto alla somma di interessi
eccedente l’importo del tributo: quindi, anche dal punto di vista
dell’ammontare della condanna, entrambe le azioni avrebbero assicurato
un’adeguata tutela per il richiedente.
Non sembra invece seriamente
percorribile l’ipotesi recentemente avanzata di un processo combinatorio
dei due modelli processuali, attribuendo ad Africano l’idea di far
precedere l’actio in factum giulianea dai praescripta verba[320], apparendo da questo punto di vista di
assai dubbia utilità il ricorso a una praescriptio (‘determinativa’) nell’ambito di un
impianto processuale, in cui il compito di assicurare l’individuazione
della res de qua agitur sarebbe stato
già efficacemente assolto dall’intentio
(in factum concepta), ove appunto avremmo trovato indicati gli elementi
descrittivi del fatto costitutivo della pretesa[321].
Così come, peraltro, rimane sostanzialmente imprecisato in che termini
l’actio in factum praescriptis
verbis suggerita da Africano avrebbe dovuto assicurare una maggiore
efficacia sul piano della tutela formulare, rispetto al modello dell’actio civilis incerti aristoniana[322].
Ciò chiarito, c’è
però da interrogarsi fino a che punto si possa seriamente mettere in
dubbio il ricorso qui ad azione civile, rispetto a un’ipotesi che offriva
margini per una riconduzione a più di un tipo contrattuale, e in cui il
ricorso alle rispettive azioni edittali era piuttosto sconsigliato dalla non
assoluta corrispondenza del regime giuridico di entrambi in contratti rispetto
alle reali intenzioni delle parti contraenti. Tanto più che la
precedentemente ammessa equivalenza sostanziale dei due modelli di giudizio (actio in factum concepta, a.p.v.) doveva valere unicamente per il
caso specifico affrontato da Giuliano, in cui l’azione era rivolta, come
si è visto, agli interessi residui: ma noi sappiamo che
l’elaborazione della soluzione giulianea era proiettata nel senso di una
più generale applicazione.
Si deve d’altra parte considerare
che le perplessità variamente avanzate in dottrina, appaiano in molti
casi sostanzialmente prive di una valida motivazione, dipendendo piuttosto da
una pregiudiziale diffidenza verso ogni soluzione giulianea che appaia non in
linea con il punto di vista espresso in Ulp. 4 ad ed. D.2.14.7.2.
Non senza fondamento, dunque, la
genuinità della locuzione è oggi per lo più ammessa[323].
Rimane semmai da valutare a quale
azione pensasse in concreto Giuliano (e sulla sua scia Africano). È
inutile dire che la soluzione della questione dipende dalle considerazioni
prima sviluppate su un piano assolutamente generale in relazione alla natura
dell’actio p.v.
Quanti aderiscono all’ipotesi di un
adattamento dello schema tipico, sembrano orientarsi verso un adattamento
dell’actio mandati. Adattamento
che in realtà si è tradotto, il più delle volte e come si
è in varie occasioni osservato, nell’elaborazione di un programma
di giudizio sostanzialmente slegato dallo schema edittale di riferimento, e
più corrispondente, per via della mancata riproposizione del nomen contractus tipico, al modello di
un’actio ad exemplum di tipo
generico[324].
Non è mancato peraltro chi, come
Artner, in una prospettiva che si dimostra decisamente più coerente con
la logica di un adattamento di azione tipica, ha pensato a un adeguamento
dell’impianto giudiziale non soppressivo però del nomen actionis.
È il caso di riportare la
ricostruzione del programma di giudizio formulata dall’autore:
ea res agatur de datione triginta milium sestertium
pactoque ut (Beschreibung
der Abmachung) quod as as nono ita mandavit,
quidquid etc.[325].
Non si è però
adeguatamente valutato che una tale ipotesi di adattamento formulare
dell’actio mandati farebbe
insorgere delicati problemi sul piano del regime giuridico, rendendo in
particolare di difficile soluzione gli inconvenienti affiorati in tema di
responsabilità, visto che all’estensione utile del modello
edittale si sarebbe dovuta accompagnare un’applicazione della disciplina
prevista per il tipo contrattuale di riferimento[326].
Senonché dalla lettura del brano
è emerso che tra le preoccupazioni che avevano indotto Giuliano a sconsigliare
la riconduzione della fattispecie all’interno della figura del mandato vi
era proprio il rischio (per quanto qui solo teorico) di veder così
compromesso il diritto alla restituzione della somma di denaro, nel caso in cui
il mandatario si fosse trovato nell’impossibilità di provvedervi
per cause a lui non direttamente imputabili (culpa, periculum).
Osservazione che peraltro non è sfuggita allo studioso tedesco[327].
È il caso di rileggere il passaggio in questione
D.19.5.24 (Afr. 8 quaest.): ‘Sed ne ipsius quidem sortis petitionem
pecuniae creditae fuisse, quando, si Sempronius eam pecuniam sine dolo malo vel
amisisset, vel vacuam habuisset, dicendum, nihil eum eo nomine praestare
debuisse’.
Viene allora da chiedersi quanto
ciò risulti compatibile con la scelta di fornire un modello di azione
che contenesse sul piano della qualificazione giuridica della fattispecie un
richiamo alla figura del mandato con le già indicate implicazioni che
ciò avrebbe comportato sul piano del regime.
Si deve in più rilevare che
l’ipotesi presa in considerazione da Giuliano-Africano presentava punti
di contatto anche con lo schema del mutuo, ponendosi dunque in una zona di
confine tra fattispecie contrattuali non omogenee, né dal punto di vista
della struttura obbligatoria (contratto unilaterale-bilaterale imperfetto),
né ancora sul piano della struttura del programma di giudizio (azione di
buona fede-azione di stretto diritto).
L’insieme di queste considerazioni
dovrebbe indurre a ritenere più verosimile, per il caso qui esaminato,
l’ipotesi dell’adozione di un modello generale, non ricalcato su
uno schema processuale tipico in particolare (c.d. ad exemplum di tipo specifico).
Sul piano della valutazione sostanziale
non sembra però che fosse indispensabile una preventiva indagine sulla
natura del rapporto, visto che in entrambi i casi ci si manteneva
nell’ambito della sfera contrattuale (a volervi ricondurre appunto anche
il mutuo). Né nel brano vi sono evidenze specifiche in tal senso, per
quanto (per le considerazioni prima sviluppate) l’adozione di
un’azione generale dovrebbe piuttosto orientare nel senso opposto di una
più approfondita verifica dei caratteri della vicenda negoziale.
Ancora diversa, infine, è
l’ipotesi (4.3) di parziale rispondenza con più tipi edittali non
tutti però propriamente contrattuali, come nel caso ad es. affrontato da
Labeone nel già richiamato Ulp. 11 ad
ed. D.4.3.9.3, in cui, offrendo l’operazione negoziale profili di
somiglianza (anche) con il sequestro (o comunque con il deposito,
all’epoca ancora)[328] tutelato con actio in factum, si profilavano
teoricamente due distinti modelli processuali di riferimento: uno di buona fede
(l’actio mandati),
l’altro in factum (actio depositi, depositi sequestrataria)[329].
Sul piano sostanziale l’operazione
avrebbe dunque presentato una relazione analogica non con più tipi
contrattuali, ma con più tipi ‘negoziali’ non tutti
però propriamente contrattuali: questo almeno se si aderisce alla
prospettiva canonica che esclude un riconoscimento contrattuale in senso
proprio (iure civili), in presenza di
rapporti tutelati attraverso la concessione di azione in factum concepta[330]. Ciò
significa che quest’ultima ipotesi avrebbe sostanzialmente posto il
giurista di fronte alla necessità di affrontare un tipo di valutazione
sostanzialmente analogo a quello esaminato all’ipotesi n. 3, dovendosi anche in questo caso andare a verificare la
natura contrattuale della concreta operazione negoziale.
È il caso di andare a leggere il
brano senza tener conto della parte conclusiva, ove si trova documentato,
com’è noto, il diverso punto di vista di Pomponio (approvato da
Ulpiano), la cui analisi, anche alla luce delle recenti connessioni con la
prospettiva aristoniana variamente avanzate[331],
richiederebbe un approfondimento del pensiero del giurista che non è
possibile qui svolgere:
D.4.3.9.3
(Ulp. 11 ad ed.): Labeo libro
trigensimo septimo posteriorum scribit, si oleum tuum quasi suum defendat
Titius, et tu hoc oleum deposueris apud Seium, ut is hoc venderet et pretium
servaret, donec inter vos deiudicetur cuius oleum esset, neque Titius velit
iudicium accipere: quoniam neque mandati neque sequestraria Seium convenire
potes nondum impleta condicione depositionis, de dolo adversus Titium agendum.
sed Pomponius libro vicensimo septimo posse cum sequestre praescriptis verbis
actione agi, vel si is solvendo non sit, cum Titio de dolo. Quae distinctio
vera esse videtur.
Tizio
avanza pretese sulla proprietà di una partita d’olio
(appartenente: oleum tuum)[332]
e comunque nella disponibilità di Tu[333],
il quale si premura di consegnarlo in deposito a Seio con l’incarico di
venderlo, trattenendo il prezzo ricavato, in attesa che venga fatta chiarezza
circa l’effettiva proprietà dell’olio. Nel brano non viene
espressamente chiarito se la vendita dell’olio abbia avuto luogo[334].
Sappiamo però che il giudizio che avrebbe dovuto stabilire la
proprietà della partita d’olio non si è tenuto per un fatto
direttamente imputabile a Tizio (neque
Titius velit iudicium accipere).
Si
pone a questo punto la questione di decidere attraverso quale azione Tu possa ottenere da Seio la
restituzione dell’olio o del prezzo ricavato dalla vendita.
Nell’impossibilità di ricorrere all’actio depositi sequestrataria o all’actio mandati di fronte al mancato avveramento della condizione,
Labeone si orienta per l’impiego dell’actio de dolo nei confronti di Tizio.
Si
tratta come si vede di un’ipotesi molto complessa[335],
anche sul piano della precisazione dei ruoli processuali assunti da Tu e Tizio nell’ambito del
giudizio di rivendica[336].
Né
vi è unanimità di vedute sulle ragioni del mancato ricorso, da
parte di Labeone, a una delle azioni tipiche indicate nel testo. Stando al
brano ciò sarebbe innanzi tutto dipeso dal mancato verificarsi della
condizione: circostanza, questa, che avrebbe reso impossibile
l’individuazione del soggetto legittimato a pretenderne la restituzione[337].
Va detto che, per lo più, gli studiosi non si sono accontentati di tale
spiegazione e hanno provato a ricercare ragioni più profondamente legate
alla (mancata) sussistenza degli elementi costitutivi di entrambe le
fattispecie contrattuali evocate dal giurista.
Quanto
al mandato, si è detto, Labeone non avrebbe potuto ignorare la scarsa
compatibilità (sul piano causale) con una vicenda negoziale in cui
doveva ritenersi complessivamente[338]
preminente la funzione di custodia del deposito[339];
quanto al sequestro, invece, un rilievo andrebbe attribuito al fatto che a
consegnare qui la res è uno
solo dei pretendenti (‘tu hoc oleum
deposueris’), essendo invece per il sequestro richiesta la consegna
da parte di entrami i contraenti[340]:
circostanza, questa, che avrebbe in più portato alla configurazione
problematica di un caso di contratto a favore (anche) di terzo[341].
Il problema principale da
risolvere però, com’è stato osservato, è quello del «motivo per cui
Labeone non abbia fatto qui ricorso all’actio praescriptis verbis»[342] (da esercitarsi
nei confronti di Seio, secondo quanto
sarebbe stato successivamente ammesso da Pomponio e Ulpiano)[343], e si sia piuttosto orientato
verso un’applicazione dell’actio
de dolo (nei confronti di Titius), con una soluzione che ovviamente è stata invocata dalla
dottrina interpolazionistica per mettere più in generale in discussione
la classicità dell’a.p.v., e sulla quale anche di
recente è stata richiamata l’attenzione per riconsiderare
quantomeno l’idea di una risalenza di tale azione al giurista augusteo[344].
Senza
voler prendere qui in considerazione ulteriori tentativi di spiegazione che
richiederebbero maggiore approfondimento[345],
più di un autore ha pensato di spiegare la mancata concessione da parte
di Labeone dell’actio praescriptis
verbis, con la difficoltà di individuare un’azione tipica di
buona fede sui cui ricalcare la formula[346].
Non potendosi prendere a riferimento l’actio mandati, per via delle denunciate incompatibilità di
tipo funzionale del mandato con il caso qui affrontato, neppure si sarebbe
potuto ripiegare sull’actio
depositi sequestrataria o sulla diversa e più generale actio depositi, data la natura in factum di entrambe[347].
Si
tratta di una spiegazione non irragionevole, ma che dovrebbe costituire un
motivo per tornare a riflettere più attentamente sull’impiego da
parte di Labeone della nozione di contratto (di Ulp. 11 ad ed.) nella prospettiva di un superamento del principio della
tipicità contrattuale.
È
appena il caso di osservare che l’assenza in effetti di un’azione
di riferimento o comunque l’oscillazione tra schemi negoziali non tutti
tutelati mediante azione di buona fede, non avrebbe dovuto rappresentare un
impedimento alla concessione di un azione in
ius descrittiva (in factum) della
concreta operazione in base alla ravvisata contrattualità della
operazione stessa. In altri termini una ragione per escludere il riconoscimento
dell’a.p.v. avrebbe dovuto
piuttosto essere rintracciata nell’assenza di un’ultro citroque obligatio, non certo
nell’assenza di un modello su cui ricalcare l’azione.
Al pari di ogni schematizzazione, anche
quella qui proposta rischia indubbiamente di tradursi in una semplificazione,
forse a tratti anche grossolana, di processi argomentativi molto più
complessi, che in concreto non sempre dovevano obbedire a un preciso ordine
logico, o comunque non a quello che si è provato qui a descrivere, ma
che piuttosto potevano presentare uno sviluppo molto più incerto, meno
lineare, sul quale spesso dovevano incidere valutazioni che sfuggono a
considerazioni propriamente dogmatiche[348].
Del resto si deve anche immaginare che nel compiere tali valutazioni il
giurista avrebbe dovuto sostanzialmente tener conto degli interessi delle
parti, in considerazione del fatto che l’adozione delle varie soluzioni
non sarebbe rimasta priva di implicazioni sul piano dell’individuazione
del regime giuridico da applicare. In altri termini la
‘qualificazione’ della fattispecie per certi versi costituiva una sostanziale
anticipazione dell’esito del giudizio. Da altro punto di vista, si deve
anche considerare che il giurista era chiamato a operare avvalendosi degli
strumenti (processuali) che in concreto erano a sua disposizione: circostanza
che avrebbe potuto significativamente compromettere sviluppi che, sul piano
dell’astratta potenzialità logica, una sapiente combinazione delle
due tecniche argomentative avrebbe consentito di raggiungere.
Per quanto dunque occorra guardare con
la dovuta prudenza a ogni tentativo di ‘processualizzazione’
logica, che finirebbe per ignorare l’importanza del momento euristico
nell’approccio investigativo, ciò è comunque servito a
mettere in evidenza la varietà e la complessità di risposte che
potevano concretamente delinearsi, sul piano processuale, di fronte a vicende
negoziali, la cui atipicità o anomalia non doveva riguardare
necessariamente il profilo propriamente causale (del nomen iuris), e in cui piuttosto i dubbi sulla esperibilità
dell’azione edittale potevano dipendere da profili per così
‘disciplinari’ (ius) o da
una non piena ‘integrazione’ della vicenda contrattuale.
Varietà che si può così sintetizzare: a) assimilazione con
formula tipica; b) analogia, con azione civile ad exemplum di tipo specifico (mantenimento nomen contractus); c) sussunzione in schema contrattuale, con
azione civile ad exemplum di tipo
generico (con descrizione in factum o
per nomen contractus non edittale: permutatio, aestimatum).
Ciò ci pone di fronte a una
questione molto delicata e che indubbiamente costituisce il tema centrale su
cui oggi si confrontano gli studiosi del settore, ovvero l’individuazione
del mezzo o dei mezzi processuali che avrebbero dovuto garantire il
raggiungimento pratico di tali finalità. C’è appunto da
chiedersi se entrambi i modelli processuali indicati sotto b e c), possano
considerarsi praescriptis verbis[349],
e fino a che punto l’a.p.v.
rappresentasse uno strumento processualmente in grado di rispondere alle
diverse esigenze di tutela qui evidenziate.
Sul piano sostanziale ci ha forse
permesso di meglio comprendere in quale misura l’elaborazione di una
nozione generale di contratto sarebbe risultata in concreto utile
nell’ambito di un sistema giuridico principalmente ispirato a una
valutazione analogica per tipi negoziali, ove il ricorso a una logica di tipo
sillogistico sul versante del riconoscimento avrebbe assolto una funzione se
vogliamo unicamente residuale.
In effetti, il giurista non aveva
interesse di per sé alla soluzione del tema sostanziale della natura
(propriamente) contrattuale dell’operazione negoziale: ciò che
contava era piuttosto l’individuazione dell’azione da impiegare. Di
fronte alle situazioni prima indicate alle ipotesi
2, 4.1 (e probabilmente anche 4.2), doveva risultare non indispensabile
impegnarsi in una più attenta analisi della questione sostanziale, la
quale poteva senza dubbio considerarsi superata dalla rinvenuta analogia con
tipi edittali indiscutibilmente riconducibili alla categoria contrattuale e,
per così dire, assorbita nella questione processuale.
È solo nei casi in cui la vicenda
non consentisse precisi accostamenti con una o più figure contrattuali
tipiche (ipotesi 3) o comunque in cui
presentasse punti di contatto con fattispecie non tutte propriamente
contrattuali (ipotesi 4.3) che si
sarebbe posto (o comunque si sarebbe potuto porre) il problema di soffermarsi a
riflettere, a questo punto in via pregiudiziale, sulla contrattualità o
meno dell’operazione, andando così ad affrontare una questione
dalla cui soluzione sarebbe venuta in concreto a dipendere l’individuazione
del tipo di tutela da accordare, e se questa dovesse intendersi diretta
all’adempimento, alla semplice ripetizione, o ancora al soddisfacimento
del c.d. interesse negativo.
Per concludere, va infine osservato che
ciò potrebbe anche contribuire a spiegare la ragione per cui in materia
contrattuale le fonti rappresentano un quadro in cui sembra decisamente
prevalente la dimensione analogica, in termini che evidenziano una sfasatura
tra l’impostazione con cui è affrontata la questione della tutela
delle convenzioni atipiche in Ulp. 4 ad ed. D.2.14.7.2 e il percorso
argomentativo prevalentemente adottato dai giuristi romani sul piano delle
soluzioni concrete[350]. Scarto che si
può appunto riassumere nel passaggio da una prospettiva propriamente
sillogistica a una prevalentemente analogistica.
The
research focuses on the protection of innominate contracts, distinguishing
between the theme of the procedural atypicalness and that of the contractual Atypicalness
in the strict sense. It will be analyzed the relationship between logical and
argumentative processes (paradigmatic reasoning: assimilation, analogy;
syllogistic-deductive reasoning) and related procedural models (typical action,
action ad exemplum of a specific
type, action ad exemplum of generic
type). More precisely, it will be taken into account the following solutions.
Substantially and formally assimilative solutions. Actions ad exemplum of a specific type with substantial, but not formal,
assimilation having a paradigmatic argumentative approach. Actions ad exemplum of specific type, but
outside of a paradigmatic or a deductive proceed. Forms of protection in the
absence of a specific reference model: plural analogy -Atypicalness in the strict
sense. Plural analogy with uneven procedural patterns reference. Plural analogy
with respect to cases which are not all of them protected iure civili.
La ricerca affronta il tema della tutela
delle fattispecie contrattuali atipiche, tenendo distinto il tema
dell’atipicità processuale da quello dell’atipicità
contrattuale in senso stretto. Ci si sofferma, in particolare, sulle relazioni
tra processi logico-argomentativi (ragionamento paradigmatico: assimilazione,
analogia; ragionamento sillogistico-deduttivo) e connessi modelli processuali
(azione tipica, azione ad exemplum di
tipo specifico, azione ad exemplum di
tipo generico). Più precisamente, si sottopongono ad analisi i seguenti
modelli solutivi. Soluzioni sostanzialmente e formalmente assimilative. Azioni ad exemplum di tipo specifico con
assimilazione sostanziale, ma non formale, con approccio argomentativo di tipo
paradigmatico. Azioni ad exemplum di
tipo specifico, ma al di fuori di un procedere paradigmatico o deduttivo. Forme
di tutela in assenza di specifico modello di riferimento: analogia
plurima-atipicità in senso stretto. Analogia plurima con
disomogeneità di schemi processuali di riferimento. Analogia plurima
rispetto a vicende non tutte tutelate sul piano dello ius civile.
[Gli scritti della sezione “Memorie” sono
stati oggetto di valutazione da parte dell’organizzazione scientifica del
Convegno, d'intesa con la direzione di Diritto @ Storia].
* [ Atti del Convegno di Studi «Nomen contractus. Tutele edittali nella Roma classica»,
organizzato dal Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università
di Verona (14 maggio 2013), per iniziativa di Tommaso dalla Massara e Carlo
Pelloso. n.d.r.]
[1] Esclude che il
brano ulpianeo sia «governato dalla modesta esigenza di rendere conto
disinteressato di una tradizione» A. Schiavone,
La scrittura di Ulpiano. Storia e sistema
nelle teorie contrattualistiche del quarto libro ad edictum, in Le teorie contrattualistiche romane nella
storiografia contemporanea. Atti del Convegno di diritto romano, a cura di
Nicla Bellocci (Siena 14-15 aprile 1989), Napoli 1991, 127.
[3] Per una
identificazione dei due paradigmi contrattuali vd. già A. Pernice, Parerga 3. Zur Vertragslehre
der römischen Juristen, in ZSS. 9 (1888), 249 s.; E. Betti, Sul valore dogmatico della categoria “contrahere” in
giuristi proculeiani e sabiniani, in BIDR.
28 (1915), 21; indicazioni per la letteratura più recente possono
trovarsi infra in nt. 16.
[4] Sulla questione e per una svalutazione
della distinzione tra agere e actio p.v. posta da O. Gradenwitz, Interpolationen in den Pandekten. Kritische Studien, Berlin 1887,
123 ss., sul piano della diagnosi testuale, vd. R. Santoro, Il
contratto nel pensiero di Labeone, in
AUPA. 37 (1983),72 s.; qualche
riserva sembra ancora cogliersi in M.
Talamanca, La risoluzione della compravendita e
le conseguenti azioni di restituzione nel diritto romano, in Caducazione degli effetti del contratto e
pretese di restituzione. Seminario ARISTEC per B. Kupisch (Roma 20-22 giugno 2002), a cura di L.
Vacca, Torino 2006, 59 nt. 173
(«anche adesso, non è sicuro corrisponda, in tutti i luoghi in cui
ritorna, al dettato del giurista classico»).
[7] In questo senso,
decisivo l’apporto delle indagini di J. Pokrowsky,
Die actiones in factum des classischen
Rechts, in ZSS. 16 (1895), 84 s.;
con conclusioni riprese da E. Betti,
Sul valore, cit., 29 s.; tra gli
studi più recenti, vanno perlomeno segnalati S. Tondo, Note ulpianee
alla rubrica edittale per i ‘pacta conventa’, in SDHI. 64 (1998), 455, 464; P. Gröschler, Actiones in factum. Eine Untersuchung zur Klage-Neuschöpfung im nichtvertraglichen
Bereich, Berlin, 2002, 21 nt. 17; T. dalla Massara, Alle origini della
causa del contratto. Elaborazione di un concetto nella giurisprudenza classica, Padova 2004, 149 nt. 242; C. Pelloso, Do ut des e
do ut facias. Archetipi labeoniani e tutele contrattuali nella giurisprudenza
romana tra primo e secondo secolo d. C, in Scambio e gratuità. Confini e contenuti dell’area
contrattuale, Padova 2011, 159 e ivi nt. 131, 170 ss.; nel senso, invece,
di una idoneità anche dell’actio in factum ai fini del
perseguimento del c.d. ‘interesse positivo all’adempimento’
P. Voci, La dottrina romana
del contratto, Milano 1946, 233,
283; M. Sargenti, ‘Actio civilis in factum’ e
‘actio praescriptis verbis’, in SDHI. 72 (2006), 233 s.; C.
A. Cannata, Labeone, Aristone e il
sinallagma, in Iura 58 (2010), 78
s. Più in generale, sulla distinzione ‘negatives
Vertragsinteresse’-‘Erfüllungsinteresse’, vd. A.M.
RABELLO, La teoria di Rudolph von Jhering
sulla culpa in contraendo, in fil…a. Scritti per Gennaro Franciosi 3, a cura
di Federico Maria d’Ippolito, Napoli 2007, 2196 s. nt. 65.
[8] In proposito vd. E. Betti, Sul valore, cit., 30;
B. Biondi, Contratto e stipulatio, Milano 1953, 96 s.; A. d’Ors, Replicas
panormitanas III. «Conventiones» y «contractus», in
AHDE. 46 (1976), 140 s. Ulteriori
indicazioni alla nt. 11.
[9]
Fondamentali, in quest’ordine di idee, le indagini di A. Pernice, Zur Lehre den
Innominatkontrakten, in KVJ. 10 (1868), 91 ss.; Id., Zur Vertragslehre, cit.,
254 s. («die nova negotia,
welche für klagwürdig galten, von den Juristen sabinianischer Schule
einfach zu einer a. in factum
empfohlen wurden»); J. C. Naber,
Observantiunculae de iure romano. XLVIII.
De praescriptis verbis actione, in Mnemosyne
22 (1894), 80; J. Pokrowsky, Die actiones in factum , cit., 84 ss.; così anche S. Riccobono, Conventio, contractus
pactum, in Letture londinesi (maggio 1924). “Diritto romano e diritto
moderno”, a cura
di G. Falcone, Torino 2004, 105 s.
[10] Critiche del resto («je doute
fort quel les Sabiniens aient opposé à l’admission des
contrats innommés une resistence bien énergique, bien longue,
unanime surtout») si trovano espresse già in C. Accarias, Théorie des contrats innommés et explication du titre de
praescriptis verbis au digeste, Paris 1866, 50, per quanto non si possano
trascurare i condizionamenti dovuti all’adesione a una logica
ricostruttiva che guardava alla contrapposizione a.p.v.-a. in factum, secondo gli schemi degli antichi interpreti,
di ‘azione contrattuale generale-azione contrattuale ad exemplum di tipo analogo’, circoscrivendo in sostanza il
dissenso tra le due scuole alla sola questione dell’individuazione degli
strumenti processuali di tutela da accordare; sui limiti di una interpretazione
del fenomeno del contrattualismo atipico ancorata a una rigida antitesi tra
«contrapposte posizioni di scuola» vd. A. Burdese, Osservazioni
in tema di c. d. contratti innominati, in Estudios Iglesias 1, Madrid 1988, 154 s.; Id., I contratti
innominati, in Derecho romano de obligaciones.
Homenaje J. L. Murga Gener, Madrid 1994, 78 s.
[11] Si vedano, ad es., A. Schiavone, Studi sulle logiche dei giuristi romani, Napoli 1971, 160 s.; G. Melillo, Contrahere, pacisci, transigere. Contributi allo studio del negozio
bilaterale romano2, Napoli 1994, 215 ss.; A. Mantello, Le ‘classi nominali’ per i giuristi romani. Il caso di
Ulpiano, in SDHI. 61 (1995), 265 nt. 118.; S. Tondo, Note ulpianee, cit., 452 s., 464; negli stessi termini pure T. Dalla Massara, Alle origini,
cit., 158; da ultimo di «rigida avversione di Salvio Giuliano contro
l’actio praescriptis verbis»
discute C. A. Cannata, Labeone, Aristone, cit., 81; per una
valutazione critica, ma con esiti assai differenti sul piano della concreta
ricostruzione del punto di vista adottato dal giurista adrianeo rispetto alle
dottrine aristoniana o labeoniana, tutti comunque sostanzialmente orientati a
un ridimensionamento del rilievo di Ulp. 4 ad
ed. D.2.14.7.2, vd. A. Giffard, L’actio civilis incerti et le
synallagma, in RHD. 35 (1957)= Études
de droit romain, Paris 1972, 196 ss.; K. Misera, Julian-African
D.19.5.24. Ein Beitrag zu “agere praescriptis
verbis”, in Sodalitas 6, Napoli 1984, 2605 s.; A. Burdese, Osservazioni, cit., 140 s.; Id.,
I contratti innominati, cit., 79;
(con adesione al punto divista di Giffard) R. Knütel,
La causa
nella dottrina dei patti, in Causa e contratto nella prospettiva storico
comparatistica, II Congresso internazionale ARISTEC, Palermo-Trapani, 7-10
giugno 1995, Torino 1997, 138; M. Artner,
‘Agere praescriptis verbis’. Atypische Geschäftsinhalte und
klassisches Formularverfahren, Berlin 2002, 133, 147: «Daran, daß Julian — obgleich Sabinianer —
von einer Klage praescriptis verbis Gebrauch macht, können demnach keine
Zweifel mehr bestehen».
[12] In proposito basterebbe tornare a
leggere A. Pernice, Zur Lehre, cit., 91 ss.; Id., Zur Vertragslehre, cit., 256, ove appunto si tengono separate le
vicende dell’agere p. v., sul
cui impiego da parte di Labeone non sussistevano naturalmente motivi di dubbio,
rispetto alla diversa questione della tutela delle fattispecie contrattuali
atipiche, in senso proprio, la quale avrebbe trovato solo con Aristone una
prima precisa impostazione: nello stesso ordine di idee vd. F. Kniep, Präscriptio und pactum, Jena 1891, 105; J. Pokrowsky, Die actiones in factum, cit., 86; P.F. Girard, Manuel
élémentaire de droit romain, Paris 1897, 570; P. Collinet, L’invention du contrat innommé: le responsum
d’Ariston (D.2.14.7.2) et la question de Celsus (D.12.4.16), in Mnemosyna Pappoulias, Atene 1934, 93
ss.; più articolato, e non senza più o meno vistose incoerenze
interne («Labeon, le premier ou l’un des premiers, conçut
l’idée des contrats innommés»: 48), il pensiero di C. Accarias, Théorie, cit., 31 s., in cui appare però dominante la
prospettiva di una precisa teorizzazione solo a partire da Aristone
(«l’‘idée des contrats innommés n’est
formulée qu’au commencement du second siècle, et encore
d’une manière incomplète»).
[13] Alle indicazioni di cui alle ntt.
46-47, occorre perlomeno aggiungere P.
Lambrini, Actio de dolo malo e
accordi privi di tutela contrattuale, in Sem. compl. 22 (2009),
241.
[14] Implicazioni che sono invece ben
presenti a M. Sargenti, L’actio civilis in factum, cit.,
269 s., il quale, dal suo punto di vista, insiste su tale profilo di
incongruenza per invitare a una profonda e complessiva riconsiderazione
dell’opinione oggi prevalente in dottrina; aspetti di criticità
che, è bene osservare, non sussistevano nell’ordine di idee in cui
si muoveva la dottrina tradizionale, la quale, come si è accennato (supra nt. 12) attribuiva a Labeone un
impiego dell’a.p.v. per lo
più circoscritto alle ipotesi di fattispecie di incerta qualificazione,
dovendosi piuttosto a un successivo e profondamente innovativo spunto
aristoniano l’idea di una estensione dell’agere praescriptis
verbis alle fattispecie atipiche in senso stretto (nova negotia).
[15] Al riguardo, e per una distinzione
rispetto a modelli processuali con formula
in factum (concepta) di cui diversamente
si discute in Gai 4.46, si rinvia a R.
Santoro, Actio civilis in factum,
actio praescriptis verbis e praescriptio,
in Studi in onore di Cesare Sanfilippo
4, Milano 1983, 709 ss.
[16] Per una
identità delle nozioni contrattuali vd. soprattutto R. Santoro, Il contratto, cit., 277
ss.; così sostanzialmente («Aristone aderiva interamente
alla concezione labeoniana del contratto, solo perfezionandola con
l’introdurre la nozione di causa contrattuale»), anche C. A. Cannata, Labeone, Aristone, cit., 54 s., 95 ss., ove, semmai, si attribuisce
al giurista traianeo un’estensione dell’originario ambito
applicativo dell’azione contrattuale generale (a.p.v.) anche all’ambito delle dationes ob rem sino ad allora protette solo «con la condictio per la restituzione del datum re non secuta»; sul piano
processuale, nel senso di un’identificazione actio praescriptis verbis-actio
civilis incerti, vd. R. Santoro, Il contratto, cit.,
73, 96; J. Kranjc, Die ‘actio praescriptis verbis’,
in ZSS. 106 (1989), 444 ss.; C. A. Cannata, L’actio
in factum civilis, in Iura 57
(2008-2009), 47 s.; Id., Labeone, Aristone, cit., 34, 98; L. Garofalo, Contratto, obbligazione
e convenzione in Sesto Pedio, in Le dottrine del contratto nella
giurisprudenza romana, a cura di A. Burdese, Padova, 2006, 349 s. nt. 33; B. Schmidlin, Das
Nominatprinzip und seine Erweiterung durch die ‘actio praescriptis
verbis’. Zum aktionenrechtlichen Aufbau der römischen Konsensualverträge, in ZSS. 124 (2007), 79, 91
nt. 68; R. Scevola, ‘Negotium mixtum cum donatione’. Origini terminologiche e concettuali, Padova 2008, 121 nt. 36; P. Lambrini, Actio de dolo malo, cit., 237.
