ds_gen N. 6 – 2007 – Monografie

 

 

Cap. I della monografia: Maria Antonietta Foddai, Sulle tracce della responsabilità. Idee e norme dell’agire responsabile, [Recta Ratio, Quinta serie - 5] Torino, G. Giappichelli, 2005, pp. XVIII-414.                                      Indice Sommario

 

 

 

http://www.dirittoestoria.it/3/Strumenti/Bibliografie/Foddai-CV-2004_file/image004.jpgMaria Antonietta Foddai

Università di Sassari

 

Tracce di responsabilità

 

Sommario: 1.1. Responsabilità: una storia moderna? - 1.2. Virtù competitive e virtù cooperative nella Grecia antica. – 1.2.1. Areté e agathòs una storia moderna? – 1.2.2. Etica e ruoli. - 1.2.3. Il controsenso omerico e la responsabilità di Agamennone. - 1.2.3.1. Tentativi di spiegazione. – 1.2.3.2. Volontà e sorte morale. – 1.2.4. Shame-culture e guilt-culture. – 1.2.5. Dal mondo eroico all’Atene del Liceo: le variazioni della responsabilità. – 1.2.5.1. Genitori delle proprie azioni.

 

 

1.1. – Responsabilità: una storia moderna?

 

Gli argomenti trattati nell’introduzione ci inducono a considerare il concetto di responsabilità come un prodotto culturale dell’età moderna. La mancanza di un equivalente semantico, che si spinge ben oltre l'antichità classica e l'età medievale fino alle soglie dell'illuminismo, segnala l'assenza di quei bisogni ed esigenze che si coagulano intorno alla nascita di una nuova parola. Il termine responsabilità, come aveva notato per primo Levy Bruhl, non indicherebbe la nuova veste semantica di un concetto noto, ma l'esigenza di definire nuovi significati dell'agire umano sconosciuti alla tradizione precedente.

Ma, d’altra parte, a ciò si può obiettare che dalla filosofia aristotelica e dalla sapienza giuridica romana derivano alcuni dei principi su cui si fonda il nostro attuale sistema di responsabilità, e che il filo di continuità rappresentato da respondeo e dai suoi derivati moderni è il veicolo di un nucleo antico di senso che si ripresenta in alcune norme del diritto e in alcuni significati in uso. L’idea di Aristotele, secondo cui l’uomo è genitore delle proprie azioni, costituisce il presupposto del concetto di responsabilità, così come l’idea che ciascuno debba essere garante del proprio e dell’altrui agire, e pronto a risponderne davanti alla comunità, è stata progressivamente raffinata dai giuristi romani

É opportuno precisare, quindi, in che senso si può parlare di un concetto moderno di responsabilità, e in quali direzioni siano stati recisi i fili della tradizione. Se, infatti, non possiamo affermare che l’idea di responsabilità fosse sconosciuta al mondo antico, tuttavia dobbiamo notare che né i greci né i romani sentirono il bisogno di racchiudere in un sostantivo astratto le regole e i principi dell’agire responsabile.

Arthur Adkins, nella sua ormai celebre analisi semantica delle principali opere della letteratura greca antica si è spinto ben oltre la constatazione di una semplice deficienza terminologica, arrivando a sostenere che dalla mancanza di un intero corredo di termini, frasi e valutazioni, si deve giungere alla conclusione che l'etica greca non conosceva il concetto di responsabilità morale[1].

In realtà, come vedremo nei prossimi paragrafi, Adkins intende dire che l’etica greca non conosceva quel particolare concetto di responsabilità, frutto dell’etica kantiana, nel quale riconosciamo uno dei tratti distintivi della cultura occidentale. E’ per questa ragione che la ricerca di un termine che abbia lo stesso spessore semantico si rivela vana.

L’operazione di Adkins consiste nel tentativo di sovrapporre una griglia di concetti e principi a un sistema che, per la visione del mondo che esprime, semplicemente è incapace di riconoscerli. Il mancato riconoscimento del valore di un concetto come quello di responsabilità morale consente di cogliere dei tratti fino allora ignorati negli studi sull’etica e la società ateniese: «Se possiamo scoprire perché il concetto di responsabilità morale è così irrilevante per i Greci, dice Adkins, riusciremo a comprendere quindi la differenza tra i due sistemi morali ed a individuare la natura di ciascuno di essi»[2].

La radicale differenza, individuata tra il sistema greco antico e quello kantiano moderno di credenze morali, non nasconde tuttavia una persistenza e una continuità in alcuni degli aspetti del nostro sistema di responsabilità. Alcuni dei principi dell’etica greca, così come del pensiero giuridico romano, compongono la trama del nostro agire, talvolta in contrapposizione o in aperto antagonismo con altri derivati dal cristianesimo e dal giusnaturalismo moderno. Questa coesistenza di strutture di pensiero diverse, nel variegato panorama della responsabilità contemporanea, è probabilmente la ragione delle opposte interpretazioni delle sue origini concettuali. Così, di fronte allo spartiacque rappresentato dalla nascita del termine in età moderna, Villey e Ricoeur si dividono sull’interpretazione del ruolo svolto dal pensiero dell’antichità, sostenendo il primo che il vero antenato culturale della responsabilità è il diritto romano[3], e il secondo, all’opposto, che la responsabilità non può vantare alcun antenato concettuale nell’antichità[4]. Il fatto che entrambe le interpretazioni siano plausibili e contengano, come vedremo, aspetti convincenti, ci fa tuttavia dubitare dell’adeguatezza di un metodo che procede per dicotomie, imponendo la scelta tra un percorso interpretativo che enfatizzi il retaggio della tradizione, e uno che rivendichi il moderno come esclusivo terreno di crescita della responsabilità.

A questo metodo dogmatico, è forse più utile sostituire un approccio dialettico, che interpreta i segnali di continuità nella storia dell’idea di responsabilità come la coesistenza di più sistemi di valori e credenze appartenenti a visioni del mondo differenti e a volte inconciliabili, che entrano in conflitto generando dilemmi morali e differenti teorie. Non è detto, infatti, che l’evoluzione della responsabilità sia raffigurabile come una linea dritta e netta, rappresentabile come una successione di idee e pratiche, secondo un’ordinata sequenza temporale; è forse più probabile che, come una corrente che trascina idee e credenze contrapposte, le norme e i principi della responsabilità si siano formati su un insieme eterogeneo di credenze e strutture narrative. Ad una concezione veteropositivistica che raffigura l’idea della responsabilità come uno sviluppo lineare, continuo e cumulativo, bisogna forse affiancare l’idea della responsabilità come una ciclica riproposizione di istanze conflittuali.

Questo aspetto, che farebbe della ‘disarmonia’, presente nella nostra etica storica, uno dei principi di spiegazione dell’incongruenza del sistema pratico di responsabilità, non è stato probabilmente sottolineato a sufficienza. La storia della responsabilità, intesa come istituzione, viene generalmente raffigurata come un chiaro processo unidirezionale, che va dall’età d’ombra della responsabilità di gruppo a quella luminosa del dovere dell’individuo di rispondere per i propri atti, spostando progressivamente l’attenzione dall’atto delittuoso all’agente[5]. Ciò che attira la nostra attenzione è che nella ricostruzione si va da un meno a un più valorativo, da un peggio a un meglio etico e giuridico, assumendo surrettiziamente il modello contemporaneo e moderno di responsabilità come il più consono e adeguato a un’idea assoluta di perfezione sociale e umana, invece che il più adeguato a quell’idea umana espressa dall’età moderna[6].

Nel solco del pensiero romanistico dell’Ottocento, le ricerche sul pensiero giuridico[7]descrivono questo processo di elaborazione e sviluppo come un progresso etico, che va dal gruppo all’individuo, dall’assimilazione del valore del singolo nell’indistinto plurale del gruppo, all’affermazione della persona e delle sue prerogative. Illustrando questo processo, Henriot, distingue quattro fasi nello sviluppo istituzionale della responsabilità[8].

Nella prima, detta di umanizzazione, si abbandona la pratica di punire gli animali, i cadaveri e gli oggetti inanimati, per attribuire la responsabilità all’essere umano, riconosciuto come unico possibile soggetto d’imputazione.

La seconda consiste in un processo di individualizzazione, che vede il passaggio dalla responsabilità di gruppo, o oggettiva, alla nozione di responsabilità individuale. La responsabilità di gruppo si sviluppa in un contesto in cui la famiglia o il clan rappresentano il principale riferimento per il singolo, la cui identità deriva dalla sua appartenenza a un gruppo determinato.

