Le forme del
matrimonio nel diritto romano e nel diritto consuetudinario kazako
Università
Nazionale del Kazakistan “Al Farabi”
Almaty
Accademia
delle Scienze di Russia
San
Pietroburgo
In qualsiasi regolamentazione giuridica il diritto
consuetudinario serve da punto di partenza. Esso è caratterizzato dalla
mancanza di richieste chiaramente formulate nelle disposizioni ben scrupolose e
precise, siccome il diritto consuetudinario definisce i limiti del
comportamento autorizzato.
Nel diritto romano i costumi (“mores”) supplivano alle deliberazioni delle leggi, senza
perdere la loro importanza dopo il passaggio alla normazione del diritto. Nel
diritto kazako i costumi “adat”
sono il complesso della prassi giuridica popolare in diverse settori dei
rapporti patrimoniali e familiari.
La famiglia rappresenta il fondamento di ogni
società. Per comprendere i valori del sistema tradizionale del diritto
bisogna svolgere una profonda analisi degli ordinamenti giuridici che fissano i
rapporti tra i parenti.
I rapporti parentali stanno alla base dell’etnia,
della società, dello stato, prendendo la loro origine dai piccoli
nuclei. Nella struttura tradizionale delle tribù i gruppi di famiglie
parentali esistevano come particelle della tribù, ciò che va
riferito tanto alla storia romana quanto
alla storia politico-giuridica kazaka.
Esaminiamo tratti comuni e quelli distintivi delle forme
matrimoniali secondo il diritto romano e il diritto consuetudinario kazako.
Le Leggi delle XII Tabelle presentano la famiglia romana
severamente patriarcale, sotto il
potere illimitato del capofamiglia, che poteva essere nonno o padre. Questo
tipo di parentela si chiamava agnatizio, da qui tutti i “sudditi”
del capofamiglia erano agnati l’uno per l’altro[1].
Con il trasferimento dell’agnato (l’agnata)
in un’altra famiglia e la sua separazione dalla famiglia di origine
sorgeva la parentela di tipo cognatizio. Così una figlia del
capofamiglia che si sposava cadeva nel potere del marito (oppure del suocero se
questi esisteva), diventando cognata nei riguardi della sua famiglia di
parentela carnale. Anche il figlio che si separava dalla famiglia su permesso
del padre diventava cognato.
E viceversa, il membro di famiglia adottato, cioè
accettato in famiglia, diventava il suo agnato con tutti i diritti relativi,
ivi compreso il diritto su una parte dell’eredità.
La parentela di tipo agnatizio fu di una indiscussa
priorità sulla parentela di tipo cognatizio, vale a dire della parentela
consanguinea, il che tradisce un relitto sopravvissuto dei rapporti tribali.
Dall’antichità a Roma esistevano tre
procedure per concludere il matrimonio: due antichissime e la terza
relativamente recente. Le procedure antichissime si svolgevano in atmosfera
solenne di consegna della donna al potere del marito. Nel primo caso, che era
la confarreatio, le nozze avevano
forma religiosa, in presenza dei sacerdoti si mangiavano le focacce speciali,
mentre la moglie pronunciava un solenne giuramento di seguire il marito
dappertutto[2].
Nel secondo caso che era la coemptio,
le nozze si svolgevano in forma di compravendita della fidanzata mediante mancipatio[3].
Però già nelle leggi delle XII Tabelle si registra
il matrimonio non formale, quello “sine
manu”, cioè “senza
il potere del marito”[4].
Si potrebbe supporre che questo tipo di matrimonio serviva alle famiglie
impoverite del patriziato per unioni con famiglie plebee arricchite. Ma si
tratta solo di una supposizione. Fosse come fosse, proprio questa forma di
matriminio – sine manu –
dava alla donna una grande libertà, incluso il divorzio che non esisteva
nel “matrimonio regolare”.