[17] Così M. Sargenti, La sistematica
pregaiana delle obbligazioni e la nascita dell’idea di contratto, in Prospettive
sistematiche nel diritto romano, Torino 1976, 475 ss.; M. Talamanca, La tipicità dei
contratti romani fra ‘conventio’ e ‘stipulatio’ fino a
Labeone, in Contractus e pactum. Tipicità e libertà negoziale
nell’esperienza tardo-repubblicana. Atti del convegno di diritto romano e della presentazione della nuova
riproduzione della ‘littera Florentina’ (Copanello 1-4 giugno
1988), Napoli 1990, 96 s.; A.
Burdese, Osservazioni, cit.,
133 s.; F. Gallo, Synallagma e conventio nel contratto. Ricerca degli archetipi della categoria
contrattuale e spunti per la revisione di impostazioni moderne. Corso di
diritto romano 1, Torino 1992, 82 ss.; Id.,
Synallagma e conventio nel contratto
2, Torino 1995, 152 ss.; G. Melillo,
Contrahere2, cit., 162 ss.; T.
dalla Massara, Alle origini,
cit., 115 ss.; P. Gröschler,
Auf den Spuren des Synallagma.
Überlegungen zu D.2.14.7.2 und D.50.16.19, in Antike-Recht-Geschichte. Symposion zu Ehren von P.E. Pieler,
Frankfurt am Main 2009, 57 («die beiderseitigen Verpflichtungen»);
S. Viaro, Corrispettività e adempimento nel sistema contrattuale romano,
Padova 2011, 295 («il profilo dell’identità di genesi consensu [...] è palesemente
estraneo al pensiero nel nostro testo»); L. Garofalo, Contratto,
cit., 340, 345; C. Pelloso, Do ut des, cit., 105 s. e ivi nt. 37.
[18] Che lo schema labeoniano, proprio in
quanto riferentesi alla bilateralità del vincolo, contenesse un
implicito riferimento alla prospettiva dell’accordo, è tra gli
altri sostenuto da F. Gallo, Synallagma 1, cit., 154 s., 115 nt. 200.
[19] D.50.16.19 (Ulp.
11 ad ed.): Labeo libro primo praetoris urbani definit [...] contractum autem ultro citroque
obligationem, quod Greci sun£llagma vocant, veluti emptionem venditionem
locationem conductionem societatem: rell.; diversamente, per
un’interpretazione soggettivistica dell’ultro citroque obligatio
labeoniana soprattutto R. Santoro,
Il contratto, cit., 23 ss.; spunti precedenti in J. Partsch, Das Dogma des Synallagma im römischen und byzantinischen Rechte, in ZSS 35 (1914), 336 s., anche in Id., Aus nachgelassenen und
kleineren verstreuen Schriften, Berlin 1931, 10 ss.; P. Voci,
La dottrina romana del contratto,
cit., 51 ss; così anche H. P. Benöhr,
Das sogenannte Synallagma in den
Konsensualkontrakten des klassischen römischen Rechts, Hamburg 1965,
10 ss.; sempre nell’ottica di un’interpretazione soggettiva delle
nozione labeoniana, ma in termini che propongono una delimitazione della
categoria alle sole ipotesi contrattuali (ancorché atipiche) il cui
«regolamento dell’assetto di interessi» fosse «la
risultante di un bilaterale (o plurilaterale) incontro di volontà»
(consentire), e in cui dunque
rimanessero escluse le vicende negoziali legate all’iniziativa di una
sola delle parti, e solo accettate dall’altra (adsentiri alicuius rei: Ulp. 26 ad
ed. D.12.1.1.1) vd. P. Cerami,
D.2.14.5. (Ulp. 4 ad ed.). Congetture
sulle ‘tres species conventionum’, in AUPA. 36 (1976), 123 ss., ove si tende piuttosto ad attribuire a
Pedio il merito di aver posto «l’accento più su
l’accordo che sull’incontro di volontà», assumendo
così la nozione di contractus
nella più ampia prospettiva dell’«obbligazione
convenzionale», e ricomprendendo al suo interno quelle fattispecie (stipulatio, mutuo, deposito, comodato,
pegno e mandato) che erano rimaste ai margini della più antica e
ristretta categoria labeoniana: sul punto vd., in senso critico, quanto
osservato in G. Romano, Conventio e consensus (A proposito di Ulp. 4
ad ed. D.2.14.7.2), in AUPA. 48
(2004), 285 ss.
[20] A. Burdese, Sul riconoscimento civile dei c.d.
contratti innominati, in Iura 36
(1985), 18; Id., Osservazioni, cit., 132 s.
[21] Nel senso di uno
sviluppo o di una precisazione critica della dottrina aristoniana rispetto
all’impostazione del sinallagma labeoniano, vd. già A. Giffard, La doctrine d’Ariston en matière de contrats
innommés, Conférence 14 Mars 1947, in Études,
cit., 190 s., ove, più in particolare, si riconosce ad Aristone il
merito di aver svincolato la nozione di sinallagma dalla categoria «du contrat
consensuel synallagmatique parfait», per identificarla con la più
ampia nozione di negotium contractum,
da intendersi quale «acte présentant un
intérêt», e come tale, contrapposto alla donatio: una presa di posizione per
certi versi analoga sembra potersi oggi cogliere in M. Artner, ‘Agere
praescriptis verbis’, cit., 107 s., 238, il quale, in sostanza,
attribuisce al giurista traianeo un impiego del termine sun£llagma in un nuovo e più generale significato
(«eine allgemeinere Bedeutung»), corrispondente alla nozione romana
del contrahere («bedeutet sun£llagma das
gleiche wie contrahere»: 106),
dovendosi imputare piuttosto a Mauriciano la rielaborazione della nozione nei
termini della moderna nozione sinallagmatica («im Sinne
Gegenseitigkeitsverhältniss(es) von Leistung und Gegenleistung»:
158); più recentemente A. Schiavone,
La scrittura di Ulpiano, cit., 159; A. Mantello, I dubbi di Aristone, Ancona 1990, 123 s.; Id., Le ‘classi
nominali’ per i giuristi romani. Il caso di Ulpiano, in SDHI. 61 (1995), 258 s. (con
un’accentuazione del tono critico: in proposito vd. infra nt. seg); V. Scarano Ussani, Il «probabilismo» di Titius
Aristo, in «Ostraka» 4.2 (1995), 239; F. Gallo, Contratto e atto secondo Labeone: una dottrina da riconsiderare, in
Roma e America. Diritto romano comune
7 (1999), 27; L. Garofalo, Contratto, cit., 362 s.; E. Stolfi, Studi sui ‘Libri ad
edictum’ di Pomponio 2.
Contesti e pensiero, Milano 2001, 197; Id., Introduzione allo
studio dei diritti greci, Torino 2006, 166 s.; T. dalla Massara, Alle origini, cit., 111 ss.; B. Schmidlin, Das Nominatprinzip, cit., 86.
[22] Così — ma in termini che
finiscono per sopravvalutare il senso della precisazione ‘hoc esse sun£llagma’
utilizzata da Aristone in risposta a Celso, che è dato ancora leggere in
Ulp. 4 ad ed. D.2.14.7.2 — A. Mantello, Le ‘classi
nominali’, cit., 258 s., ove si discute di
«un’insofferenza d’Aristone rispetto alla tesi di
Labeone»; non diversamente F.
Gallo, Contratto e atto, cit.,
27: («Aristone enunciò la sua costruzione [...] con
l’espressione, recante una connotazione polemica, hoc esse sun£llagma»).
[24] Sulla necessità di una spontanea
esecuzione di una delle due prestazioni convenute ai fini del perfezionamento o
comunque dell’azionabilità di fattispecie contrattuali atipiche,
nell’ottica aristoniana, sulla scorta principalmente di Ulp. 4 ad ed. (‘subsit tamen causa’), vd. A.
Burdese, Osservazioni, cit.,
137; M. Talamanca, La bona fides nei giuristi romani:
«Leerformeln» e valori dell’ordinamento, in Il ruolo della buona fede oggettiva
nell’esperienza giuridica storica e contemporanea. Atti del Convegno internazionale di studi in
onore di Alberto Burdese (Padova - Venezia - Treviso, 14-15-16 giugno
2001), a cura di L. Garofalo, vol. IV, Padova 2003, 59 s., 65; indicazioni in
proposito possono trovarsi anche in G.
Romano, Note a margine di Ulp. 26
ad ed. D.12.4.3.3-4 (A proposito di una nota interpretazione di Filippo Gallo),
in AUPA. 52 (2007-2008), 179 ss.
[25] A.
Burdese, Sul riconoscimento,
cit., 27 («è ad Aristone che sembra risalire per primo il
riconoscimento di siffatta [...] azione»); Id., Osservazioni,
cit., 137; seguito da T. dalla Massara,
Alle origini, cit., 182 s.;
diversamente M. Talamanca, La bona fides, cit., 59 («mezzo
giudiziario da lungo tempo conosciuto»).
[26] Così, ma in
un ordine di idee che si rivela estremamente disomogeneo e frammentato man mano
che ci si addentri in una più approfondita analisi dei vari e specifici
caratteri di entrambi i modelli processuali, M.
Talamanca, La tipicità,
cit., 101; Id., Pubblicazioni pervenute alla direzione,
in BIDR. 92-93 (1989-1990), 732 ss.; A. Burdese, Osservazioni, cit., 133
ss.; F. Gallo, Synallagma
2, cit., 116 ss.; Id.,
«Agere praescriptis verbis» ed editto alla luce delle
testimonianze celsine, in Atti del II
Convegno sulla problematica contrattuale in diritto romano (Milano, 11 –
12 maggio 1995), Milano 1998, 39; T.
dalla Massara, Alle origini,
cit., 178 ss.; E. Sciandrello, Studi sul contratto estimatorio e sulla
permuta nel diritto romano, Trento 2011, 12 ss., 357 ss., ove è possibile trovare riferimenti alla
principale letteratura sull’argomento.
[27] Così C. A. Cannata, Labeone e il contratto, in Panorami
5 (1993), 136 ss.; Id., Contratto e causa nel diritto romano, in
Causa e contratto, cit., 44 ss.; Id., L’actio
in factum civilis, cit., 20 ss., 41; sempre per un’indicazione della res de qua agitur all’interno
della demonstratio D. Mantovani, Le formule del processo privato romano. Per la didattica delle
istituzioni di diritto romano,2 Padova 1991, 58 nt. 164; J. Schmidt-Ott, Pauli Quaestiones. Eigenart und Textgeschichte einer
spätklassischen Juristenschriften, Berlin 1993, 217; B. Schmidlin, Il consensualismo tra nomina contractus e bonae fidei iudicia, in Diritto
romano, tradizione romanistica e formazione del diritto europeo. Giornate di
studio in ricordo di G. Pugliese (1914-1995), a cura di L. Vacca, Padova 2008, 118; L. Garofalo, Contratto,
cit., 350 nt. 33; C. Pelloso, Do ut des, cit., 169.
[28] F. Gallo, Synallagma 1, cit., 229 s.,
238; nello stesso senso, ma nell’ottica di una identità di mezzi
processuali, soprattutto R. Santoro,
Il contratto, cit., 71 ss.; Id.; Aspetti formulari della tutela delle convenzioni atipiche, in Le
teorie contrattualistiche,
cit., 83 ss.; Id., Actio civilis in factum, cit., 681 ss.; M. Varvaro, Ricerche sulla praescriptio, Torino 2008, 138 ss.
[29] A. Burdese, Osservazioni, cit., 134
(«praescripta verba, inseriti
nella formula stessa, dopo la nomina
del giudice, in luogo e in funzione di demonstratio»).
[30] In quanto azione
pretoria, l’actio in factum
labeoniana, non si sarebbe sottratta a una «valutazione discrezionale della
fattispecie concreta da parte del magistrato» secondo A. Burdese, Osservazioni, cit., 134, 135, 154; Id., Sul riconoscimento,
cit., 18 s., 23; adesivamente T. dalla
Massara, Alle origini, cit.,
186 ss., ove si segnala un percorso di «“civilizzazione”
dell’azione contrattuale» dal passaggio dall’azione
labeoniana a quella aristoniana-mauricianea; da ultimo E. Sciandrello, Studi,
cit., 133; scettico sul punto M. Talamanca, Pubblicazioni (1989-1990), cit., 734 («né [...] credo
possa incidere il profilo [...] che col mezzo aristoniano si veniva ad
“eludere la discrezionalità pretoria”, ché neppure
l’actio incerti era edittale,
nel senso che vi fosse una formula di portata generale proposta
nell’editto, cui l’attore potesse direttamente riferirsi,
ché da tale punto di vista, l’azione veniva sempre concessa dal
pretore»; in senso contrario, per la spettanza dell’azione, vd.
soprattutto R. Santoro, Il contratto, cit., 103; Id., Aspetti formulari, cit., 123 nt. 118; L. Garofalo, Gratuità
e responsabilità contrattuale, in TSDP. 5 (2012), 150; si tratterebbe non di «un’azione
decretale, ma di un’azione che, in quanto civile, sarebbe spettata ipso iure», anche secondo C. Pelloso, Do ut des, cit., 156 s.; che nel caso dell’agere
praescriptis verbis «confluissero i due punti di vista della
spettanza iure civili dell’azione e della discrezionalità
del pretore nella concessione in concreto della formula» è invece
sostenuto, con un punto di vista che sembra voler conciliare le due opposte
prospettive, da F. Gallo, Synallagma 2, cit., 52.
[32] J.4.6.28: ‘Bonae fidei sunt hae: […] praescriptis
verbis quae de aestimato proponitur, et ea, quae ex permutatione competit
[..]’.
[33] In questo senso già F. von Savigny, System des heutigens Römischen Rechts 5, Berlin 1841, 99, 465
nt. f; P.F. Girard, Manuel,
cit., 570; più di recente J.
KranJc, Die actio, cit., 444; A. Burdese, Sul riconoscimento, cit., 18, 23; M.
Talamanca, La tipicità,
101; T. dalla Massara, Alle origini, cit., 186; non senza oscillazioni
di pensiero E. Sciandrello, Studi, cit., 65 s.; per una
delimitazione di tale carattere alle sole ipotesi indicate nel richamato brano
istituzionale, vd. invece G.F. Puchta,
Cursus der Institutionen 2, Leipzig
1842, 120 s. e ivi nt. fff; G. Lombardi, L’‘actio aestimatoria’ e i ‘bonae fidei
iudicia’, in BIDR. 63
(1960), 152 ss., 178 ss.; in termini ancora più radicali attribuiva ai
bizantini la trasformazione dell’azione in iudicium bonae fidei E.
Betti, Sul valore, cit., 28
(su cui vd. infra nt. 52), con un
punto di vista che tra gli studiosi più recenti ha fatto presa (almeno
per quanto riguarda gli indicati aspetti formulari) su A. Schiavone, Studi,
cit., 99; da ultimo, sembrerebbe sollevare qualche interrogativo sulla presenza
della clausola in questione all’interno dell’a.p.v. «(forse ex fide
bona)» A. Sanguinetti, D.19.5.22: Gaio e il ‘iudicium quasi
de novo negotio’, in TSDP.
5 (2012), 31.
[34] A.
Burdese, Osservazioni, cit.,
137; F. Gallo, Synallagma 2, cit., 118; M. Talamanca, La bona fides, cit., 59; T.
dalla Massara, Alle origini,
cit., 183.
[35] A. Burdese, Sul riconoscimento, cit., 68
(«il riconoscimento della spettanza di actio civilis incerti poteva presentare il vantaggio di eludere la
discrezionalità pretoria»); Id.,
Osservazioni, cit., 137, 154; di
«azione esperibile indipendentemente dalla proposizione
nell’albo» discute M.
Talamanca, Pubblicazioni (1989-1990),
cit., 739.
[36] Lo ammette A. Burdese, Osservazioni, cit., 138; si dimostra cauto sulla presenza di una taxatio all’interno della condemnatio dell’actio civilis incerti aristoniana
(«seguita forse da condemnatio
fornita di taxatio») T. dalla Massara, Alle origini, cit., 183, pur con qualche oscillazione di pensiero
(«poteva fungere da contrappeso la probabile presenza della taxatio»: 188); critico invece M. Talamanca, Pubblicazioni (1989-1990), cit., 740.
[37] A. Burdese, Osservazioni, cit., 137 s.;
dubbi sull’astrattezza, indipendentemente dalla natura edittale, si
trovano espressi in M. Talamanca,
Pubblicazioni (1989-1990), cit., 740
(«formula difficilmente ammissibile sul piano della logica»).
[38] A. Burdese, Sul riconoscimento, cit., 18:
«solo eventualmente preceduta da praescriptio»;
Id., Osservazioni, cit., 137 s., 154; Id., I contratti innominati, cit., 77
(«quanto meno utile, se non strettamente necessaria»); favorevoli all’ipotesi di una integrazione
mediante praescripta verba anche M. Artner, ‘Agere praescriptis verbis’, cit., 237; T. dalla Massara, Alle origini, cit., 184 ss., il quale sembra attribuire a Mauriciano
(Ulp. D.2.14.7.2) questo processo di avvicinamento tra i due modelli di
giudizio, con un’ipotesi rispetto alla quale si dichiara fortemente
critico C. A. Cannata, Labeone, Aristone, cit., 93 nt. 161.
[39] Favorevolmente A. Burdese, Sul
riconoscimento, cit., 18 («formula, probabilmente proposta
nell’editto giulianeo»), 28 s., 35 («in appendice alle formulae delle actiones o condictiones
certae pecuniae e certae rei»),
40 s., 68, con un punto di vista che andrebbe però coordinato con la
diversa opinione successivamente manifestata in Id., Recenti
prospettive in tema di contratti, in Labeo
38 (1992), 212 («del tutto improbabile, l’esistenza di formula
edittale di actio o condictio incerti»); così
più recentemente («azione […] civile ed edittale»)
pure M. Talamanca, La
risoluzione, cit., 61
nt. 176, ove appaiono diversamente superati i dubbi precedentemente manifestati
in Id., Pubblicazioni (1989-1990), cit., 739, su cui vd. supra nt. 30.
[40] Per una valutazione
critica (su entrambi gli aspetti) ci limitiamo a rinviare a C.A. Cannata, L’actio
in factum civilis, cit., 9 ss.; Id.,
Labeone, Aristone, cit., 33 ss.
[41] Pur nella
prospettiva di una nozione pragmaticamente orientata, l’«assenza di
un (almeno aperto e diretto) riferimento alla problematica dei contratti
atipici» è riconosciuta anche da T.
dalla Massara, Alle origini, cit., 312.
[42] Lo escludono di
recente T. dalla Massara, Alle origini, cit., 134 («Aristone
[...] certamente si espresse avendo presente la definitio di Labeone»); con nettezza («non potrebbe
essere altrimenti») C. A. Cannata,
Labeone, cit., 90 s., il quale oltre
a ribadire la propria idea di una mera recezione della nozione labeoniana da
parte dei suoi successori («Ulpiano, Aristone e Mauriciano, con
l’uso di sun£llagma, recepivano semplicemente la costruzione che
esso rappresentava per Labeone»), adduce a sostegno di tale convincimento
la constatazione che i giuristi indicati «appaiono usare disinvoltamente il
termine sun£llagma senza spiegare la ragione di tale impiego
“raro” e di gusto “ricercato”…noi stessi possiamo
renderci conto dell’uso di sun£llagma in D.2.14.7.2 perché
conosciamo D.50.16.19».
[43] Così A. Pernice, Marcus Antistius Labeo. Das
römische Privatrecht in ersten Jahrhunderte der Kaiserzeit, I,
Halle 1873, 87, ove in, base principalmente a D. 28.5.17.5 si ritiene
verosimile l’attribuzione ad Aristone di un commento alle opere del
giurista augusteo («Wahrscheinlich hat auch Aristo Glossen zum Labeo
verfasst»); nella stessa prospettiva («hat später
wahrscheinlich Aristo Anmerkungen verfaßt») H. P. Benöhr, Das sogenannte Synallagma, cit., 9 e ivi nt. 22, con riferimenti
alla letteratura meno recente; nel senso di una conoscenza in particolare dei libri ad ed. vd. R. Santoro, Il
contratto, cit., 287, con richiamo principalmente a Ulp. 71 ad ed. D.43.24.5pr. ‘et haec ita Labeonem probare Aristo ait’.
[44] Prende le distanze
da queste conclusioni M. Talamanca,
La tipicità, cit., 96, 102 s.,
ove si pensa piuttosto a una categoria «prevalentemente
descrittiva», alla quale si potrebbe semmai attribuire una rilevanza sul
piano disciplinare, nel senso che essa avrebbe permesso di «elaborare una
disciplina generale da applicare, in mancanza di una regolamentazione specifica»:
«il contractus, il ‘synallagma’, di Labeone, non
rileva nelle decisioni concrete del giurista, e si limita ad evidenziarne, in
sostanza la tipica tendenza alla classificazione ed alla definizione [...] Una
rilevanza del contratto come figura generale [...] nasce [...] con Aristone,
quando la categoria del contractus
assumerà una funzione dogmatico-normativa in quanto determinati effetti
vengono correlati […] a una struttura (l’accordo su due prestazioni
reciproche accompagnato dal causam
subesse) con un’operatività analoga a quella del contratto
com’è fissata negli art. 1321 e 1322 cod. civ.»; punto di
vista ribadito in Id., Pubblicazioni pervenute alla direzione, in BIDR.
91 (1988), 906; Id., La bona fides, cit., 52 nt. 166, 54;
dubbi si trovano espressi anche in M. Sargenti,
‘Actio civilis in factum’
(2006), cit., 236 s.; l’ipotesi di un’elaborazione di una nozione
generale di contratto rivolta alla tutela di accordi atipici è rigettata
da M. Artner, ‘Agere praescriptis verbis’,
cit., 75 s., 85 nt. 94; una netta presa di distanza («Labeone non sembra
occuparsi mai di nova negotia, e comunque non concede mai l’agere
praescriptis verbis a tutela di contratti innominati») si trova
ultimamente anche in F. Cursi- R. Fiori,
Le
azioni generali di buona fede e di dolo nel pensiero di Labeone, in BIDR
105 (2011), 181. Nei termini qui indicati vd. già A. Pernice, Zur Vertragslehre, cit., 266.
[46] Tra questi si segnalano, oltre E. Betti, Sul valore, cit., 20, 28 s. («purché in essi il
negotium gerere, l’obbligarsi, il contrahere fosse bilaterale»); A. Schiavone, Studi, cit., 93 ss.: «schema logico astratto, da poter
impiegare come generale categoria interpretativa [...] canone di qualificazione
di ogni atto negoziale»; Id.,
‘Ius’. L’invenzione dei
diritto in occidente, Torino 2005, 288 («paradigma illimitatamente
estendibile»); A. Burdese, Recenti prospettive, cit., 205 ss.:
nozione «suscettibile di sviluppi ulteriori rispetto alle figure tipiche
sino allora riconosciute di obligationes
ultro citroque»); Id., Sulle nozioni di patto, cit., 59:
«nozione suscettibile di pratica utilità, consistente
nell’apertura della tutela in via di azione a convenzioni reciprocamente
obbliganti»); («categoria aperta [...] a nuove combinazioni»)
F. Gallo, Eredità di giuristi romani in materia contrattuale, in Le teorie contrattualistiche, cit., 43; Id., Synallagma 1, cit., 155 nt. 202; Id.,
Contratto e atto, cit., 24;
(«modello…in grado di proporsi in maniera paradigmatica») T. dalla Massara, Alle origini, cit., 118 s., con la
precisazione (120) per cui «sarebbe arduo negare una sostanziale coerenza
tra le soluzioni prese in relazione ai singoli casi di specie e quella definitio generale»; non
diversamente di «genus dotato
di straordinarie potenzialità espansive» discute C. Pelloso, Le origini aristoteliche del SUNALLAGMA
di Aristone, in La compravendita e l’interdipendenza
delle obbligazioni nel diritto romano 1, Padova 2007, 57, 62; Id., Do ut des, cit., 104 nt. 36; E.
Sciandrello, Studi, cit., 12 e
ivi nt. 11; negli stessi termini, ma in un’ottica che tende a rigettare
il tradizionale accostamento dell’ultro
citroque obligatio con la categoria dell’obbligazione bilaterale,
privilegiando piuttosto l’ipotesi di una identificazione con la
differente nozione di negotium
(ovvero «di affare che le parti considerano interessante per
entrambe») anche C. A. Cannata,
Labeone e il contratto, cit., 127:
«l’intervento di Labeone, con la sua definizione della categoria e
la sua apertura all’atipicità, già implicita nella
definizione perché definizione di una categoria generale nel contesto
della quale i tipi indicati compaiono solo come esempi [...] abbandonando, cioè,
la costruzione per tipi [...] per operare direttamente, rispetto ai problemi
nuovi o residui, con la nozione di contratto ed un’azione contrattuale
generale, sussidiaria rispetto alle azioni tipiche già previste»; Id., Labeone, Aristone, cit., 98.
[47] In
quest’ordine di idee («Labeone deve aver proceduto [...] muovendo
dalla considerazione della categoria generale di contratto») ad es. R. Santoro, Riflessioni sul contratto nel pensiero di Labeone, in Studi in onore di A. Arena 4, Padova
1981, cit., 2409 s., ove, peraltro, si tende a respingere, con decisione,
l’ipotesi di un ricorso al differente criterio analogico da parte del
giurista augusteo: «è escluso che vi sia pervenuto muovendo dalla
considerazione delle fattispecie tipiche affini, poiché in taluni casi
(esempio D.19.5.19 pr.: datio rei
vendendae ut pretio uteris) si tratta di fattispecie troppo lontane da
quelle di un qualsiasi contratto consensuale».
[48] Così
(«in base alla sua definizione generica di «contrahere»
interpretata in senso estensivo secondo il metodo analogistico […] i
seguaci di Labeone seguono, rispetto ai nova negotia, il metodo analogistico
[…] costruiscono il «contractum» e da questo deducono
l’actio civilis») E. Betti,
Sul valore, cit., 33, su cui vd. infra nt. 52; A. Schiavone, Studi,
cit., 96 («è molto plausibile ritenere […] che il tipo di
sillogismo cha abbiamo visto sorreggere l’applicazione della nozione di contractus a figura atipiche fosse
ricalcato sull’esempio del ragionamento analogista del
grammatico»); Id., ‘Ius’, cit., 288:
«modello analogico […] per la qualificazione giuridica di nuove
figure dello scambio mercantile, anche in assenza di una specifica previsione
edittale»; non diversamente («È sulla base di tale modello
che rimane dischiusa la possibilità di approdare, attraverso un procedimento
analogico, alla tutela delle convenzioni atipiche») T. dalla Massara, Alle origini, cit., 120, 152; Id.,
Sul responsum di Aristone in D.2.14.7.2 (Ulp. 4 ad
ed.): l’elaborazione del
concetto di causa del contratto, in Le dottrine del contratto, cit., 310 s.: «sulla base di
quel modello, occorre ritenere che già con Labeone si fosse aperta la
possibilità di procedere, attraverso un’operazione
analogica».
[49] Si sottrae a questa prospettiva, come si è
già avuto modo di rilevare (supra
nt. 47), R. Santoro, Riflessioni, cit., 2409 s.; così
(«l’equazione labeoniana tra ‘ultro citroque obligatio’
e contractum’ e, dunque, una volta reputate sussumibili in
quest’ultimo figure negoziali almeno bilaterali idonee ad essere
integrate solo ‘consensu’,
purché l’accordo vertesse sull’insorgenza di un vinculum iuris in capo a ciascuna
parte») anche C. Pelloso, Do ut des, cit., 105, non senza
però qualche oscillazione — «opponendosi al polo del
ragionamento ‘analogico’ proprio della secta dei Proculiani
(di evidente matrice labeoniana)» —, da imputarsi alla sedes materiae affrontata (il tema della
tutela della permuta nelle diverse prospettive sabiniana e proculeiana).
[51] In tal senso T. dalla Massara, Alle origini, cit., 121 s.: «la soluzione veniva cercata al
di fuori dell’analogia con i tipi, in un’idea sostanziale di
contratto»; «Aristone […] cerca la soluzione […] al di
fuori del rapporto tra tipi, così evitando di ricorrere a un mero
procedimento analogico; si può dire che così rimane abbandonato
il caratteristico Typenzwang labeoniano […] la soluzione del problema dei
contratti atipici è cercata non solo al di fuori dei tipi, ma,
più precisamente al di sopra dei tipi. Si tratterebbe quindi di un
procedere essenzialmente deduttivo» (153); «il ragionamento
aristoniano si sviluppa verticalmente, attraverso un procedimento deduttivo, se
non addirittura….sillogistico [...] se il contratto – quale
figura generale – deve presentare una causa, allora astraendo da
ciò una nuova regola, ottiene tutela civile anche quel contratto che,
pur essendo atipico, sia sostenuto da una causa degna di protezione» (156).
[52] Una ancor più accentuata
oscillazione tra le due prospettive — «La costruzione proculiana
del ‘do ut des’ e del ‘do ut facias’ […] quale
contractum analogo (parallelo) (pro portione, ¢n£ lÒgon) alla
emptio venditio (o alla locatio conductio») […] che è la
fattispecie più “vicina” (adfinis, proxima)»: da
confrontarsi con il non analogo pensiero altrove espresso e qui parzialmente
riferito supra nel testo di questo
§ e alla nt. 48 — si trova in E.
Betti, Sul valore, cit., 28
s., in un quadro espositivo peraltro assai incerto e contrassegnato da gravi e
vistosi profili di contraddittorietà che investono in egual misura i
diversi piani delle logiche argomentative e delle conseguenti soluzioni
processuali, in riferimento alle quali ad apparire subito stridente è il
modo in cui l’actio civilis incerti
labeoniana-aristoniana (postclassica la denominazione di actio p.v., rispetto a identico programma di giudizio per entrambi
i giuristi: 27 ss., specialmente 31 ss.), da azione con «costruzione
analoga a quella dei tipici iudicia in ius concepta con demonstratio e intentio
incerta […] priva dell’aggiunta ex fide bona come le actiones
incerti ex stipulatu e ex testamento», si trasforma in azione «per sé stante […] con demonstratio affatto analoga» (questa volta) a quelle
delle azioni (di buona fede) scaturenti dai contratti (consensuali) tipici
fungenti da modello di riferimento, ove, per di più, l’invocata
analogia, si riduce (in realtà) al solo impiego dei medesimi meccanismi
descrittivi della res de qua agitur,
che vogliono che il fatto sia rappresentato ex
latere agentis: in modo che, nel caso dell’azione concessa da
Mauriciano in Ulp. 4 ad ed.
D.2.14.7.2, nella demonstratio si
sarebbe dovuto affermare: «quod As As de No No Stichum servum q.d.a. mancipio accepit ut Pamphilum […]
(come nella demonstratio dell’a. empti si dice quod…emit)».
Senza contare che, prima ancora (20), si era sostenuto (in termini che non si
lasciano inquadrare in nessuna delle due ipotesi ricostruttive appena indicate)
che la messa a punto di una nozione contrattuale sarebbe servita al giurista
augusteo (e ai suoi seguaci) «da canone
d’interpretazione per una estensione
dottrinale a nova negotia del iudicium ex fide bona»: per cui, in
estrema sintesi, nel giro di poche pagine la stessa azione ha finito per
assumere tre distinte configurazioni. In ordine: estensione di iudicia bonae fidei; azione incerta ma
di stretto diritto «come le actiones incerti ex stipulatu e ex
testamento»; azione con (sola) «demonstratio affatto analoga»
a iudicium bonae fidei di contratto
analogo.
[53] A. Burdese, Sul riconoscimento, cit., 22:
«In tutte le ipotesi considerate sembra peraltro che abbia giocato nel
pensiero di Labeone, a favore del riconoscimento di tutela a convenzioni
obbligatorie atipiche, la loro riconducibilità, pur con qualche sforzo,
al concetto di contratto […] da lui delimitato a convenzioni obbligatorie
a prestazione reciproche»; Id.,
Osservazioni, cit., 133 s.
[54] Così va
inteso il richiamo effettuato da A.
Burdese, Osservazioni, cit.,
133 s. a una riconducibilità «quantomeno per analogia, al concetto
di contratto»: al di là di possibili fraintendimenti, il rinvio
alla nozione analogica sembra appunto evocare la prospettiva di una sussunzione
parziale o se vogliamo ‘per approssimazione’, nel senso che, ad
avviso dello studioso, sarebbero riconducibili alla nozione sinallagmatica
anche modelli obbligatori non propriamente contraddistinti da una
bilateralità c.d. perfetta.
[55] Così anche,
per quanto in termini meno netti, in A.
Burdese, Osservazioni, cit.,
132: «sulla base della bilateralità degli impegni reciproci, anche
se solo ipotetica, senza che risulti necessariamente richiesta
l’effettuazione [...] di una delle due prestazioni al fine di concedere
l’azione per l’adempimento».
[59] A. Burdese, I contratti innominati, cit.,
71 nt. 37; Id., In margine a D.4.3.9.3, in Sem. Compl. 7 (1995), 36
(«individuata l’affinità della complessiva convenzione […]
piuttosto col sequestro che con il mandato, l’actio sequestrataria in quanto in
factum, non si prestava ad applicazione estensiva per il tramite del
ricorso all’agere praescriptis
verbis»).
[61] Così del
resto, esplicitamente, A. Burdese,
In margine a D.4.3.9.3, cit., 35:
«è ben probabile che Labeone […] si sia mosso con cautela
nell’uso dell’agere
praescriptis verbis quale strumento per superare gli inconvenienti di
siffatta tipicità, ma solo in casi limite, attraverso l’estensione
di modelli edittali di giudizi di buona fede, senza con ciò addivenire a
una decisa rottura col sistema di tipicità dei contratti aventi nomen edittale».