Il ruolo del gruppo è sia quello di preservare la sua compattezza e unità, proteggendo ciascuno dei suoi membri da ingiustificate aggressioni, sia quello di offrire una garanzia sociale di affidabilità, assicurando il danneggiato della certa riparazione del danno. Come scrivono Stein e Shand, citando le antiche consuetudini anglosassoni « Se un uomo perde il senno o il giudizio, e caso voglia che uccida qualcuno, lasciate che i suoi congiunti ripaghino la vittima ed esonerino l’omicida dai relativi obblighi. Se poi viene ucciso, prima ancora che sia reso noto se i membri del suo gruppo sono disposti ad intercedere in suo favore, coloro i quali lo hanno ucciso saranno responsabili nei confronti dei suoi familiari.»[9]. La solidarietà del gruppo familiare, oltre a prevedere una forma di responsabilità in solido che impegna tutti i suoi membri, si traduce nell’ereditarietà della colpa e nel differimento della punizione. É quanto avviene nella Grecia arcaica[10], in cui, scrive Dodds, «(...) la famiglia era un’unità morale, la vita del figlio un prolungamento della vita paterna, e i debiti morali del padre si ereditavano precisamente come si ereditavano quelli pecuniari»[11]. Ma non solo arcaica: nelle opere dei grandi tragici del V secolo i protagonisti debbono espiare le colpe familiari, o i crimini provocati dalla necessità. Sebbene si lamenti l’ingiustizia dell’innocente, non si mette in dubbio tuttavia che egli debba pagare per le colpe del padre o dei suoi antenati. Si tratta di una concezione profondamente radicata e accettata come una legge naturale, derivante da un ordine cosmico in cui la giustizia è rappresentata da potenze divine che agiscono arbitrariamente, e in cui l’offesa agli dei deve essere comunque ripagata[12].

In questa fase non si registra ancora una chiara distinzione tra la responsabilità civile e quella penale; nell’ambito del diritto romano ad es., il furtum veniva generalmente perseguito con un’azione civile proposta dal derubato, ma si poteva anche procedere con un’azione penale[13].

La terza fase, che coinciderà con lo sviluppo del pensiero cristiano e del giusnaturalismo moderno, viene detta di interiorizzazione. Questo è il processo in cui si compie lo spostamento definitivo dall’azione all’agente, dalle condizioni esterne della responsabilità alla sua condizione interna, dal mero nesso causale alle condizioni soggettive d’imputazione. Per individuare il soggetto responsabile non è più sufficiente stabilire chi ha causato l’evento dannoso o delittuoso, ma occorre individuare la volontà a cui è possibile imputare l’atto[14].

L’ultima fase storica dello sviluppo della responsabilità, che si collocherebbe intorno all’Ottocento, è quella della civilizzazione, che vede il definitivo distacco di una responsabilità civile da una responsabilità penale e che progressivamente allontanerà il concetto di responsabilità da quello di colpevolezza[15]. Sia l’accertamento della responsabilità, sia la sanzione, assumono caratteri distinti in ciascuno dei due ambiti.

In questa concezione evolutiva della responsabilità le fasi si succedono l’una all’altra, secondo uno schema in cui la successiva sembra sostituire integralmente quella precedente, che appare non solo remota nel tempo, ma anche nell’immagine individuale e sociale che ci propone. La responsabilità si scioglie progressivamente dai lacci di un mondo arcaico, che sembra elaborare un’idea approssimativa, imprecisa e grezza di responsabilità, in cui l’individualità è sfumata nell’identità del gruppo e l’individuo si rivela al mondo con le sue azioni, per raffinarsi e perfezionarsi nell’età moderna come una prerogativa del soggetto, le cui intenzioni sono lo specchio di un universo morale definito dalla coscienza. A ciascuna di queste fasi corrisponde una differente visione del mondo e del ruolo che il soggetto ha in esso; un diverso schema di credenze, che determina il concetto di bene e male, giusto e ingiusto, avrebbe sostituito quello precedente.

Tuttavia, sembra improbabile che la differente struttura di valori e norme, che corrisponde a ciascuna di queste fasi, abbia cancellato quella precedente, sostituendola integralmente. E’ più credibile un processo di sovrapposizione, in cui elementi arcaici sopravvivono, a volte integrandosi armonicamente, altre configurandosi invece come elementi disgreganti, nella nuova trama dell’agire. Come suggerisce Dodds, a proposito dei movimenti religiosi che attraversano la civiltà greca, si tratta di uno sviluppo che procede per agglomerazione, e non per sostituzione: «Un nuovo schema di credenze raramente cancella del tutto lo schema precedente: o l’antico sopravvive come elemento del nuovo (elemento talvolta inconfessato e quasi inconscio), oppure ambedue sussistono uno accanto all’altro, logicamente incompatibili, ma accettati contemporaneamente da persone diverse, od anche dalle stesse persone.»[16]. L’argomento interessante suggerito da Dodds è la coesistenza nella stessa struttura narrativa di strumenti logicamente incompatibili, che svolgono tuttavia una funzione nell’elaborazione del sistema di valori che orientano l’agire.

Sembra probabile che la nostra idea di responsabilità, come si è affermata nel diritto e nella morale sociale, contenga, all’interno di un sistema in cui dominano il principio individuale, l’idea della colpa morale e il concetto di retribuzione, anche elementi di un’etica antica, che impongono la solidarietà del gruppo, il rispetto degli impegni assunti con la parola, e il dovere di rispondere per altre persone, così come, in alcuni particolari casi, per le proprie azioni involontarie[17].

Gli schemi offerti dalla civiltà greca, e dal diritto romano ci mostrano infatti aspetti che, sotto la coltre rassicurante dell’etica illuminista della ragione kantiana, plasmata dal pensiero cristiano, ritroviamo in alcune forme della responsabilità contemporanea.

 

 

1.2. – Virtù comparative e virtù cooperative nella Grecia antica

 

E’ molto difficile, per uomini e donne allevati nell’etica moderna occidentale, accettare l’idea che possano esistere una società e una lingua in cui risulta impossibile tradurre il concetto di dovere morale e responsabilità, con un termine che abbia lo stesso peso semantico e ambito espressivo. Per ciascuno di noi, la responsabilità morale è uno di quei principi senza i quali non riusciamo a concepire un sistema di relazioni, ordinato secondo una scala di valori; «Sotto questo rispetto, almeno, scrive Adkins, noi tutti siamo oggi kantiani»[18]. Eppure l’etica greca sembrava ignorare, o considerare irrilevante, il concetto di responsabilità morale. Sembra paradossale, sostiene Adkins, che uno dei nostri principali antenati culturali non tenga nella minima considerazione il principio cardine dell’etica moderna occidentale[19]. Egli segnala, infatti, una carenza semantica relativa all’insieme di termini e frasi che denotano obbligo e responsabilità morale, alla quale corrisponde una particolare intuizione del mondo sociale, e del tipo di rapporti che in esso si svolgono. In questa rappresentazione, che costituiva il mondo dell’uomo greco, non trova spazio un giudizio che loda o biasima le azioni e i loro risultati sulla base delle intenzioni, né, di conseguenza, appare rilevante la causa dell’errore, o la distinzione tra errore e colpa morale.

Nella narrazione omerica, il dovere di rispondere per i propri atti, talvolta indotti dalla forza irresistibile di un dio, viene riconosciuto come ‘naturale’, stabilito nell’ordine che governa l’universo umano. La volontà del singolo non è un elemento che può essere concepito al di fuori delle circostanze nelle quali si è manifestata, ma s’intreccia alla volontà degli déi, e agli eventi che ne compongono il destino individuale. Questo elemento costituisce, per Adkins, il criterio distintivo tra la nostra idea di responsabilità morale e l’obbligo di rispondere per i propri atti, vigente nel mondo greco, che solo a partire dal V secolo a.C. comincerà a introdurre la responsabilità morale nella visione etica dominante[20].

Per giustificare le sue conclusioni, egli spiega che una ricerca sulla responsabilità non può portare a risultati fecondi se non si considerano i criteri di valore morali e pratici, condivisi in un determinato contesto sociale, su cui si modella il relativo concetto di responsabilità: «Indubbiamente il concetto di responsabilità morale non può avere priorità logica in ogni sistema morale. Cioè, non può assumere una forma alla quale tutti gli altri concetti debbano adattarsi. Tutto il contrario: è in virtù di altri generali criteri di valore - sia morali, che (apparentemente) pratici- che il concetto di responsabilità morale assume la forma che ha in determinate società»[21]. Adottare una griglia interpretativa in cui alla responsabilità si assegna una priorità logica su tutti gli altri concetti morali conduce a risultati incoerenti e scarsamente efficaci; bisogna invece procedere con un cammino inverso, partendo dalle concezioni di sfondo che, fornendo il concetto di azione e agente, determinano i criteri di valutazione. Nessuno di noi sarebbe in grado di esprimere un giudizio morale su un’azione, e stabilire la responsabilità o meno del suo agente, unicamente sulla base di ciò che ha visto coi propri occhi, dovremmo confrontare quella particolare azione con un sistema di valori che ci fornisce i criteri di valutazione intorno all’azione e al comportamento dell’agente.