Divorziando la donna ritirava i beni da lei portati nella
casa come dote, nonché i beni acquistati dopo che si univa in
matrimonio. Con l’andar del tempo il matrimonio sine manu ebbe la massima diffusione. La particolarità
specifica del matrimonio sine manu fu
l’obbligo di rinnovarlo tutti gli anni, altrimenti in conformità alle
leggi il marito riceveva tutti i diritti similmente al conventio in manum per l’usucapione. Per conservare il
matrimonio sine manu la moglie doveva
abbandonare la casa del marito tre giorni prima della data stabilita, recandosi
dai genitori o amici, interrompendo in questo modo la durata
dell’usucapione[5].
Le spese del mantenimento della famiglia spettavano,
naturalmente, al marito, poiché il matrimonio rientrava pienamente nel
regime patriarcale, cioè dalla parte del marito; anche se non si
proibiva di usare la dote portata dalla moglie, che si riteneva
proprietà del marito.
La tradizione antica riferisce il primo divorzio a Roma
all’anno 231 a.C.; però evidentemente le famiglie si disunivano
anche prima. Così nelle Leggi delle XII Tavole si annovera un articolo
che regola questo parte del diritto familiare e matrimoniale. Il divorzio fu
permesso al marito in tutt’e tre forme del matrimonio, per la moglie fu
accessibile solo in matrimonio sine manu.
Per divorziare, al marito bastava dire alla consorte: “Prendi le tue cose
e va via” e toglierle la chiave.
Nell’epoca classica avviene una profonda
trasformazione della famiglia patriarcale. Il matrimonio con il potere del
marito sparisce già nel II secolo d.C.; un anno vissuto dalla moglie
nella casa del marito non aveva come conseguenza il diritto al potere del
marito. Si diffonde il tipo di matrimonio senza il potere del marito (“sine manu mariti”). La donna che
si univa in questo matrimonio non rompeva con la sua vecchia famiglia,
conservando una certa autonomia patrimoniale e acquistando alcuni parziali
diritti sui figli[6].
Il matrimonio senza il potere del marito veniva
facilmente sciolto con il reciproco consenso dei coniugi, ma anche su richiesta
di uno di loro. Sullo sfondo della crisi generale della società
schiavistica, si indeboliscono i legami familiari con i divorzi sempre
più frequenti. Si diffonde largamente il cosìddetto concubinato,
la convivenza permanente dell’uomo con la donna. Per superare i fenomeni
negativi nella sfera della famiglia l’imperatore Agusto emana la legge
che prevede sanzioni contro il celibato e la mancanza di prole. Si dava perfino
la priorità nella carriera a quel console che aveva più figli.
I divorzi sempre più frequenti intaccavano anche
gli interessi delle famiglie benestanti romane, causando l’introduzione
di nuove regole sull’uso della dote per assicurare lo status delle ricche donne romane, le
quali sposandosi divenivano spesso vittime dei mariti interessati. Anche se la
dote continuava ad essere considerata proprietà del marito, questi fu
obbligato a usarla solo per scopi di assetto della vita in due, perdendola nel
caso di divorzio. A partire dal regno di Augusto il marito non poteva alienare
il terreno ricevuto in dote senza il permesso della moglie o dei parenti della
donna(cognati)[7].
Il disfacimento della famiglia patriarcale si esprime
anche nell’indebolimento del potere paterno, mentre si rafforza
l’autonomia patrimoniale dei membri della famiglia soggetti alla sua
potestà. I figli maschi ricevevano spesso dal padre alcuni beni speciali
(il c.d. peculium) per occuparsi dei
lavori agricoli, di artigianato o di commercio. Il padre rimaneva
giuridicamente proprietario del peculium
e di tutto ciò che fu acquistato dal figlio. Ma nella realtà la
disponibilità del peculium si
liberava sempre più dal potere paterno, soprattutto se consisteva in
terreni concessi al figlio che prestava il servizio militare. Praticamente il
figlio riceveva questo terreno come se fosse in “proprietà”,
potendo trasmetterlo ai suoi eredi e, perfino, usarlo per negozi con il proprio
padre[8].