[62] In tal senso, («n’est pas
une simple action utilis…c’est
une action originale, un type et non pas une copie de modèles
divers») C. Accarias, Théorie, cit., 73; guardando ai
contributi più recenti, R.
Santoro, Riflessioni, cit.,
2409 s.: «il mezzo processuale adottato (l’agere praescriptis verbis) è del tutto svincolato dalla
formula delle azioni tipiche»; C.A.
Cannata, Contratto e causa,
cit., 37, 44 s.; Id., L’actio in factum civilis, cit.,
19 s. («azione contrattuale generale, sussidiaria rispetto alle azioni
contrattuali tipiche»); Id.,
Labeone, Aristone, cit., 73 s.; L. Garofalo, Contratto, cit., 366; da ultimi P.
Lambrini, Actio de dolo malo,
cit., 246; J. Paricio, Una historia del contrato en la
jurisprudencia romana, in AUPA.
52 (2009), 102: «acción contractual “general”»;
(«azione generale labeoniana») C.
Pelloso, Do ut des, cit., 109
nt. 41.
[63] Così, tra gli altri, M. Talamanca, La
tipicità, cit., 101; Id., Note su Ulp. 11 ad ed. D.4.3.9.3. Contributo
alla storia dei c.d. contratti innominati, in Scritti Fazzalari 1, Milano 1993, 207, secondo il quale Labeone avrebbe suggerito «un agere praescriptis verbis, sulla base di
una formula modellata, nel caso
concreto, su uno o più iudicia
bonae fidei, sia quando riscontrava una fattispecie che si collocava, per
così dire, a cavaliere tra figure tipiche diverse (senza che, in linea
di fatto o di diritto, essa rientrasse puntualmente nell’una o
nell’altra) sia quanto, nel caso concreto, una fattispecie contrattuale
tipica non fosse stata completamente integrata».
[64] Indicativo, al
riguardo, A. Burdese, In margine a D.4.3.9.3, cit., 36, 38
(«Nell’ipotesi di cui in D.4.3.9.3 si potrebbe allora pensare che
Pomponio parlando di actio praescriptis
verbis si rifacesse piuttosto all’ordine labeoniano, di una
estensione analogica di figure causali tipiche di convenzioni sanzionate da
azioni di buona fede»).
[65] J.
Cujacius, Recitationes solemnes Ad
Titulum V. De praescriptis verbis et in factum actionibus, in Opera ad parisiensem fabrotianam editionem
diligentissime exacta in Tomos XIII. distributa auctiora atque emendatiora. Tomus septimus, Prati 1839, 1516 («comparata est ad exemplum et
similitudinem civilis actionis: nam actio praescriptis verbis ex permutatione, do ut des, est similis actioni empti
[…] Omnis igitur
actio praescriptis verbis est comparata ad exemplum civilis»); in
proposito vd. L. Zhang, Contratti innominati nel diritto romano.
Impostazioni di Labeone e di Aristone, Milano 2007, 30 ss.
[66] Tra gli studi meno
recenti («Die Klage lehnt sich an eine schon recipierte Formel an»)
A. Pernice, Zur lehre, cit., 107 s.; emblematico, in questo senso, è il
punto di vista di M. Talamanca, Pubblicazioni (1989-1990), cit., 736; Id., Note su Ulp. 11 ad ed. D.4.3.9.3, cit., 235 ss.: «è
[…] pacifico che nell’agere
praescriptis verbis labeoniano non potevano rientrare tutti i casi di
convenzioni sinallagmatiche, perché talvolta non si riusciva a
individuare una figura tipica esistente alla quale ravvicinare la fattispecie
da proteggere»; F. Gallo, Synallagma 1, cit., 230 ss.; che
«in der Spätklassik wurde die actio
praescriptis verbis daher noch als spezifische Formelgestaltung verstanden
und nicht…als allegemeine Klage aus atypischen Verträgen»
è sostenuto anche da P.
Gröschler, Actiones in factum,
cit., 41; nel senso di azione congegnata «in analogia all’azione di
buona fede già prevista per una fattispecie negoziale affine» pure
E. Stolfi, Introduzione, cit., 162 nt. 29; a un adattamento dell’azione
tipica pensa anche M. Artner, Agere praescriptis verbis, cit., passim; sempre in quest’ordine di idee J.
Kranjc, Die ‘actio praescriptis
verbis’, cit., 456; J.
Schmidt-Ott, Pauli Quaestiones,
cit., 217; da ultimo E. Sciandrello, Studi, cit., 41 s. («non si
può certamente parlare per il diritto classico di un’actio praescriptis verbis generale di
buona fede»).
[67] Da questo
punto di vista appare ben rappresentativo il pensiero di J. Kranjc, Die actio, cit., 456: «die praskribierte Klage nicht als eine
allgemeine Klage, sondern als eine konkrete Klagemöglichkeit […]
nicht als eine der individualisierten und typisierten Klagen […] sondern
als eine Formelmöglichkeit».
[68] In questo senso («subsidiär immer dann zum
Zuge kommt, wenn die anerkannten Rechtsmittel zur Durchsetzung einer
vertraglichen Abrede versagen»), M.
Artner, ‘Agere praescriptis
verbis’, cit., 13 s., con un impiego che sarebbe risultato
incompatibile con il principio di inazionabilità dei nudi patti
(«Einschränkungen der Klagbarkeit formloser pacta oder
conventiones»); a tale equivoco non sembra sottrarsi, peraltro, neppure R. Santoro, Actio civilis in factum, cit., 684: «Quella che può
essere affermata non è la classicità di una azione così
denominata, che abbia la funzione generale di proteggere ogni convenzione
atipica. Questo è il risultato cui è pervenuto il diritto
giustinianeo».
[69] P. Gröschler, Actiones in factum, cit., 22 s.; decisivi in proposito gli studi di
W. Selb, Formulare Analogien in “actiones utiles” und
„actiones in factum“ am Beispiel Julians, in Studi Biscardi 3, Milano 1982, 315 ss.,
325 s., 350; Id.,
Formulare Analogien in “actiones
utiles” und „actiones in factum“ vor Julian, in Studi Sanfilippo 5, Milano, 1984, 727
ss., 759; sul punto vd. anche R. Santoro,
Actio civilis in factum, cit., 710
nt. 80; Id., Aspetti della tutela, cit., 109 ss., con efficace quadro di sintesi;
diversamente, si orienta per una natura propriamente onoraria delle azioni
decretali ex lege Aquilia M. Talamanca, La risoluzione, cit., 59 nt. 172.
[71] Così («i rapporti nascenti
da contratti di incerta qualificazione o atipici non hanno, per definizione,
alcuna Munsterformel su cui modellarsi») già M. Sargenti, Labeone: la nascita dell’idea di contratto nel pensiero giuridico,
in Iura 38 (1987), 55 s. nt. 55; prova
a risolvere il problema, teorizzando l’esistenza di due distinti modelli
di actiones p.v., B. Schmidlin, Nominatprinzip, cit., 91: «Die beiden Arten von actiones praescriptis verbis — die
eine in Analogie zu den Nominatkontrakten, die andere auf der Grundlage des
leistungsbefestigten Austausches — zerfallen jedoch nicht in zwei streng
getrennte Klagegruppen».
[73] A.
Burdese, Osservazioni, cit.,
134: ««praescripta verba,
inseriti nella formula stessa, dopo
la nomina del giudice, in luogo e funzione di demonstratio».
[74]A. Burdese, Osservazioni, cit., 134
(«al posto della demonstratio
della formula edittale di azione di buona fede a sanzione di convenzioni
obbligatorie»); F. Gallo, Synallagma 1, cit., 230, 238; nello
stesso ordine di idee J. Schmidt-Ott, Pauli Quaestiones, cit., 217: «Die
demonstratio der anerkannten Klage
habe der Praetor durch die Umschreibung (praescripta
verba) des konkreten Sachverhalt (factum)
ersetz».
[75] In questo senso A.
Schiavone, Studi, cit., 94
ss.; l’osservazione non è sfuggita più recentemente neppure
a T. dalla Massara, Sul responsum di Aristone, cit., 310 s., nonostante, come si è
visto, altrove l’autore affermi che l’elaborazione del modello
contrattuale labeoniano in termini di reciprocità di obbligazioni
avrebbe consentito di «procedere, attraverso un’operazione
analogica, alla tutela di convenzioni atipiche».
[76] Per una prima
valutazione di tali aspetti (non sempre
adeguatamente valutati in dottrina) rinviamo a G. Romano, Brevi
considerazioni su Paul. 32 <33> ad ed. D.19.4.1.4: tra tradizione
testuale e proposte emendative, in TSDP.
5 (2012), 67 ss., ove riferimenti alla principale letteratura.
[77] Soprattutto se si
aderisce alla proposta di azione astratta di stretto diritto con taxatio fissa avanzata da Burdese (supra § 1); prova a risolvere gli
indicati problemi ipotizzando che si trattasse di specifica applicazione della
«generale actio incerti che
faceva da “pendant” alla più nota actio certi» esercitabile «in relazione a diverse
fattispecie contrattuali e negoziali […] ad es. ex stupilatu od ex testamento»
M. Talamanca, La risoluzione, cit., 60 s. nt. 176.
[78] È ben noto che il primo impiego
della locuzione si deve a J. G. Kulpis,
Oratio inauguralis de analogia juris
in Academia Argentoratensi, cum Institutionum Imperialium ac Publici Juris
Professionem asupicaretur, Solenni Panegyri habita, Argentorati 1685 (?), in occasione
dell’assunzione dell’insegnamento di diritto pubblico presso
l’Università di Strasburgo. Con essa si intese inizialmente
indicare, in continuità con la nozione di interpretatio analogica appena elaborata da Joachim Hopper,
sostanzialmente corrispondente alla moderna nozione di interpretazione
logico-sistematica (J. Hopper, Seduardus sive De vera iurisprudentia, ad
regem libri XII, Antuerpiae 1590, 120: «Quae circa hoc
versatur, ut quae in speciem contrariae ac pugnantes leges videntur, ratione
quadam concilientur»;
Id., In veram juris prudentiam pars secunda sive elementorum juris de principiis
justi atque injusti Libri IV, Culmbaci 1719, 67; Id.,
De iuris arte libri tres, Lovanii
1555, 68: «locorum vel adversantium vel correspondentium collatio»;
in proposito vd. N. Bobbio, L’analogia, cit., 51 s., ove si
discute di «interpretazione comparativa»), il risultato della
suddetta attività interpretativa, ovvero la raggiunta coerenza delle
disposizioni legislative: concetto che fu in seguito altrimenti detto ‘armonia’ (J. C. Eberwein, De arte
interpretandi leges civiles, Erfordiae 1717, § 16: «armonia
locorum parallelorum») o ‘systema’
(C. H. Eckhard, Hermeneutica juris civilis, Pisis 1770,
§ 106: «ut omnis scientia, sic juris publici disciplina complexum
requirit doctrinarum inter se connexarum, id quod alii systema dicunt nos
analogiam vocamus»):
lo ricorda A. Mantello, L’analogia nei giuristi tardo
repubblicani e augustei. Implicazioni dialettico-retoriche e impieghi tecnici,
in Il ragionamento analogico. Profili
storico-giuridici (Como, 17-18
novembre 2006), a cura di C. Storti, Napoli 2010, 70. È grazie in
particolare al contributo di J. J.
Hoefler, Jurisprudentiae
analogicae fundamenta, Altdorf 1742, § 14 («Analogiae
opus est ex ratione juris determinare ea quae nondum expresse constant.
Parallelismus autem modo suadet, ea congere, quae eadem sunt et diversis in
locis rite posita animadvertuntur»), con un punto di vista ripreso (tra gli altri) da C. H. Eckhard, Hermenutica juris civilis, Pisis 1770, § 39 («Rectius
autem analogia Juris a parallelismo distinguitur, quippe quae ex ratione Juris
vel ex nexu doctrinae Juris, vel ex principio quodam generali quae nondum
expresse constituta, vel satis clare definita sunt, determinat»), che l’espressione si
avviò a una significativa trasformazione, in cui si andarono evidenziando
i caratteri e le funzioni proprie della nozione odierna, ove, messa da parte
l’originaria prospettiva del ‘parallelismus
legum’, l’analogia iuris
divenne piuttosto strumento di risoluzione dei casi inespressi, in sostanza di
integrazione delle lacune dell’ordinamento, in un ordine di idee in cui,
peraltro, già negli anni immediatamente successivi, risultò
prevalente la prospettiva teleologica della funzione, rispetto a quella
dell’individuazione degli strumenti attuativi, in modo che si finì
per ammettere che alla determinazione della soluzione del caso inespresso si
potesse giungere anche attraverso l’applicazione della disciplina del casus similis (si consideri in proposito
J. G. Kayser, Dissertatio juridica de decisione casuum
secundum analogiam, Halae Salicae 1751, §§ 1, 10: « (1) Decisio
casuum secundum analogiam est illa per quam iura et obligationes, quae in casu
tacite per casum similem decisio obtinent, determinantur; (10) decisio secundum
analogiam enim tum locum habet si casus, qui iam decidendus , in lege expresse
non est decisus, ast tamen casus similis in lege expresse decisus est»), e dunque attraverso i
meccanismi propri di quella che sarà in seguito chiamata analogia legis: in proposito si rinvia alle ancora utili
considerazioni di N. Bobbio, L’analogia, cit., 57 ss., 61 ss.
[79] Per una giusta evidenziazione della specificità
dello statuto logico-argomentativo dell’analogia iuris, ove, a differenza della c.d. analogia legis, non è in discussione l’estensione di
norme riferibili a un preciso istituto ad altro (autonomo) istituto in ragione
di una similitudine di tipi, quanto piuttosto l’applicazione in via
deduttiva di principi generali che non riguardano questo o quell’istituto
specifico (tipo), ma istituti o materie più generali (non dunque
rapporti tra species, ma rapporto tra
species e genus), vd. G. Del Vecchio,
Sui principi generali del diritto, in
AG. 85 (1921), 41 ss.; N. Bobbio, L’analogia, cit., 152 («l’analogia juris
[…] non ha niente a che vedere col procedimento per analogia, posto che
tra il caso da regolare e il principio generale, in base al quale il caso
verrà regolato, non intercorre nessun rapporto di analogia, quale
intercorre soltanto tra due particolari, ma soltanto un rapporto di
sussunzione, quale intercorre tra un particolare ed un universale […]
l’uso della stessa parola nelle espressioni di analogia legis e analogia
juris è un semplice caso di omonimia»); più recentemente G. Alpa, I principi generali, in Trattato
di diritto privato, Milano 1993, 33 ss.
[81] Di «criterio processualmente
rilevante nel determinare l’an
e il quantum della condanna»
discute L. Vacca, Buona fede e synallagma contrattuale, in
Il ruolo della buona fede oggettiva,
cit., 332; sull’operatività del principio di buona fede quale
strumento integrativo del contenuto contrattuale e di salvaguardia rispetto a
eventi potenzialmente distorsivi dell’equilibrio sinallagmatico
sussistente tra le contrapposte attribuzioni patrimoniali, vd. R. CARDILLI,
‘Bona fides’ tra storia e
sistema, Torino 2004, 29-62.
[82] Così ad es.
R. Santoro, Il contratto, cit., 224 ss.; coglie un’allusione alla
dottrina della causa aristoniana anche F.
Gallo, Synallagma 2,
cit., 108 ss.; Id., Ai primordi del passaggio della
sinallagmaticità dal piano delle obbligazioni a quello delle prestazioni,
in Causa e contratto, cit., 76; a un
collegamento tra i due testi sembra credere anche A. Mantello, I dubbi,
cit., 85 ss. ntt. 116, 118; da ultimo suggerisce una connessione con Ulp. 4 ad ed. pure E. Sciandrello, Studi,
cit., 270.
[83] Riserve su una
possibile connessione con l’impiego di Ulp. 4 ad ed. D.2.14.7.2 si trovano espresse in C. Pelloso, Le origini,
cit., 74 s. nt. 157; Id., Do ut des, cit., 121 ss. e ivi nt. 67,
ove più precisamente si suggerisce di interpretare qui il termine
‘causa’ nel senso di
«funzione di scambio […] senza alcun riferimento
(com’è invece in D.2.14.7.2) all’esecuzione della ‘datio ut’ quale
“Zweckverfügung”».
[84] In questi termini R. Santoro, Il contratto, cit., 224 ss.; A.
Mantello, I dubbi, cit., 85
ss. ntt. 116, 118 («emblematico della distinzione concettuale aristoniana
fra causa e datio, ovvero della realizzazione della prima attraverso la
seconda»).
[85] F. Gallo, Synallagma 2,
cit., 108 ss.; Id., Ai primordi, cit., 76; per il quale il
sostantivo sarebbe adoperato «in senso metonimico, in luogo cioè
di datio’ allo scopo di evitare
di affermare, in un modo che avrebbe potuto apparire un gioco di parole»,
qui ex datione daretur; E. Sciandrello, Studi, cit., 270 («sembra infatti richiamare il medesimo
significato di ‘causa’
individuato con riguardo alla testimonianza conservata in D.2.14.7.2, ossia
quella di elemento generatore della pretesa dei contraenti, ravvisabile concretamente
nella datio iniziale compiuta in
vista di una controprestazione pattuita tra le parti»).
[86] Ipotizzano che nella trascrizione del
brano sia andato perduto l’aggettivo ‘ea’ C. A. Cannata,
Contratto, cit., 55; Id., Labeone, Aristone, cit., 38; A. Burdese, Su alcune testimonianze
celsine, cit., 13; Id., I
contratti innominati, cit., 78; nello stesso ordine di idee anche in Id., Osservazioni, cit., 138, ove semmai si suggerisce di leggere
‘ea’ in luogo di ‘ex’: [«ex] (fuit:
<ea>) causa); diverso invece il
punto di vista espresso in Id., Divagazioni in tema di contratto romano tra
forma, consenso e causa, in ‘Iuris vincula’. Studi in onore di M.
Talamanca 1, Napoli 2001, 338 s.;
sull’esempio della Vulgata,
propone l’integrazione del genitivo <permutationis> M.
Sargenti, Svolgimento
dell’idea di contratto nel pensiero giuridico romano, in Iura 39 (1988), 37; si dichiara aperto
ad entrambe le proposte emendative C.
Pelloso, Do ut des, cit., 122
nt. 67; respinge invece ambedue le integrazioni («correzioni
inutili») R. Santoro, Il contratto, cit., 225; così
pure A. Mantello, I dubbi, cit., 85 ss. ntt. 116, 118; non
indispensabili anche secondo T. dalla
Massara, Alle origini, cit., 196 s. nt. 8.
[87] In questo senso
invece («in essa è certamente contenuto un riferimento alla
funzione che si pone a fondamento della riconoscibilità del
contratto») T. dalla Massara,
Alle origini, cit., 197.
[88] Così anche M. Sargenti, Svolgimento, cit., 36 s.: «ex causa datum non può non significare, in questo contesto,
che datum ex causa permutationis».
[89] In tal senso
già E. Betti, Sul valore, cit., 24; tra gli studiosi
più recenti vanno qui perlomeno segnalati R. Santoro, Il
contratto, cit., 224; (pur in un contesto espressivo talvolta incerto:
«assimilazione della permuta alla compravendita») T. dalla Massara, Alle origini,
cit.,194 ss.; C. Pelloso, Do ut des, cit., 111 nt. 44, 121 nt. 67;
sostanzialmente senza seguito la proposta di P.
de Francisci, SUNALLAGMA. Storia e dottrina dei cosiddetti contratti
innominati 1, Pavia 1913, 120 s., di attribuire ad Aristone la concessione
dell’actio empti in una logica
dunque propriamente assimilativa dei due istituti contrattuali.
[90] R. Santoro, Il contratto, cit., 224 ss.; M. Sargenti, Svolgimento, cit.,
36; T. dalla Massara, Alle
origini, cit., 196 s.; da ultimo («il giurista traianeo non si trova
più a dover giustificare la protezione di una convenzione atipica,
bensì a scegliere quale regime giuridico in concreto applicare»)
anche E. Sciandrello, Studi, cit., 269 s.
[91] Così giustamente
M. Sargenti, Svolgimento, cit., 37; T.
dalla Massara, Alle origini,
cit., 198; C. Pelloso, Do ut des, cit., 120; da respingere la
diversa ipotesi di quanti (così F.
Gallo, Synallagma 2, cit., 109
ss.), invocando il diverso rilievo delle due dationes (una costitutiva del vincolo obbligatorio, l’altra
esecutiva) hanno ritenuto di dover circoscrivere il dovere di garanzia al solo
‘secondo esecutore’, con una proposta i cui evidenti effetti
distorsivi sulla relazione sinallagmatica difficilmente sarebbero potuti
passare inosservati al giurista traianeo, ancor più se si dovesse
aderire all’interpretazione del sinallagma aristoniano (suggerita
peraltro dallo stesso F. Gallo, Synallagma 2, cit., 112 ss.) nei noti
termini di riequilibrio delle attribuzioni patrimoniali.
[92] C. Pelloso, Do ut des, cit., 121 ss.,124
s., con l’osservazione per cui «l’eterogeneità tra il
pensiero di Aristone in D.19.4.2 e quello di D.2.14.7.2 risulta evidentemente
dall’impiego non univoco del segno causa e dalla divergente considerazione
circa il momento di perfezionamento del negozio».
[93] Così P. Collinet, L’invention, cit., 96 ss., 99 nt. 1; critico C. Pelloso, Do ut des, cit., 121 ss. e ivi nt. 67.
[94] In questo senso C. Pelloso, Do ut des, cit., 121 ss. e ivi nt. 67, 123 ss., secondo il quale
Aristone con il passare del tempo avrebbe maturato una posizione autonoma
rispetto a quelle anomaliste e analogiste di scuola sabiniana o proculeiana:
più precisamente muovendo da un approccio assimilativo di tipo sabiniano
(ancora presente in D.40.7.291.1), e passando attraverso la diversa
impostazione proculeiana di tipo analogista diversamente attestata in D.19.4.2,
sarebbe infine approdato all’elaborazione di una categoria contrattuale
generale (D.2.14.7.2) alla quale ricondurre, in via sussuntiva, le singole
operazioni negoziali poste in essere dalla parti.
[95] A. Burdese, Osservazioni, cit., 138 ss.,
54, ove l’invocata affinità con la compravendita viene
interpretata come una configurazione della permuta, da parte di Aristone, in
termini di vicenda contrattuale «presumibilmente a sfondo in sé
meramente convenzionale, con relativo riconoscimento della possibilità
di renderla, indipendentemente da avvenuta datio,
hinc et inde azionabile, sulla scia
del pensiero labeoniano, tramite actio in
factum diretta a un oportere ex fide
bona»; Id., Sul riconoscimento, cit., 30; punto di
vista ribadito in Id., Divagazioni, cit., 228 s.; scettico al
riguardo M. Talamanca, Pubblicazioni (1989-1990), cit., 734.
[96] Vd., ad es., A. Fabri, Coniecturarum
Iuris Civilis, Libri Sex‚ Lugduni 1591, Liber VI. Caput IX. Ad l. 1 D. de rer. permutat. 285:
(«Contractus igitur Do ut des, non permutatio est, sed principium
permutationis […] Denique permutatio non est cùm Do ut des, sed
cùm do: quia tu dedisti»).
[97] Tra questi, soprattutto, Ph. Meylan, ‘Permutatio rerum’, in Ius
et Lex. Festgabe Gutzwiller, Basel 1959, di cui è rimasta senza
seguito la proposta di tenere separata l’ipotesi della permutatio — intesa nei già
accennati termini di «échange immédiat de deux choses
l’une contre l’autre» — rispetto al distinto schema del
do ut dares di Ulp. 4 ad ed. o (è lo stesso) del do ut des di Paul. 5 quaest. D.19.5.5.1; in proposito
rinviamo a G. Romano, Brevi considerazioni, cit., 48 s. nt.
78.
[98] Nel ben noto
esempio della guerra dei Tebani contro i Focesi (La guerra dei Tebani contro i
Focesi è un male; la guerra degli Ateniesi contro i Tebani è
simile alla guerra dei Tebani contro i Focesi; la guerra degli Ateniesi contro
i Tebani è un male): in proposito vd. N.
Bobbio, L’analogia,
cit., 94 s.; R. Reggi, L’interpretazione
analogica in Salvio Giuliano 1,
in Studi Parmensi 2 (1951), 106 e ivi nt.8; sul punto A.
Mantello, L’analogia,
cit., 24 ss. e ivi nt. 33, con
riconduzione però al sillogismo entimematico.
[100] Così
già G. La Pira, La
personalità scientifica di Sesto Pedio, in BIDR. 45 (1938),
239 ss., il quale, da parte sua, si orientava nel senso di
un’attribuzione a Pedio delle prime applicazioni in ambito giuridico, con
una proposta di datazione che però appare eccessivamente tarda; F. Gallo, Alle origini, cit., 898; sulla questione vd., da ultimo, con
analisi di fonti ed anche di Cic. top.
41, 44-45 (in cui Cicerone riferisce di un «uso giurisprudenziale
dell’exemplum») A. Mantello, L’analogia, cit., 40 ss.; osserva come i giuristi «ne
hanno fatto uso costantemente ma non ne hanno mai teorizzato né il
concetto né il procedimento logico» L. Vacca, L’interpretazione
analogica nella giurisprudenza classica, in Il ragionamento, cit., 71, 84 ss., ove si dà conto della
«particolare evidenza» dell’argomentazione analogica in
Salvio Giuliano.
[101] In questo senso
soprattutto A. Steinwenter, Prolegomena zu einer Geschichte der Analogie
1, in Studi in memoria di E. Albertario
2, Milano, 1953, 107 ss., 125 ss.; Id.,
Prolegomena zu einer Geschichte der
Analogie 2, in Festschrift F. Schulz
2, Weimar 1951, 346 ss.; E. Bund,
Untersuchungen Zur Methode Julians,
Köln-Graz 1965, 96 ss., 101 s., 121; respinge («cortocircuiti
dottrinali») l’opinione assai diffusa che ritiene incompatibile il
ricorso a una prospettiva propriamente analogica al di fuori di modelli
organizzativi del fenomeno giuridico non contraddistinti da una rigorosa
concezione dello stesso in termini di insieme organico, coerente e chiuso di
enunciati normativi A. Mantello, L’analogia, cit., 14, 62 ss.;
più equilibrato (sempre secondo A.
Mantello, L’analogia,
cit., 63) l’atteggiamento di F.
Horak, Rationes decidendi I,
cit., 243 ss., ove precisazioni rispetto al pensiero di Steinwenter e Bund:
dello stesso studioso si veda Id.,
Osservazioni sulla legge, la casistica e
il ‘case Law’ nel diritto romano e nel diritto moderno, in Atti del Convegno Legge, giudici giuristi
(Cagliari 18-21 maggio 1981), Milano 1982, 67 ss.
[102] Da ultimo lo
osserva opportunamente A. Mantello,
L’analogia, cit., 3; nello
stesso ordine di idee ritiene «scorretto assumerla secondo un paradigma
predefinito», N. Lipari, Morte e trasfigurazione dell’analogia,
in Liber amicorum per Dieter Henrich
1, Torino 2012, 36.
[103] Per una
valutazione sulle modalità d’impiego del ragionamento analogico
nell’ambito degli ordinamenti di ‘common law’, ristretto,
com’è noto al solo ambito del ‘case law’, e invece
inammissibile per lo ‘statute law’, ove vige piuttosto il principio
della ‘literal rule’ (c.d. principio del casus omissus) si rinvia a G. Monateri,
Interpretare la legge (i problemi del
civilista e le analisi del diritto comparato), in Riv. dir. civ., 1987, I, 539 ss.; F.
Gallo, Diritto e interpretazione
nell’esperienza giuridica angloamerica, in Nozione, formazione ed interpretazione del diritto
dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al
Professor F. Gallo 4, Napoli 1997; L.
Vacca, Analogia e diritto
casistico, in Mélanges en
l’honneur de Carlo Augusto Cannata,
Bâle-Genève-München 1999, ora in Metodo casistico e sistema giurisprudenziale. Ricerche, Padova
2006, 105 ss., 109 ss.
[104] In proposito, e
nel senso di una riconduzione all’ambito applicativo del diritto, N. Bobbio, Analogia, cit., 604 s.; Id.,
L’analogia, cit., 132 ss.
(«non può essere in nessun modo considerata come attività
creativa, ma deve essere riassunta nell’ampio ambito delle
attività interpretative […] non è certo creazione
arbitraria, perché con l’analogia non si fa che sviluppare, e del
tutto analiticamente, la razionalità implicita nel sistema giuridico
positivo […] è creazione, così com’è creazione
ogni attività spirituale […] così com’è
creazione l’interpretazione stessa. Ma allora perché distinguerla
dall’interpretazione?»); M.M.
Fracanzani, Analogia e interpretazione estensiva
nell’ordinamento giuridico, Milano, 2003, 109 ss.; nel senso di una
riconduzione dell’analogia moderna (per lo meno nel vigente sistema italiano)
«al profilo interpretativo-applicativo, non a quello produttivo del
diritto» stante la collocazione sistematica dell’art 12. delle
preleggi sotto la rubrica ‘Interpretazione della legge’ pure F. Gallo, Alle origini dell’analogia, in Diritto e processo nella esperienza romana. Atti del Seminario torinese
(4-5 dicembre 1991) in memoria di Giuseppe Provera, Napoli 1994, ora in ‘Opuscola selecta’, Padova
1999, 898; in proposito vd. anche L.
Vacca, La ‘svolta adrianea’ e l’interpretazione
analogica, in Nozione formazione e interpretazione del diritto
dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al
professor F. Gallo 4, Torino 1997, ora in Metodo casistico, cit. 63 s.; Id.,
Analogia e diritto casistico (Metodo
casistico), cit., 112 nt. 16.
[105] La lacuna come
‘caso non regolato’ rappresenta in effetti il risultato, come
è stato correttamente osservato, di «un approccio
superficiale», costituendo «una specie di fata morgana
dell’interprete» (così M.M.
Fracanzani, Analogia, cit.,
81), visto che una lacuna non sarebbe neppure concettualmente concepibile
(così ad es. N. Bobbio,
voce Lacune del diritto, in Noviss. dig. it, IX, Torino 1963, 421:
«Sin dove giunge la regolamentazione giuridica non ci sono lacune, dove
non giunge c’è l’attività indifferente al diritto,
che non può chiamarsi ‘lacuna’ del diritto»; una
critica («Non può non sorgere il dubbio, tuttavia, che questa
impostazione, che in realtà si muove dentro il dogma della completezza,
non sia che un artificio logico») si trova in M.M. Fracanzani, Analogia,
cit., 82; sulla equivocità di fondo della nozione stessa di lacuna,
nell’ambito di una teorizzazione del fenomeno giuridico nei termini di
organico e completo sistema normativo, vd. E.
Betti, L’interpretazione
della legge e degli atti giuridici (Teoria generale e dogmatica)2, a cura
di G. Crifò, Milano 1971, 136 ss.; per un quadro delle articolazioni
interne alla nozione, variamente messe a punto in dottrina (lacune
oggettive-soggettive; logico-sistematiche; ontologiche e deontologiche; ideologiche
e teleologiche; critiche e diacritiche), si rinvia a G. Carcaterra, voce Analogia
in Enc. giur. Treccani, II, Roma
1988, 15; A.G. Conte, ‘Dècision, complétude,
clôture’. A propos de lacunes en droit, in Le problème des lacunes en droit, a cura di G. Perelman,
Bruxelles 1968, 67 ss.; da ultimo, sul punto, vd. T.G. Tasso, Oltre il
diritto. Alla ricerca della giuridicità del fatto, Trento 2012, 12
ss., con dettagliata rassegna bibliografica (18 s. nt. 5); sulla nozione,
ancora utile si rivela la lettura di E.
Zitelmann, Lücken im Recht,
Leipzig 1903; D. Donati, Il problema delle lacune
dell’ordinamento giuridico, Milano 1910.
[106] In proposito vd. S. Romano, Osservazioni sulla completezza dell’ordinamento giuridico,
Modena 1925, ora in Scritti minori 1,
Milano 1950, 371 ss.; sulla questione del divieto per il giudice del non liquet, previsto all’art. 4
del Code civile del 1804 vd. M.M.
Fracanzani, Analogia, cit.,
145 ss., il quale individua nei §§ 6 e 7 del codice civile austriaco
del 1811 e negli articoli 14 e 15 del codice albertino del 1838, i
«diretti precedenti» dell’art. 12 delle preleggi (se si
prescinde naturalmente dall’art. 3 delle disposizioni preliminari al cod.
civ. del 1865).
[107] Per una panoramica
generale sulle relazioni tra dogma di completezza, principio di legalità
e di separazione dei poteri, si rinvia a N.
Bobbio, voce Lacune del diritto,
cit., 420; al riguardo, più di recente, vd. anche M. M. Fracanzani, Analogia, cit., 79 s.; R.
Guastini, Interpretare e
argomentare, Milano 2011, 140.
[108] Così L. Vacca, Analogia e diritto casistico (Metodo casistico), cit., 105 ss.; Ead., L’interpretazione analogica (in Il ragionamento analogico), cit., 80 ss.
[109] L. Vacca, L’interpretazione analogica (in
Il ragionamento analogico), cit., 73
ss.; sul punto anche Id., Analogia e diritto casistico (Metodo
casistico), cit., 112 s.
[111] Così invece
(«è diverso anche il procedimento logico-argomentativo attraverso
cui egli [scil. l’interprete] attua questo raccordo») L. Vacca, L’interpretazione analogica (in Il ragionamento analogico), cit., 74; diversamente vd. A. Mantello, L’analogia, cit., 14, 62 ss.