Allo stesso modo, il significato di un termine che esprime un concetto di valore, come il greco αρετή, si troverà guardando a quali comportamenti il termine si riferisce; se la parola rimane invariata, ma cambiano radicalmente le circostanze a cui si riferisce, cambierà anche il suo significato[22].

E’ necessario considerare quello che Charles Taylor ha chiamato il «quadro di riferimento»[23], quel particolare sistema costituito da distinzioni qualitative, che compone lo sfondo, esplicito o implicito dei nostri pensieri, sentimenti, giudizi. «Esplicitare un quadro di riferimento significa illustrare ciò che dà senso alle nostre risposte morali. Ossia: quando cerchiamo di spiegare che cosa presupponiamo quando giudichiamo degna una certa forma di vita, quando identifichiamo la nostra dignità con il conseguimento di un certo risultato o di un certo status o quando definiamo in un certo modo i nostri obblighi morali, non facciamo altro che esplicitare, tra le altre cose, quelli che ho chiamato “quadri di riferimento”.»[24] E’ quindi la particolare visione del mondo, composta da credenze teologiche, sociali e psicologiche, che deve essere tenuta presente quando cerchiamo di capire in cosa consiste il sistema di responsabilità in una particolare cultura.

Le ragioni per cui si è ritenuti meritevoli o colpevoli, lodati o biasimati, puniti o premiati sono determinate da un sistema di priorità e di valori, che possiamo scoprire attraverso i termini impiegati nella lingua per esprimere approvazione e disapprovazione, in riferimento alle azioni e alle persone. Sembra chiaro che le parole utilizzate per esprimere il più alto grado di apprezzamento, riferito a un uomo e alle sue azioni, indichino l’insieme di valori dominante. Nel corso dei secoli si registrano importanti cambiamenti nell’impiego degli stessi termini, che mutano progressivamente di significato. Come vedremo, al tempo di Omero αγαθός indica l’uomo forte e coraggioso, a quello di Aristotele indica –anche- l’uomo giusto.

Attraverso queste modificazioni semantiche si nota il lento, ma graduale, passaggio da una concezione etica ad un’altra, da un mondo di responsabilità oggettiva, in cui l’azione viene imputata sulla base del suo risultato, ad uno di responsabilità soggettiva, in cui rileva la considerazione della volontà, come mostrerà Aristotele[25].

Per scoprire la distanza tra il nostro e il loro sistema etico, Adkins propone un’originale chiave di lettura che gli consente di esplorare sistematicamente il territorio dei valori greci, separando i valori del merito da quelli della responsabilità.

Nel generale sistema che compone l’orizzonte etico dei Greci, egli individua due gruppi di virtù, definite come virtù competitive e virtù cooperative[26]. Le prime esprimono l’onore, il coraggio e la forza del cittadino che è in grado di difendere e salvaguardare la sicurezza della πολις, e comprendono termini come «successo», «riuscita» e «capacità».

Le seconde si riferiscono alla lealtà, alla moderazione e alla giustizia dell’uomo che agisce all’interno di una comunità, in cui ciascuno collabora con gli altri, perseguendo uno scopo comune; in esse prevalgono termini quali «intenzione», «accordo» e «moderazione», quelle qualità necessarie a instaurare e conservare un sistema di relazioni basato sulla cooperazione, che definiremmo orizzontale.

Le virtù competitive privilegiano all’opposto una struttura verticale e rigidamente gerarchica, che è strettamente legata alle particolari condizioni politiche che caratterizzarono la vita delle città-stato greche. Adkins le definisce come virtù «maggiori», per indicare che esse rappresentano il sistema valutativo dominante nella civiltà greca, almeno fino al V secolo, quando cominceranno ad osservarsi alcuni rilevanti cambiamenti nel pensiero ateniese. Ma, avverte Adkins, «Gratta la figura di Trasimaco e troverai il re Agamennone»[27], per sottolineare che i valori competitivi, così mirabilmente tracciati da Omero, sono presenti e ancora profondamente radicati dopo tre secoli, e che Socrate e Platone rappresentano il vero punto di rottura con la tradizione.

Le «virtù minori»[28], e con esse il sistema di valori che ruota intorno all’idea di giustizia, si affermeranno infatti progressivamente a partire dal IV secolo, in cui riscontriamo le mutate condizioni politiche di Atene, con l’affermarsi della democrazia. Potremmo dire, semplificando, che le virtù competitive sono i valori di una società guerresca, e che all’opposto le virtù cooperative sono i valori della pace[29].

La transizione dal sistema di virtù competitive a quello di virtù cooperative sarà graduale e incompleta: nella vita etica dell’Atene di Platone e Aristotele, l’ideale dell’uomo giusto dovrà confrontarsi con quello aristocratico dell’uomo forte e coraggioso, che risulterà prevalente nella concezione popolare. Le virtù competitive corrispondono, infatti, a quella che chiameremmo un’etica del successo[30], in cui solo chi risulta vincente, realizzando gli obiettivi della πολις, è meritevole di onore e fama.

«Essere sempre il primo e mirare a superare gli altri»: è con questa esortazione, nota Burckhardt nel suo monumentale trattato sulla civiltà greca, che Glauco e Achille vengono mandati alla guerra dai loro padri, che esprimono la concezione dominante in tutta la civiltà greca, dall’età arcaica fino a quella classica[31].

 

 

1.2.1. – Areté e agathòs una storia moderna?

 

Il sostantivo αρετή e l’aggettivo αγαθός sono i due termini che esprimono il più alto grado di considerazione riferito a un uomo. Nel corredo semantico che tratteggia l’etica greca, essi indicano il possesso di quelle doti che sono considerate più importanti rispetto a qualunque altra, e stabiliscono, con un buon grado di approssimazione, la distanza tra il nostro punto di vista morale e il loro.

Il termine αρετή, che noi traduciamo comunemente con virtù[32], esprime un concetto molto distante da quello che intendiamo oggi con l’espressione vita virtuosa[33]. L’αρετή non implica infatti il compimento di un’azione buona o giusta, ma indica piuttosto l’eccellenza in ogni campo[34]. Allo stesso modo αγαθός, che noi traduciamo col termine buono, non indica un individuo mosso alla pietà, alla compassione e alla giustizia, quanto piuttosto un uomo fisicamente forte, valoroso e coraggioso in battaglia, astuto e pronto nell’ingegno: «(...) esso significa ora nobile, ora prode o valente, laddove non ha l’ulteriore significato di “buono” in generale, così come areté non ha quello di virtù morale.», scriveva Jaeger[35]. Non corrisponde certo al nostro ideale di umanità quello dell’uomo greco, la cui forza fisica, coraggio e astuzia sono tenute nella massima considerazione. Sono queste le qualità necessarie per poter prevalere e ottenere così la fama e il rispetto.

Anche Snell, che assegna ai termini considerati un ruolo determinante per cogliere i mutamenti nell’etica greca, sostiene che l’impiego di αρετή e αγαθός in origine non ha niente di morale, ma indica un criterio funzionale al sistema di vita sociale e politico che Omero ci descrive: «Quando Omero dice che un uomo è αγαθός (buono), non intende dire che è moralmente irreprensibile oppure di buon cuore, bensì utile, valido, capace, ciò che noi diciamo di un buon guerriero o di un buon arnese. Così la parola αρετή (virtù) non si riferisce alla vita morale, ma indica nobiltà, capacità, successo, imponenza.»[36].

Il significato fondamentale di αγαθός è quindi quello di capacità, abilità di riuscita; l’ανήρ αγαθός è un uomo ‘bravo a fare le cose’, più che un uomo buono verso gli altri. Quest’ultimo aspetto, che evoca il sistema minoritario delle virtù cooperative, non è rilevante ai fini della definizione dell’αγαθός; egli, infatti, conserva le sue prerogative pur in presenza di comportamenti che noi definiremmo ingiusti e scorretti e che, ai nostri occhi, non permetterebbero di considerare l’uomo che li compie come buono e degno del massimo rispetto.

Adkins riporta diversi esempi a conferma del fatto che la mancanza di alcune qualità come la giustizia, la compassione o quella che noi chiameremmo la bontà d’animo, non è considerata rilevante nel tributare onore e fama a un uomo[37]. I corteggiatori di Penelope, che organizzano un complotto per ucciderne il figlio Telemaco, vengono ciononostante denominati αγαθοι, sebbene il loro comportamento vada contro le regole sociali comunemente accettate. Per essere αγαθός non bisogna dimostrare di avere quelle qualità che appartengono al sistema delle virtù minori; anzi, l’ αγαθός può compiere azioni malvagie senza per questo meritare l’appellativo di κακος, che indica chi merita il disprezzo per ciò che ha fatto.