L’organizzazione sociale tradizionale dei kazaki
rappresenta una combinazione dei gruppi tribali legati dalla parentela
genealogica e dei gruppi di ceti fuori genealogia. I rapporti di parentela
regolavano i rapporti reciprici tra i parenti al livello inferiore, regolavano
al livello medio i rapporti dentro la tribù e al livello superiore
regolavano i problemi di stato. Nei vari settori della vita e della
società si usano i concetti: tribù, parenti, cugini, patria,
sette generazioni, patronomia ecc.
Il ricercatore N.I. Grodekov sottolinea così il
rispetto del principio di parentela carnale: «Alla richiesta di
matrimonio non contano le generazioni passate dall’antenato comune dei
due pronubi, siccome è sempre ben noto quali generazioni possono unirsi
in matrimonio, perché rappresentano le settime generazioni o quelle
ancora più lontane dall’antenato comune. Parimenti è ben
noto quali delle generazioni e subgenerazioni non possono unirsi in matrimonio
perché dal momento della loro divisione passarono meno di sette
generazioni»[9].
I rapporti familiari e matrimoniali venivano
regolamentati nella società tradizionale kazaka dalle norme dai capitoli
del Codice Zhety Zhargy[10]:
il secondo capitolo è dedicato alla Legge familiare-matrimoniale, che
stabiliva l’ordine di stipulazione e di scioglimento del matrimonio,
diritti e obblighi dei coniugi, diritti patrimoniali dei membri della famiglia;
il settimo capitolo è dedicato alla Legge sulle vedove, che regolamentava
i diritti patrimoniali e privati delle vedove e degli orfani, nonché gli
obblighi della comunità e dei parenti dei morti nei loro riguardi.
Quella forma di parentela artificiale che esisteva presso
i romani e tanti altri popoli del mondo, non fu conosciuta dai kazaki. Secondo
quanto scrive Ja.S. Smirnova, il fatto si spiega con l’assenza dei
rapporti feudali presso i kazaki, poiché l’adozione dei bambini si
praticava piuttosto nell’ambiente feudale[11].
Anche se il diritto consuetudinario kazako conosceva l’istituto dell’adozione,
si prendevano solo i bambini dei parenti più vicini.
I kazaki avevano di solito una piccola famiglia
individuale che era costituita dai coniugi, dai vecchi genitori e dai figli
ancora non sposati. Una grande famiglia patriarcale contraddiceva le condizioni
particolari dell’economia di allevamento nomade, che richiedeva una
sistemazione dispersiva, soprattutto nel periodo invernale.
Il marito si riteneva capofamiglia con i diritti di
gestire tutti i beni, però mai a danno degli altri membri della
famiglia. Anche la moglie gestiva la proprietà accanto al marito. La
vedova riceveva i diritti di capofamiglia fino all’età maggiore
dei figli maschi a condizione di abitare tra i parenti del marito.
Il modo di vita nomade richiedeva la partecipazione attiva
delle donne all’attività produttiva, ciò che condizionava
la maggiore libertà delle donne kazake in famiglia e nella vita sociale.
Accanto a questo il diritto consuetudinario kazako prevedeva la poligamia. Il
codice adat non limitava il numero
delle mogli, ma in maggioranza le famiglie si componevano di due persone e solo
i kazaki benestanti si permettevano di avere due mogli. Tenere un numero
maggiore di mogli fu cosa rarissima. La prima moglie si chiamava bajbisce e godeva di diritti più
larghi rispetto alla seconda, di nome tokal;
ma vi era l’obbligo che ogni moglie gestisse una propria casa.
Il diritto consuetudinario prescriveva l’autonomia
del patrimonio della moglie, che rimaneva proprietaria della sua dote e del
bestiame che il marito le consegnava nel momento di separazione dei beni
perché lei avesse la propria casa. Il marito non gestiva la dote della
moglie e con il divorzio la dote spettava a lei.