[112] In proposito vd. R. Reggi, L’interpretazione analogica 1, cit., 5 ss.; E. Bund, Untersuchungen, cit., 98 s.; su un primo affiorare del problema
dell’analogia in Platone, in materia però cosmologica, vd. A. Mantello, L’analogia, cit., 16, il quale tiene comunque a sottolineare
come sia stato «Aristotele a delimitare meglio il terreno di discussione
e a determinare le coordinate», riutilizzando il «nesso fra
analogia e uguaglianza, avente riscontri anche nel modo matematico-geometrico e
musicale, nonché nella tradizione pitagorica».
[113] Così N. Bobbio, L’analogia, cit., 48 ss.; in questo senso («mit dem
Wort ¢nalog…a bezeichnet Aristoteles nicht den
Analogieschluß») anche E.
Bund, Untersuchungen, cit., 98 nt. 30; da ultimo A. Mantello, L’analogia, cit., 22 ss.
[114] Sul punto si
vedano, con indicazioni delle fonti, N.
Bobbio, L’analogia,
cit., 87 ss.; R. Reggi, L’interpretazione analogica, cit.,
105 ss.; E. Bund, Untersuchungen,
cit., 97 ss.; A. Mantello, L’analogia, cit., 22 ss.
[115] In proposito, ma
anche in relazione agli elementi di distinzione tra paradigma e induzione, vd. N. Bobbio, L’analogia, cit., 33, 90 s., 92 ss.: «si intende
però che una volta accettata la dottrina aristotelica del paradigma
[…] il ragionamento per analogia dovesse finire per figurare nel capitolo
dedicato all’induzione, se pure come induzione incompleta o imperfetta
[…] come argomento di probabilità»; R. Reggi, L’interpretazione
analogica 1, cit., 107; più recentemente P. Śliwiński, Il
ragionamento per analogia nella filosofia analitica polacca, Roma 1998, 43
s.; in relazione alla tradizionale
configurazione di paradigma e entimema in termini, rispettivamente, di
induzione e sillogismo abbreviato vd. (con riferimenti bibliografici) C. Natali, Aristotele e la rinascita della retorica, in L’attualità di Aristotele, a cura di Stephen L. Brock,
Roma 2000, 28 ss.; P. von Moos, Sulla retorica dell’exemplum nel
medioevo, in Id., Entre historique et littérature.
Communication et culture au moyen âge, Firenze 2005, 264 s.; un
accenno anche in F. Gallo, Alle origini dell’analogia, cit.,
898 nt. 3. In proposito si considerino (per l’entimema)
Quint. inst. or. 5.14.24 e 26, che
vale la pena di riprodurre integralmente: enthymema ab aliis oratoribus syllogismus, ab aliis pars dicitur
syllogismi, propterea quod syllogismus utique conclusionem et propositionem
habet et per omnes partes efficit, quod proposuit, enthymema tantum intelligi
contentum sit…‘si pecunia, quae est in argento signato, argentum
est, qui argentum omne legavit, et pecuniam, quae est in argento signato,
legavit; argentum, autem omne legavit, igitur et pecuniam, quae est in argento,
legavit’ habet formam syllogismi: oratori satis est dicere ‘cum
argentum legaverit omne, pecuniam quoque legavit, quae est in argento’; Iul. Vict.
ars rhet. 10: enthymema est imperfectus syllogismus: non
est enim in eo necesse primum ponere, deinde argumentari et postremo
concludere, sed vel primam propositionem praeterire licebit, propterea quod
ipsa tantum praesumptione iudicis vel auditoris contenta esse poterit, et sola
ratiocinatione exsequi et conclusionem superaddere, vel certe conclusionem
praetermittere et sensibus iudicis id, quod ratiocinatus sit, colligendum
relinquere. quare ergo dialecticis illud necessarium est, ut omnibus partibus
colligant, oratoribus non semper? Quoniam illis veri inveniendi ratio, his
suadendi proposita est…’: su
entrambi i brani e per una valutazione sull’uso del sillogismo
entimematico da parte dei giuristi romani, vd. A. Mantello, L’analogia,
cit., 53 ss.
[116] Sul punto si rinvia a N. Bobbio, L’analogia, cit., 90 ss., il quale da parte sua (93 ss.)
rivendica l’assenza di una precisa configurazione logica, potendo il
ragionamento per analogia in sostanza assumere entrambe le fisionomie
(induttiva o deduttiva), a seconda delle concrete modalità impiegate sul
piano della ‘costruzione’ del «ragionamento sottinteso che
costituisce la ragione […] della validità»
dell’analogia e che «può essere tanto deduttivo, quanto
induttivo, cioè fondato sopra una proposizione generale, quanto sopra
un’osservazione empirica»; adesivamente così M.M. Fracanzani, Analogia, cit., 182 ss.; in proposito vd. anche R. Reggi, L’interpretazione analogica 1, cit., 107 s. e ivi ntt.13-15; O. Di Giovine, L’interpretazione nel diritto penale. Tra creatività e
vincolo alla legge, Milano 2006, 35 ss.
[117] An. Pr. 2.24 69,
l. 11: ‘FanerÕn oân Óti
par£deigm£ ™sti oÜte æj mšroj prÕj
Ólon oÜte æj Ólon prÕj mšroj, ¢ll'
æj mšroj prÕj mšroj, Ótan ¥mfw mn
Î ØpÕ taÙtÒ’: in proposito vd. R. Reggi, L’interpretazione
analogica 1, cit., 106;
(«Die Analogie vom Besonderen zum Allgemeinen aufsteigt und wieder zu
einem Besonderen zurückkehrt») E.
Bund, Untersuchungen, cit., 99 ss.; evidenzia la
specificità del ragionamento paradigmatico «ricollegante un
particolare ad un altro o altri particolari sotto l’insegna della pura e
semplice similarità, del Ómoion
prÕj Ómoion, ben differentemente dalla stessa induzione dialettica
costruita sulla relazione del particolare con il generale» A. Mantello, L’analogia, cit., 22 e ivi nt. 31, ove giustamente si insiste
sull’interpretazione del termine Ómoioj «nel senso
di “simile, somigliante” (e non di “identico,
uguale”)».
[123] In questo senso N. Bobbio, L’analogia, cit., 88; in proposito vd. anche L. Vacca, L’interpretazione analogica (in Il ragionamento analogico), cit., 88 s.
[124] Così
secondo A. Mantello, L’analogia, cit., 31, almeno per
quanto riguarda la riflessione ciceroniana sul tema.
[125] Così, in
base a Cic. Top. 42 (su cui vd. infra nt. 127), secondo R. Reggi, L’interpretazione analogica, cit., 108; più
recentemente discute di «sfruttamento con il termine latino di inductio», proponendo una
corrispondenza dell’inductio
ciceroniana col paradigma aristotelico (™pagwg»
·htorik») pure A. Mantello,
L’analogia, cit., 29 ss., 35
ss., al quale si rinvia anche per un’analisi dei possibili canali di
conoscenza del pensiero aristotelico a cui avrebbe potuto attingere Cicerone
per la stesura dei suoi Topica,
rispetto alla quale questione l’autore dà comunque «per
scontata l’improbabilità d’una derivazione diretta dello scritto
di Cicerone dall’opera aristotelica con l’omonimo titolo»,
essenzialmente per due ragioni: «la prima, che dopo tutto la tematica
trattata nei topica di Cicerone era
presente alla sua mente [...] già al tempo almeno della stesura del de inventione e ben difficilmente
è possibile sostenere una dipendenza di tale scritto giovanile da
Aristotele. La seconda, che al tempo della scrittura dei topica ciceroniani (44 a.C.) la parte del corpus Aristotelicum sino a quel momento pubblicata a Roma da
Andronico non coinvolgeva presumibilmente l’opera dello Stagirita».
[126] Per una
valutazione dell’uso delle nozioni di similitudo
ed exemplum nell’ambito della
retorica latina per distinguere rispettivamente il par£deigma fondato su
caso fittizio (ciò che più propriamente i Greci chiamavano
parabol»), da quello costruito su un dato vero (appunto exemplum), in base a una distinzione che
invece non si rinviene nelle fonti greche (e in particolare in Aristotele)
rimane centrale Quint. inst. or.
5.11.1-2, per la cui analisi si rinvia al recente contributo di A. Mantello, L’analogia, cit., 38 ss.; sempre di Quintiliano si consideri inst. or. 1.6.3.4 (eius haec vis est, ut id quod dubium est ad
aliquid simile de qua non quaeritur , referat et incerta certis probet), 5.11.34 (¢nalog…a
quidam a simili separaverunt, nos eam
subiectam huic generis putamus), non solo per il tentativo di ricondurre la
nozione di analogia alla più generale nozione di similitudine (di
«ardita costruzione “sistematizzante”» discute A. Mantello, L’analogia, cit., 12), ma anche perché vi è ben
evidenziato il meccanismo di funzionamento del ragionamento analogico, per cui
individuata una similitudine rispetto a un caso per il quale si assume fuori
discussione una determinata qualità, la si ritiene riferibile al caso
(prima) incerto analogo.
[127] In particolare
andrebbe forse rivista l’identificazione che si è soliti porre tra
inductio (ciceroniana) e paradigma
aristotelico (™pagwg» ·htorik») in base a Cic. Top. 42: sunt enim similitudines, quae ex pluribus conlationibus perveniunt quo
volunt, hoc modo. Si tutor fidem praestare debet, si socius, si cui mandaris,
si cui fiduciam acceperit, debet etiam procurator. Haec ex pluribus perveniens
quo vult appellatur inductio, quae Graece ™pagwg» nominatur, in cui il termine
inductio è adoperato da parte
di Cicerone — com’è stato, del resto, opportunamente
segnalato, di recente, da A. Mantello,
L’analogia, cit., 31 s. —
in relazione a un modello particolare di similitudo,
quella ex pluribus conlationibus (da tenere
distinta rispetto all’alterum
similitudinis genus [...] cum una res
uni, par pari comparatur: Cic. top.
43), in cui le conclusioni sono tratte dall’analisi di più tipi, e
dunque secondo un procedimento che sembra avvicinarsi maggiormente agli schemi,
molto similari del resto, dell’induzione in senso tecnico, e dunque
dell’™pagwg¾ vera e propria,
piuttosto che dell’™pagwg¾ ·htorik» (paradigma), la
cui differenza principale rispetto all’induzione (™pagwg¾) risiede proprio nel fatto (così An. Pr. 2.24 69a
l. 14) che «non esamina tutti i casi o gli individui di una classe ma
soltanto uno od alcuni» (così R.
Reggi, L’interpretazione
analogica, cit., 108; in proposito vd. anche N. Bobbio, L’analogia,
cit., 90 s.): di qui il giudizio di induzione incompleta; per cui è
piuttosto l’alterum genus similitudinis, in cui ‘una res uni, par pari comparatur’,
che sembra meglio adattarsi al ragionamento paradigmatico. Sul piano della
tradizionale identificazione un ruolo certamente non marginale deve attribuirsi
a Quint. inst. or. 5.11.1-2 ‘nam idem omnem argumentationem dividit in
duas partes, inductionem et ratiocinationem ut plerique graecorum in parade…gmata et
™piceir»mata’: sul brano
vd. R. Reggi, L’interpretazione analogica, cit.,
108; da ultimo A. Mantello, L’analogia, cit., 38 ss.
[128] In questo senso
già N. Bobbio, L’analogia, cit., 96: «La
maggiore o minore possibilità di trarre una conclusione valida dipende
dall’estensione e dai limiti con cui viene assunto il concetto di
somiglianza, che è un concetto di per se stesso indeterminato e per lo
più indeterminabile in linea astratta e assoluta. Invero la somiglianza
non è un concetto assoluto, ma un concetto relativo che sposta in
più o in meno i suoi limiti a seconda del punto di riferimento che viene
di volta in volta assunto. Non soltanto un oggetto può avere con un
altro maggior o minor somiglianza che con un terzo, ma anche tra due oggetti
può variare la misura delle somiglianza a seconda del diverso termine di
confronto, a cui vengono riferiti. Perciò è assurdo parlare di
somiglianza tra due oggetti in termine assoluto».
[130] Così
(«l’interpretazione estensiva si risolve in un procedimento per
somiglianza, appena se ne consideri la struttura logica») giustamente N. Bobbio, L’analogia, cit., 144.
[131] Per quanto riguarda i profili di
incoerenza che si registrano talvolta sul piano dei rapporti con il concorrente
approccio sillogistico (così, come si è in parte accennato, E. Betti, Sul valore, cit., 28 s., 33; A.
Schiavone, Studi, cit., 96),
vd. supra ntt. 48 e 52.
[132] Com’è noto, ad avanzare
l’ipotesi di una contrapposizione metodologica tra analogisti-Proculeiani
e anomalisti-Sabiniani fu il filologo Martin Schanz, in un breve ma notissimo
studio apparso sulla rivista Philologus
nell’ultimo scorcio del XIX sec. (42 [1884], 309 ss.) dal titolo ‘Die Analogisten und die Anomalisten im
römischen Recht,’ nel quale veniva ripreso e sviluppato un
precedente spunto di F.D. Sanio, Varroniana in den Schriften der
Römischen Juristen, vornehmlich an dem Encheiridion des Pomponius
nachzuweisen versucht, Leipzig 1867, 266 ss., ove veniva presa
inconsiderazione l’eventualità di un’incidenza del dibattito
tra Anomalia e Analogia apertosi in ambito grammaticale, e delle connesse
nozioni di ratio e utilitas, sul piano dell’elaborazione
del pensiero giuridico romano. È appena il caso di osservare che in
effetti le uniche conclusioni degne di qualche considerazione alle quali era
pervenuto il filologo tedesco, in base alle informazioni contenute in Gell.
13.10 e Fest. s.v. poenatis,
consistevano nell’attribuzione a Labeone di un approccio analogista in
materia grammaticale (M. Schanz, Die Analogisten, cit., 313 s.:
«Labeo ist in der behandlung der sprache analogist»): adesivamente P. Stein, Sabino contro Labeone: due tipi di pensiero giuridico romano, in BIDR. 19 (1977), 60; Id., Le scuole, in Per la storia
del pensiero giuridico romano da Augusto agli Antonini. Atti del Seminario di S. Marino (12-14
gennaio 1995), a cura di D. Mantovani, Torino 1996, 7.
Alla conclusione di un contrasto metodologico tra scuole,
lo studioso perveniva (316), in effetti, in via del tutto congetturale senza il
supporto di alcun apprezzabile apparato argomentativo («denn die annahme,
dass Labeo in der sprache analogist, im rechte anomalist bewesen sei, wird wohl
niemand vertreten. Sonach dürfte sich als höchst wahrscheinlich
der satz hinstellen lasse: Labeo ist in der behandlung des rechts analogist.
Damit ist aber auch die stellung seines gengers gegeben: Capito ist in der behandlung
des rechts anomalist»): così come del resto era stato già
ampiamente notato in quegli stessi anni da O. Karlowa,
Römische Rechtsgeschichte 1. Staatsrecht uns Rechtsquellen, Leipzig
1884, 1030 s.; (più estesamente) I. Bekker, Aus den Grenzmarken der geschichtlichen
Rechtswissenschaft, in ZSS. 6
(1885) 75 s.; P. Krüger, Geschichte der Quellen und Literatur des
römischen Rechts2, Leipzig 1888, 142 nt. 9. Nonostante lo scarso entusiasmo
iniziale, l’idea finì per far breccia fra i romanisti (brevi
indicazioni possono trovarsi infra in
nt. 134), in assenza però di una adeguata riflessione che avrebbe
certamente fatto emergere le incerte fondamenta sulle quali l’indicata
teoria era stata edificata (infra nt.
seg.).
[133] Senza che abbia qui naturalmente senso
impegnarsi in una specifica valutazione della querelle che avrebbe visto contrapporsi gli anomalisti pergameni
(rifacentisi ai principi stoici di Crisippo) agli analogisti grammatici
alessandrini, vera o presunta che essa fosse (per una panoramica sulla questione
si rinvia, con discussione della letteratura, alla recente indagine di M. Broggiato, Cratete di Mallo. I frammenti, Introduzione,
Roma 2006, XXXIII ss.), si deve piuttosto osservare che non si è
evidentemente riflettuto sull’incongruenza degli invocati schemi
lessicali grammaticali rispetto agli indirizzi metodologici che, attraverso
questi, si sarebbe preteso di rappresentare. È così accaduto che
in questa confusa mistura concettuale, si sia finito per inquadrare la dottrina
sabiniana all’interno di una rappresentazione dogmatica del linguaggio,
come quella anomalista, il cui statuto epistemologico, con la sua
valorizzazione dell’inaequalitas
(declinationum), avrebbe dovuto
mostrarsi scarsamente compatibile con lo sforzo di normalizzazione che si vorrebbe
messo in campo dai giuristi di area sabiniana. Non si è così
considerato che, sul versante grammaticale, erano piuttosto gli analogisti
alessandrini a essere impegnati in un’opera di omologazione del
linguaggio, nel presupposto di una sua rigorosa organizzazione in base a
precisi criteri regolativi (rationes).
Circostanza, questa, che era stata d’altra parte opportunamente
evidenziata («In der sprache will di analogie eine regel für alle
bezüglichen fälle. Im recht will die analogie allgemeine gültigkeit
des betreffend rechtssatzes — keine ausnahme»), proprio da M. Schanz, Die Analogisten, cit., 315 (sul punto vd. anche I. Ramelli, Esegesi allegorico-etimologica stoica negli interpreti di Omero in
età alessandrina, in I.
Ramelli-G. Lucchetta, Allegoria 1.
L’età classica, Milano 2013, 190 ss.), al quale però
mancavano evidentemente gli strumenti cognitivi necessari per comprendere che,
in una «Rechtsgenossenschaft» come quella romana, in cui era (anche
e) innanzi tutto il sistema processuale (le actiones)
a costituire il reticolo regolativo di riferimento (le regulae grammaticali), a venire considerati analogisti, almeno
sotto il profilo che qui interessa — e in termini comunque generalissimi
che si arrestano alle sole modalità di impostazione del rapporto
regola-eccezione, visto che, per il resto, mancano i presupposti stessi
perché si possa anche solo porre un raffronto sul diverso versante della
individuazione dei connessi meccanismi attuativi — avrebbero dovuto
essere semmai i Sabiniani, i quali, per l’appunto, nel rifiuto
dell’anomalia (come meglio chiamare del resto l’atipicità)
si sforzavano di ricondurre all’interno della regola (ovvero
dell’azione) ogni deviazione rispetto allo schema tipico, nei limiti in
cui, ovviamente, ciò risultasse possibile: un rovesciamento rispetto
all’impostazione tradizionale si trova in L. Lantella, Il lavoro
sistematico nel discorso giuridico romano. Repertorio di strumenti per una
lettura ideologica, Torino 1975, 136 ss.; dubita che si tratti di
prospettiva realmente utile ai fini di una piena comprensione del pensiero
giuridico romano e dei suoi processi elaborativi A. Schiavone, Studi,
cit., 95 s.
Sorprende, piuttosto, che nello stesso fraintendimento siano
incorsi quei romanisti che, come Betti, si sono richiamati alle indagini di
Schanz, per quanto bisogna anche tenere presente che doveva risultare certo non
facile per chi era abituato a ragionare secondo schemi concettuali che
imponevano una precisa demarcazione tra analogia e assimilazione, ricondurre a
una logica di tipo analogista un indirizzo pragmatico che, come quello
sabiniano, era (diversamente) orientato all’estensione dell’ambito
applicativo dei rimedi processuali edittali, implicante una (sostanziale)
assimilazione fra tipi: tanto più che, per via di possibili fascinazioni
lessicali, il termine anomalia poteva certo far pensare (e anche si prestava)
all’idea (che non era certo, però, corrispondente a quella dei
grammatici pergameni) di una dilatazione della regola (leggasi azione o nomen contractus) in modo da accogliere
al suo interno anche il caso anomalo. Ciò non toglie che per il tramite
di questa (inesplicitata) ‘reinterpretazione’ di uno dei poli
dialettici, in una prospettiva più propriamente omologante, tutta
orientata alla ricerca dei caratteri specificamente identitari (del tutto
corretta l’osservazione di L.
Lantella, Il lavoro sistematico,
cit., 139), si sia definitivamente spezzato ogni (possibile) legame con la solo
(a questo punto) omonima teoria grammaticale.
[134] Soprattutto E. Betti, Sul valore,
cit., 33 s.; tra gli studi più recenti vanno perlomeno segnalati P. Stein, Sabino, cit., 60; Id.,
Le scuole, cit., 7 («Labeone
adottò il metodo dei grammatici analogisti […] e lo introdusse nel
discorso giuridico. Il suo principio fondamentale era che il diritto è
una scienza razionale, organizzata in una struttura di regole»); G.L. Falchi, Le controversie tra Sabiniani e Proculiani, Milano 1981, 20 s., 254
s.
[135] Per un ridimensionamento del rilievo
che avrebbe assunto l’assimilazione nelle decisioni concretamente
adottate dai giuristi di area sabiniana, i quali si sarebbero piuttosto (e
prevalentemente) indirizzati, fatta eccezione per l’ipotesi della
permuta, verso la predisposizione di apposite azioni in factum pretorie, vd. P.F.
Girard, Manuel, cit., 571 nt.
6: «Ces actions in factum
[…] ont probablement eu, dans la doctrine sabinienne, beaucoup plus
importance que les tentatives infiniment plus connues faites pour
étendre dans certains cas les actions nées des contrats
nommés (échange […] vente sous condition
résolutoire)»; così in sostanza (ancor prima) anche A. Pernice, Zur Lehre, cit., 91 s.; Id.,
Zur Vertragslehre, cit., 253 s.;
diversamente («L’unica via aperta […] resta quello dello
sforzo di ridurre attraverso continui processi di assimilazione i nuovi
rapporti sociali entro i rigidi confini delle ipotesi già regolate
dall’ordinamento, al di là delle quali non vi può essere
altra tutela che l’occasionale ricorso ad actiones in factum pretorie») A. Schiavone, Studi,
cit., 110; al cui punto di vista mostra di aderire P. Stein, Sabino,
cit., 64.
[136] Così («I seguaci di
Labeone seguono […] il metodo analogistico, gli altri il metodo
anomalistico») E. Betti, Sul valore, cit., 33, per quanto dal
pensiero dello studioso appaia chiaramente che si tratti in effetti di criteri
orientativi interni alla stessa logica argomentativa, i cui diversi esiti sono
da mettere in relazione alla diversa valorizzazione degli elementi di
discontinuità tra fattispecie («secondo che accentuassero di preferenza o la genericità di alcuni
caratteri che i casi noti hanno comuni coi casi nuovi, ovvero la singolarità dei casi nuovi di
fronte alla propria tipicità
dei noti»).
[137] Così in
particolare N. Bobbio, L’analogia, cit., 63 («falsa
distinzione»), 142 («si sostiene che l’interpretazione
estende la norma medesima, mentre l’analogia si risolve nella
formulazione di una nuova norma. Ma questo motivo di differenziazione è
oltremodo estrinseco. Infatti quello che tanto nell’un caso quanto
nell’altro accade effettivamente è la regolamentazione di un caso
non regolato da una norma di diritto positivo»), 150 («la
distinzione tra interpretazione estensiva e analogia non è altro che un
sofisma verbale»); pur riconoscendo la difficoltà di
«individuare una netta linea di confine tra i due procedimenti»,
visto che anche l’interpretazione estensiva avverrebbe attraverso
l’adozione di un «ragionamento di tipo analogico», finisce
per pronunciarsi in favore della distinzione («intrinseca
contraddittorietà dell’equiparazione tra analogia e
interpretazione estensiva»: p. 269), M.M.
Fracanzani, Analogia, cit.,
113, 201, 269; per un’accentuazione di tale distinzione, in una direzione
piuttosto orientata a negare allo strumento analogico la natura di tecnica
propriamente interpretativa, attribuendogli piuttosto la natura di mezzo di
integrazione delle norme legali vd. R.
Guastini, Interpretare, cit.,
132 («una lacuna non può essere colmata per via d’interpretazione:
per colmare una lacuna, occorre “integrare” o completare
l’ordinamento giuridico, e ciò può esser fatto solo
introducendo in esso una norma nuova […] la produzione di una nuova norma
[…] è cosa concettualmente diversa dall’interpretazione di una
diposizione preesistente, trattasi non di interpretazione, ma di costruzione
giuridica»), con una proposta che non a caso ha trovato i primi spunti,
ma anche i maggiori consensi, nell’ambito delle scienze penalistiche, ove
è avvertita l’esigenza di giustificare il diverso trattamento che
sembrerebbe riservato dal legislatore italiano (art. 14 prel.) ai due diversi
modelli ermeneutici: così M.
Boscarelli, Analogia e
interpretazione estensiva nel diritto penale, Palermo 1955, 68 ss.; F. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte generale11, Milano 1989, 85;
così anche Cass. pen. 3 luglio 1991, in Foro it., 1992, II, 146; sul punto vd. anche G. Fiandaca-E. Musco, Diritto penale. Parte generale3, Bologna
2002, 92 ss., 110 ss., ove si avanzano riserve sull’ammissibilità
dell’interpretazione estensiva in materia penale, essendovi il rischio
«sempre latente […] di ricadere in un giudizio analogico
mascherato»; propone una «distinzione qualitativa» tra
analogia e interpretazione estensiva, trattandosi rispettivamente di
interpretazione «integrativa» e interpretazione
«dichiarativa», L. Caiani,
voce Analogia (teoria generale), in Enc. dir., vol. II, Milano 1958, 353.
[139] Così in
sostanza, ci pare, anche M.M. Fracanzani,
Analogia, cit., 180: «la stessa
derivazione greca del termine (¢nalog…a’) indica la
relazione di identità, similitudine, tra due elementi o discorsi».
[140] N.
Bobbio, L’analogia,
cit., 50; R. Reggi, L’interpretazione analogica, cit.,
105 ss.; («Von Hause aus bedeutet ¢nalog…a die mathematische Proportion») E. Bund, Untersuchungen, cit.,
98 nt. 30; A. Mantello, L’analogia, cit., 22 e ivi nt. 30,
ove ulteriori indicazioni bibliografiche.
[141] N. Bobbio, L’analogia, cit., 50:
«significato più generico e meno tecnico»; E. Bund, Untersuchungen, cit.,
98 nt. 30.
[143] Richiama da ultimo
l’attenzione sull’assenza nella lingua latina di «un
“significante” peculiare corrispondente al greco ¢nalog…a» A.
Mantello, L’analogia, cit.,
6, ove si osserva come si ricorresse per lo più alla traslitterazione analogia (così, ad es., Sen. Ep.120.4-5) o all’impiego dello
stesso termine greco (così tra gli altri Cic., ad Att. 6.2.3, Tim. 13,
su cui vd. infra nel testo).
[144] Senza che manchi
la prospettiva della simmetria cui si richiama Vitruvio, per quanto non in
termini identificativi ma evidentemente correlativi, essendo piuttosto la proportio la condizione per assicurare
la simmetria: in una relazione, per certi versi, di causa ed effetto (de arch. 3.1.1 ‘ex symmetria, cuius rationem diligentissime
architecti tenere debent. Ea autem paritur a proportione, quae graece ¢nalog…a dicitur’): sul brano
vd. A. Mantello, L’analogia, cit., 9 ivi nt. 11,
secondo il quale «Vitruvio da parte sua si serve di analogia per indicare la simmetria delle parti in architettura,
ponendo in essere una scelta che in ultima istanza presuppone il criterio
dell’eguaglianza per il senso di equilibrio ad esso sotteso».
[145] In cui Cicerone sembra quasi
rivendicare l’impiego della locuzione conparatio
pro portione per esprimere il concetto greco di analogia: discute di
«opinione […] narcisisticamente prospettata come cosa nuova ed
originale, nonostante il contemporaneo intervento di Varrone» A. Mantello, L’analogia, cit., 6 nt. 8.
[146] Così N. Bobbio, L’analogia, cit., 50 nt. 9; M.
M. Fracanzani, Analogia, cit.,
180; A. Duso, L’analogia in Varrone, in Atti della giornata di linguistica latina
(Venezia 7 maggio 2004), a cura di R. Oniga e L. Zennaro, Venezia 2006, 16, la quale
si rifà all’edizione di R. Giomini; S.A. Cristaldi, Il
contenuto dell’obbligazione, cit., 8 nt. 3; nello stesso senso
riferisce il testo W. Pannenberg,
Analogie und Offenbarung. Eine kritische
Untersuchung zur Geschichte des Analogiebegriffs in der Lehre von der
Gotteserkenntnis, Göttingen 2011, 30 e ivi nt. 93 («In der
Richtung stoischen Denkens hat später Cicero die korrekte Übersetzung
des griechischen ¢nalog…a durch proportio als comparatio oder collatio
rationis interpretiert», ove il riferimento alla collatio rationis
rinvia a Cic. de fin. bon. 3.33
‘aut coniunctione, aut
similitudine, aut collatione rationis, hoc quarto, quod extremum posui, boni
notitia acta est’); la lezione conparatio
proportiove si rinviene anche in M.
Tullii Ciceronis de officiis ad Marcum filium libri tres, Paradoxa Stoicorum,
Timaeus, recensuit J. G. Baiter, Lipsiae 1865, 134.
[147] Così M. S. Celentano, Cic.
Tim 13, in RCCM 14 (1972), 116
ss.; in difesa dell’espressione proportione
si veda soprattutto M. Puelma, Cicero als Platon-Übersetzer, in Museum Helveticum 37 (1980), 170 s., il
quale respinge la variante testuale proportiove
introdotta da una seconda mano («Lesart zweiter Hand») —
secondo quanto già ipotizzato da O.
Plasberg, Satura Tulliana IV,
Rhein. Mus. 13 (1898), 74 ss. — in considerazione del fatto che Cicerone
(e prima di lui Plauto e Catone) avrebbe conosciuto unicamente «die
indeklinable, in adverbieller Funktion gebrauchte Form proportione ‘¢n¦ lÒgon’»; L. Spahlinger, Tulliana simplicitas: zu Form und Funktion des Zitats in den
philosophischen Dialogen Ciceros, Göttingen 2005, 200 nt. 62; A. Mantello, L’analogia, cit., 6 nt. 8; in favore della lettura pro-portione sembrerebbero potersi
addurre Tim. 15 (inter se conpararet et pro portione coniungeret) e 24 (‘eandem pro portione conparationem), su
cui vd. sempre A. Mantello, L’analogia, cit., 8 nt. 10.
[148] Denuncia
un’oscillazione nell’impiego del termine ¢nalog…a in
Cicerone tra il criterio dell’uguaglianza e quello della similitudine A. Mantello, L’analogia, cit., 7 e ivi nt. 10.
[149] Nel presupposto di
una lettura disgiuntiva (comparatio
proportiove), afferma che «già in Cicerone i due significati
estremi (scil. di proporzione e comparazione) si trovano uniti nella
spiegazione che dà del termine analogia» N. Bobbio, L’analogia,
cit., 50 nt. 9; un’oscillazione della nozione di analogia tra la
prospettiva matematica della proporzione e quella logica, ma più
generica della comparazione, è più recentemente denunciata anche
da M.M. Fracanzani, Analogia, cit., 180: interpretazione che
si farebbe naturalmente più difficoltosa nel caso si dovesse piuttosto
leggere conparatio proportione, in
cui l’unica prospettiva adottata sarebbe, a quel punto, quella della conparatio, del raffronto, ove
l’ablativo proportione —
non dunque il nominativo proportio(ve)
— assumerebbe valore strumentale e dunque al più svolgerebbe una
funzione descrittiva, per così dire, dei meccanismi regolativi del
raffronto, della comparazione: le modalità della conparatio. In un ordine di idee, nel quale al più ci
sarebbe da chiedersi se la prospettiva adottata dall’Arpinate non fosse
tanto quella del processo investigativo (dell’attività di
comparazione) — intendendo dunque il termine conparatio nel senso (per così dire neutrale) di
comparazione, raffronto —, quanto piuttosto quella dell’esito di
tale processo, intendendo così il termine conparatio, in un’accezione ‘risultativa’, e
dunque nel senso di ‘equiparazione’: e allora Cicerone si sarebbe
piuttosto fatto carico di precisare che l’analogia è quel processo
di ‘assimilazione’, con cui si pongono sullo stesso piano, si
vengono a equiparare (cum-parare) situazioni formalmente differenti, sulla base
della preventiva individuazione di parziali corrispondenze (proportione) tra le situazioni stesse:
in sostanza ‘assimilazione’ resa possibile dalla sussistenza di una
proportio, per cui tra le due nozioni
si porrebbe un rapporto di causa (proportio)-effetto
(conparatio) o, se si preferisce, di
strumento-fine.
[150] Sul brano vd. A. Mantello, L’analogia, cit., 6 nt. 8, 9 nt. 12, con la considerazione
per cui «si può dire senza ombra di dubbio che per Varrone lógoj/portio (di ¢n£ lógon/pro portione)
fosse l’identica ragione giustificativa ovvero l’identica
proporzionalità insita nel rapporto tra A e B, da un lato, e fra C e D,
dall’altro».
[151] Sul brano vd., con
ampia documentazione della letteratura, S.
A. Cristaldi, Il contenuto
dell’obbligazione del venditore nel pensiero dei giuristi
dell’età imperiale, Milano 2007, 77 ss.; più di recente
C. A. Cannata, Labeone, Aristone, cit., 36 ss.; G. Romano, Nota sulla tutela del contraente evitto nell’ambito dei c.d.
contratti innominati. Il caso dell’actio auctoritatis, in D@S-Tradizione romana 9 (2010), 16 ss.,
43 ss. e ivi ntt. 193-227; E.