Agamennone, che sottrae la schiava Briseide ad Achille, scatenandone l’ira funesta, si comporta in modo ingiusto; egli, infatti, porta via a un aristocratico, del suo stesso livello sociale, la sua preda di guerra, legittimamente conquistata sul campo di battaglia. Tuttavia egli rimane un αγαθός, e Achille deve riconoscerne il valore. In questo caso Adkins fa notare che Achille non ha argomenti per contrastare il diritto di Agamennone a comportarsi secondo le sue prerogative, sebbene lo stesso Agamennone riconoscerà più tardi di averne abusato[38].

Così, quando Achille farà scempio del cadavere di Ettore, trascinandolo intorno alle mura di Troia, Apollo dirà che il suo comportamento va contro le regole, e che potrebbe scatenare l’ira degli dei, tuttavia nessuno dirà ad Achille che non ha diritto di farlo, e che la sua azione farà ricadere la vergogna su di lui. Manca un sistema di valori più elevato cui appellarsi per vietare questi comportamenti.

Ma questi valori, che per noi sono così distanti, e a volte incomprensibili nel loro primato etico, non sono un frutto casuale o arbitrario delle convenzioni sociali: sono strettamente collegati a quel tipo di società e alle sue esigenze. Viene premiato il successo e disprezzato l’insuccesso in guerra, perché dal primo viene la salvezza e dall’altro la morte e la rovina; dinanzi ad esse le giustificazioni della sconfitta sono inutili, così come non sono rilevanti le ragioni della vittoria. Vengono esaltati il coraggio e la forza, perché da essi derivano la garanzia di una buona difesa e di una prosperità economica. «Vivere è una questione di ingegno e coraggio; dice Adkins, quindi ingegno e coraggio debbono essere molto apprezzati»[39]. In conclusione, possiamo dire che vengono celebrate le qualità che una società precaria, come quella descritta da Omero, ritiene essenziali per la propria sicurezza.

Come scrive MacIntyre, nella società eroica non è possibile separare il sistema delle virtù dal tipo di organizzazione sociale che le esprime, l’una e le altre si presentano strettamente intrecciate: «(...) nella società eroica, etica e struttura sociale sono di fatto una cosa sola. C’è soltanto un insieme di vincoli sociali. La morale come qualcosa di autonomo non esiste ancora. Le questioni assiologiche sono questioni di dati di fatto sociali.»[40].

E’ per questa ragione che è così difficile concepire, nel corpo unitario dell’ηθος, l’idea di una responsabilità soltanto morale, come pretende di trovare Adkins, e non anche sociale, giuridica e politica, per usare le nostre attuali classificazioni in materia. In questo modo, come vedremo, è relativamente agevole pronunciarsi per la mancanza di un sistema di responsabilità morale. L’uso della distinzione kantiana tra valori morali e non-morali[41], cui Adkins ricorre nella sua opera, trascura un elemento che ci sembra di estrema importanza per capire la particolare forma della responsabilità che andiamo cercando: l’etica greca comprende valori morali e non-morali, ignorando la distinzione tra quelle norme che possiamo definire morali, e solo morali e quelle norme definibili come giuridiche e solo giuridiche[42].

«I testi greci non conoscono queste differenze.- Scrive Martha Nussbaum – Essi cominciano dalla questione generale: “Come dovremmo vivere?” ed accettano che tutti i valori umani pretendano di far parte costitutiva della vita buona; essi non presumono che ci sia un qualche gruppo dotato di una pretesa prima facie ad essere supremo.»[43] Se infatti adottiamo la visione kantiana della vita morale come chiave di lettura del pensiero greco sui problemi della vita pratica, possiamo dire, con le parole di Nussbaum che «I Greci non si trovano in buone acque. (...) é come se si trovassero in difficoltà perché non hanno scoperto ciò che ha scoperto Kant, come se non avessero saputo ciò che tutti noi kantiani ben sappiamo.»[44] Considerare brevemente che cosa intendiamo con etica greca ci aiuta a riconsiderare sotto un’altra luce la fuorviante conclusione, che apre il volume di Adkins, che l’etica greca non conosceva il concetto di responsabilità morale[45].

 

 

1.2.2. – Etica e ruoli

 

L’ηθος greco racchiude l’insieme delle regole di comportamento sociali e individuali, che potremo definire culturali, comuni a tutti, e che tutti devono conoscere. Uno dei caratteri costanti della civiltà greca, che rimane invariato nel corso della sua storia secolare, è il ruolo centrale che i valori e le norme morali hanno nella gestione della vita individuale e comunitaria. La società greca, nota Vegetti, non ha mai avuto uno stato o una magistratura coercitiva, o strutture sociali e religiose che, in forme diverse, imponessero norme di condotta e stili di vita omogenei alla popolazione. Questa funzione di amalgama del tessuto sociale è stata svolta da una serie di diversi «agenti morali», quali forme spontanee di aggregazione sociale, correnti del pensiero religioso, scuole filosofiche, sapienti e moralisti, «Scopo comune, anche se perseguito con strategie diverse e spesso rivali, nota Vegetti, è quello di ottenere l’introiezione di valori e norme morali capaci di orientare la condotta, di cementare l’assenso verso le regole della vita sociale e le sue autorità, di ottenere insomma, mediante la persuasione, la formazione, la teoria, ciò che non può venire imposto in modo coercitivo»[46]. E’ questo carattere della struttura sociale e politica greca che conferisce all’etica un ruolo così incisivo nella guida della vita individuale.

Havelock, nel suo celebre studio sulla giustizia nella civiltà greca, ci spiega che ηθος e νομος in origine indicavano dei comportamenti concreti più che i concetti astratti di ‘legge’ ed ‘etica’, con i quali noi li identifichiamo: «(...) nel loro uso originario non significavano principi o credenze, ma attività umane ben definite, (...) come la distribuzione o l’amministrazione della terra nel caso di nomos, e l’atto di vivere in un luogo o in una capanna nel caso di ethos. La loro origine è di carattere comportamentale, non filosofico, legale o morale»[47]. Questo deposito di conoscenze esprime la coscienza della comunità e il suo atteggiamento verso ciò che è ritenuto giusto, adeguato e meritevole di rispetto[48]. Elemento essenziale dell’ηθος è quindi l’aspetto conoscitivo, che non a caso emerge in un particolare uso del verbo ‘sapere’ da parte di Omero, che lo riferisce ai tratti del carattere e al comportamento; nell’Odissea Polifemo viene presentato come colui che «sa cose senza legge», così come nell’Iliade «Achille sa cose selvatiche, come un leone»[49].

Questa spiegazione della condotta sotto forma di conoscenza, di cui l’Iliade e l’Odissea ci forniscono numerosi esempi, non è un vezzo stilistico di Omero, quanto piuttosto un antico retaggio che ricompare nell’invenzione socratica dell’intellettualismo morale[50]. Tra conoscenza e scelta etica non vi è quel salto qualitativo che Sant’Agostino mostra così chiaramente nella sua concezione della volontà, e che l’età moderna inaugurerà attraverso la sua epistemologia. Nel mondo dell’etica greca vi è un’intima relazione tra la scelta e la conoscenza, volontà e intelletto sono racchiusi dentro una cornice storica e sociale che ammette un ventaglio ristretto di possibilità a disposizione del singolo. Perciò, conosco ciò che posso volere e so ciò che posso desiderare. Come vedremo nei paragrafi seguenti, il vero errore morale consiste nell’andare oltre le prerogative del proprio ruolo, nel non rispettare i confini di ciò che a ciascuno è stato assegnato in sorte.

Sono quelli che MacIntyre ha definito i dati di fatto sociali, come la nascita, l’appartenenza a una famiglia, a una città o ad un’altra, che determinano il corpo di norme assegnato all’individuo.

Ciascuno, nella società eroica, ‘sa’ cosa deve fare e cosa non deve fare, conosce l’insieme delle regole che cementano la vita del gruppo. I doveri che governano la vita individuale derivano dal posto che il singolo ha nell’organizzazione sociale, secondo un sistema fisso e predeterminato. E’ dal ruolo che nasce il corpo di norme e abitudini a cui ciascuno deve fare riferimento, ed è dal modo in cui egli svolge il suo ruolo, rispettandone le regole o meno, che viene giudicato. Potremmo dire che il termine αρετή racchiude le doti che permettono ad un uomo e a una donna[51] di svolgere il proprio ruolo. Per questa ragione non è possibile definire un uomo αγαθός, ignorando quale posizione egli abbia nella gerarchia sociale. La sua funzione sociale è infatti inscindibile dal suo corredo di doveri, da quella che noi moderni chiameremmo la sua prospettiva morale. Il possesso delle qualità che rendono un uomo αγαθός è determinato dalla conoscenza del suo status; con αγαθός non si indicano semplicemente le qualità di un uomo, ma anche una precisa posizione sociale.