A differenza del diritto romano il diritto
consuetudinario kazako conosceva molti tipi di matrimonio. Il più
diffuso era il matrimonio di kalym,
una forma di riscatto pagato ai genitori della fidanzata. Il matrimonio si
riteneva concluso giuridicamente dopo il pagamento del kalym. Erano i genitori a stipulare il contratto matrimoniale. Su accordo
delle parti il matrimonio poteva essere sciolto a condizione della riconsegna
del kalym ricevuto. La dimensione e
il composizione del kalym variava da
regione a regione; infatti il diritto consuetudinario non stabiliva la misura
del kalym. Il pagamento del kalym si faceva in oggetti o denaro;
poteva essere pagato a rate e si usava anche un kalym simbolico di alcuni animali, il c.d. kalym arrotondato.
Il padre della sposa doveva dare la dote composta di
tutto il patrimonio mobile e immobile. La consistenza della dote non fu mai
stabilito; però la tenda di feltro del matrimonio (jurta) e il capello suakele
erano obbligatori. Di solito oltre questo si aggiungevano vestiti, arredi da
letto e da masseria, bestiame. La misura della dote corrispondeva pressapoco a
quella del kalym.
Il matrimonio senza
kalym si concludeva assai di rado. Di solito gli
affratellati si accordavano per sposare i futuri figli senza pagamento del kalym.
Se si concludeva accordo
di culla la misura del kalym
diminuiva rispetto all’usuale matrimonio.
Il matromonio di
cambio si concludeva con le nozze di due coppie
incrociate e il kalym non veniva
pagato.
Il matrimonio con il
rapimento otteneva diversi apprezzamenti
dall’adat. Il rapimento della sposa richiesta, cioè eseguito da uno
sposo che aveva già pagato il kalym,
non fu considerato un grave delitto. La faccenda si concludeva con la
pacificazione. Ma il rapimento della sposa richiesta chiesta da un altro era
considerato un delitto molto grave. Se la sposa rimaneva con il rapitore, si
pagava il kalym di in misura doppia,
ma se lei tornava dal suo sposo si pagava una multa pari al kalym. Il rapimento della sposa non
ancora richiesta col suo accordo, poteva essere sanato dal perdono dei genitori
della sposa e dal pagamento di una multa. In questo caso seguiva la procedura
della richiesta della sposa e di un matrimonio normale, però il padre
della sposa aveva diritto di rifiutare la dote. Il rapimento senza il consenso
della sposa si riteneva un grave delitto e il colpevole pagava una grossa
multa.
Il matrimonio a
prestazione di lavoro si praticava dagli
uomini rimasti senza parenti. Il futuro sposo lavorava nella famiglia della
sposa fino a pagare il riscatto rimanendo dopo le nozze nell’aul (villaggio) del suocero.
Levirat, oppure costume di amergher,
fu una antichissima forma di matrimonio. La vedova dopo la morte del marito
doveva sposare entro un anno uno dei fratelli del marito. Lo scopo di questa
forma di matrimonio mirava a conservare l’economia familiare evitando il
frazionamento dei beni, al tempo stesso faceva si che i figli restassero nella
comunità del padre defunto. Il diritto consuetudinario prevedeva anche
le altre possibilità. La vedova poteva sposare un estraneo, privandosi
in quel caso dei diritti sui figli e il suo nuovo sposo doveva pagare il
riscatto all’amengher.
Morta la moglie, il marito aveva diritto di sposare la
sorella minore della moglie se non ancora promessa in matrimonio. Era
matrimonio di sororat. Però
suo padre poteva rifiutare a darla in sposa perché il diritto di sororat
non era obbligatorio nello stesso modo di quello di levirat.
Oltre ai tipi principali di matrimonio, presso i kazaki
nei secoli XV-XVIII si praticavano i matrimoni
con le prigioniere prese in guerre. Fu la procedura semplificata, senza kalym e dote. Le prigioniere vivevano
spesso con i diritti delle concubine diventando mogli legittime solo dopo la
nascita dei figli[12].