Sciandrello, Studi, cit., 307
ss.; C. Pelloso, Do ut des, cit., 111 nt. 44, 125 ntt.
71, 151 nt. 113.
[152] Il dato non è da ultimo sfuggito
a C. Pelloso, Do ut des, cit., 111 nt. 44:
«Un’adesione integrale allo schema messo a punto da Labeone, a mio
credere, avrebbe condotto [...] a prescindere dall’esecuzione delle
prestazioni, nonché a prescindere dal tipo di prestazioni, a vedere
integrati gli estremi di una conventio su un’ultro citroque
obligatio tutelabile praescriptis verbis».
[153] Negare la configurabilità
di un contratto analogo alla compravendita in una vicenda così
marcatamente vicina a schema contrattuale tipico lascia in effetti pochi
margini per immaginare soluzioni differenti in altri contesti problematici o di
confine, visto che in concreto assai difficilmente questi avrebbero potuto
presentare un ancor più elevato grado di somiglianza tale da
giustificare un diverso esito rispetto a quello qui registrato: in sostanza
l’unica via per mantenere praticabile l’ipotesi di un argomentare
per tipi in Celso (quanto a un argomentare per concetti, questo sembra vada
escluso) parrebbe quella di ricondurre il caso in questione entro i più
consueti schemi dello scambio propriamente permutativo (cosa contro cosa): in
proposito, e per una valutazione delle varie proposte emendative del testo che
sono state avanzate in tal senso (dedi
tibi [pecuniam] Pamphilum; rem; peregrinam pecuniam; Pamphilum et pecuniam), si rinvia a S.
A. Cristaldi, Il contenuto,
cit., 89 ss.
[154] Per una svalutazione delle
modalità di scrittura (se debba cioè leggersi pro portione
o proportione) vd.,
condivisibilmente, già V. Scialoja,
La l. 16 dig. de cond. causa data 12,4 e
l’obbligo di trasferire la proprietà nella vendita romana, in BIDR. 19 (1907), 174 s.; più
recentemente F. Gallo, Synallagma 2, cit., 156 nt. 4; T. dalla Massara, Alle origini, cit., 234 nt. 87; per un ridimensionamento del
rilievo attribuito alla vicenda da V.
Arangio-Ruiz, La compravendita in
diritto romano,2 Napoli 1954, 152 nt. 1, secondo il quale, invece, la
lettura ‘proportione’
esprimerebbe l’idea dell’analogia, a differenza di ‘pro portione’, che piuttosto
alluderebbe alla tipologia del contratto misto, vd. C. A. Cannata, Labeone,
Aristone, cit., 36 nt. 11, il quale da parte sua si orienta per la lezione ‘pro portione’.
[155] Nel senso
dell’assunzione di un obbligo di trasferimento della proprietà
della res empta (‘dare’) estraneo e (almeno) per
Celso incompatibile col programma obbligatorio della compravendita consensuale
(‘possessionem tradere’:
Paul. 32 <33> ad ed. D.19.4.1),
ci limitiamo a segnalare, fra gli studi più recenti, M. Talamanca, “Vendita in generale” (diritto romano), in ED. 46, Milano 1993, 380 nt. 798; F. Gallo, Synallagma 2, cit., 156 nt. 5; T.
dalla Massara, Alle origini, cit., 234 nt. 88; sul brano vd.
anche S. A. Cristaldi, Il contenuto, cit., 89 ss., 112 ss., il
quale suggerisce piuttosto di mettere in relazione la soluzione celsina con
l’assenza di un convenire de pretio,
nel senso che le parti non avrebbero considerato la somma di denaro
«quale misura di valore della cosa in vendita»: perplessità in proposito in G. Romano, Nota sulla tutela, cit., 20.
[156] Per una
distinzione tra «atipicità della tutela» e
«atipicità del rapporto» vd. di recente F. Cursi - R. Fiori, Le azioni generali, cit., 181 s.; Id., Proculo e l’agere praescriptis verbis, in Inter cives necnon peregrinos. Essays in honour of Boudewijen Sirks,
Goettingen 2014, 268; ancor prima M.
Talamanca, La tipicità,
cit., 105 nt. 270.
[157] A. Pernice, Zur Vertragslehere, cit., 252 ss.:
«wenn man das Wesen der actiones in factum civiles festzustellen
versuchen will, so muss man das agere praescriptis verbis und den
Synallagmabegriff genau von einander scheiden. Beiden decken sich ganz und gar
nicht und haben in ihrem Ursprunge nichts mit einander gemein. Die Verkennung
dieser einfachen Thatsache hat dazu geführt, dass man überall wo praescr.
v. geklagt werden durfte, einen Innominatvertrag annahm, also auch da, wo
eine Sache unter Abrede der Rückgewähr, zur Ansicht, zur Probe
hingegeben war».
[158] Sulla questione si
rinvia, con discussione di fonti e letteratura, a C. Cascione, ‘Consensus’. Problemi di origine, tutela
processuale, prospettive sistematiche, Napoli 2003, 372 ss.; più
recentemente sull’argomento E.
Sciandrello, Studi, cit., 207
ss., con letteratura (207 s. nt. 2).
[160] Così P. Krüger, Corpus
iuris civilis. Volumen secundus. Codex Iustinianus11, Berlin 1954,
188, in luogo di ‘Therasae’
che invece è dato leggere nella maggior parte delle edizioni più
risalenti e che si trova ancora adottata in A. et M.
Kriegel, Corpus Juris Civilis. Codex. Impressio
septima decima, Lipsiae, 1887, 284 nt. 31, ove indicazioni sulle diverse
tradizioni manoscritte; più recentemente, informazioni in proposito
anche in G. Romano, Celio Sabino e la venalis possessio di
C.4.64.1 (Gord., a. 238), in Diritto
@ Storia 10 (2011-2012) [Tradizione
romana] < http://www.dirittoestoria.it/10/Tradizione-Romana/Romano-G-Celio-Sabino-venalis-possessio.htm >, 8 nt. 2
(estratto stampa).
[161] G. Romano, Celio Sabino, cit., 1 ss.; per
una (in molti punti) differente interpretazione del brano si veda E. Sciandrello, Studi, cit., 217.
[162] Per un’interpretazione
dell’espressione ‘possessio
venalis’ nel senso di fondo messo in vendita (mediante offerta
pubblica) vd. V. Arangio-Ruiz, La compravendita2, cit. 7, 8 nt. 3;
giustamente senza seguito la proposta di E.
Rabel, Die Haftung des
Verkäufers wegen Mangels im Rechte, I, Leipzig 1902, 123, di
interpretare venalis nel senso di res in commercio.
[163] Per questi
rinviamo, con riferimenti alla letteratura più recente, a G. Romano, Celio Sabino, cit., 1 ss.
[164] Sul punto e con riferimenti alla
principale letteratura vd. G. Romano,
Celio Sabino, cit., 8 s., 13 nt. 17,
14 nt. 21; per la genuinità («tutt’altro che provata
l’interpolazione») ci limitiamo a segnalare il recente studio di E. Sciandrello, Studi, cit., 219.
[165] In questo senso, anche alla luce dello
scolio di Teodoro P. de Francisci,
SUNALLAGMA 1, cit., 146 s.;
sul punto, ma anche sulla testimonianza di Teodoro, vd. G. Romano, Celio Sabino,
cit., 3 s., 9 nt. 20.
[166] Così V. Scialoja, Diritto
romano (contratti speciali) (compravendita). Appunti alle Lezioni del Prof.
V. Scialoja redatti da Medardo Rotati, Anno Accademico 1895-96, 107 («non
si dà un’actio ex empto directa, ma una actio ex empto
utilis»); C. Ferrini, Manuale di Pandette3, Milano 1908, 680
nt. 5;
C. Bertolini, Appunti
didattici di diritto romano, Torino 1907, 462 nt. 2; V. Arangio-Ruiz, La
compravendita2, cit., 7 («un’azione in factum ad imitazione di quella nascente dalla compera»); A. Burdese, Osservazioni, cit., 152; Id., I contratti innominati, cit., 87; M. Artner, ‘Agere
praescriptis verbis’, cit., 211 e ivi nt. 185; così («azione modellata su quella ex empto»), da ultimo,
anche E. Sciandrello, Studi, cit., 220 ss. e ivi nt. 38.
[167] A.
Burdese, Osservazioni, cit.,
152; Id., I contratti innominati, cit., 87; M. Artner, ‘Agere praescriptis
verbis’, cit., 211 e ivi nt. 185; ordine di idee cui mostra di
aderire pure E. Sciandrello,
Studi, cit., 220 ss. e ivi nt. 38.
[169] A. Burdese, I contratti innominati, cit.,
87 («sembra rispecchiato il richiamo a praescripta verba inseriti in luogo e funzione di demonstratio della relativa
formula»).
[171] La locuzione, com’è noto,
non compare altrove: per una possibile connessione con l’espressione
‘ad exemplum ex empto actionis’
adoperata nell’appena esaminato C.4.64.1 vd. J. Kranjc, Die actio,
cit., 445.
[172] Sull’estraneità della
denominazione nelle fonti romane vd. L.
Landucci, Azioni per far valere il
‘pactum displicentiae’ e la ‘lex commissoria’ nella
compra e vendita’, in Atti
Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti 75.2 (1915-1916), 144 nt. 1.
[173] Non condivisibile M. Sargenti, Appunti, cit., 237 («il raccostamento non ha alcun preciso
valore giuridico, e, si può dire, neppure un vero significato pratico.
Che significa actio in factum
“proxima” all’actio empti?»), ove deve ritenersi
peraltro dubbio l’accostamento proposto con Ulp. 25 ad ed. D.11.7.8.1 ‘praetor
in factum actionem in eum dat […] quasi
ex empto actionem continet’.
[174] In questo
senso K. H. Misera, Der Kauf
auf Probe im klassischen römischen Recht, in ANRW. II/14, Berlin-New York 1982, 545 nt. 144, più
recentemente anche F. Gallo, Synallagma 2, cit.,
75; M. Artner, ‘Agere
praescriptis verbis’, cit., 180 nt. 17; M. Talamanca, La
risoluzione, cit., 27.
[175] A un’aggiunta bizantina pensava,
anche in considerazione di ragioni di ordine stilistico-espressivo (mancato
utilizzo del sostantivo ‘actio’
nella designazione dell’azione), P.
Collinet, Contributions a
l’histoire du droit romain 5. Un nouveau critère
d’interpolation: la désignation des actions sans actio ou iudicium,
in NRHD. 34 (1910), 165 s.; ipotizza
un intervento dei compilatori o anche di «glossatori post-classici»
P. de Francisci, SUNALLAGMA 1, cit., 285, ove si tende però a escludere
l’eventualità di un ricorso da parte di Paolo (per tendenza di
scuola) all’actio in factum in
senso stretto; («le ultime parole […] sono una sicura interpolazione»)
L. Landucci, Azioni, cit., 141, 152 nt. 18, con l’ulteriore considerazione
per cui «Paolo, che fiorì sotto Settimio Severo» non avrebbe
potuto «ignorarne le decisioni favorevoli ai Sabiniani»: il
riferimento, naturalmente, è a Ulp. 32 ad ed. D.18.3.4pr., su cui vd. infra
ntt. 184, 195; sospetti («aggiunta di mano estranea») anche in M. Sargenti, Appunti sull’esperibilità dell’azione contrattuale
la tutela nella compravendita, in Studi
in onore di V. Arangio-Ruiz 2, Napoli 1953, 236 e ivi nt. 12, ove si pensa
all’«opera di un annotatore, prima ancora che dei compilatori
giustinianei»; J. A. C. Thomas,
Sale actions and other actions, in RIDA 26 (1979), 417 s.; in termini non
del tutto limpidi, sembra non escludersi un’alterazione testuale rispetto
a un’originaria alternativa tra actio
empti e actio in factum (ammessa
da Sabino) in V. Arangio-Ruiz, La compravendita2, cit., 421 e ivi nt.
1, su cui vd. infra nt. 197; una
proposta di espungere le sole parole ‘proxima
empti’, rispetto a un contesto in cui doveva originariamente
prevedersi l’impiego dell’actio
in factum ad redhibendum di Ulp. 1 ad
ed. aedil. curul. D.21.1.31.22 (al riguardo vd. infra nt. 206), anche in quell’occasione concessa in concorso
con l’azione contrattuale, si trova in F. Wieacker, Lex
commissoria. Erfüllungszwang und
Widerruf im römischen Kaufrecht, Berlin 1932, 74 s.; scorge egualmente
un riferimento al iudicium in factum
edilizio E. Rabel, Grundzüge des römischen
Privatrechts, Basel 1955, 175 s. nt. 2, ove però si privilegia
l’ipotesi di un’integrale aggiunta tribonianea.
[176] In proposito vd. infra nel testo. Diversamente (in aggiunta a Wieacker e Rabel,
indicati nella nt. prec.), nel senso di azione in factum pretoria vd. P.F.
Girard, Manuel, cit., 700 nt.
2; così anche — ma in un quadro ricostruttivo che tende a legare
più strettamente la concessione di tale rimedio processuale al giurista
severiano, nella prospettiva di una sua adesione all’indirizzo anomalista
sabiniano — E. Betti, Sul valore, cit., 27 s. (infra nt. 239).
[177] Così F. Gallo, Synallagma 2, cit., 77; in un’ottica di tipo meramente
documentativo («in antitesi ad altra opinione») sembrerebbe
muoversi anche A. Burdese, Sul riconoscimento, cit., 24, ove
più particolarmente, in base a D.19.5.12 viene avanzata la congettura di
un riferimento al punto di vista di Proculo; nello stesso ordine di idee parrebbe collocarsi anche M. Talamanca, La risoluzione, cit., 27. Si pronunciano per l’attribuzione
della soluzione a Paolo, invece, M.
Artner, ‘Agere praescriptis
verbis’, cit., 179; U.
Babusiaux, Id quod actum est. Zur Ermittlung des Parteiwillens im
klassischen römischen Zivilprozeß, München
2006, 180 («Paulus will offenbar alternativ (aut) auch die actio proxima
empti in factum zulassen»).
[178] In questo senso (‘constat’) Ulp. 28 ad Sab. D.18.1.3 ‘Si res ita distracta si, ut displicuisset
inempta esset, constat non esse sub condicione distractam, sed resolvi
emptionem sub condicione’, su cui vd. P. Ziliotto, Vendita
con lex commissoria o in diem addictio: la portata dell’espressione res
inempta, in Il ruolo della buona fede
oggettiva 4, cit., 476, ove si segnala un più cauto atteggiamento da
parte di Ulpiano rispetto alle differenti ipotesi di lex commissoria (Ulp. 28 ad
Sab. D.18.3.1: ‘magis est’)
e in diem addictio (Ulp. 28 ad Sab. D.18.2.2pr. ‘mihi videtur verius interesse, quid actum
sit’): su quest’ultimo brano vd. infra ntt. 204-205.
[179] Così Paul. 54 ad. ed. D.41.4.2.5: Sed et illa emptio pura est, ubi convenit, ut, si displicuerit intra
diem certum, inempta sit, su cui vd. P.
Ziliotto, Vendita, cit., 479
s. nt. 6 («è certo che anche Paolo configurava il pactum displicentiae come patto di
risoluzione»).
[180] Riserve sulla configurabilità
del patto in questione in termini di condizione si trovano espresse in V. Arangio-Ruiz, La compravendita,2 cit., 401 nt. 1 («la definizione come
condizione […] è discutibile in tema di pactum displicentiae, ove si rischierebbe d’identificarsi con
la c.d. condizione meramente potestativa»); dubbi anche in M. Talamanca, La risoluzione, cit., 13 s. e ivi (soprattutto) nt. 44.
[182] Sulla questione della configurazione
del pactum displicentiae, ma
più in generale dei patti c.d. risolutivi, come lex commissoria e in diem
addictio, in termini di condizione risolutiva (‘auflösend
Bedingung’) o piuttosto di patto con efficacia risolutiva sospensivamente
condizionato (‘suspensiv bedingte Auflösungabrede’), secondo
un’impostazione messa a punto già da A.F.I Thibaut, Civilistische
Abhandlungen, Heidelberg 1814, 359 s., e ripresa in ambito pandettistico (B. Winscheid, Lehrbuch des Pandektenrechts 1,4 Düsseldorf 1875, 236), si
rinvia a V. Arangio-Ruiz, La compravendita,2 cit., 405 ss.,
soprattutto 407 nt. 1 («l’interpretazione generalmente data del
pensiero romano nel senso di un patto di risoluzione, soggetto a sua volta a
condizione sospensiva, a parte la tenuità dell’appoggio testuale
nel solo D.41.4.2 § 3, postula un vero mostrum
giuridico»); W. Flume, Die Aufhebungsabreden beim Kauf — ‘lex commissoria’,
‘in diem addictio’ und sogenanntes ‘pactum
displicentiae’ — und die Bedingung nach Lehre der römischen
Klassiker, in Festschrift für M.
Kaser zum 70. Geburstag, München 1976, 309 ss.; P. Cerami, voce Risoluzione del contratto (dir. rom.), in Enc. dir., vol. 40, Milano 1989, 1287; C.A. Cannata, Atto
giuridico e rapporto giuridico, in SDHI.
57 (1991), 373 («la condizione risolutiva non può essere concepita
che come relativa al rapporto […] in una dommatica dell’atto essa
è dunque inconcepibile, perché è inconcepibile un atto
sottoposto in se stesso a condizione risolutiva»); più
recentemente E. Nicosia, In diem addictio e lex commissoria,
Catania 2013, 1 ss.; in relazione al diverso problema dell’attribuzione
di efficacia reale a tali clausole (notoriamente esclusa in dottrina, sul
presupposto di un’incidenza di tali pattuizioni sulla sola vicenda
contrattuale, e non sui connessi atti traslativi posti in via di attuazione)
vd., V. Arangio-Ruiz, La compravendita,2 cit., 422 ss.;
favorevolmente, F. Peters, Die Rücktrittsvorbehalte des
römischen Kaufrechts, Köln-Graz 1973, su cui vd. M. Talamanca, rec. a F. Peters, Die Rücktrittsvorbehalte, cit., in Iura 24 (1973), 364 ss.; Id.,
La risoluzione, cit., 14 ss.
[183] Per la lex commissoria vanno segnalati Pomp. 9 ad Sab. D.18.1.6.1 e Ulp. 32 ad
ed. D.18.3.4pr., sui entrambi i quali vd. infra rispettivamente nt. 194 e ntt. 184, 195; per il pactum displicentiae l’unica
attestazione si trova, in effetti, proprio in Paul. 2 ad ed. D.18.5.6, ove, come si è avuto modo di osservare,
è però (già) Sabino a farsi patrocinatore dell’actio ex empto.
[184] Così D.18.3.4pr. (Ulp. 32 ad ed.): […] sed iam decisa quaestio est ex vendito actionem competere, ut
rescriptis imperatoris Antonini et divi Severi declaratur: in proposito vd.
L. LANDUCCI, Azioni, cit., 139, 141;
che si trattasse di mero accertamento e di applicazione a casi pratici della
definizione dottrinale già intervenuta (declaratur)» è sostenuto da M. SARGENTI, Appunti, cit., 235; sul brano vd. anche
M. Talamanca, La
risoluzione, cit., 40 ss., ove diversamente si pensa a un intervento
decisivo: o almeno così sarebbe apparso agli occhi di Ulpiano.
[185] F.
Gallo, Synallagma 2, cit., 75
(«certamente l’attuale stesura del passo deriva dai giustinianei
[…] È più credibile che essi abbiano riassunto un
più ampio discorso di Paolo, sostituendo alla disputa, da lui ricordata
[…] l’alternativa tra le due soluzioni»).
[186] Del resto sono in molti ad aver
ventilato la possibilità di un intervento di sintesi rispetto all’originaria
estensione del discorso paolino: a una «Verkürzung des Fragments»
pensava già F. Peters, Die Rücktrittsvorbehalte, cit.,
265: «Paulus wird die Frage nach
der richtigen Klageart nicht offengelassen haben»; un rabberciamento del brano
soprattutto in riferimento al quadro informativo relativo al dibattito
giurisprudenziale è ipotizzato anche da K. H. Misera, Der Kauf auf Probe, cit., 545 nt. 144;
non esclude interventi riassuntivi del brano, comunque non incisivi sulla
genuinità della fonte, neppure M.
Artner, Agere praescriptis verbis,
cit., 180 nt. 18; netto («il passo è stato di certo
raccorciato») M. Talamanca, La risoluzione, cit., 27, ma anche in
questo caso sul presupposto che l’opinione non rifletta il pensiero del
giurista severiano: «è difficile sostenere che egli non abbia
ricordato quali fossero il giurista od i giuristi che optavano per la proxima empti in factum (actio)».
[187] Da questo punto di vista è
difficile credere che i commissari, che pure sarebbero stati «più
larghi dei giuristi classici nell’ammissione dell’azione
contrattuale» (F. Gallo, Synallagma 2, cit., 76), possano essere
stati sprovveduti al punto da non rendersi conto che, attraverso il loro
intervento di sintesi, il brano avrebbe finito per prospettare un quadro di
soluzioni processuali dal quale poteva addirittura sorgere il dubbio che
l’actio proxima empti in factum
costituisse un’opzione preferibile e forse anche all’avanguardia
(non si può trascurare che l’impiego dell’actio ex empto è legato Sabino, e
dunque a un giurista delle primissime fasi del principato) rispetto
all’impiego dell’azione contrattuale: si consideri da questo punto
di vista P. Collinet, Contributions, cit., 165 :
«la fin du texte de Paul accorde une action proxima empti in factum, donnant plutòt raison à
Proculus».
[188] F.
Gallo, Synallagma 2, cit., 77;
così, d’altra parte, anche M. Talamanca, La risoluzione, cit., 41:
«è proprio questa pluralità di rescritti che fa pensare,
anche in quell’epoca, ad una progressiva e non incontrastata affermazione
del principio dell’esperibilità, in materia, dell’azione
contrattuale»), 44 («il conflitto giurisprudenziale in questione
sembra ancora risulta<re> da Paul. 2 ad
ed. D.18.5.6»).
[190] Così appunto F. Gallo, Synallagma 2, cit., 78; nello stesso ordine di idee vd. W. Flume, Die Aufhebungsabreden, cit., 326.
[191] Nel senso di un’originaria
configurazione del pactum displicentiae,
ma più in generale di tutti i c.d. Rücktrittsvorbehalte,
come condizioni sospensive vd. P.F. Girard,
Manuel, cit., 699; V. Arangio-Ruiz, La compravendita,2 cit., 405 ss.; critico L. Landucci, Azioni,
cit., 153 nt. 24; al riguardo vd., con ragguagli bibliografici, P. Ziliotto, Vendita, cit., 480 s. nt. 6. In proposito vd. anche infra nt. 207.
[193]
Così («Es erschien logisch bedenklich, zur Rückforderung der
Kaufsache ao venditi zu geben wenn nach Bedingungsausfall ein Kauf niemals
bestanden hat»), F. Wieacker,
Lex commissoria, cit., 69 ss.; F. Peters, Die Rücktrittsvorbehalte, cit., 263: «Wie sollen die
Parteien also noch kraft Kaufes klagen können? Dies gilt für den
resolutiv bedingten Kauf, erst recht aber für den aufschieben
bedingten»; in termini ancor più netti, con l’attenzione rivolta
al punto di vista di Labeone in Ulp. 32 ad
ed. D.19.5.20pr. (su
cui vd. infra nt. 207), M. Talamanca, La tipicità, cit., 88 nt. 207: «egli conosceva la
configurazione del pactum displicentiae
solo come condizione sospensiva, il che rendeva impossibile giustificare
l’esperibilità dell’azione contrattuale»; più
recentemente anche U. Babusiaux, Id quod actum est; cit., 178 («So
liegt nahe, dass die emptio condicionalis
keine Klagemöglichkeit eröffnet»); nello stesso ordine di idee
sembra porsi anche E. Nicosia, In diem addictio, cit., 101 s., ove
(relativamente a Paul. 5 ad Sab. D.18.2.14.1) si sostiene che la
concessione dell’azione contrattuale (ex
vendito) da parte di Paolo (ma non di Sabino, secondo lo studiosa:
diversamente vd. M. Talamanca, La risoluzione, cit., 46 ss.)
«può essere spiegata solo ritenendo che Paolo avesse presente la
configurazione della in diem addictio
come risolutiva della vendita. A differenza di Sabino», per quanto
l’autrice subito dopo sembri cadere in contraddizione, attribuendo la
concessione dell’azione contrattuale anche a Labeone e Nerva, pur dando
per estremamente incerta («appare difficile»), a quei tempi,
«la configurazione della vendita con in
diem addictio come pura».
[194] D.18.1.6.1 (Pomp. 9 ad Sab.): Si fundus annua bima trima die ea lege venisset, ut, si in diem statutum
pecunia soluta non esset, fundus inemptus foret et ut, si interim emptor fundum
coluerit fructusque ex eo perceperit, inempto eo facto restituerentur et ut,
quanti minoris postea alii venisset, ut id emptor venditori praestaret: ad diem
pecunia non soluta placet venditori ex vendito eo nomine actionem esse. nec
conturbari debemus, quod inempto fundo facto dicatur actionem ex vendito
futuram esse: in emptis enim et venditis potius id quod actum, quam id quod
dictum sit sequendum est, et cum lege id dictum sit, apparet hoc dumtaxat actum
esse, ne venditor emptori pecunia ad diem non soluta obligatus esset, non ut
omnis obligatio empti et venditi utrique solveretur. Dubbi sulla genuinità del tratto
‘nec conturbari-solveretur’
si trovano in H. Stoll, Übersicht uber die italienische
Rechtslitteratur. 1915-1922, in ZSS.
47 (1927), 523; F. Wieacker, Lex commissoria, cit., 71 s.; in senso
contrario V. Arangio-Ruiz, La compravendita2, cit., 421 e ivi nt. 2,
ove si segnalano semmai trascurabili rilievi formali; sul brano vd. M. Talamanca, La
risoluzione, cit., 29 ss., 40 ss.; con letteratura, P. Ziliotto, Vendita, cit., 487 ss.
[195] D.18.3.4pr. (Ulp. 32 ad ed.): Si fundus lege commissoria venierit, hoc est ut, nisi intra certum diem
pretium sit exsolutum, inemptus fieret, videamus, quemadmodum venditor agat tam
de fundo quam de his, quae ex fundo percepta sint, itemque si deterior fundus
effectus sit facto emptoris. et quidem finita est emptio: sed iam decisa quaestio
est ex vendito actionem competere, ut rescriptis imperatoris Antonini et divi
Severi declaratur. Sul brano vd. M.
SARGENTI, Appunti, cit., 235; P.
ZILIOTTO, Vendita, cit., 483 ss.; M.
TALAMANCA, La risoluzione, cit., 40
ss.
[197] Così («io penserei
piuttosto ad uno spostamento (invece di ex
empto actio est, ut Sabinus putat, aut proxima empti in factum datur
correggerei… actio est, aut, ut
Sabinus putat, in factum rell.») V.
Arangio-Ruiz, La compravendita,2
cit., 421 e ivi nt. 1, non senza però significative oscillazioni di
pensiero: (404) «sembra che in un primo momento […] si sia data al
compratore un’actio in factum,
ma che successivamente, massime ad opera di Sabino, si sia ammessa
l’esperibilità dell’actio
ex empto»); una critica rispetto alla correzione testuale suggerita
dall’autore può trovarsi in A.
Burdese, Osservazioni, cit.,
136 nt. 17; prende le distanze anche M.
Artner, Agere praescriptis verbis,
cit., 180 nt. 18.
[198] Per la genuinità della soluzione
che vede Sabino patrocinatore dell’actio
ex empto, ci limitiamo a segnalare P.F.
Girard, Manuel, cit., 700 nt.
2; L. Landucci, Azioni, cit., 484, ove si richiamano,
sempre per il punto di vista sabiniano, Pomp. 9 ad Sab. D.18.1.6.1 (lex
commissoria), D.18.2.4.4. (in diem
addictio); E. Levy, Zu den Rücktrittsvorbehalten des
römischen Kaufs, in Symbolae
Friburgenses in honorem Ottonis Lenel, Leipzig 1935, 127 ss.; M. Sargenti, Appunti, cit., 235, ad avviso del quale la giurisprudenza si
sarebbe compattamente mossa nel senso della concessione delle azioni
contrattuali (ex empto-ex vendito); F. Peters, Die Rücktrittsvorbehalte, cit., 112, 264; insospettabile
l’attribuzione a Paolo dell’actio
ex empto anche secondo K. H. Misera, Der Kauf auf Probe, cit., 545 nt. 144; F. Gallo, Synallagma 2, cit., 78; M.
Talamanca, La risoluzione,
cit., 26; U. Babusiaux, Id quod actum est, cit., 178.
[199] Sul punto vd. V. Arangio-Ruiz, La
compravendita,2 cit., 400 ss.; W.
Flume, Die Aufhebungsabreden,
cit., 309 ss.; C.A. Cannata, Atto giuridico, cit., 335 ss.;
più recentemente vd. P. Ziliotto,
Vendita, cit., 476 ss., ove si
osserva come i giuristi «sembrano piuttosto occuparsi della seconda
possibile configurazione» (ovvero patto risolutivo).
[201] In questo senso già P.F. Girard, Manuel, cit., 699 nt. 2; F.
Peters, Die
Rücktrittsvorbehalte, cit., 112; così («dimostra che esso
fu ritenuto condizione alla risoluzione sin dai tempi di Sabino») L. Landucci, Azioni, cit., 150 nt. 14; M. SARGENTI, Appunti, cit., 235; M.
Artner, ‘Agere praescriptis
verbis’, cit., 180; M. TALAMANCA, La
risoluzione, cit., 27 ss. Non sarebbe del resto metodologicamente corretto
arrivare a diverse conclusioni per quanto riguarda il punto di vista di Sabino,
invocando la circostanza che, con riferimento ai meccanismi di funzionamento
della lex commissoria, in Paul. 54 ad ed. D.41.4.2.3, il giurista
sembrerebbe orientarsi verso il diverso modello dell’emptio condicionalis, secondo quanto si dovrebbe ricavare
argomentando (a contrario) sulla
scorta delle riflessioni svolte in quella sede da Paolo: così A. Biscardi, La lex commissoria nel sistema delle garanzie reali, in Studi Betti 2, Milano 1962, 577; anche P. Ziliotto, Vendita, cit., 480 nt. 5 («risulta con una certa chiarezza
che Sabino considerava la vendita con lex
commissoria come una vendita sub
condicione»); E. Nicosia,
In diem addictio, cit., 191 s.;
diversamente, riteneva che la soluzione di Sabino andasse piuttosto messa in
relazione col mancato pagamento del prezzo che «impediva in ogni modo il
passaggio della proprietà e poneva in mala fede» il compratore L. Landucci, Azioni, cit., 150 nt. 14, con una soluzione che — se, per un
verso, si mostra coerente con il più generale convincimento dello
studioso per cui la lex commissoria
non potrebbe «romanamente pensarsi come condizione sospensiva»
— dall’altro costringeva l’autore a considerare bizantina, o
comunque «una aggiunta di Paolo non ben coordinata col sillogismo di
Sabino», la seconda parte del brano; in un analogo ordine di idee F. Peters, Die Rücktrittsvorbehalte, cit., 112 ss.; in senso critico M. Talamanca, Recensione a F. Peters,
Die Rücktrittsvorbehalte, cit.,
392. Occorre infine notare che non vi sono elementi per arrivare alle medesime
conclusioni per la differente ipotesi di vendita con annessa in diem addictio, secondo quanto invece
sostenuto, con riferimento a Paul. 5 ad
Sab. D.18.2.14pr. — «se la clausola viene configurata come
condizione sospensiva della vendita (e questa era sicuramente la posizione di
Sabino») — da E.
Nicosia, In diem addictio,
cit., 29 s., 99, 101 nt. 97, la quale invoca a sostegno Paul. 5 ad Sab. D.18.2.14.1, Ulp. 28 ad Sab. D.18.2.11pr. e Ulp. 28 ad Sab. 18.2.4.5, in termini che non
sembrano però confortare l’interpretazione proposta dalla
studiosa, ove anzi la parte iniziale dell’ultima testimonianza richiamata
(Ulp. 28 ad Sab. 18.2.4.5) dovrebbe
piuttosto indirizzare nel senso di una conoscenza (e di un impiego) da parte di
Sabino di entrambi i modelli configurativi: di qui i sospetti (non raramente
preconcetti) di quanti ritengono che il tratto in questione (Cum igitur-allata) rifletta il pensiero
dei compilatori o del solo Ulpiano (ordine di idee, quest’ultimo, in cui
si colloca E. Nicosia, In diem addictio, cit., 96 nt. 184, ove
letteratura).
[202] Ove un dibattito di scuola (ma che non
necessariamente doveva essersi tramutato in un conflitto tra scuole) si era
semmai aperto, sul diverso versante processuale, in relazione alla
possibilità di ricorrere utilmente all’azione contrattuale
(edittale) in presenza di una vicenda negoziale da considerarsi non
perfezionata o diversamente risolta: in proposito vd. infra nt. 227.
[203] Non ci sono elementi per orientarsi nel
senso di un innovativo spunto ulpianeo, secondo quanto invece ipotizzato
(«le juriconsulte introduit une théorie nouvelle») da F. Senn, L’in diem addictio, in NRHD.
37 (1913), 306 ss. Del resto, nell’ambito del medesimo approccio
dogmatico sembra muoversi (anche se in materia di pactum displicentiae) già Mela in Ulp. 32 ad ed. D.19.5.20.1, e ancor prima (per
quanto in un contesto espressivo non altrettanto univoco: ‘si emptor boves emptos haberet […]
sed si non haberet emptos’)
Alfeno in Alf. 2 dig. D.9.2.52.3: nel
senso di una conoscenza da parte del giurista repubblicano di entrambi i
modelli configurativi vd., condivisibilmente, M.