Gli αγαθοι sono al vertice della piramide sociale, perché le loro armi, il loro coraggio e le loro ricchezze sono gli strumenti che meglio possono assicurare la sopravvivenza del gruppo. A questa posizione privilegiata corrispondono un insieme di doveri rigidamente determinati: in un simile contesto, come vedremo, solo i risultati concreti contano, solo il successo ha una valenza positiva. La sconfitta coincide con l’orizzonte morale dell’uomo nella società eroica: oltre non vi è che il nulla.

In un mondo in cui l’io si identifica con il suo ruolo, in cui l’etica deriva dalla terra e dalla vita e in cui l’uomo sopravvive grazie alle regole del gruppo, quali forme assume la responsabilità? Certo non quelle dell’etica kantiana dell’intenzione, né quelle che vedono una sanzione morale distinta da quella giuridica, ma piuttosto quelle di una responsabilità complessa, legata al compito che a ciascuno è assegnato, al posto che ognuno ha ricevuto in sorte. È un intreccio di responsabilità che rende difficile distinguere la responsabilità del singolo individuo come entità a sé stante, ma non ci consente, con buona pace di Adkins, di dire che i Greci non conoscevano il significato della responsabilità morale.

 

 

1.2.3. – Il controsenso omerico e la responsabilità di Agamennone

 

Nel sistema dei valori dei greci cogliamo due aspetti fondamentali: il primo riguarda l’esclusivo rilievo assegnato all’azione compiuta, rispetto all’intenzione del suo autore; il secondo la determinazione esterna del valore, affidata integralmente al giudizio della comunità.

Come vedremo nelle pagine che seguono, i due aspetti sono strettamente relati: in un mondo in cui i fatti risultano molto meno importanti delle apparenze, anche le intenzioni sono irrilevanti rispetto ai risultati. Sono questi caratteri che tracciano la distanza tra la nostra responsabilità e quella ricavabile dall’ηθος greco: il primo delinea il concetto di azione che può venire attribuita all’agente sulla base del nesso causale[52], a prescindere dalla considerazione della volontà, il secondo traccia l’identità del soggetto responsabile, ricostruita dall’esterno, in base al ruolo assegnato e all’immagine definita dalla comunità.

L’intero impianto narrativo dell’epos omerico è costruito sull’intreccio tra le azioni umane e l’intervento degli dei[53]. Sono essi che determinano ogni azione umana, che sembra fare parte di un disegno divino. Nell’Odissea Ulisse può tornare a Itaca solo quando saranno gli dei a permetterlo, così come nell’Iliade l’ira di Achille viene presentata come uno strumento del progetto di Zeus. Spesso, nella descrizione omerica dei personaggi e del loro ruolo, notiamo che vi è una distinzione tra la volontà dell’agente e il risultato della sua azione, indotta da un dio, tuttavia la responsabilità, che consiste nel dovere di sottoporsi alla sanzione, è attribuita esclusivamente sulla base dell’azione compiuta, e non delle intenzioni del suo autore[54].

Nel canto XIX dell’Iliade, Agamennone attribuisce agli déi la responsabilità del suo gesto verso Achille, a cui ha sottratto l’adorata Briseide: «Spesso questo discorso mi facevano gli Argivi e mi biasimavano; pure non io son colpevole (αιτιος), ma Zeus e la Moira e l’Erinni che nella nebbia cammina; essi nell’assemblea gettarono contro di me stolto errore (ατη), quel giorno che io tolsi ad Achille il suo dono. Ma che avrei potuto fare? I numi tutto compiscono.»[55]. Come acutamente nota Dodds, a un lettore contemporaneo il lamento di Agamennone potrebbe sembrare un tentativo per sottrarsi alla sua responsabilità, chiamando in causa gli déi che hanno annebbiato la sua coscienza[56], tuttavia non è questa la sua intenzione, poiché egli, riconoscendo il suo errore, dichiara di volervi porre rimedio, offrendo ad Achille ricchissimi doni: «Ma dal momento che ho errato, Zeus m’ha tolto la mente, voglio farne l’ammenda, dare doni infiniti»[57]. Agamennone ritiene quindi di essere stato indotto a compiere l’atto ingiusto da Zeus e dal suo destino, impersonato dal richiamo alla μοιρα, e riconosce allo stesso tempo la sua personale responsabilità, volendo pagare per ciò che ha commesso. Da un lato quindi egli dice di non essere αιτιος (responsabile, causa dell’evento)[58], dall’altro decide comunque di pagare come se lo fosse. Potremmo distinguere, sulla base del suggerimento di Eva Cantarella, tra responsabilità ed errore, dicendo che Agamennone esclude la sua colpevolezza (responsabilità soggezione), e ammette il suo «stolto errore» (responsabilità causale), ma non capiremmo la ragione per cui, il re dei Greci, comandante supremo dell’esercito, dovrebbe sentire il dovere di offrire ad Achille ricchi doni per la pace[59]: solo chi ritiene di aver avuto il potere di determinare il corso degli eventi, può ritenere di poterlo in qualche modo modificare, rimediando al suo errore. L’episodio ci mostra che, ai fini della responsabilità, nella concezione omerica non si fa alcuna distinzione tra errore incolpevole, quale quello di Agamennone, ed errore colpevole: egli deve pagare integralmente per il suo gesto[60].

«Tali sono le implicazioni della struttura competitiva dei valori. La responsabilità morale non trova luogo fra essi.», scrive Adkins[61]. Egli conclude rilevando nel comportamento di Agamennone una contraddizione presente in tutta l’opera di Omero. In essa sembrano esistere due piani relati, quello degli uomini e quello degli déi, che tuttavia si rivelano indipendenti e non s’intersecano quando si tratta di connotare moralmente un’azione e attribuire a qualcuno la responsabilità degli eventi[62]. Nella società descritta da Omero, che rappresenta con un buon grado di approssimazione la concezione dominante nella Grecia dell’VIII e VII secolo, con le sue credenze e narrazioni[63], il dio è sempre αναιτιος, non responsabile, sebbene col suo intervento determini il corso degli eventi. La responsabilità è prerogativa degli umani, che solo in parte contribuiscono, con la loro libera volontà, a tracciare il proprio e l’altrui destino.

Ettore pagherà per aver ucciso Patroclo, morendo per mano di Achille, che farà scempio del suo cadavere trascinandolo intorno alle mura di Troia, tuttavia Ettore ha solo una parte secondaria nella morte di Patroclo, perché Zeus e Apollo intervengono nel duello offrendogli la vittoria; come dice Patroclo morente «Sì, Ettore, adesso vàntati: a te hanno dato vittoria Zeus Cronide e Apollo, che m’abbatterono facilmente: essi l’armi dalle spalle mi tolsero.(...) tu m’uccidi per terzo»[64]. Ma, nonostante questo, Ettore pagherà per il suo gesto, le cui conseguenze ricadranno interamente sulle sue spalle.

Sarebbe logico, secondo il nostro punto di vista morale, attenderci che la responsabilità individuale risulti almeno attenuata di fronte a un evento già stabilito nella trama divina, che “deve accadere” secondo una necessità inscritta nell’ordine delle cose, tuttavia questo non influisce in alcun modo sulla determinazione della responsabilità individuale, che rimane piena, e non viene scalfita dalla considerazione che l’agente non aveva l’intenzione di produrre quel determinato risultato, e che vi è stato indotto dagli eventi o da un intervento divino. Si tratta di quella che noi chiameremmo un’azione non libera, determinata da condizioni esterne alla volontà dell’agente, e che non dovrebbe, almeno secondo il nostro punto di vista morale, essere considerata oggetto di responsabilità. E invece Agamennone si scusa e offre i doni della riconciliazione ad Achille, Ettore muore per mano di Achille, che vendicherà così la morte di Patroclo. Gli eroi omerici pagano, subiscono una pena, anche nei casi in cui la loro volontà appare sopraffatta da altre cause. Nell’Iliade e nell’Odissea sembra mancare, infatti, il concetto di azione volontaria, che Aristotele definirà nell’Etica Nicomachea. É per questa ragione che la responsabilità delineata da Omero viene definita oggettiva, perché, nell’attribuire il biasimo o la lode, non si tiene conto della reale volontà ed intenzione dell’agente.

Nel paragrafo seguente scopriremo che questa è la tesi più accreditata; la maggior parte degli studiosi sostiene infatti che l’idea di responsabilità morale sia sconosciuta a Omero, o che, tutt’al più, affiori in una forma embrionale, rispetto a quella di una indiscussa responsabilità oggettiva.

Tuttavia si tratta di una spiegazione insoddisfacente.