Il diritto consuetudinario ametteva lo scioglimento del
matrimonio su volontà del marito nel caso dell’infedeltà
della consorte, oppure per i motivi della «mancanza di rispetto».
In questo caso il marito permetteva alla donna di tornare dai genitori con una
parte della dote, oppure insieme ai figli con la dote riconsegnata. Le norme
dell’adat ammettevano il
divorzio su iniziativa della donna esclusivamente in due casi: se il marito era
evidentemente impotente o se seviziava la moglie in modo abituale.
Quindi il diritto consuetudinario dei kazaki nei rapporti
familiari e matrimoniali si adattava all’economia mezzo nomade di
allevamento del bestiame e corrispondeva ai rapporti socio-economici dominanti
nella società.
Per regolare i rapporti sociali venivano usati tre tipi
di legami di parentela: primo – i parenti del padre; secondo – la
parte materna; terzo – la parte del marito. Questi rapporti valevano non
solo per i problemi tra i parenti, ma anche per i problemi di dimensione
regionale.
Nella storia dell’umanità fu sempre di
grande importanza il sistema dei divieti matrimoniali, che funzionava come
strumento per regolare le società nella diverse tappe del suo sviluppo.
Il divieto dell’incesto tra i parenti vicini e lontani servì, in
conseguenza, da base per le norme di esogamia. Nella società kazaka,
l’adempimento di queste norme rimaneva sotto il più attento
controllo. La struttura formale dell’etnia, basata sul fondamento della
parentela, non ne ammetteva la minima deviazione. Le norme di esogamia
risultarono sempre presenti nel diritto consuetudinario dei kazaki, il quale
comminava severissime pene nel cado di simili infrazioni.
Le violazioni della norma relativa all’esogamia
“zheti ata” venivano severamente disapprovate dalla società.
Le pene previste potevano giungere fino alla cacciata dalla comunità;
tuttavia, l’allentarsi delle consuetudini giuridiche tradizionali rese
quelle pene sempre meno severe. Per la moderna società kazaka il divieto
di matrimonio fino alla settima generazione rimane sacrosanto. Nella famiglia
moderna tutti i membri sono obbligati a conoscere bene l’albero
genealogico fino alla settima generazione. Il mancato rispetto delle tradizioni
e l’ignoranza nei riguardi delle sette generazioni sono disapprovati
dalla società. Si dice: chi non conosce le sette generazioni viene
chiamato ignorante, mentre quello che le conosce avrà cura non solo
dell’albero genealogico, ma della sorte di sette paesi.
In questo modo le differenze nella regolazione giuridica
del matrimonio e le sue forme secondo il diritto romano e quello kazako si
spiegano con la diversità delle fondamenta economiche. Però, ad
ogni modo, lo scopo principale del matrimonio è conservare famiglia e
patrimonio, difendendo al tempo stesso gli interessi del parentado.
[1] D. 50, 16, 195, 2; Pokrovskij
I.A. Osnovnye problemy
graždanskogo prava. Mosca: Statut,
1998, 163; Pokrovskij I.A. Istorija
rimskogo prava. Mosca: Statut,
2004, 457-458, Doždev D.V. Evoluzija
vlasti domovladyki v drevnejšem rimskom prave // Gosudarstvo i
pravo. 1990. № 12, 11.
[4] Leges
XII tabularum, 6.5; Sohm R. Instituzii. Učebnik istorii i
sistemy rimskogo graždanskogo prava. San Pietroburgo.
1910. § 93, 309.
[9] Grodekov N.I. Kirghisy i kara-kirghisy Syr Daryinskoj oblasti.
Juridiceskij byt. Tashkent, 1889. V.1, 270-289.
[10] Abil E. Istoria gosudarstva i prava Respubliki Kazachstan s
drevnejšich vremen do načala XX veka. Astana 2000, 118-123.
[12] Abil E. Istoria
gosudarstva i prava Respubliki Kazachstan s
drevnejšich vremen do načala XX veka, cit., 118-123.