Talamanca, La risoluzione,
cit., 62 e ivi nt. 179; così, prima ancora, F. Peters, Die
Rücktrittsvorbehalte, cit., 106 ss.; con diverse conclusioni si veda
invece W. Flume, Die Aufhebungsabreden, cit., 326.
[204] D.18.2.2pr. (Ulp. 28 ad Sab.): Quotiens fundus in diem addicitur, utrum pura emptio est, sed sub
condicione resolvitur, an vero condicionalis sit magis emptio, questionis est.
Et mihi videtur verius interesse, quid actum sit: nam si quidem hoc actum est,
ut meliore allata condicione discedatur, erit pura emptio, quae sub condicione
resolvitur: sin autem hoc actum est, ut perficiatur emptio, nisi melior
condicio offeratur, erit emptio condicionalis. Si deve principalmente a H. Siber, Rec. a F. Wieacker, ‘Lex commissoria’, cit., in ZSS. 53 (1933), 539 ss.; e H.H. Pfluger, Zur Lehre vom Erwerbe des Eigentums, München-Leipzig 1937, 87
s., il merito di aver evidenziato come nella prospettiva del giurista severiano
la duplicità di modelli qui indicata non rappresentasse l’esito di
un astratto dibattito dogmatico — come se di fronte a ogni vendita con in
diem addictio si ponessero (sempre)
due differenti ipotesi ricostruttive, potendo la stessa vicenda negoziale
essere inquadrata nell’ottica di una emptio
condicionalis o, diversamente, di una vendita
pura (quae sub condicione resolvitur)
—, ma due distinte configurazioni alle quali alternativamente rifarsi in
considerazione della specificità della singola operazione negoziale (H. Siber, Rec. a F. Wieacker, ‘Lex commissoria’, cit.,
239: «bezeugt […] einen Unterschied zwischen zwei Fällen,
nicht zwischen zwei denselben Fall betreffenden Konstruktionen»); lo
osserva («È il concreto assetto di interessi voluto dalle parti (id quod actum est), quindi di volta in
volta il fine delle stesse perseguito, a fare capire quale tipo di vendita
abbiano voluto concludere e quale configurazione della clausola abbiano voluto
analizzare») anche E. Nicosia,
In diem addictio, cit., 32 ss.,
benché la studiosa, in certe riflessioni, sembri non essersi sottratta
del tutto alla qui denunciata tendenza omologante: là dove
(enfatizzando, peraltro, il passaggio, sul piano sintattico-grammaticale, dal
modo indicativo al congiuntivo: utrum
pura emptio est […] an vero
condicionalis sit) avanza la congettura di un’opzione (qui) da parte
del giurista severiano verso il modello dell’emptio pura, quae sub
condicione resolvitur, senza evidentemente considerare che, in una prospettiva
in cui la soluzione della questione è rimessa a una quaestio facti (anziché a una quaestio iuris), l’ipotesi di un’astratta preferenza
verso uno dei due schemi configurativi non risulta neanche astrattamente
concepibile; o ancora quando, con riferimento al ricorso all’azione
contrattuale (ex vendito) da parte di
Labeone e Nerva che parrebbe attestato in Paul. 5 ad Sab. D.18.2.14pr., osserva (103) — non senza
un’evidente contraddizione rispetto a quanto affermato circa la
(in)compatibilità di tale azione con una configurazione sospensiva della
vendita: in proposito vd. supra nt.
193 — che «appare difficile datare all’epoca di Labeone e
Nerva la configurazione della vendita con in
diem addictio come pura»:
ove non si tiene peraltro conto delle chiare indicazioni in senso contrario che
sarebbe possibile trarre (benché in materia di pactum displicentiae) dall’esame di Ulp. 32 ad ed. D.19.5.20.1 e Alf. 2 dig. D.9.2.52.3, su cui vd. supra nt. prec.; sul brano, con accurata
rassegna bibliografica, vd. anche P. Ziliotto,
Vendita, cit., 477 ss. nt. 4.
[205] Per la genuinità Ch. Appleton, Les risques dans la vente et les fausses interpolations, in RHD. 5 (1926), 400 s. e ivi nt. 1; F. Peters, Die Rücktrittsvorbehalte, cit., 124 s.; U. Babusiaux, Id quod actum est, cit., 180 s., 189; E. Nicosia, In diem
addictio, cit., 27 («pienamente condivisibile l’opinione che
ritiene classica la possibilità di una doppia configurazione della
clausola»); con diagnosi interpolazionistica si vedano invece G. Beseler, Beiträge zur Kritik der römischen Rechtsquellen 1,
Tübingen 1910, 85 s.; C. Longo,
Sulla ‘in diem addictio’ e
sulla ‘lex commissoria’ nella vendita, in BIDR. 31 (1921), 44 s.; F.
Wieacker, ‘Lex commissoria’,
cit., 33; così («propensione scienza postclassica […] verso
la ricerca della volontà effettiva delle parti») — in base
anche alla grave sconnessione presentata dal testo sul piano sintattico
grammaticale («spaventoso errore grammaticale»), ove si impiega il
presente indicativo ‘est’
e ‘resolvitur’ «in
dipendenza del quaestionis est utrum…an» —, pure V. Arangio-Ruiz, La compravendita,2 cit., 409 s., 423, il cui punto di vista risente
dell’idea che vorrebbe ormai del tutto superata la configurazione
sospensiva del patto in età severiana («nell’ultimo periodo
classico […] la dottrina della condizione risolutiva è stata la
sola professata, l’età postclassica ha rimesso in onore la
sospensiva, sia pure come valevole alternativamente secondo il quid actum est»); una dettagliata
indicazione della letteratura può trovarsi in E. Nicosia, In diem
addictio, cit., 25 nt. 46, 27 s. nt. 50.
[206] J.3.23.3: ‘Emptio tam sub condicione quam pure contrahi potest. Sub condicione
veluti si Stichus intra certum diem tibi placuerit, erit tibi emptus aureis tot’:
al riguardo vd. C. ACCARIAS, Précis
2, cit., 464 ss.; interpreta malamente il brano, là dove contrappone il
modello qui indicato («vecchia tesi […] in evidente contrasto con i
bisogni della pratica») con la più recente e
«successivamente prevalsa» configurazione di cui in Ulp. 41.4.2.5,
V. ARANGIO-RUIZ, La compravendita, 2
cit., 408, il quale non tiene evidentemente conto che non ci troviamo in
presenza di contrapposte rappresentazioni dogmatiche di una medesima clausola
negoziale, ma, con ogni evidenzia (Emptio
tam sub condicione quam pure contrahi potest), di due distinte
articolazioni all’interno di un più generale (e generico)
istituto, in realtà privo di specifico schema identitario, che non fosse
la semplice previsione di uno ius
displicendi in favore del compratore; più in generale in relazione
alla possibilità che i c.d. ‘Rücktrittsvorbehalte’
fossero configurati «dalle parti, nella loro autonomia, come condizioni
sospensive» vd. M. TALAMANCA, La
risoluzione, cit., 13 nt. 43; emblematica, da questo punto di vista —
se si prescinde naturalmente da preconcette demarcazioni dogmatiche —, la
posizione di L. Landucci, Azioni, cit., 150 nt. 14 («Il vero
pactum displicentiae, quello
cioè espresso con la frase si
displicuisset, è, tutti lo sanno, condizione alla risoluzione: la
vendita rimane pura […] diverso sarebbe se al compratore fosse stato
riserbato il diritto di dichiarare entro un certo termine se la cosa è
di sua soddisfazione, si res tibi
placuerit: in tal caso si avrebbe una vera vendita condizionale, che sfugge
al caso che studiamo. La differenza formale fra i due casi era espressa con la
adattabilità mirabile della lingua latina per mezzo delle due frasi, si displicuerit, compra pura con
risoluzione condizionata, si placuerit,
compra condizionata».
In relazione alla possibilità di individuare una
più ampia varietà di modelli attuativi nei quali si sarebbe
andato articolando l’istituto del pactum
displicentiae (‘Kauf auf Probe’) in epoca classica, vd. K. Misera, Der Kauf auf Probe, cit., 532 s. e ivi nt. 34, ove si segnala la
particolarità, in materia di vendita di schiavi
(‘SklavenKauf’), del c.d. ‘Redhibitionsabrede’ con il
quale si riconosceva al compratore il diritto di ottenere la restituzione del
prezzo, previa redhibitio della merx, in caso di mancato gradimento
della stessa (Ulp. 1 ad ed. aedil. curul.
D.21.1.31.22: ‘ut nisi
placuerit, intra praefinitum tempus redhibeatur’): «Dies ist
nicht die Form des Kaufs auf Probe, die wir sonst ganz überwiegend in den
Quellen finden. Vielmehr soll durch die Abrede ein Anspruch geschaffen werden
ähnlich dem, der bei Sachmängeln oder beim Fehlen zugesagter
Eigenschaften mit der actio redhibitoria
verfolgt wird […] Diese Redhibitionsabrede ist von dem sonst
gebräuchlichen (aufschiebend bedingten) Aufhebungs-pactum zu unterscheiden […] aus dieser Abrede wird ein Klage
gewahrt, und zwar eine actio in factum ad redhibendum, die an die actio redhibitoria angelehnt ist
[…] Der weitaus überwiegend Typ ist der durch ein displicere des Käufers resolutiv
bedingte oder durch ein placere des
Käufers aufschiebend bedingte Kaufvertrag».
[207] Si veda in
tal senso («ces conventions pourraient être adjointes à la
vente sous forme de condition suspensive et on commencé par être
entendues de cette manière. Mais elle ont toutes fini par fonctionner
soit absolument, soit au gré des parties, comme conditions
résolutoires») P.F. Girard,
Manuel, cit., 699; in una prospettiva
calibrata sulla lex commissoria, ma
che in realtà corrisponde a un più generale modello evolutivo, F. Wieacker, Lex commissoria, cit., 21 («Der suspensiv bedingte Kauf ist
die älteste Entwicklungsschicht, die für die lex commissoria im den Quellen zu gewinnen ist»), 69 s.
(«Die Älteren hatten die lex
commissoria als bedingten Kauf konstruiert […] Für das pactum displicentiae wurde der gleiche Entwicklungslauf mit
geringer Verzögerung festgehalten»); significativo, al riguardo, V. Arangio-Ruiz, La compravendita, cit., 403 («I romanisti sono unanimi nel
riconoscere un movimento d’idee per cui da una più antica diagnosi
come condizioni sospensive […] si è passati […] a
considerarle sotto un punto di vista che […] si può ben chiamare,
in lingua nostra, della condizione risolutiva»); nella medesima
prospettiva («Sembra sicuro che Labeone, al cui tempo non era ancora
conosciuto il meccanismo della condizione risolutiva»), sulla scorta
peraltro del solo Ulp. 32 ad ed.
D.19.5.20pr., F. Gallo, Synallagma 2, cit., 80 e ivi nt. 43, ove
non si è esattamente considerato che la qui possibile o probabile
configurazione della fattispecie in termini di emptio condicionalis (in proposito vd. infra nt. 224) è da spiegarsi in ragione della
specificità della pattuizione intervenuta tra i contraenti, più
che di un’astratta e generale configurazione da parte del giurista
augusteo del pactum displicentiae in
termini di condizione sospensiva, nel presupposto (peraltro, indimostrato) che
non fosse ancora giunta a maturazione la diversa prospettiva dell’emptio pura (quae sub condicione resolvitur); nello stesso ordine di idee pure A. Burdese, I contratti innominati, cit., 71 nt. 34; F. Cursi-R. Fiori, Le
azioni generali, cit., 154 («nella sua epoca il pactum displicentiae era inteso come condizione sospensiva e dunque
l’emptio venditio sarebbe
rimasta inefficace»); almeno in un primo momento, anche («con ogni
probabilità, solo come condizione sospensiva del contratto») M. Talamanca, La tipicità, cit., 87 s. nt. 206, con una conclusione che ha
finito inevitabilmente per intorbidire la complessa vicenda documentata nella
catena di frammenti di Ulp. D.19.5.20pr.-2, facendo insorgere significative
difficoltà interpretative non solo sul piano della ricostruzione del
pensiero di Ulpiano (riuscendo difficile allo studioso comprendere per quale
ragione il giurista severiano che, certo conosceva ed applicava la più recente
configurazione del pactum displicentiae
come condizione risolutiva, non abbia preso in considerazione l’esercizio
dell’actio ex vendito e si sia
piuttosto indirizzato per l’impiego dell’a.p.v.), ma anche in relazione all’analisi del diverso punto
di vista di Mela, ove l’accertato impiego da parte del giurista della
prospettiva della condizione risolutiva aveva in quella sede costituito motivo
per valutare una possibile riconsiderazione dell’idea che lo vorrebbe
contemporaneo di Labeone («può darsi» che «Mela sia, in
realtà, da datare in epoca più lontana da Labeone di quanto si
sia sostenuto, e che conoscesse, quindi, la duplice costruzione del
patto»): impostazione che sembra essere stata modificata, non senza
però qualche oscillazione di pensiero (12 s. e ivi nt. 43, 64), in M. TALAMANCA, La risoluzione, cit., 46 e ivi nt. 1, ove, non solo, si è
ammessa la non estraneità alle conoscenze di Labeone della
configurazione dei c.d. ‘Rücktrittsvorbehalte’ come clausole
risolutive («configurazione che risulta per tabulas conosciuta già da Labeone […] teneva
presente la differenza tra la configurazione sospensiva e risolutiva dei
“Rücktrittsvorbehalte” secondo quanto riferisce Ulp. 32 ad ed. D.19.5.20pr.-2»), ma si
è, in più, ritenuto (62) di poter far risalire già ad
Alfeno «la configurazione risolutiva dei
“Rücktrittsvorbehalte”», in base al già
richiamato (supra nt. 203) Alf. 2 dig. D.9.2.52.3.
[208] Rivendica la legittimità di
un’analisi unitaria e unificante, in considerazione del fatto che
«gli stessi problemi e con, ogni probabilità, anche le medesime
soluzioni si presentano per tutti e tre i
‘Rücktrittsvorbehalte” tipici ed in certi limiti anche per il pactum de retroemendo» M.
TALAMANCA, La risoluzione, cit., 25.
[209] Così M. TALAMANCA, La risoluzione, cit., 46 ss., ove si
mettono insieme nella medesima valutazione tre brani come Paul. 5 ad Sab. D.18.2.14.1, Ulp. 32 ad ed. D.18.3.4pr. e Paul. 2 ad ed. D.18.5.6, nei quali sono
affrontate, rispettivamente, ipotesi di vendita con in diem addictio, lex
commissoria e pactum displicentiae,
senza peraltro considerare che l’indicato ricorso all’azione
contrattuale da parte di Labeone e Nerva in Paul. 5 ad Sab. — testimonianza relativa per di più a una
vicenda negoziale molto complessa e in cui non può ritenersi in alcun
modo irrilevante il comportamento truffaldino tenuto dal primo compratore
pentitosi dell’affare (diversamente M. TALAMANCA, La risoluzione, cit., 48: «mi sembra di escludere che, nel
caso in questione, il dolo commesso dal compratore possa aver facilitato, se
non addirittura reso possibile, l’impiego dell’azione
contrattuale») — non è evidentemente indirizzato al rispetto
della clausola restitutoria, ma al contrario all’adempimento del primo
contratto, come se appunto non si fossero verificati gli effetti risolutivi collegati
all’in diem addictio, e non fosse stata dunque conclusa una seconda ed
effettiva vendita. Il non aver tenuto in considerazione questo dato essenziale
— e cioè che, se la materia riguarda indubbiamente la questione
dei ‘Rücktrittsvorbehalte’, l’azione non ha nulla a che
vedere con le ‘Rückabwicklungsklagen’—, unitamente al
fatto si siano riunificate questioni che andavano invece tenute separate, ha
avuto come (unico) risultato che lo studioso si è visto costretto a rincorrere
improbabili (e non necessarie) ipotesi di alterazioni testuali del citato brano
paolino, al (solo) fine di salvaguardare le tappe di un più generale
percorso evolutivo, arrivando alla conclusione che anche in questa circostanza,
a dispetto del chiaro tenore della fonte (Sed
verum est venditorem deceptum ex vendito actionem habere […] et ita Labeoni et Nervae placet),
Labeone e Nerva si sarebbero fatti promotori dell’a. praescriptis verbis.
[210] A favore dell’ipotesi per cui
sarebbe stato il giurista il primo a farsi suggeritore del ricorso
all’azione contrattuale, vd. M. Talamanca, La risoluzione, cit., 29 («Nel
caso di pactum displicentiae, la
possibilità di esperire l’actio
empti risaliva a Sabino»), 31 («Sabino, il quale aveva per
primo ammesso l’esperibilità dell’azione contrattuale, nel
caso l’actio empti, nel pactum displicentiae»), 65 nt. 184
(«Si tenga conto che la possibilità di esperire l’azione
contrattuale in questi casi è stata introdotta da Sabino»).
[211] Da questo punto di vista non sembra vi
siano però specifici elementi per sostenere che attraverso la
concessione dell’azione contrattuale Sabino avrebbe inteso reagire
all’impiego dell’a.p.v. a
tal fine suggerito da Labeone: così
(«gli va altresì [scil. a Labeone] riconosciuto il merito,
indiretto, di aver provocato la reazione di Sabino») invece M. Talamanca, La
risoluzione, cit., 66 e ivi nt. 188, con una congettura che costringe
l’autore a ipotizzare un precedente impiego (da parte si deve immaginare
dei sabiniani) di azioni pretorie in senso stretto («Non è
escluso che, in casi del genere, fosse precedentemente intervenuto il pretore
mediante la concessione di azioni decretali configurate in modo diverso, ad es.
come formulae in factum conceptae,
consigliato o meno in ciò dai prudentes»),
che non sembra tener conto di quanto prima sostenuto sempre dallo studioso,
là dove si era piuttosto affermato (56 s.) che «da quello che
sappiamo, non risulta mai prospettata, come
“Rückabwicklungsklage” un’actio in factum con formula
in factum concepta».
[212] Per un valore paradigmatico sembra
orientarsi A. Burdese, I contratti innominati, cit., 78 s.; un
invito a non generalizzare la testimonianza si trova invece in J. Kranjc, Die actio, cit., 452; M.
Artner, ‘Agere praescriptis
verbis’, cit., 100 ss.; si mostra prudente circa l’esistenza di
un’effettiva connessione tra la soluzione qui adottata e la
«più generale configurazione del sistema contrattuale proposta da
Sabino», M. TALAMANCA, La
risoluzione, cit., 32.
[213] In questi termini già J. Cujacius, In librum secundum Pauli ad edictum commentarii seu
recitationes solemnes, ad L. VI
De rescind. vendit, in Opera ad parisiensem fabrotianam editionem
diligentissime exacta in Tomos XIII. distributa auctiora atque emendatiora. Continuatio partis tertiae. Tomus quintus, Prati 1838, 47: «id est, actio
praescriptis verbis, quae proxima, vicina, finitima, similis est actioni ex
empto».
[214] Tra gli studiosi recenti, coglie un
indiretto riferimento all’a.p.v.
(«Eine der Kaufklage ähnliche Klage kann deswegen nur eine
präskribierte Klage sein»), così come per la locuzione
‘ad exemplum ex empto’
adoperata in C.4.64.1 (su cui vd. supra
§ prec.), J. Kranjc, Die actio, cit., 445, 459;
un’identificazione con «l’actio
in factum […] già da Labeone concessa in analogia
all’azione edittale tipica a tutela di contratto consensuale»
è proposta anche da A. Burdese,
Osservazioni, cit., 136; a un impiego
in via utile dell’actio ex empto
pensa F. Gallo, Synallagma 2, cit., 74 ss.; nel senso di
un adattamento mediante praescripta verba
vd. M. Talamanca, La risoluzione, cit., 60; con un punto
di vista (più generalmente) condiviso da C. A. Cannata, Riflessioni
conclusive, in Caducazione, cit.,
180; M. Artner, ‘Agere praescriptis verbis’,
cit., 179 ss., per il quale l’inserimento di praescripta verba avrebbe presentato il vantaggio di risolvere i
dubbi che avrebbero potuto profilarsi sul piano della esperibilità
dell’actio empti di fronte alla
operatività di un patto risolutivo. Pensava diversamente ad applicazione
utile dell’actio ex empto, da
tenersi naturalmente distinta rispetto all’a. praescriptis verbis (da intendersi quale modello generale,
più che il risultato di un adattamento di azione edittale) C. Accarias, Précis de droit romain 2, Paris 1879, 471 § 614
(«Sabinus et Paul […] s’accordent à lui donner
l’action ex empto; seulement
l’un la lui donne comme action directe, et l’autre comme action
utile […] Très probablement, d’autres juriconsultes
préféraient l’action
praescriptis verbis»).
[215]
Così in particolare P. de
Francisci, SUNALLAGMA 1, cit., 284 s.; ancor prima P. Collinet, Contributions,
cit., 166.
[216] P.F. Girard, Manuel, cit., 770 e ivi nt.
2; sempre nel senso di un’actio
in factum, da concedersi
però nel solo caso di mancata previsione di un termine per
l’esercizio dello ‘ius displicendi’,
A. d’Ors, Una nota sobre la contractualización
de las entregas a prueba en Derecho romano, in AHDE 45 (1975), 597.
[217] E. Betti, Sul
valore, cit., 32 nt. 3: «actio in factum accommodata o proxima avente
lo stesso nome»; F. Peters, Die Rücktrittsvorbehalte, cit., 265
nt. 18: «Die Klage wird als eine actio in factum bezeichnet, die nach dem
Vorbild der Kaufklage — proxima
empti (actionis) —
gestaltet ist».
[219] Se non c’è dubbio che per
ogni rapporto contrattuale dovesse risultare astrattamente possibile il ricorso
all’azione in factum, con le
evidenti conseguenze che ciò avrebbe comportato sul piano sia pratico
che teorico (vd. ntt. 7, 330), ciò doveva ancor più valere per
l’ipotesi presa in considerazione nel brano paolino, ove anche
l’azione contrattuale (ex empto),
per quanto formalmente indirizzata al rispetto del contratto (o meglio di una
sua specifica parte: il pactum
displicentiae), avrebbe assolto nei fatti (per lo meno nella maggior parte
delle concrete ipotesi applicative) una funzione fondamentalmente
reintegratoria, chiedendo con essa il compratore la semplice restituzione di
quanto versato a titolo di prezzo.
[220] Perplessità in proposito si trovano
espresse in P. Collinet, Contributions, cit., 166
(«il ya une difficulté considérable à construire
à l’époque classique une formule in factum […] proxima
empti (l’action empti
étant incertaine et de bonne foi)».
[221] Non si sente di escludere del tutto che
l’azione ‘proxima empti in
factum’ fosse la stessa actio
ex empto di Sabino adattata alla
specificità del caso («die
actio proxima empti in factum ist
— in weiteren Sinn — doch sicher auch eine Klage aus dem Kauf
(„ex empto“). Daher ließe sich spekulieren, daß beide Juristen das gleiche
Rechtsmittel meinten, Paulus aber als einziger die Frage nach dem Aufbau dieser
Klage ex empto problematizierte. Die actio proxima empti in factum wäre
dann nichts weiter als die auf die Formelstruktur bezogene Präzisierung
der allgemeinen actio ex empto») M. Artner, ‘Agere praescriptis verbis’, cit., 179 nt. 16, il quale
da parte sua, però, propende, come si è visto, per
un’azione con praescripta verba.
[222] Diversamente, ma in termini che non
possono condividersi, M. Talamanca, La risoluzione, cit., 60: «La
maniera con cui Paolo si riferisce all’azione […] evidenzia
[…] come essa aveva in comune con il mezzo processuale patrocinato dal giurista
augusteo la circostanza che veniva concessa a simiglianza di un iudicium bonae fidei (proxima empti)».
[224] È appena il caso di osservare
che non bisogna confondere la questione dell’individuazione del soggetto
nel cui interesse è prevista la pattuizione (in questo caso, ovviamente
il compratore), con quella della individuazione del soggetto legittimato a
farla valere in via processuale, potendo risultare, da questo punto di vista,
anche il venditore in concreto portatore di un interesse al rispetto di quanto
pattuito. Si pensi appunto all’ipotesi in cui il compratore, pur non
avendo ancora provveduto al pagamento del prezzo e pur avendo ritenuto non di
suo gradimento la res empta, si
rifiuti però (magari anche in maniera non del tutto immotivata) di
procedere alla prevista restituzione in favore del venditore: in questa
ipotesi, infatti, l’azione intentata dal venditore non sarebbe stata
formalmente diretta al pagamento del prezzo, ma alla restituzione della res: non si sente di escludere in
astratto una tale eventualità, per quanto la ritenga poco probabile, M.
TALAMANCA, La risoluzione, cit., 32
nt. 94, il quale d’altra parte non nega la possibilità di un
ricorso, seppure in misura minore, all’actio ex vendito («Nel pactum
displicentiae v’è una minore ampiezza di casi in cui il
venditore debba ricorrere ad una “Rückabwicklungsklage” dopo
il recesso del compratore»; non si può del resto ignorare che un
impiego dell’azione contrattuale (edittale o decretale che fosse) in
favore del venditore è attestata, sempre in materia di pactum displicentiae, in Ulp. 32 ad ed. D.19.5.20pr. (in proposito vd. M. Artner, ‘Agere praescriptis verbis’, cit, 181, ove si denuncia
il carattere eccezionale della soluzione: «Der Unterschied (scil.
rispetto a Paul. 32 ad ed. D.18.5.6)
besteht darin, daß dies hier ausnahmweise zugunsten des Verkäufers
geschieht»), rispetto al quale si può al più discutere se
il patto sia qui configurato sospensivamente (così M. TALAMANCA, La risoluzione, cit., 13 nt. 43) o
risolutivamente (M. Artner, ‘Agere praescriptis verbis’,
cit., 180); per l’esercizio dell’azione contrattuale da parte del
venditore vd. anche A. d’Ors,
Una nota, cit., 596; non sembra
tenere distinte le due questioni invece F.
Gallo, Synallagma 2, cit., 77
nt. 36, là dove pensa unicamente all’actio ex empto quale strumento di attuazione del pactum displicentiae; così del
resto pure L. Landucci, Azioni, cit., 145 nt. 2 («per il pactum displicentiae si ha sempre di
mira la risoluzione della compera, e si ricorre sempre all’actio empti»).
[226] Così invece F. Gallo, Synallagma 2, cit., 77 s.: «I fautori della concessione di
un’actio proxima empti in factum per la tutela del pactum displicentiae nella
compravendita, non costruivano ancora tale patto come condizione risolutiva,
tutelabile con l’azione contrattuale».
[227] Che la questione fosse stata impostata
dai giuristi romani sul piano della compatibilità di una tale
pattuizione (o meglio ancora dei suoi effetti) con le finalità a cui era
(più in generale) indirizzato l’esercizio dell’azione
contrattuale, compatibilità che sarebbe stata in particolare contestata
da giuristi di area proculeiana, i quali (ritenendo incongruo l’esercizio
del rimedio edittale in presenza di una vicenda contrattuale da ritenersi
risolta: ‘et quidem finita est
emptio’) si sarebbero piuttosto orientati per l’impiego di
azione decretale, ove è dubbio soltanto se si trattasse di azione in factum pretoria in senso stretto (ai
sensi di Gai 4.46) — secondo quanto sostenuto dalla dottrina meno recente
(così ad es. P.F. Girard, Manuel, cit., 700 e ivi nt 2; L. Landucci, Azioni, cit., 137 ss., su cui vd. infra in questa stessa nt.; E. Levy,
Zu den Rücktrittsvorbehalten,
cit., 274 ss.) —, o di azione in
factum civilis risultante da adattamento mediante praescripta verba dell’azione edittale, rappresenta un dato
da tempo segnalato in dottrina, per quanto spesso ricavato (almeno sul piano
dell’invocato contrasto di scuola) sulla base di discutibili
ricostruzioni delle fonti (così, ad es., lo si è visto — supra ntt. 209, 237 — M. Talamanca, La
risoluzione, cit., 46 ss., 54 ss., relativamente a Paul. 5 ad Sab. D.18.2.14.1, Nerat. 5 memb. D.18.3.5, ma anche Ulp. 32 ad ed. D.19.5.20pr.-1): al riguardo si
vedano, pur con le denunciate varietà di opinioni, G. Noodt, Ad edictum praetoris de pactis et transactionibus liber singularis. Caput
XI de pactis adiectis contractibus bonae fidei, in Opera omnia recognita, aucta, emendata,
multis in locis atque in duos tomos distributa, Lugduni Batavorum 1760, 420: «negabat
certe Proculus, actionem ex contractu hic competere ideo: quod adhiberetur ad
finiendum contractum, contra naturam actionis ex contractu, tantum ad eum
adstringendum inventae, nec obvenientis eo finito»; L.
Landucci, Azioni, cit., 139
(«i Proculeiani invece negavano la possibilità di ricorrere alla
azione del contratto […] sembrava loro assurdo ricorrere all’azione
contrattuale, che è fatta per far valere il contratto, non per farne
dichiarare l’estinzione o le sue conseguenze»); per una preferenza
dei Proculeiani verso l’agere
praescriptis verbis (come si è visto) M. Talamanca, La
risoluzione, cit., 31 e ivi nt. 91, 58 ss.; C.A. Cannata, Riflessioni,
cit., 180; più genericamente, osserva come di fronte alla sopravvenuta
inefficacia delle vendita potessero insorgere dubbi circa la spettanza
dell'ordinaria actio empti
(«mit […] dem Wegfall der Wirkungen des Kaufes ließe sich
auch an der Zuständigkeit einer einfachen actio empti zweifeln») M.
Artner, ‘Agere praescriptis
verbis’, cit., 180. Per la sussistenza di due indirizzi da ritenersi
però slegati da un conflitto di scuola vd. P.F. Girard, Manuel,
cit., 700 nt. 2; F. Wieacker, Lex commissoria, cit., 69 ss.; in
termini ancora differenti, sembra svalutare l’ipotesi di una dissensio tra le diversae scholae, prospettando, almeno inizialmente, un
generalizzato ricorso all’actio in
factum da parte della giurisprudenza, indipendentemente dal tipo di configurazione
del patto (sospensivamente o risolutivamente condizionato) V. Arangio-Ruiz, La compravendita2, cit., 420 s.
[228] Lo nota anche F. Gallo, Synallagma
2, cit., 80: «Nel caso con l’actio
ex empto non si chiede l’adempimento di una obbligazione del
venditore, ma il contrario di quella principale a suo carico»; in questo
senso del resto («kann der Kaufklage ein anderes Bedenken entgegenstehen:
der aufgelöste Kauf besteht nicht mehr, mit der ao venditi kann nur der
Kaufpreis, nicht die Kaufsache eingeklagt werden») già F. Wieacker, Lex commissoria, cit., 70; F.
Peters, Die
Rücktrittsvorbehalte, cit., 263 ([…] ist das normale Ziel der
beiden Klagen die Erfüllung der emptio
venditio, nicht ihre Auflösung. Und während die actio venditi sonst auf den Kaufpreis
gerichtet ist, di actio empti auf den
Kaufgegenstand, müssen sie ihre Ziel im Rücktrittsfall gerade
austauschen»).
[229] Per una delimitazione di tale
specificazione alle sole ipotesi di vendite di immobili (con l’eccezione,
ritenuta però sospetta, di Pap. 27 quaest.
D.22.1.4pr.), quale retaggio di un originario impiego dell’indicata
terminologia — ‘in vacuam possessionem mittere (ire, iubere,
inducere), vacuae possessionis traditio’ — in materia di mancipationes immobiliari, vd. V. Arangio-Ruiz, La compravendita,2 cit., 168 s., 179 s.
[230] In relazione alla ben nota questione se
tra gli obblighi del venditore rientrasse anche quello di fare mancipatio della cosa venduta, ove si
trattasse di res mancipi, vd. (con
conclusioni tendenti ad escluderlo) V.
Arangio-Ruiz, La compravendita,2
cit., 164 ss.; M. Talamanca, voce
Vendita in generale (dir. rom.), in Enc. dir., vol. 46, Milano 1993, 382 ss.
[231] Così, invece, ma in
un’ottica che appare fortemente condizionata dall’idea che si sia
qui consumata una vicenda propriamente risolutiva («supprime du
même coup la vente tout entièr […] La vente une fois
rèsolue, anéantie juridiquement»), C. Accarias, Théorie,
cit., 115: «Les Proculiens, au lieu de garantir le pacte comme adjont
à un contrat qui n’existe plus, le garantissent comme adjont
à une aliénation que n’a pas anéantie la
résolution de la vente»), 117 («si la condition
résolutoire s’accomplit, il y aura, d’après la
doctrine Proculienne, un contrat innommé»).
[232] Per quanto si tratti certo di questione assai complessa
che meriterebbe indubbiamente una più approfondita e ampia riflessione,
bisogna tenere presente che, a dispetto di quanto si trova spesso sostenuto in
dottrina (così, oltre ad Accarias citato alla nt. prec., ad es. M. Sargenti, Appunti, cit., 240 s.: l’«oggetto del contratto si
considera inemptus, la compravendita
come non mai avvenuta»), non sembra che tali clausole fossero congegnate
o comunque propriamente pensate nella prospettiva di dover intervenire sulla
vicenda contrattuale ‘risolvendola’, in modo cioè che questa
dovesse considerarsi mai avvenuta, secondo quanto si potrebbe essere indotti a
ritenere sulla base di certe sollecitazioni lessicali (emptio resolvitur, emptionem
resolvi) o di ambigue qualificazioni (inempta
sit, esset, fieret), che possono
aver favorito l’idea di una siffatta incidenza sul contratto: così
(«esprimono in modo immediato l’idea di una fine, di una
cancellazione, di una estinzione») P.