Tutte le ricerche citate assumono una premessa implicita: l’idea che la responsabilità debba derivare da un giudizio sugli atti volontari dell’agente. È quest’idea che impone un percorso metodologico predefinito, e ottiene come possibili esiti, a seconda dei territori esplorati dai ricercatori, o l’affermazione di una responsabilità morale, o la sua negazione, che equivale ad affermare una responsabilità oggettiva. Ma cosa significa, per i greci, responsabilità oggettiva?

Solo rovesciando la prospettiva d’indagine e modificando la griglia dei concetti moderni ci avviciniamo alla concezione greca della responsabilità.

 

 

1.2.3.1. – Tentativi di spiegazione

 

Com’è possibile, ci chiediamo, che l’etica greca mostri una lacuna così vistosa e quasi inspiegabile in un contesto di raffinata cultura e analisi filosofica[65]? Questa contraddizione è infatti presente nelle opere dei tragici come Eschilo, Sofocle e Euripide, che, nel V secolo, in un’epoca ormai lontana da quella omerica, rafforzano l’idea che la responsabilità umana non derivi da una volontà ‘esclusivamente’ morale[66].

Rodolfo Mondolfo ed Eva Cantarella, pur con diversi approcci, sostengono una sorta di teoria evolutiva della responsabilità nell’etica greca, individuando un processo, già rilevabile dalle differenze tra l’Iliade e l’Odissea, che va da un sistema di responsabilità oggettiva, o di irresponsabilità morale, ad uno di responsabilità soggettiva, che nasce con la scoperta della coscienza.

Il medesimo episodio, descritto nel canto XIX dell’Iliade, è interpretato da Mondolfo in modo differente rispetto a Dodds ed Adkins. Essi, come abbiamo visto, sostengono che Agamennone, rivolgendosi all’assemblea degli Achei, non stia tentando di discolparsi ed eludere la responsabilità, ma piuttosto che stia riconoscendo il suo dovere di riparare a un’azione biasimevole, sebbene ispirata da un intervento divino.

Mondolfo ritiene invece che Agamennone, con le sue parole, voglia realmente sottrarsi alla responsabilità che l’assemblea sta cercando di attribuirgli[67]; ma è proprio il suo non riuscito tentativo a confermare l’idea, secondo l’autore, che in Omero è presente un concetto di responsabilità personale: «(...) il fatto che la difesa risponda ad un’accusa è documento che di fronte alla tesi dell’irresponsabilità, che l’accusato formula, s’è già accampata da parte degli altri la tesi della responsabilità dell’agente»[68].

Egli ritiene che quei versi esprimano due opposte concezioni della responsabilità; una esemplificata nella posizione di Agamennone, che egli chiama di irresponsabilità: gli uomini sono solo gli esecutori dell’irresistibile volontà divina, e per questo non possono essere considerati responsabili. L’altra concezione è espressa dall’assemblea, che ritiene Agamennone autore dell’azione ingiusta e pienamente responsabile per essa.

Il contrasto tra queste posizioni mostra, secondo Mondolfo, che il concetto di responsabilità, già affermato nella società cantata da Omero, non è ancora chiaramente delineato in essa. Egli nota, infatti «che le due concezioni antitetiche non sono sempre del tutto separate, ma si presentano nei singoli casi più o meno strettamente intrecciate, a documentare l’ancora incerta oscillazione del pensiero fra esse»[69]. E’ nell’Odissea che si avverte un cambiamento di prospettiva: accanto all’azione compiuta, anche le intenzioni cominciano ad avere un loro rilievo. Questo lento processo, che vede con Esiodo (VIII-VII secolo) la sostituzione dell’ideale aristocratico della giustizia con quello contadino, e quindi un primo passo verso l’estensione dei problemi etici alla generalità degli uomini, si compie nel V e IV secolo, in cui il giudizio morale diviene interiore e si afferma il concetto della coscienza etica[70].

Anche Cantarella sostiene una tesi evolutiva della responsabilità, ma, a differenza di Mondolfo, ritiene che Omero ci descriva «il mondo della piena, incontrastata e indiscussa responsabilità oggettiva, sia sul piano dei fatti, che su quello dei sentimenti.»[71], sia nell’Iliade che nell’Odissea. Tuttavia questa concezione, che chiaramente emerge dai poemi omerici, convive con un’embrionale idea di libertà[72]. Omero, infatti, distingue tra azione volontaria e azione involontaria, come si nota ad esempio nel canto XIX, in cui Agamennone riconosce la sua responsabilità, escludendo tuttavia la volontarietà della sua azione, determinata da ατη.

Cantarella tenta di risolvere la contraddizione distinguendo una responsabilità «materiale», che viene imputata sulla base del solo nesso causale, da una responsabilità morale, che deriva dalla volontarietà dell’atto[73]. Riconoscendo la sua azione come non libera, Agamennone ammette la prima, ma esclude la seconda.[74]. Tuttavia la distinzione tra responsabilità materiale e responsabilità morale, se ci aiuta a risolvere l’apparente contraddizione omerica, risulta poco convincente. Cantarella, infatti, interpreta come casi di responsabilità morale quelli in cui l’azione è volontaria e non determinata dagli eventi o dagli dei, e casi di responsabilità materiale quelli in cui si risponde comunque per l’evento causalmente riconducibile all’agente; nei primi l’autore prova un senso di colpa, rimorso e rincrescimento, negli altri riconosce il dovere di rispondere, pur in mancanza di una autodeterminazione. Potremmo dire che mentre in questi ultimi vi è una forma di accettazione passiva degli obblighi nascenti dall’atto, in quelli vi è uno spontaneo riconoscimento del dovere di rispondere. I personaggi di Omero rispondono sempre e comunque, dice Cantarella, ma fanno una distinzione, non solo fattuale, tra i casi in cui agiscono liberamente e quelli in cui agiscono per volontà degli dei[75].

Ma, in questo modo il problema si sposta sul concetto di causalità materiale: per quale ragione i greci riconoscono l’obbligo di rispondere dell’azione, anche in mancanza di una precisa volontà e intenzione? Secondo il nostro giudizio, che si fonda sulla dicotomia di responsabilità morale e responsabilità giuridica, può accadere che si debba rispondere per un’azione moralmente lecita e giuridicamente dannosa, ma ci sentiremmo costretti a farlo e non agiremmo spontaneamente riconoscendo la giustizia dell’obbligo, anzi spesso, in quei casi la norma viene considerata ingiusta, perché contraria ai nostri principi morali. Ma, come vedremo, il giudizio dei greci non si fondava sulla distinzione tra valori morali e valori non morali; Agamennone non denuncia l’ingiustizia della regola che gli impone di riparare al suo gesto, ma anzi ne riconosce la piena legittimità; la distinzione tra ciò che è moralmente giusto e ciò che lo è ‘solo’ giuridicamente (o socialmente) non trova spazio in questa struttura etica, dove appare vana la ricerca di una responsabilità morale, separata da una responsabilità giuridica, o sociale.

I greci riconoscevano l’obbligo di rispondere delle loro azioni, anche involontarie, per la particolare struttura etica della loro società, dice Cantarella. Aderendo alla distinzione tra virtù competitive e virtù collaborative, rielaborata da Adkins, l’autrice afferma che in un’etica del successo, come quella greca, ogni giudizio prescinde da una valutazione degli elementi psicologici dell’azione. Il sistema di valori ‘eroici’ impone un’etica del risultato ed esclude un’etica dell’intenzione.

A questa concezione si accompagna un particolare corredo di sentimenti e reazioni sociali, volto a consolidare e rafforzare il sistema dei valori eroici, che ci spiega la ragione per cui Agamennone riconosce la fondatezza del suo dovere di riparazione. La vergogna che prova l’eroe omerico di fronte al suo fallimento, e al conseguente biasimo sociale, è infatti lo strumento morale che traccia i percorsi della responsabilità: Agamennone non si sente in colpa per il torto fatto ad Achille, ma avverte il biasimo dell’assemblea che gli attribuisce la responsabilità per le recenti sconfitte degli Achei, privati in battaglia del valore di Achille.

Il sentimento che riflette il sistema dei doveri del singolo non è dunque il senso di colpa, che riguarda esclusivamente la coscienza individuale, ma la vergogna, nata da un tessuto relazionale e plurale che compone la prospettiva morale del singolo[76].

Il ruolo della vergogna, che approfondiremo nelle pagine seguenti, scardina l’immagine di una persona divisa tra esteriorità e interiorità su cui poggia la nostra classificazione della responsabilità[77], e ci aiuta a capire lo ‘strano’ senso di responsabilità degli eroi omerici.

E’ per questa ragione che Ulisse non fa distinzione tra i proci, uccidendoli tutti, e non separando coloro che hanno avuto intenzioni malvagie e si sono macchiati di colpe più gravi, da quelli che, pur avendo partecipato all’impresa, si sono distinti per un animo gentile e per aver rispettato Penelope[78]. Con la sua vendetta egli deve riconfermare il giudizio della comunità sul suo valore, uccidendo tutti i suoi nemici, senza fare distinzione tra i più e i meno colpevoli.

Nonostante questa sia ancora la concezione prevalente, dice Cantarella, nell’Odissea cogliamo i segni di un altro mondo, «nel quale l’uomo comincia lentamente a credere nella sua possibilità di autodirigersi, o quanto meno, intuisce di avere questa possibilità»[79]. Il problema della responsabilità, che Omero lascia irrisolto, sarà definito dai concetti etici che si affermeranno nel V secolo, con il passaggio dal sistema dei valori aristocratici a quello dei valori democratici.

 

 

1.2.3.2. – Volontà e sorte morale

 

La tesi di Adkins rappresenta la posizione più estrema, poiché nega alla radice la presenza di un qualsiasi concetto di responsabilità morale nell’etica greca, almeno fino al V secolo.

Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, Adkins rileva una contraddizione ricorrente nel pensiero omerico e nella struttura di credenze della società che esso ci svela: il fatto che si è considerati responsabili anche per azioni non volontarie, come mostra l’episodio di Agamennone più volte citato.

La sua spiegazione è che, poiché i Greci privilegiarono una struttura di valori che esaltano la competizione, la forza e il coraggio, piuttosto che la solidarietà, la giustizia e la pietà, non potevano, nella loro struttura etica, assegnare un posto di rilievo alla responsabilità e al dovere. La conclusione che Adkins trae da questa argomentazione non sembra così conseguente, né tanto meno scontata come egli la presenta: infatti, non ci spiega la ragione per cui la responsabilità deve stare dalla parte delle virtù cooperative. Quali caratteri affini alla pietà, compassione e solidarietà essa presenta? E di quali caratteri difetta per poter campeggiare tra le virtù competitive? In realtà egli non ci dice esplicitamente cosa intenda con responsabilità morale, dando per scontato che ogni lettore contemporaneo, in quanto kantiano, ‘sappia’ che cosa significa l’espressione responsabilità morale. Adkins ci dice che cosa i greci non hanno, ma non ci spiega come dovrebbe essere il concetto di cui difettano nel loro sistema etico.

Possiamo dire che egli trae questa conclusione da una premessa implicita nella sua tesi e dal dato che ricava da una lunga e accurata analisi. La premessa implicita è che il sistema prevalente nella struttura etica greca, dall’età eroica fino al cosiddetto ‘illuminismo greco’[80], è un sistema di valori non-morali[81]. La forza, il coraggio, l’ingegno, il valore guerresco e agonistico, insomma tutte quelle abilità che conferiscono il potere di prevalere e vincere, non sono concepiti come valori morali in una prospettiva kantiana. Si tratta infatti di ideali basati sull’egoismo, e sui vantaggi che portano o sottraggono all’agente, che escludono la considerazione del beneficio o del danno che ne ricaveranno gli altri. La prospettiva etica greca sembra non avere, tra i suoi caratteri, quello fondamentale dell’universalità. L’onore e la fama, a cui ogni uomo greco aspira, riguardano un interesse egoistico, immediato e personale, che non sembra tenere conto delle esigenze e della vita degli altri membri della comunità.

A questo argomento è strettamente collegato il secondo aspetto rilevato da Adkins: la mancanza di un concetto di volontà morale che connota l’azione. Il fatto che le intenzioni di chi agisce non siano una condizione sufficiente ad escludere la responsabilità, nel caso in cui l’azione prodotta sia diversa da quella che l’agente voleva produrre, svela la mancanza del concetto di una volontà autonoma, che costituisce il presupposto della responsabilità morale nella teoria kantiana.

Nel pensiero di Kant, la morale si fonda sull’idea che la volontà non debba essere condizionata da elementi esterni, o contingenti; tutti quei fattori che derivano dallo status sociale, dalla costituzione del carattere, e dalle circostanze che condizionano la vita dell’agente, non possono essere oggetto di considerazione morale, ossia non possono giustificare moralmente l’assunzione di determinati obblighi[82].

Si tratta di una distinzione fondamentale, radicata nel nostro pensiero morale, e rielaborata dalla filosofia contemporanea che, in alcuni dei suoi più rilevanti contributi, è di ispirazione kantiana. Non è casuale dunque che, nelle loro ricerche sull’etica greca, gran parte degli autori assumano più o meno esplicitamente una simile prospettiva teorica. In essa il punto di vista non morale coincide con quello egoistico e quello morale presenta alcuni precisi caratteri. Secondo Williams questi sono l’imparzialità e la sua indifferenza ad ogni «relazione particolare con persone particolari» e a tutte quelle circostanze e specifici tratti del carattere delle persone che non possono essere estesi universalmente a qualsiasi situazione moralmente simile. L’ulteriore elemento che caratterizza il punto di vista morale consiste nell’idea «che le motivazioni di un’agente morale, conseguentemente, comportano un’applicazione razionale del principio d’imparzialità, e quindi differiscono per loro natura dai tipi di motivazione che egli può avere per trattare diversamente persone particolari (...)»[83]. É quindi l’idea di una volontà pura, non ‘contaminata’ dalla realtà fattuale, che Adkins cerca nel tessuto dell’etica greca, e, naturalmente, non trova.

La domanda fondamentale a cui si deve rispondere è, come insegna Socrate: «Come dobbiamo vivere?»[84], più che: «Cosa dobbiamo fare?»[85]. La risposta alla domanda di Socrate prevede che sia difficile nell’esperienza pratica distinguere e separare gli interessi morali, che riguardano il beneficio o il danno per altre persone, da altri interessi pratici, che riguardano esclusivamente il soggetto, come ad esempio una vocazione artistica, e che possono porsi in contrasto con i primi[86]. La rigida classificazione morale – non morale, che caratterizza l’etica moderna, appare riduttiva e fuorviante se applicata a quella greca.

Anche il carattere di volontarietà delle azioni appare in una luce diversa, una volta allontanato da questa dicotomia. Dalla volontà autonoma, fondata esclusivamente su sé stessa, si passa a considerare la volontà che lavora con la sorte, con gli eventi e con la casualità[87].

Questa linea di riflessione impone un radicale cambiamento di prospettiva e il conseguente abbandono dell’idea secondo cui possiamo essere moralmente responsabili solo per quelle azioni che sono sotto il nostro controllo. Bernard Williams ritiene che il nostro giudizio morale, fondato sulla concezione kantiana, non coincida, almeno in alcuni rilevanti casi, con la nostra intuizione morale. Gli schemi della teoria etica kantiana, prevalente nella nostra morale comune, non coincidono con la realtà dei nostri giudizi pratici, mostrando una notevole differenza tra la procedura decisionale proposta e il nostro effettivo ragionamento pratico.

Secondo Williams i nostri giudizi morali sono condizionati da elementi sottratti al nostro controllo, da eventi che dipendono dalla casualità e non esclusivamente dalla nostra volontà. Il nostro giudizio non è quindi immune dalla sorte, ma la comprende come un elemento necessario della nostra vita etica: «La nostra storia di agenti è una trama in cui tutto ciò che è prodotto dalla volontà è circondato, sostenuto e in parte costituito da cose che non lo sono, cosicché la riflessione può muoversi soltanto in una di queste due direzioni: o affermare che il concetto di azione responsabile è del tutto superficiale e di scarsa utilità nel dare una spiegazione armonica di ciò che accade, oppure affermare che non è un concetto superficiale, ma che in definitiva non è possibile isolarlo dal resto»[88]. Egli ritiene in sostanza che l’intento di affrancare la moralità dalla fortuna sia destinato a fallire, e che quegli elementi che Kant esclude dal calcolo morale, come la nascita, il carattere e le circostanze della vita, influenzino e condizionino tutti i nostri giudizi, fornendo talvolta una vera e propria giustificazione morale alle nostre azioni[89]. Per questa ragione, a quello di volontà morale egli affianca il concetto di sorte morale.

Thomas Nagel, che condivide la prospettiva filosofica di Williams[90], definisce il concetto di sorte morale: «Quando un aspetto significativo di quello che qualcuno fa dipende da fattori sottratti al suo controllo, e tuttavia continuiamo a trattarlo, sotto quell’aspetto, come un oggetto di giudizio morale, siamo in presenza di un caso che denominiamo sorte morale.»[91].

La buona o la cattiva riuscita dei nostri propositi, dice Nagel, dipende quasi sempre da fattori sottratti al nostro controllo, tuttavia, nell’esprimere il giudizio su queste azioni, e quindi sugli agenti, non teniamo nel debito conto il contributo del caso, separando, ai fini del giudizio morale, ciò che dipende dalla volontà incondizionata dell’agente da ciò che è un evento del tutto fuori dal suo potere. Il nostro giudizio morale non include solo le intenzioni, ma comprende anche ciò che accade oltre il punto della decisione: «Per quanto pura e limpida possa essere di diritto la buona volontà, c’è una differenza moralmente significativa tra il salvare qualcuno da un edificio in fiamme e lasciarlo cadere da una finestra del ventesimo piano mentre si cerca di salvarlo»[92].