Ziliotto, Vendita, cit., 475.
D’altra parte è sempre Ulpiano ad affermare che, verificatasi la
‘condizione’, la vendita deve considerarsi finita (et quidem finita est
emptio): e non si vede come possa ritenersi concluso ciò che non ha
mai avuto inizio.
Quelle indicate, infatti, dovevano piuttosto costituire
espressioni di sintesi rispetto a una vicenda negoziale in realtà assai
più articolata (vd. infra in
questa stessa nt.), in cui a venir meno, a risolversi (per così dire),
non era certamente l’atto (secondo quanto sembra avvenisse per
l’ipotesi diversamente risolutiva del contrarius
consensus, rispetto alla quale si verificava una «rimozione
convenzionale del contratto»: in proposito vd. P. Cerami, voce Risoluzione,
cit., 1279 ss., 1287) o comunque la fattispecie contrattuale in sé e per
sé considerata, la quale, anche sul piano della verità storica
dei fatti, non poteva essere negata. A estinguersi, a sciogliersi (re-solvitur), era il solo vincolo che si
era venuto a costituire (discute opportunamente di «neutralizzazione
convenzionale degli effetti del contratto» P. Cerami, voce Risoluzione,
cit., 1287). Da questo punto di vista, la ‘condizione risolutiva’
(o meglio ciò che non consideriamo tale) operava attraverso meccanismi
di intervento nettamente distinti rispetto a quelli della condizione
sospensiva, la quale era diversamente destinata a incidere
sull’atto(fatto) più che sul rapporto, nel senso che questo non
poteva considerarsi integrato (e dunque giuridicamente esistente) sin tanto che
l’evento condizionante non si fosse verificato. Di qui le
difficoltà ad agire con l’azione contrattuale in relazione a una
vicenda rispetto alla quale sarebbero mancati i presupposti stessi per
affermare la veridicità di un fatto così come descritto nella demonstratio (‘quod […]
emit, quod […] venditit): difficoltà che naturalmente non si
sarebbero venute a delinare nella diversa prospettiva di una configurazione
‘risolutiva’ del patto, la quale, come si è detto, non
avrebbe fatto venire meno la veridicità storica di quanto dichiarato in demonstratione.
Quanto, poi, all’espressione ‘res
inempta’ frequentemente utilizzata dai giuristi per descrivere la
situazione che si sarebbe venuta a determinare a seguito del recesso di uno dei
due contraenti, è facile osservare (lo nota opportunamente P. Ziliotto, Vendita, cit., 489) che si tratta di locuzione alla quale non si
può attribuire alcun preciso o apprezzabile significato tecnico; per lo
meno non nell’ambito di un’esperienza giuridica che non aveva
ancora sperimentato la possibilità di ricollegare al contratto effetti
diversi da quelli obbligatori: diversamente, si sarebbe potutto benissimo
intendere nel senso che la res si
sarebbe dovuta considerare non trasferita. Ci troviamo in sostanza di fronte a
un linguaggio affatto approssimativo, probabilmente ricavato dalla prassi
negoziale (così ancora una volta P.
Ziliotto, Vendita, cit., 489)
che non è peraltro in grado di far emergere la complessità di una
pattuizione avente efficacia risolutiva e costituiva al tempo stesso:
risolutiva perché liberava ex nunc
le parti dall’adempimento delle prestazioni non ancora effettuate;
costituiva perché (contestualmente, e dunque sempre ex nunc) le obbligava ad adottare tutti gli atti necessari per
ristabilire la situazione giuridica preesistente, con un programma obbligatorio
la cui concreta estensione sarebbe variata in funzione del livello di
attuazione della vicenda contrattuale che si andava ‘risolvendo’:
correttamente osserva che «la loro peculiare funzione era […]
quella di costituire obbligazioni finalizzate al ripristino della situazione
antecedente al contratto» P.
Cerami, voce Risoluzione,
cit., 1287 s.
Ed è in quest’ottica che va forse
interpretato il diverso tenore della clausola riferita nel qui esaminato Paul.
2 ad ed., ove a differenza della
consueta formulazione (res inempta)
si è più specificamente previsto che la cosa venga restituita al
venditore (Si convenit, ut res quae venit
[…] redderetur): in proposito
vd. K. Misera, Der Kauf auf Probe, cit., 564 s., per il
quale si tratterebbe di schema espressivo rinvenibile nelle più antiche
attestazioni del pactum displicentiae
(oltre che in Sab.-Paul. D.18.5.6, anche in Lab.-Ulp. D.19.5.20pr.), attraverso
il quale si sarebbe inteso disciplinare gli obblighi restitutori (con)seguenti
alla risoluzione del contratto, in termini che non si sarebbero più resi
necessari una volta che gli stessi obblighi sarebbero stati assorbiti nel
più ampio quadro di doveri ai quali si sarebbero dovuti attenere i
contraenti in virtù del principio di buona fede regolante il contratto:
«Die Bestimmung über das reddere
regelt die Verpflichtungen nach Vertragsaufhebung, ebenso wie Vereinbarungen
über di Herausgabe der zwischenzeitlich gezogenen Früchte getroffen
werden […] Spätere Quellen erwähnen eine
reddere-Bestimmung nicht mehr, weil sie als feste Pflicht in Rahmen der bona fides-Klausel ihre
Berücksichtigung findet».
[234] Una cauta apertura in tal senso —
per quanto in un ordine di idee che appare comunque orientato a privilegiare
l’ipotesi di una rabberciata documentazione di contrastanti indirizzi
giurisprudenziali (infra nt. 237)
—, può trovarsi in M. TALAMANCA, La risoluzione, cit., 53: «sembrerebbe risultare che il
giurista non aveva ancora esercitato una definitiva opzione sull’azione
da esperire in questa fattispecie, seppur forse in via subordinata, riteneva
ancora praticabile anche la proxima empti
in factum (actio)», 60, 82.
[235] Occorre da questo punto di vista
considerare il carattere chiaramente incidentale e parentetico del riferimento
al pensiero di Sabino (ut Sabinus putat),
il cui unico scopo parrebbe quello di fornire un’integrazione di un
quadro informativo, in cui però la soluzione di concedere l’actio empti — in concorso
elettivo, più che in rigida alternativa con l’actio proxima empti in factum — è pur sempre
riferibile allo stesso giurista severiano; diversamente, nel senso di
un’opzione verso l’a. proxima
empti in factum, di fronte a una problematica esperibilità
dell’azione edittale, vd. C. Accarias, Théorie, cit., 114 («Paul
[…] hésite sur l’action directa
et parait se contenter d’une action in
factum proxima empti, c’est-à-dire d’une action de vente
utile»); altre indicazioni supra
in nt. 177.
[236] In quest’ordine di idee vd. già J. Cujacj, In librum secundum Pauli ad edictum, cit., in Opera V, cit., 47: «Verum addit Paulus quodammodo corrigens Sabinum Aut proxima empti, in factum datur [...] igitur dubitationis
tollendae causa, scrupoli eximendi causa, melius est agere praesc. verbis, sive
in factum civili actione, omissa actione ex empto directa»).
[237] Così, ad es., P.F. Girard, Manuel, cit., 700 nt. 2; V. Arangio-Ruiz, La compravendita2, cit., 421
(«due correnti di studiosi che sono contrapposte da Paolo»); K. Misera, Der Kauf auf Probe, cit., 545 nt. 144; pur con la precisazione di
cui supra in nt. 234, pensa alla
documentazione di un contrasto di opinioni tra scuole (dovendosi identificare
l’actio proxima empti in factum
con l’agere praescriptis verbis
labeoniano: supra nt. 214) M. Talamanca, La risoluzione, cit., 29 («resoconto — attualmente
parco — di ius controversum
fornito da Paolo»), 53 («controversia che […] sembrerebbe
ancora irrisolta»); diversamente, ma sempre nell’ottica di
soluzioni tra loro contrapposte, esclude che il ricorso all’actio in
factum (pretoria) fosse qui suggerito da esponenti dell’opposta
scuola proculeiana, tenendo presente che già Labeone e Nerva avrebbero
ammesso l’impiego dell’azione contrattuale (D.18.3.14.1), e non
potendosi d’altra parte fare eccessivo affidamento su D.19.5.12, essendo
qui l’actio in factum concessa
da Proculo in riferimento alla diversa ipotesi di pactum de retroemendo, F.
Peters, Die
Rücktrittsvorbehalte, cit., 265 s., ove si ipotizza piuttosto un
originario riferimento al punto di vista di Aristone, essendo questi l’unico giurista per il quale sarebbe
documentato con certezza («mit einiger Sichereit») l’impiego
di un’actio in factum (per
un caso però di vendita con lex
commissoria) in Nerat. 5 memb. D.18.3.5: per un ricorso qui da parte di Aristone all’actio in factum vd. già F. Wieacker, Lex commissoria, cit., 71, 75; seguito da V. Arangio-Ruiz, La
compravendita,2 cit., 418 s.; in senso contrario, molto opportunamente
contesta che con l’espressione ‘Aristo
existimabat venditori de his iudicium in emptorem dandum esse’ ci si
riferisca ad azione in factum P. Ziliotto, Vendita, cit., 498, la quale vi intravede piuttosto un riferimento
all’actio venditi con una
soluzione che appare sostanzialmente preferibile rispetto alla diversa ipotesi
avanzata da M. Talamanca, La risoluzione, cit., 54 ss., che vorrebbe
piuttosto attribuire ad Aristone (sul presupposto di una sua vicinanza alla
scuola proculeiana) il ricorso all’«agere praescriptis verbis, modellato sull’actio venditi», in base alla sola argomentazione
per cui non ci si sarebbe potuti riferire all’actio ex vendito affermando «come invece si fa nel passo, che
si dovrà procedere a dare iudicium
nei confronti del compratore (…de
his iudicium in emptorem dandum…)»; da ultima propende per la
concessione dell’azione contrattuale (sempre sul presupposto di una
configurazione risolutiva del patto) E.
Nicosia, In diem addictio,
cit., 196 nt. 371.
[238] M.
Leuman-J.B. Hofmann
– A. Szantyr, Lateinische Syntax und Stilistik,
München 1965, 499 s.; opportunamente osserva come non vi siano ragioni
specifiche per attribuire qui alla
congiunzione significato ‘esclusivo’
(«ausschließend») M.
Artner, ‘Agere praescriptis
verbis’, cit., 179 nt. 16; più in generale, per un impiego copulativo
— c.d. ‘paradi£zeusij’: C.6.38.4.1a-b (Iust., a. 531)
— variamente attestato nelle fonti, peraltro proprio in un noto brano
paolino (Paul. 59 ad ed.
D.50.16.53pr. ‘et cum dicimus
"quod dedi aut donavi", utraque continemus’), si rinvia a M. Leuman-J.B. Hofmann-A. Szantyr, Lateinische
Syntax¸cit., 500; per una valutazione sul punto vd., con ulteriori
indicazioni, U. Laffi, Lex Rubria de Gallia cisalpina, in Athenaeum 64 (1986), ora in Id., Studi di storia romana e di diritto, Roma 2001, 275 nt. 73.
[239] Non esclude l’ipotesi di un completamento da parte di Paolo della
soluzione di Sabino, M. Artner, ‘Agere praescriptis verbis’,
cit., 179 nt. 16; in termini, evidentemente differenti rispetto a quelli qui
prospettati, inscriveva entrambe le soluzioni nell’ambito del medesimo
indirizzo assimilativo sabiniano E.
Betti, Sul valore, cit., 32
nt. 3: «Questo passo dimostra in modo irrefutabile che la teoria della
identificazione perfetta e quella dell’actio in factum accommodata o
proxima avente lo stesso nome sono
tra loro strettamente connesse ed entrambe Sabiniane».
[240] Per la genuinità della soluzione
labeoniana vd. R. Santoro, Il contratto, cit., 110 s.; adesivamente
(rispetto alle conclusioni raggiunte da Santoro) M. Artner, ‘Agere
praescriptis verbis’, cit., 73.
[241] Occorre considerare che nell’undicesimo
libro Ulpiano si occupava appunto dell’actio de dolo (O. Lenel,
Pal.2, Ulp. 387): in proposito vd. P. de Francisci, SUNALLAGMA 1, cit., 281; R.
Santoro, Il contratto, cit.,
109.
[242] Nei suoi tratti essenziali la proposta
si rinviene già in G. Beseler,
Beiträge zur Kritik der
römischen Rechtsquellen 2, Tübingen 1911, 160, con una diagnosi
che aveva reso ovviamente necessaria la contestuale soppressione
dell’avverbio ‘etiam’,
il cui mantenimento avrebbe finito per prospettare un concorso alternativo con
l’actio ex vendito,
evidentemente incompatibile con il principio di sussidiarietà
dell’actio de dolo; per una
più completa formulazione vd. P.
de Francisci, SUNALLAGMA 1, cit., 280; B. Albanese, La
sussidiarietà dell’actio de dolo, in AUPA 28 (1961), 263; M.
Sargenti, Labeone: la nascita
dell’idea di contratto nel pensiero giuridico, in Iura 38 (1987), 66.
[243] In questo ordine
di idee, vd. D. Daube, Condition prevented from materializing,
in TR. 28 (1960), 294 ss.; Id., Slightly Different, in Iura
12 (1961), 110; A. Masi, Studi sulla condizione nel diritto romano, Milano 1966, 223; J. A. C. Thomas, Sale actions, cit., 418.
[244] Della questione
non sembra essersi avveduto F. Gallo,
Synallagma 1, cit., 201, al quale pur
non sono sfuggite le implicazioni («presuppone consolidata spettanza
dell’azione menzionata») del «tenore perentorio» della
chiusa di Ulp. 28 ad ed. D.19.5.17.1
(‘actio autem ex hac causa utique
erit praescriptis verbis’) che, in quell’occasione, lo hanno
indotto ad attribuire a Ulpiano, anziché a Labeone, il tratto in
questione.
[245] Nel senso di
un’innovazione labeoniana già C.
Accarias, Théorie,
cit., 48; («Elle parait avoir été inventée par
Labeon») P.F. Girard, Manuel, cit., 570; tra gli studiosi
recenti, vd. A. Burdese, Sul riconoscimento, cit., 23; F. Gallo, Synallagma 1, cit., 117 nt. 37, 195 s.; C. A. Cannata, Contratto
e causa, cit., 44 s., di cui occorre però considerare il più
prudente atteggiamento assunto in Id.,
Labeone, Aristone, cit., 93: «non possiamo dire con certezza che egli
abbia costruito l’actio in factum
civilis o se questa escogitazione formulare fosse già stata
impiegata prima di lui»; M.
Talamanca, La bona fides,
cit., 54 («fenomeno […] introdotto da Labeone»); Id., La risoluzione, cit., 62; B. Schmidlin, Das Nominatprinzip, cit., 79;
(«pare essere stato accordato per la prima volta da Labeone») E. Sciandrello, Studi, cit., 12.
[246] Apertura che si viene a profilare, ora
che sono venuti meno i sospetti che avevano portato, come si è accennato
(supra nt. 242), alla soppressione
dell’avverbio ‘etiam’:
per la genuinità R. Santoro,
Il contratto, cit., 110.
[248] Per la dottrina
più antica si veda ad es. F. L. Keller,
Institutionen. Grundriss und
Ausführungen, Leipzig 1861, 118; tra gli studiosi più recenti
si segnalano C. A. Cannata, Labeone e il contratto, cit., 127:
«azione contrattuale generale, sussidiaria rispetto alle azioni tipiche
già previste»; con un punto di vista più recentemente
confermato in Id., Labeone, Aristone, cit., 34, 98; così («l’actio praescriptis verbis, che era
azione sussidiaria») anche M.
Varvaro, Ricerche, cit., 136;
(«acción contractual general “subsidiaria”») J. Paricio, Una historia, cit., 105; in una prospettiva meno generale, un
impiego «solo in via sussidiaria» dell’actio in factum labeoniana in materia di permuta da parte di Pedio
e Paolo «in assenza anche soltanto della possibilità di esperire
la seconda (scil. actio civilis incerti)
ad avvenuta esecuzione di una delle prestazioni corrispettive» si trova
denunciato in A. Burdese, Osservazioni, cit., 154; Id., Sul riconoscimento, cit., 32: «il ricorso all’agere praescriptis verbis parrebbe
avere, secondo Celso, carattere sussidiario, in mancanza della
possibilità di applicare, nel caso specifico, un’azione edittale
tipica»; Id., I contratti innominati, cit., 80.
[249] R. Santoro, Il contratto, cit., 111 s., ove
si respinge l’ipotesi di una condizione c.d. promissoria (in
corrispondenza al modello di Iul. 3 ad
Urs. Fer. D.18.1.41pr.), secondo quanto invece congetturato (almeno con
riferimento alla logica ricostruttiva del giurista augusteo) da D. Daube, Condition, cit., 284; Id.,
Slightly Different, cit., 110;
seguito da J. A. C. Thomas, Sale actions, cit., 419; condizione
sospensiva pure secondo A. Burdese,
Sul riconoscimento, cit., 21; in un
ordine di idee che sembrerebbe voler in qualche modo conciliare le due
prospettive («Es ist also von der Existenz einer mit der Bedingung
verbundenen vertraglichen Nebenplicht auszugehen») M. Artner, ‘Agere praescriptis verbis’, cit., 72 nt. 30, 74.
[250] Così in
particolare A. Burdese, Sul riconoscimento, cit., 21;
(«fattispecie di compravendita sottoposta a condizione
potestativa») T. dalla Massara,
Alle origini, cit., 118 nt. 172; C. Pelloso, Le origini, cit., 56 nt. 114; netta la posizione di C. A. Cannata, Labeone, Aristone, cit.,
94: «la condizione stessa risulta descritta come potestativa, e puramente
potestativa: se ego chiederà
all’autorità amministrativa di vendergli il locale ove porre la
biblioteca, egli la otterrà senza dubbio».
[251] In
quest‘ottica («sicher nicht in seinem freien Belieben
stehen») M. Artner, ‘Agere praescriptis verbis’,
cit., 72 nt. 32.
[252] Così F. Gallo, Synallagma 1, cit., 194; punto di vista recentemente fatto proprio
da S. di Salvo, Adempimento fittizio della condizione e
interesse al mancato avveramento, in BIDR.
105 (2011), 135 ss., ora in Dal diritto
romano. Percorsi e questioni, Torino 2013, 7; F. Cursi-R. Fiori, Le
azioni generali, cit., 148 e ivi nt. 8, con l’osservazione per cui
«alla condizione potestativa semplice non è verosimilmente
riferibile la cd. finzione di avveramento».
[253] M. Artner, ‘Agere praescriptis
verbis’, cit., 74, il quale ritiene conclusa la fase delle
trattative; esclude anche che si tratti di «preliminare di vendita»
C. A. Cannata, Labeone, Aristone, cit., 94.
[254] In
quest’ordine di idee vd. A.
Burdese, Sul riconoscimento,
cit., 21, per il quale si è «in presenza di una mera convenzione a
effetti bilaterali reciproci, ancorché sottoposta a condizione»;
così, in definitiva (infra nt.
256), anche F. Gallo, Synallagma 1, cit., 195, il quale
finisce per attribuire il superamento di tale difficoltà a un impiego,
da parte di Labeone, della «propria costruzione della categoria
contrattuale. In presenza dei requisiti previsti per la categoria, competeva,
secondo la sua innovazione, la tutela processuale»; C. Pelloso, Le origini, cit., 56 nt. 114; nello stesso ordine di idee da ultimo
C. A. Cannata, Labeone, Aristone, cit., 94: «Il
ragionamento di Labeone è stato evidentemente il seguente.
L’accordo concluso tra ego e tu era già di per se stesso un
atto di impegno reciproco (ultro citroque
obligatio, sun£llagma)…Il contegno
omissivo di ego ha dunque impedito la
realizzazione dell’affare, sicché questi ne risponde a titolo
d’inadempimento, subendo l’actio
praescriptis verbis. Come si vede, nel caso nessuna prestazione era stata
eseguita e neppure c’è analogia con un contratto tipico (affermare
questo sarebbe una sorta di contraddizione, perché l’unico
contratto tipico considerabile sarebbe la vendita, ma questa è proprio
il contratto che qui manca)».
[255] In tal senso (ma nell’ottica
chiaramente di un’interpretazione soggettivistica della nozione
contrattuale labeoniana) R. Santoro,
Il contratto, cit., 114.
[256] Così del
resto, ma non senza contraddizione rispetto a quanto riportato supra nt. 254, («non siamo in
presenza di una fattispecie contrattuale atipica […] il difetto della
tutela processuale non dipendeva dalla atipicità […] la
compravendita condizionata non è peraltro un negozio atipico,
bensì un negozio tipico […] sottoposto a condizione») F. Gallo, Synallagma 1, cit., 194 e ivi nt. 86; aderisce all’opinione
di Gallo, S. di Salvo, Adempimento, cit., 7 («la
compravendita condizionata restava pur sempre una compravendita senza divenire
un negozio atipico»); da ultimi F.
Cursi-R. Fiori, Le azioni generali,
cit., 149 («l’azione atipica viene concessa semplicemente
perché le azioni tipiche non sono utilizzabili, ma non viene creata
alcuna “nuova” figura contrattuale»).
[257] In tal senso P. de Francisci, SUNALLAGMA 1, cit., 280; R. Santoro, Il contratto, cit., 112 s.; M.
Talamanca, La tipicità,
cit., 88 nt, 207; F. Gallo, Synallagma 1, cit., 194 s.; più
recentemente ritiene estranea a Labeone l’elaborazione di una tale logica
ricostruttiva («Dem Labeo war dieser Gedanke anscheinend noch
fremd») anche M. Artner, ‘Agere praescriptis verbis’,
cit., 75 nt. 50; così anche T.
dalla Massara, Alle origini, cit.,
118 nt. 172; F. Cursi-R. Fiori, Le azioni generali, cit., 149.
[259] Pensava
diversamente a un’affermazione del principio «come regola generale
solamente all’epoca di Giuliano» P.
de Francisci, SUNALLAGMA 1, cit., 280; più genericamente di
un’applicazione del principio «al campo contrattuale relativamente
tardi» discute R. Santoro, Il contratto, cit., 112 s.; più
in generale sul tema, vd. A. Masi,
Studi sulla condizione, cit., 220
ss.; S. di Salvo, Adempimento, cit., 1 ss.
[260] M. Talamanca, La tipicità, cit., 90
(«ancora una volta l’actio
praescriptis verbis…serve a tutelare una situazione in cui non
è integrata la fattispecie contrattuale tipica»); nello stesso senso
vd. B. Schmidlin, Il
consensualismo, cit., 117 e
ivi nt. 38, il quale ricollega la concessione dell’a.p.v. a un «elemento mancante o imperfetto […] la
compravendita non era nulla, ma solo sospesa e questa sospensione era a carico
del compratore […] il problema non risiede nella situazione incerta fra
due contratti nominati, ma consiste nel fatto che il contratto è
bloccato per colpa del compratore e rimane imperfetto».
[261] Così del
resto espressamente («recuperava con l’azione contrattuale
generale, e quindi sotto il profilo del contratto innominato») C. A. Cannata, Contratto e causa, cit., 39 s.
[262] Discute genericamente di azione
«concessa con la praescriptio
descrivente la convenzione intercorsa tra le parti» R. Santoro, Il contratto, cit., 114.
[263] In questo senso F. Gallo, Synallagma 1, cit., 195, con una proposta che non sembra coerente
con la denunciata estraneità della vicenda negoziale qui considerata
rispetto al tema dell’atipicità contrattuale (supra nt. 256) che avrebbe reso per di più irrilevante il
ricorso a preordinata nozione contrattuale.
[264] M.
Artner, ‘Agere praescriptis
verbis’, cit., 74: «sondern er war irgendwie Tätigwerden
angehalten» (supra nt. 249); in
sostanza anche R. Santoro, Il contratto, cit., 11 s., pur con la
precisazione che «questa circostanza non era stata prevista come impegno
dell’acquirente». Sulla tutela di obbligazioni accessorie mediante iudicia bonae fidei vd. M. Kaser, RP 12, 487; da ultimi si rifanno alle conclusioni di Artner,
pensando a un «dovere accessorio […] configurato in termini di bona fides» F. Cursi-R. Fiori, Le azioni generali, cit., 148 s.
[265] Così
(«der Kaufvertrag gegenwärtig und unbedingt, der Eintritt der
Wirkungen aber von dem Abschluß eines weiteren Geschäftes
abhängen sollen») M. Artner,
‘Agere praescriptis verbis’,
cit., 76, con una soluzione che non sembra potersi condividere, in quanto, a
differenza di ciò che ritiene lo studioso tedesco, è proprio
l’ipotesi di un’incidenza sui soli effetti del contratto a
richiedere un livello di astrazione difficilmente concepibile in assenza di una
teoria generale del negozio giuridico («Dagegen ist nicht anzunehmen,
daß das Geschäft als solches erst zukünftig sein soll. Dies
würde einen Grad der Abstraktion voraussetzen, wie er ohne allgemeine
Rechtsgeschäftlehre kaum zu leist ist»). D’altra
parte, se così fosse, se cioè i giuristi romani avessero
effettivamente ragionato nell’ottica di un’incidenza della
condizione sui soli effetti del contratto, Labeone, di fronte a una vicenda
contrattuale perfezionatasi, non avrebbe dovuto avere difficoltà ad
ammettere il ricorso all’azione contrattuale, seppur in adempimento di
quella sola parte del programma obbligatorio non coinvolta (a detta dello
studioso) dalla prevista condizione sospensiva; né il giudice avrebbe avuto
ragioni per respingere la pretesa attrice, ritenendo non soddisfatti i
presupposti dell’azione (quod […]
vendidit): così invece, ma non
senza contraddizione, M. Artner, ‘Agere praescriptis verbis’,
cit., 76: «anderfalls bestand das prozessuale Risiko der Klageabweisung
durch den iudex, da die
uneingeschränckte Bejahung der Urteilvoraussetzung ‚VENDIDIT‘,
die zu beweisen waren wegen der Bedingtheit des Vertrages nicht erreicht werden
konnte»; per una corretta impostazione della questione («contratto non
ancora perfezionatosi») vd. C.A.
Cannata, Contratto e causa,
cit., 39 e ivi nt. 6; Id., Atto giuridico, cit., 365: «in un
negozio condizionato la condizione si riferisce al negozio stesso,
sicché è l’atto ad essere condizionato e non (direttamente)
i suoi effetti».
[267] Non è
possibile stabilire con precisione se si stia qui pensando a praescriptio inserta (formulae) loco
demonstrationis o piuttosto a praescriptio
nei più rigorosi termini di Gai 4.131, per quanto la presenza
dell’inciso ob eam rem dovrebbe
orientare nel senso di un inserimento all’interno del programma di
giudizio.
[268] M. Artner, ‘Agere
praescriptis verbis’, cit., 77 s.: «Die charakteristischen praescripta verba dienten dem Zweck, den
allgemeinen Streitgegestand der Formel so einzuschränken, daß ein
Urteilsrichter nur die Nebenvereinbarung zum Inhalt seines weiterer Verfahrens
machte. Die Parallele zu den formeltechnischen Aufgabe der praescriptiones pro actore aus Gai. 4, 131 und 131 a ist
signifikant».
[269] M. Artner, ‘Agere
praescriptis verbis’, cit., 77: «Die praescripta verba erfüllten den Zweck, den Streitgegestand der
actio venditi auf die Verleztung der
Nebenpflicht aus dem Kaufvertrag zu beschränken».
[270]
(«Sie mußten die Tatsache der Bedingtkeit des Kaufvertrags und den
Inhalt der Bedingung enthalten») M.
Artner, ‘Agere praescriptis
verbis’, cit., 77 nt. 57.
[271] M. Artner, ‘Agere
praescriptis verbis’, cit., 77 e ivi nt. 57: «war klargestellt,
daß das Verfahren nur die unbedingte Nebenpflicht des Käufers betraf
[...] damit war klargestellt, daß sich die Verhandlung apud iudicem (nur) auf diesen Teil des
tätsachlichen Geschehens bezog».
[272] Sul brano vd. L. Pellecchi, La praescriptio. Processo, diritto sostanziale, modelli espositivi,
Padova 2003, 164 nt. 84.
[273]
Così del resto anche M. Artner,
‘Agere praescriptis verbis’,
cit., 77 nt. 58: «in Betracht kommt hier die Leistung des positiven
Interesses, also des Kaufpreis».
[274]
Così, invece, R. Santoro, Il contratto, cit., 114 e ivi nt. 123
(«questo accordo non attua una compravendita»); M. Artner, ‘Agere praescriptis verbis’, cit., 77: «Das von
Labeo in D.18.1.50 vorgesehene agere
praescriptis verbis ist also ein Rechtsmittel, das der Durchsetzung einer
Nebenvereinbarung zu einem anerkannten Kontrakt dienen soll, dem selbst die
Durchsetzbarkeit fehlt».
[275] Per un possibile
ricorso anche da parte di Ulpiano all’actio
p.v. sembrerebbe deporre, come si è visto (nt. 246), l’impiego
dell’avverbio ‘etiam’:
sul punto vd. A. Burdese, Sul concetto di contratto, cit., 32;
così F. Gallo, Synallagma 1, cit., 194 s.; più
recentemente anche S. di Salvo, Adempimento, cit., 7.
[276] Si tratta del
resto di un dato pacifico in dottrina: in questo senso M. Talamanca, La
tipicità, cit., 90; F. Gallo,
Synallagma 1, cit., 193: per
ulteriori indicazioni vd. supra ntt.
257-259. In relazione all’eventualità che si debba proprio a
Ulpiano l’estensione del principio — originariamente formulato in
tema di manumissioni testamentarie, e poi gradualmente esteso ad (altri) atti mortis causa e stipulatio: Iul. 55 dig.
D.35.1.24; Ulp. 77 ad ed. D.50.17.161
— in materia di emptio-venditio
(si consideri che il qui esaminato Ulp. 11 ad
ed. è l’unica esplicita attestazione in tal senso: se si
prescinde, ovviamente, da Pomp. 9 ad Sab.
D.18.1.8pr.: su cui vd. S. di Salvo,
Adempimento, cit., 9 s.) — vd.,
favorevolmente, G. Donatuti, Sull’adempimento fittizio della
condizione, in SDHI. 3 (1937),
72; seguito da A. Masi, Studi, cit., 224; diversamente D. Daube, Condition, cit., 283, 289.
[277] Considerazione che
non è sfuggita neppure a F. Gallo,
Synallagma 1, cit., 194 e ivi nt. 86
(«non siamo in presenza di una fattispecie contrattuale atipica […]
il difetto della tutela processuale non dipendeva dalla
atipicità»); così più recentemente anche M. Artner, ‘Agere praescriptis verbis’, cit., 78: «Von einer
allgemeinen Klage zur Durchsetzung eines Innominatkontraktes im
herkömmliche verstandenen Sinn ist dieses agere praescriptis verbis denkbar weit entfernt». Nello
stesso ordine di idee del resto già F. Kniep,
Präscriptio, cit., 105.
[279] Così (con riferimento
all’ipotesi di actio ex vendito con
praescriptio de pacto avanzata da F. Kniep, Präscriptio, cit., 104 s., su cui vd. infra nt. seg.) P. de
Francisci, SUNALLAGMA 1, cit., 280 s. nt. 5: «il suo
tentativo non salva l’a.p.v.,
perché la sua azione p.v.
sarebbe in ogni caso un<’> a.
ex vendito con una praescriptio de
pacto; ma allora che senso avrebbe l’etiam di Ulpiano, se la sola differenza stesse nella praescriptio».
[280] Non è così sicuro, in
effetti, che il medesimo risultato indicato qui nel testo si sarebbe potuto
raggiungere anche attraverso un intervento (propriamente) integrativo del fatto
descritto in demonstratione del tipo:
Quod AsAs bibliotecham NoNo (ita) vendidit, si decuriones Campani locum No
No vendidisset, et per eum stetit, quo minus id a Campanis impetrasset,
quidquid NmNm AoAo dare facere oportet ex fide bona, rell., o comunque mediante il ricorso
ad analogo programma di giudizio congegnato, però, con praescriptio (de pacto), del genere: Ea res agatur quod AsAs bibliotecham NoNo
ita vendidit, si decuriones Campani locum No No vendidisset, et per eum stetit,
quo minus id a Campanis impetrasset; quidquid paret NmNm AoAo d. f. o. ex fide
bona eius iudex rell.,
secondo quanto espressamente ipotizzato a suo tempo da F. Kniep, Präscriptio, cit., 104 s.
Per quanto entrambe le ipotesi ricostruttive sarebbero
preferibili nella (tradizionale) prospettiva di uno strumento processuale con
descrizione in factum della res de qua agitur con verba praescripta all’intentio (così già A. Pernice, Zur Lehre, cit., 94: «muss man sich die praescripta verba als
Ersatz der Demonstration denken»), o, più generalmente,
all’intero programma di giudizio (Kniep), c’è però da
dubitare che esse potessero rappresentare una valida soluzione processuale per
quegli inconvenienti (mancato perfezionamento del contratto) che avevano reso
difficoltoso il ricorso all’azione edittale. Il semplice fatto che il
programma di giudizio contenesse l’(aggiuntiva) informazione per cui la
condizione (sotto la quale era stato concluso il contratto) non si era avverata
per un comportamento direttamente imputabile al compratore, non avrebbe in
effetti rappresentato un criterio che avrebbe dovuto (o potuto) orientare il
giudice in favore di un accoglimento della pretesa attrice. Lo sarebbe stato se
si fosse già affermato il principio della finzione di avveramento, o se
comunque le parti lo avessero previsto in via convenzionale: ma così non
era. Per tale motivo, di fronte alla constatata irrilevanza della circostanza
prospettata, non sarebbe rimasta alternativa se non quella di un pronunciamento
nel senso di un’assoluzione del convenuto: a differenza di Paul. 2 ad ed. D.18.5.6, ove il giudice sarebbe
stato diversamente tenuto a prendere in considerazione il fatto del mancato gradimento da parte del compratore, perché
ciò gli era ‘imposto’ dal rispetto della pattuizione
intervenuta tra le parti. È il caso peraltro di osservare che si sarebbe
trattato di un’informazione che sarebbe stato possibile acquisire
agevolmente anche nella successiva fase apud
iudicem, senza che si rendesse necessaria un’apposita (quanto
inutile) emersione nell’impianto formulare. È solo attraverso una fictio (e dunque per il tramite di un adeguamento
della formulazione standard dell’intentio)
che si sarebbe potuto costringere il giudice a prendere in considerazione il
comportamento tenuto dal compratore.
[281] Per quanto
garantirebbe un più appropriato coordinamento sul piano della consecutio temporum con la protasi (si vendidissent) del periodo ipotetico,
il ricorso alla forma verbale ‘oportuisset’
non sembra qui necessario, tenuto conto che in ogni caso la valutazione del
giudice si sarebbe mantenuta nell’ambito della irrealtà, e che
comunque la valutazione dell’id
quod interest avrebbe guardato (in entrambi i casi) al momento attuale del
giudizio, e dunque all’interesse che l’attore (ancora) aveva
— e non che avrebbe avuto (ma non aveva più) — al
perfezionamento della vicenda contrattuale.
[283] Per tali aspetti —
dall’individuazione dei tratti caratteristici dell’istituto, alla
non semplice (e connessa) questione della individuazione del modello di
responsabilità da applicarsi — si rinvia, con indicazione di letteratura
e fonti, a E. Sciandrello, Studi, cit., 107 ss., 171 ss.
[284] Così
già Lenel, EP1, 237 ss.; Id., EP2, 290 ss.,
con un punto di vista però abbandonato, com’è noto, nella
terza edizione: EP3, 300 ss.; E. Betti, Sul valore, cit., 32 s.; tra gli studiosi più recenti si
segnalano A. Burdese, Osservazioni, cit., 150; F. Gallo, Synallagma 1, cit., 239 s.; Id.,
Alle origini dell’analogia,
cit., 922 ss.; Id., Synallagma 2, cit., 148; M. Artner, Agere praescriptis verbis, cit., 150; C. A. Cannata, Labeone,
Aristone, cit., 63 nt. 77
(«forse a partire da una certa epoca fu a questo punto [scil. dopo il
titolo locati conducti] inserito
l’edictum de aestimato»);
e da ultimo, con bibliografia, E.
Sciandrello, Studi, cit., 103
ss., 104 nt. 84, ove, seppur cautamente, si prende in considerazione
l’ipotesi di un inserimento in epoca postadrianea («non ci sentiamo
di escludere con assoluta certezza che la previsione di un apposito rimedio per
l’aestimatum sia avvenuta ben
dopo la riforma di Adriano»).
[285] Sembra doversi escludere
l’ipotesi di un analogo riconoscimento anche per l’actio (p.v.) de permutatione secondo
quanto talvolta congetturato: così ad es. J. Kranjc, Die actio,
cit., 461: «Es waren […] wahrscheinlich zwei präsckribierte Klagen
(die actio aestimatoria und die
Tauschklage) im Edikt proponiert». In senso contrario già Lenel,
EP,1 238; più recentemente F. Gallo, Synallagma 2, cit., 83 ss., 204 nt. 66; M. Artner, ‘Agere praescriptis
verbis’, cit., 150 e ivi nt. 426; L. Garofalo, Contratto,
cit., 356; E. Sciandrello, Studi, cit., 286 ss.; C. Pelloso, Do ut des, cit., 102 s. e ivi nt. 31.
[286] F.
Gallo, Synallagma 1, cit., 240
(«la praescriptio […] fu
recepita nella clausola proposta nell’editto per la sua tutela»);
così anche E. Sciandrello,
Studi, cit., 153, 158 s.
[287] Così già O. Lenel, EP1, 238 («Die actio de aestimato war die einzige im Edict
proponirte actio praescriptis verbis. In allen andere Fälle wurde dieselbe
ad exemplum dieser erteilt»); E.
Betti, Sul valore, cit., 33:
«L’actio proposita dovè servire agli ultimi classici di
modello pel trattamento formale di negotia che escivano dai tipi tradizionali,
quasi paradigma per estensioni ulteriori»; diversamente, un ricorso all’actio de aestimato come modello processuale da impiegare, previo
adattamento mediante praescripta verba,
in presenza di fattispecie di incerta qualificazione (di qui
l’espressione actio aestimatoria
praescriptis verbis adoperata nel brano), si trova ipotizzato in F. Gallo, Synallagma 2, cit., 148 s., 201; in senso critico vd. A. Burdese, Tra causa e tipo negoziale in tema di transazione, in Sem. Compl. 9-10 (1997-1998), 54; E. Sciandrello, Studi, cit., 118 ss.
[289] A un intervento di sunteggiatura del
testo pensano J. Kranjc, Die actio, cit., 461 nt. 76; F.
Gallo, Synallagma 1, cit., 239
s.; Id., Alle origini dell’analogia, cit., 922 ss.; Id., Synallagma 2, cit., 150 ss.; in proposito vd. E. Sciandrello, Studi, cit., 126 ss., 151 ss., 160 s., ove si prende posizione in
difesa della genuinità sia dell’aggettivo ‘alicuius’, la cui interpretazione
andrebbe contestualizzata (e dunque riferita ai soli «accordi che
potevano dar luogo ai dubbi esposti nella prima parte del brano»), che
della qualifica di ‘aestimatoria’
qui attribuita all’a.p.v.
[290] Dubbi circa la denominazione
dell’azione si trovano (tra gli altri) in P. de Francisci,
SUNALLAGMA
1 cit., 96; sulla scia
di G. Lombardi, L’actio aestimatoria, cit., 139
nt. 16, 156, non esclude che si tratti di denominazione non tecnica
(«traducibile con “in tema di aestimatum”»),
analogamente a J.4.6.28 ‘actio
praescriptis verbis quae de aestimato proponitur’, E. Sciandrello, Studi, cit., 151 s.
[291] Nel senso di una continuità
delle modalità descrittive del fatto fondativo della pretesa vd.,
giustamente, E. Sciandrello, Studi, cit., 143.
[292] Bizantina la qualificazione ‘aestimatoria’, non attestata
altrove, secondo C. Accarias, Théorie, cit., 77 ss.; F. Kniep, Praescriptio, cit., 71 ss.; tribonianea
anche secondo P. de Francisci, SUNALLAGMA
1 cit., 95 s.; a
un’origine glossematica più che compilatoria pensa C.A. Cannata, L’actio in factum civilis, cit., 21; la genuinità
della locuzione ‘actio aestimatoria praescriptis verbis’
è difesa invece da F. Gallo,
Synallagma 2, cit., 151 s.; e
più recentemente, si è visto (nt. 289), da E. Sciandrello, Studi, cit., 151 s.
[293] Diversamente,
pensa a un’indicazione della res de
qua agitur in praescriptio da
anteporsi al programma di giudizio, E.
Sciandrello, Studi, cit., 148.
[294] Così in
base, almeno alla ricostruzione formulare proposta da O. Lenel, EP2, 292; e più recentemente
da D. Mantovani, Le formule, cit., 58 s.; per lo stesso
tenore ricostruttivo (per quanto nell’ottica, come si è detto, di
un giudizio con praescriptio anteposta
alla iudicis nominatio) E. Sciandrello, Studi, cit., 143, 148, senza che si rendesse necessario un
«riferimento ai due tipi di prestazioni alle quali si era obbligato
alternativamente l’accipiens».
[295] Non qui è
il caso di analizzare l’ulteriore eventualità di oscillazione tra
vicende negoziali diversamente tutelate con azioni pretorie in senso stretto
(Gai 4.46), rispetto alle quali non sembra che vi potessero essere
significativi margini per giungere alla configurazione di una fattispecie
contrattuale atipica da tutelarsi mediante azione civile, in considerazione del
fatto che la natura onoraria delle azioni poste a tutela dei tipi edittali di
riferimento avrebbe dovuto ragionevolmente orientare direttamente verso
l’azione di un modello non dissimile; né d’altra parte si
può ritenere che, di fronte alla potenziale riconducibilità del
caso a fattispecie non contrattuali, il giurista avrebbe avuto motivo di
abbandonare la prospettiva analogica del raffronto tra tipi, per impegnarsi in
un’analisi di tipo sillogistico-deduttivo, in cui non si sarebbero
più ricercate corrispondenze con un
contratto, ma con il contratto stesso
(inteso come categoria).
[296]
«Komplizierte Abrede» lo giudica M.
Artner, Agere praescriptis verbis,
cit., 132; non diversamente di «macchinoso accordo» discute T. dalla Massara, Alle origini,
cit., 210.
[297] In questo senso
vd. già P. de Francisci, SUNALLAGMA 1, cit., 185, 187;
più di recente anche F. Gallo,
Synallagma 2, cit., 200 ss.; ritiene
si tratti invece di un normale caso di facio
ut des R. Zimmerman, The Law of Obligations. Roman Foundations of
the civilian tradition, Cape Town 1990, 535 nt. 176.
[298] Sul principio di
non azionabilità del patto usuraio nell’ambito del rapporto di
mutuo vd., per la letteratura più risalente, V. de Villa, Le
“usurae ex pacto” nel diritto romano, Roma 1937; tra gli studi
più recenti ci limitiamo a segnalare M. Salazar Revuelta, La
gratuidad del mutuum en el derecho romano, Jaén 1999, 153 ss.; e,
per una panoramica generale, A. Petrucci
in P. Cerami-A.Petrucci, Lezioni di diritto commerciale romano,
Torino 2002, 113 ss.
[299]
Così K. Misera, Julian-African D.19.5.24, cit. 2599,
2601: non dunque «eine Art von Mandat, eine Analogie zu einem
Mandat».
[300] Che l’avverbio ‘quasi’ alluda a una somiglianza e non a
un’identità è quanto ritiene F. Gallo, Synallagma
2, cit. 190 s. nt. 27, il quale però è dell’avviso che
nella stesura attuale il quasi non
abbia «seguito nel discorso successivo», visto che le uniche
differenze che emergerebbero tra il negozio qui compiuto ed il mandato
riguarderebbero il solo piano degli effetti, mentre è da ritenere che
nella stesura originaria l’avverbio alludesse a differenze di ordine
strutturale, non più apprezzabili per via del rabberciamento subito dal
testo; più recentemente anche M.
Artner, ‘Agere praescriptis
verbis’, cit., 134 e ivi nt. 337, con critica al punto di vista di
Misera; più in generale, sull’impiego dell’avverbio ‘quasi’, si rinvia a G. Romano, Brevi considerazioni, cit., 55 ss. nt. 89.
[301] In proposito vd. F. Gallo, Synallagma 2, cit., 200 nt. 56; da ultimo anche A. Sanguinetti, D.19.5.22, cit., 33 nt. 17; nel senso di una incompatibilità
della pattuizione con la gratuità propria del mandato vd., con richiamo
a Paul. 32 ad ed. D.17.1.1.4 ‘mandatum nisi gratuitum nullum est’,
M. Artner, ‘Agere praescriptis verbis’, cit., 135, 136 nt. 344,
per quanto, secondo l’autore, agli occhi di Giuliano non doveva apparire
del tutto univoco se l’accordo effettivamente prevedesse la
possibilità per Sempronius di
trattenere gli interessi ottenuti oltre la misura del 6%
(«Gewinnerzielungsmöglichkeit»), secondo quanto si trova
invece esplicitamente attestato in Bas.20.4.24: ‘…oÙk
œsti kat¦ c£rin (e‡te g¦r Ùpr
t¾n ¹miekatost¾n l£bVj kerdane‹j)’.
[303] Così («die anderen Zweifeln am Vorliegen
eines mandatum spielen eine
Nebenrolle») M. Artner, ‘Agere praescriptis verbis’,
cit., 136 nt. 346, il quale ritiene significativo in tal senso il ricorso alla
congiunzione ‘sed’, la
quale appunto indicherebbe che la decisione del giurista si basava
fondamentalmente sulle successive considerazioni sulla responsabilità
del mandatario; ritiene piuttosto decisivi i dubbi emersi in relazione alla
gratuità del negozio N. Hayaschi,
Der Auftrag und die sogenannten
Innominatkontrakt, in ‘Mandatum’
und Verwandtes. Beiträge zum römischen und
modernen Recht, a cura di D. Nörr-S. Nishimura,
Berlin-Heidelberg-New York 1993, 184.
[304] Dal brano emerge limpidamente che il capitale era stato
già restituito e che l’accipiens
era stato in grado di farlo fruttare, come dimostra il fatto che Titius si era rivolto a Giuliano per
sapere con quale azione ottenere il pagamento degli interessi: circostanza,
questa, che induce a ritenere che gli interessi fossero maturati e che il
capitale fosse stato restituito, altrimenti, prima ancora che per gli
interessi, Titius si sarebbe
preoccupato di sapere come agire per la restituzione del capitale: in tal senso
già O. Gradenwitz, Interpolationen, cit., 142; P. de Francisci, SUNALLAGMA 1, cit., 186;
il rilievo della questione teorica sulla messa a punto della soluzione
giulianea non è sfuggito a K. Misera,
Julian-Afrikan, cit., 2598 nt. 35; M. Artner, ‘Agere praescriptis verbis’, cit., 136 ntt. 347, 348,
il quale giustamente non trova nulla di sospetto nel fatto che Giuliano
affrontasse le conseguenze che più ampiamente sarebbero discese da un
inquadramento nell’orbità del mandato, e la loro compatibilità
con il negozio voluto dalle parti, soprattutto in considerazione della natura
stessa dei libri quaestionum, nei quali, com’è noto, la proposizione di
un caso concreto doveva spesso costituire l’occasione per passare a un
esame teorico della fattispecie, astraendo dallo specifico. Più in
generale osserva come Giuliano e Africano siano «fra i giuristi nelle cui
opere si presenta più accentuato il processo di astrazione e di
standardizzazione dei casi» L.
Vacca, Sulla rilevanza dei
precedenti nel diritto giurisprudenziale romano, in Id., Metodo casistico,
cit., 96.
[305] Si tratta di un dato che non sempre è stato
adeguatamente valutato dagli studiosi, sul cui punto di vista ha certamente
pesato l’uso dell’espressione ‘pecunia credita’ nel tratto ‘ne-debuisse’, così come l’interpretazione
bizantina contenuta in Bas.20.4.24: oÜte dš d£neion, kaqÕ kaˆ tÕ
kef£laion ™moˆ kinduneÚetai, kaˆ e„
m¾ l£bVj tÒkon, oÙdn ¢paitî (Hb. II 383: nec vero mutuum est, quia
sortis periculum ad me pertinet, et si usuras non perceperis, nihil a te petam), in cui l’argomentazione giulianea viene posta in
diretta ed esplicita relazione con il contratto di mutuo (d£neion): così già J. Cujacius, Ad Africanum
tractatum VIII. Ad L. Titius 24. de praescrip. verb., in Opera ad parisiensem fabrotianam editionem diligentissime
exacta in Tomos XIII. distributa auctiora atque emendatiora. Tomus quartus,
Prati 1837, 355: «jus crediti hoc est ut periculum pecuniae respiciat ad eum qui pecuniam
accepit. Jus contractus de quo agitur hoc est, ut respiciat ad eum qui pecuniam
dedit: nam si forte eam Sempronium perdierit sine dolo et culpa sua,
non tenebitur»; O. Gradenwitz, Interpolationen, cit., 142; P.
de Francisci, SUNALLAGMA 1, cit., 186; A.
Burdese, Osservazioni, cit.,
142; il tratto in realtà contiene un’ulteriore ragione, che, in
aggiunta a quella appena esaminata, avrebbe reso sconsigliabile il ricorso
all’actio mandati: così,
giustamente K. Misera, Julian-African D.19.5.24, cit., 2598
ss., per il quale l’espressione pecunia
credita «meint das in Zusammenhang mit einem mandatum anvertraute Geld»; il dato non è neppure
sfuggito, nonostante le finalità chiaramente didattiche
dell’opera, a A. Corbino-A. Metro,
Contrahere. Gli accordi costitutivi di
“obligatio” nella riflessione giurisprudenziale romana, Messina
1995, 146; più di recente, che la frase ‘sed-fuisse’ si riferisca al mandato e non al mutuo è
sostenuto anche da M. Artner, ‘Agere praescriptis verbis’,
cit., 136 nt. 348. Del resto la limitazione della responsabilità alla
sola ipotesi di condotta dolosa si dimostra di difficile comprensione
nell’ottica di un rapporto creditizio, il che spiega la ragione per cui
gli studiosi si siano visti costretti a ipotizzare una deroga pattizia,
imputabile al fatto che il contratto avrebbe realizzato un interesse prevalente
del ‘mandante-mutuante’, con una proposta che non tiene conto del
fatto che il resoconto di Africano non presenta traccia dell’invocata
pattuizione, con la quale i contraenti avrebbero inteso mitigare il regime di
responsabilità dell’accipiens,
e che d’altra parte il presupposto stesso di un predominante interesse di
Titius nell’affare si rivela
meno sicuro di quanto possa ritenersi. In questo senso vd., comunque,
già C. Accarias, Théorie, cit., 321 s.; più
recentemente discute di «rischio della perdita o della mancata messa a
frutto del denaro, nell’intento complessivo delle parti accollato
all’accipiente» A. Burdese,
Osservazioni, cit., 142.
[306] Per un’attribuzione piuttosto ad
Africano della soluzione processuale qui indicata, ma in termini che non
sembrano trovare specifici elementi di conferma nel brano, vd. M. Sargenti, Actio civilis (2006), cit., 259; T. dalla Massara, Alle origini della causa, cit., 214 nt.
42; nel senso di un’attribuzione al giurista adrianeo ci si limita qui a
segnalare P. de Francisci, SUNALLAGMA 1, cit., 185; A.
Burdese, Osservazioni, cit.,
141; Id., I contratti, cit., 79; F.
Gallo, Synallagma 2, 189 nt.
25, 198; M. Artner, Agere praescriptis verbis, cit., 134.
[307] Per la
genuinità della frase K. Misera, Julian-African D.19.5.24, cit., 2596;
non muove rilievi T. dalla Massara,
Alle origini, cit., 211e ivi nt. 35.
[308] Respinge la
proposta di K. Misera, Julian-Afrikan, cit., 2596 e ivi nt. 25,
di leggere la locuzione in termini di endiadi nel senso di «die
rechtliche Natur» T. dalla Massara,
Alle origini, cit., 211, il quale piuttosto traduce «la funzione
di un contratto e l’insieme delle sue regole (la causa e il ius)».
[309] Scorge
nell’espressione ‘ipsum ius’ un riferimento al duplice
profilo della «configurazione e disciplina» del contratto, e dunque
al piano dei meccanismi perfezionativi e degli «effetti (delle specifiche
obbligazioni e azioni prodotte)» F.
Gallo, Synallagma 2, cit., 190 s. nt. 27, 194; adesivamente vi
legge un’allusione al «regime giuridico, nell’insieme
considerato» T. dalla Massara,
Alle origini, cit., 211 s.
[310] T. dalla Massara, Alle origini, cit., 211 ss.: «acquisizione
di un concetto, quello di causa come funzione, a prescindere dalla teorica in
relazione alla quale quel medesimo concetto era stato elaborato, nonché,
quindi indipendentemente anche dalle soluzioni».
[311] Per
l’identificazione della causa
con il ‘tipo contrattuale’ T.
dalla Massara, Alle origini, cit., 212.
[312] T. dalla Massara, Alle origini, cit., 212 s., per il quale dunque
nell’excedere causam sarebbe «implicito [...] un raffronto
tra la causa in concreto che le parti hanno inteso realizzare e la funzione
edittalmente tipizzata della pecunia credita».
[313] In questa
direzione vd. J. Pokrowsky, Die actiones in factum, cit., 88; P. de Francisci, SUNALLAGMA 1, cit., 187; E. Betti, Sul valore, cit., 38; P. Voci,
La dottrina romana, cit., 256
(«inserzione [...] chiarissima»).
[315] D. 17.1.4 (Gai. 2 cott.): Tua et mea si, veluti si mandem tibi, ut sub usuris crederes ei, qui in
rem meam mutuaretur.
[316] P. de Francisci, SUNALLAGMA 1, cit.,
187; O. Lenel, Afrikans Quästionen. Versuch einer kritischen Palingenesie, in ZSS. 51 (1931), 40; così, seppur con
cautela, anche V. de Villa, Le “usurae ex pacto”, cit.,
134 ss.
[317] In questo senso,
pur cautamente («non è improbabile»), P. de Francisci, SUNALLAGMA 1, cit., 187.
[318] Denuncia l’«aperto
contrasto» tra la soluzione qui indicata e la posizione al contrario
«documentata in Ulp. 4 ad ed. D.2.14.7.2» M. Sargenti, Actio civilis in factum (2006), cit., 259, con un punto di vista
che però finisce con l’attribuire alla soluzione prospettata in
Ulp. 4 ad ed. una valenza generale
non altrimenti dimostrata; da ultimo («pacifica la natura
compilatoria») C. Pelloso, Do ut des, cit., 158 nt. 127.
[321] In questo senso
correttamente già M. Artner,
Agere praescriptis verbis, cit., 138
nt. 360, al quale non è sfuggita la sostanziale incongruenza tra formula in factum concepta e praescripta verba.
[323] Per la genuinità vd. A. Burdese, Osservazioni, cit., 142; Id.,
Sul riconoscimento, cit., 32 s.;
(«Der Zusatz praescriptis verbis
soll hier wohl allem den Ausdruck in
factum actio präzisieren und den möglichen
Mißverständnissen vorbeugen, die dieser Ausdruck sonst auslösen
könnte») K. Misera, Julian-Afrikan, cit., 2604; J. Kranjc, Die actio, cit., 457; che «alla luce dei comuni canoni
ermeneutici» essa non desti alcun motivo di dubbio è sostenuto da F.
Gallo, Synallagma, 2, cit.,
198; non trova alcun profilo di contraddizione M. Artner, Agere
praescriptis verbis, cit., 137 s., il quale anzi rivendica la coerenza
degli elementi su cui è costruita la locuzione, suggerendo peraltro una
connessione («vergleichbar»)
con la decisione di Labeone in D.19.5.19pr.; per la genuinità
della locuzione si orienta anche T.
dalla Massara, Alle origini, cit., 213 s., per quanto, come si
è visto, ad avviso dello studioso nella decisione di accordare l’actio
in factum pretoria preceduta da praescripta verba si dovrebbe
ravvisare una «significativa innovazione» attribuibile ad Africano,
il quale dunque si sarebbe discostato dall’impostazione del maestro
Giuliano diversamente incentrata sulla concessione della sola actio in factum, come si evincerebbe da
Ulp. 4 ad ed. D.2.14.7.2.
[326] Un’analoga notazione può
trovarsi già in C. Accarias,
Théorie, cit., 60,
nell’ambito di una più generale riflessione critica in ordine alla
possibile configurazione dell’a.p.v.
nei noti termini di estensione utile di azione edittale (a caso analogo),
secondo quanto proposto da Cuiacio (supra
nt. 65).
[329] Per una distinzione
tra le due azioni ci limitiamo qui a segnalare A. Burdese, In margine
a D.4.3.9.3, cit., 38 s.; con letteratura, L. Zhang, Contratti
innominati nel diritto romano. Impostazioni di Labeone e di Aristone,
Milano, 2007, 130 s.; da ultimo F.
Cursi-R. Fiori, Le azioni generali, cit., 164 nt. 79.
[330] In questo
senso vd. già A. Pernice, Zur Vertragslehre, cit., 255 («die
a. in f. verneint das Dasein eines
klagbaren Vertrages, aus dem die actio
hervorgehen müsste […] Es steht hier ganz ähnlich wie bei den Delikten»); P. Bonfante, Istituzioni di diritto romano,9 Milano, 1932, 483 nt. 1; più
recentemente anche G. Melillo, Forme e teorie contrattuali
nell’età del principato, in ANRW. II.14, Berlin-New York, 1982, 497; in senso contrario
(«pregiudiziale metodologica») P.
Voci, La dottrina romana,
cit., 233, 283.
[331] Pomponio avrebbe
abbandonato l’approccio dell’analogia con lo schema edittale tipico
e si sarebbe piuttosto indirizzato verso l’applicazione dell’actio civilis incerti aristoniana
secondo M. Talamanca, Note su Ulp. 11 ad ed. D.4.3.9.3, cit.,
235 ss.; respinge l’ipotesi di un ricorso qui all’actio civilis incerti da parte di
Pomponio, e pensa piuttosto a un recupero dell’impostazione labeoniana,
ora resa possibile dall’introduzione a livello edittale di apposita actio depositi in ius ex fide bona, A. Burdese, In margine a D.4.3.93, cit., 38 ss.; attribuisce, infine, a
Pomponio un tentativo di sintesi della prospettiva sinallagmatica aristoniana
con la logica processuale labeoniana, che avrebbe condotto il giurista a
un’estensione dell’ambito applicativo dell’a.p.v. anche alle azioni derivanti da
‘contratti reali’ M. Artner,
‘Agere praescriptis verbis’,
cit., 165.
[333] Che a essere nel
possesso dell’olio sia Tu si
ricava dal fatto che sia lui a consegnare in deposito l’olio presso Seio:
così anche M. Artner, ‘Agere praescriptis verbis’,
cit., 78 ss.
[334] Ciò dimostrerebbe
l’«inifluenza di tale circostanza sulla soluzione del
problema» secondo A. Burdese,
In margine a D.4.3.9.3, cit., 30 s.
[335] B. Albanese, La sussidiarietà, cit.,
254 («enorme difficoltà della fattispecie»); di recente
denuncia le incertezze che si presentano sul piano della ricostruzione del caso
anche M. Artner, ‘Agere praescriptis verbis’,
cit., 78 nt. 66.
[336] Ritiene che a esercitare il ruolo di
attore nell’actio in rem fosse Titius G.
Aricò Anselmo, Sequestro
‘omittendae possessionis causa’, in AUPA. 40 (1988), 251 ss.; così in un primo momento («Tizio
doveva essere, nel giudizio, l’attore») anche M. Talamanca, La tipicità, cit., 92 nt. 221, con un punto di vista
successivamente abbandonato in Id.,
Note su Ulp. 11 ad ed. D.4.3.9.3,
cit., 198 ss., ove l’attribuzione a Tizio del ruolo di convenuto viene
spiegata attraverso la congettura (abbastanza improbabile in verità e
per la quale non sussistono comunque apprezzabili indicazioni nel brano: tale
certo non può ritenersi la concessione dell’actio de dolo da parte di Labeone) di un intervenuto accordo con il
quale Tizio avrebbe accettato di farsi attore nel giudizio di rivendica,
facendo così ricadere su di sé (non si comprende per quale
ragione) il gravoso onere della prova; adesivamente A. Burdese, In margine
a D.4.3.9.3, cit., 28 ss.; M. Artner,
‘Agere praescriptis verbis’,
cit., 78 ss.; F. Cursi-R. Fiori, Le azioni generali, cit., 161.
[337] M. Talamanca, La tipicità, cit., 94; A. Burdese, In margine a D.4.3.9.3, cit., 31; M.
Artner, ‘Agere praescriptis
verbis’, cit., 79; F. Cursi-R.
Fiori, Le azioni generali,
cit., 163.
[338] A meno di
scomporre la vicenda in due distinte e susseguentisi fattispecie contrattuali
(mandato a vendere e sequestro): uno spunto in tal senso può già
trovarsi in P. de Francisci, SUNALLAGMA 1, cit., 319; sul
punto vd., da ultimo, F. Cursi-R. Fiori,
Le azioni generali, cit., 162; nel
senso di una valutazione unitaria M.
Talamanca, Note, cit., 232; A. Burdese, In margine a D.4.3.9.3, cit., 32, ove «vendita, e relativa
sostituzione del prezzo al bene depositato» dovevano essere intesi quale pactum depositionis.
[339] Così M. Talamanca, Note, cit., 232; A. Burdese,
In margine a D.4.3.9.3, cit., 31 ss.
(«si deve [...] ritenere che lo schema tipico del mandato non fosse
esteso a ricomprendere il conferimento di un incarico indirizzato a funzione di
deposito»); in senso contrario vd. B.
Albanese, La sussidiarietà,
cit., 256 ss.
[340] Che manchi la
«caratteristica essenziale del sequestro convenzionale, il deposito a
opera di entrambe le parti» è sostenuto da M. Talamanca, La
tipicità, cit., 92 s.; Id.,
Note su Ulp. 11 ‘ad ed.’
D.4.3.9.3, cit., 197; adesivamente («anomalia rispetto alla
configurazione tipica del sequestro») F.
Gallo, Synallagma 2, cit.,
233; A. Burdese, In margine a D.4.3.9.3, cit., 32; M. Artner, ‘Agere praescriptis verbis’, cit., 165 e ivi nt. 505;
(«era mancato il requisito della duorum
in solidum depositio») F.
Cursi-R. Fiori, Le azioni generali,
cit., 163; diversamente, a una consegna con il consenso di Tizio pensano B. Albanese, La sussidiarietà, cit., 254 («ovviamente con il
consenso di Tizio»); W. Litewski, Studien zur Verwahrung im römischen Recht, Warschau-Kadrau
1978, 59 s.
[341] M. Talamanca, La tipicità, cit., 93; F. Cursi-R. Fiori, Le azioni generali, cit., 162 («contratto [...] parzialmente
a favore di un terzo»).
[342] M. Talamanca, La tipicità, cit., 93
s., il quale osserva come «nel caso in esame, concorrevano taluni dei
requisiti che, negli altri fin qui visti, avevano indotto Labeone a concedere
tale azione: si tratta in primo luogo di una fattispecie di cui non erano stati
integrati esattamente i presupposti»; «in secondo luogo» si
trattava di ipotesi in cui poteva risultare incerto «se si fosse
integrata l’una o l’altra delle due figure»
(sequestro-deposito), infine si trattava di un caso per il quale «la
condizione non si era ancora verificata (come avveniva nei casi già
visti del pactum displicentiae e
della vendita della biblioteca)».
[344] Così M. Sargenti, Labeone, cit., 65 s.; in senso contrario M. Talamanca, Note su
Ulp. 11 ad ed. D.4.3.9.3, cit., 206 e ivi nt. 33, secondo il quale
«non può questo solo frammento assolvere al compito di falsificare
tutti i passi in cui si imputa a Labeone l’utilizzazione dell’agere praescriptis verbis»;
così anche F. Cursi-R. Fiori,
Le azioni generali, cit., 164.
[345] Ritengono che
nella decisione di Labeone di non concedere l’a.p.v. abbia pesato il fatto che il mancato avveramento della
condizione non sarebbe dipeso da Seio: F.
Gallo, Synallagma 1,
cit., 210; Id., Synallagma 2, cit., 232; M. Talamanca, Note, cit., 233
(su cui però vedi infra nt.
succ.); M. Artner, Agere
praescriptis verbis, cit., 79 s. («hat S in D.4.3.9.3 mit dem Ausbleiben der Bedingung nichts zu
tun»); F. Cursi-R. Fiori, Le azioni generali, cit., 164 s., con la
conseguenza che da parte di Seio «non vi era stata alcuna violazione
della buona fede»; scettico al riguardo A.
Burdese, In margine, cit., 35 s., con richiamo a D.19.5.19pr.,
«ove non è espressamente detto che la mancata vendita o la mancata
riscossione del prezzo sia dovuta al contraente».
[346] In particolare M. Talamanca, Note su
Ulp. 11 ad ed. D.4.3.9.3, cit., 232; A.
Burdese, In margine, cit., 35.
[347] Pacifica in dottrina la natura in factum dell’azione: così
M. Talamanca, Note su Ulp. 11 ad ed. D.4.3.9.3, cit.,
232; A. Burdese, In margine, cit., 35 («l’actio sequestrataria, in quanto in factum, non si prestava ad
applicazione estensiva per il tramite del ricorso all’agere praescriptis verbis»);
così anche F. Cursi-R. Fiori,
Le azioni generali, cit., 164 nt. 79;
controversa invece la configurazione dell’actio depositi (non sequestrataria) ai tempi di Labeone: dubbi
sulla natura onoraria (sostenuta tra gli altri da A. Burdese, In margine
a D..4.3.9.3, cit., 38) si trovano in F.
Cursi-R. Fiori, Le azioni generali,
cit., 164 e ivi nt. 79, ove si invoca Lab. 2 phit. D.16.4.34; nello stesso ordine di idee G. Gandolfi, Il deposito nella problematica della giurisprudenza romana, Milano
1976, 88 s.
[349] Nel senso
dell’esistenza di due tipi di actiones
p.v., lo si è visto (supra
nt. 71), B. Schmidlin, Das Nominatprinzip, cit., 91.
[350] E. Betti, Sul valore, cit., 41 nt. 1:
«Dal confronto di Aristo D.19.4.2 e Aristo D.2.14.7.2, risulta come la
costruzione analogistica dei nova
negotia partisse bensì dal concetto unitario di contrahere, quale
categoria generica [...] ma ne’ casi d’applicazione concreta
operasse anche col ravvicinamento a negozi civili singoli».