Il tentativo di restringere l’azione al suo nucleo morale essenziale, limitandola ai motivi e all’intenzione dell’agente, si scontra con i nostri giudizi pratici, che si rappresentano l’azione e chi la compie come parte di una realtà sottratta al nostro esclusivo controllo. Infatti, continua Nagel, noi giudichiamo le persone per quello che realmente fanno o che hanno fatto, più che per ciò che avrebbero potuto fare in diverse circostanze[93].

La nostra, dunque, non è un’etica dell’intenzione, almeno non solo, ma dell’azione compiuta[94]. Questo tratto, che Williams e Nagel identificano con un’intuizione morale, compone la nostra struttura morale, che non appare coerente con la teoria dominante. In quanto agenti, noi ci percepiamo parte del mondo, inseriti nella sua trama, ma è proprio la paura di esserne totalmente assorbiti che ci spinge a rivendicare l’esigenza del controllo sui nostri atti, come condizione della nostra identità, fisica e psicologica. Non siamo capaci, secondo Nagel, di abbandonare il punto di vista interno dal quale guardiamo la realtà: «L’inclusione delle conseguenze nella concezione di quello che abbiamo fatto è un riconoscimento che siamo parti del mondo, ma il carattere paradossale della sorte morale che emerge da questo riconoscimento mostra che siamo incapaci di gestire un tale punto di vista, perché non ci lascia essere nessuno.»[95].

L’idea di sorte morale apre una diversa prospettiva nella nostra indagine, suggerendo che il problema irrisolto della responsabilità non è tale per una presunta limitata ‘crescita’ del pensiero morale dei Greci, ma per la consapevolezza che esiste una tensione ineliminabile e costante tra gli assalti della fortuna e l’aspirazione degli uomini ad esserne moralmente immuni, che la responsabilità riflette.

Anche nel pensiero di Aristotele, che con la sua bellissima analisi dell’azione volontaria consegna ai moderni l’impianto dell’idea di responsabilità, cogliamo i tratti di un’azione che s’inserisce in un contesto plurale, che dipende dalle azioni altrui, dal caso e dai tratti del carattere che la sorte (o lotteria genetica direbbero i moderni) ci ha assegnato. Come vedremo, nel IV secolo alcuni dei tratti della cultura aristocratica lasciano il passo a quelli della Atene democratica, ma altri sopravvivono accanto ai nuovi, creando tensioni tra modelli sociali e culturali in opposizione. Uno di questi caratteri, che segna in misura profonda la struttura etica greca, è quello della cosiddetta civiltà di vergogna, che appartiene all’età eroica dei valori competitivi, ma si conserva anche in epoca successiva accanto al – moralmente nuovo – sentimento della colpa.

 

 

1.2.4. – Shame-culture e guilt-culture

 

L’altro fondamentale aspetto, che caratterizza il sistema delle virtù competitive nell’antica Grecia, e tutta la vita etica in generale, è strettamente legato al primo: in un’etica del successo è la comunità a decretarlo, a riconoscerlo e a negarlo. Se le azioni si giudicano dai loro risultati, un uomo e una donna si giudicano in base alle loro azioni, non alle loro qualità, personalità o carattere; essi esprimono sé stessi attraverso il loro agire, mostrando alla comunità che sono in grado di svolgere il ruolo che è stato loro assegnato nella struttura sociale. Il giudizio morale si fonda su quella che possiamo definire una logica dell’esteriorità: l’uomo nella società eroica è come appare, egli s’identifica totalmente con le sue azioni, perché egli è ciò che fa. «Nel resoconto empirico [dell’epica] di ciò che gli uomini fanno e dicono, si esprime tutto quello che gli uomini sono, poiché essi non sono altro che ciò che fanno, dicono e subiscono»[96].

Chi è che giudica le azioni? Non certo chi le compie. Come l’occhio che non vede sé stesso, nemmeno l’autore delle azioni è in grado di esprimere un giudizio sul proprio agire; egli sarà solo in grado di attribuirsi il valore che gli altri gli riconoscono, e non di opporre un autonomo giudizio morale. É il popolo, il demos, l’unico giudice in grado di attribuire e decretare la fama e la pubblica stima di un uomo o una donna, così come di procurargli i mali peggiori, gettando discredito e ridicolo sul suo nome. «La più potente forza morale nota all’uomo greco, nota Dodds, non è il timore di Dio, è il rispetto dell’opinione pubblica»[97].

Fin qui, potremmo dire, la principale differenza riscontrata con l’etica kantiana, che Adkins elegge a emblema etico dell’occidente contemporaneo, consiste nella prevalenza determinante dell’azione e delle sue conseguenze sulle intenzioni, nella schiacciante prevalenza dell’esteriorità fattuale sulla considerazione della volontà morale del singolo. Ma, potremmo dire che anche in una certa visione etica contemporanea le conseguenze dell’agire entrano nel calcolo morale, prevalendo sulle intenzioni[98], e che la tesi che elegge la responsabilità a principio cardine dell’etica del terzo millennio propone di considerare preventivamente le possibili conseguenze delle azioni, come condizione della loro adeguatezza morale[99].

Tuttavia è un altro aspetto dell’etica eroica che ci sorprende: infatti non è ciò che realmente si fa che è importante, ma ciò che gli altri diranno che è stato fatto. Nel mondo omerico, scrive Cantarella, «un uomo non “è” un eroe, “è detto” tale. Una donna non è virtuosa, “è detta” tale, così come “è detta” bella o fedele: “essere detti” equivale a essere.»[100]. Quello che il popolo dirà è, infatti, il principale criterio di valutazione delle azioni e, di conseguenza, delle persone. «Sia per uomini e donne non importa ciò che è stato fatto, ma ciò che è detto che è stato fatto»[101] dice Adkins, per spiegare che ciò che il popolo dirà è l’unico criterio valutativo per le azioni del singolo.

In numerosi episodi dell’Iliade e dell’Odissea, i personaggi giudicano le loro azioni in base a questo parametro esterno. L’unico vero timore dell’eroe è quello di “perdere la faccia”: Achille non vuole cedere Briseide ad Agamennone perché, se lo facesse, potrebbe venir considerato un uomo di scarso valore: «Davvero vigliacco e dappoco dovrei esser chiamato, se ti cedessi tutto, qualunque parola tu dica»[102].

Lo stesso criterio è usato per le donne: Penelope è una donna virtuosa perché non ha ceduto al corteggiamento dei proci, diremmo noi; Penelope è una donna virtuosa perché si dice che sia tale, dicono i greci. Se le virtù non vengono riconosciute, se gli atti eroici non vengono narrati, diffusi e cantati, la loro esistenza non ha alcuna importanza, o meglio, potremmo dire che non esistono affatto. Nell’Ifigenia in Aulide, Achille raccomanda a Clitennestra un’estrema cautela nell’abbandonare la sua tenda, perché, nel caso qualcuno la vedesse, potrebbe parlare, e portare vergogna alla casa di suo padre; eppure noi sappiamo che la ragione della visita di Clitennestra è irreprensibile, riguarda infatti la sorte di sua figlia Ifigenia, che la madre vuole salvare dal sacrificio promesso. Achille, tuttavia, rivela una grande preoccupazione, sapendo che, se qualcuno parlerà, a nulla serviranno le giustificazioni, e la virtù della donna sarà gravemente compromessa[103] Euripide, alla fine del V secolo, esprime l’identico concetto che domina in Omero, in cui la virtù di una donna consiste nella mancanza di ‘chiacchiere’, sia positive che negative, sul suo conto[104].

«Non certo il godimento di una coscienza tranquilla», dice Dodds[105], ma l’onore, la fama e la pubblica stima sono l’ideale supremo dell’uomo omerico, così come l’altrui disprezzo e la pubblica riprovazione sono avvertiti come il peggiore dei mali.

Per chiarire questo particolare meccanismo sociale, che impone l’ordine attraverso la pressione del gruppo, egli ricorre alla ormai celebre distinzione tra «civiltà di colpa» e «civiltà di vergogna»[106]. Attraverso l’uso dei due modelli, frutto degli studi antropologici[107], Dodds spiega l’evoluzione del sentimento religioso nella cultura greca, in cui egli individua una prima fase che corrisponde a una Shame-culture, alla quale succede, a partire dal VI secolo, una Guilt-culture[108].

Le due culture presentano caratteri profondamente differenti che corrispondono a opposti modelli sociali.

La civiltà di vergogna è quella «in cui l’adeguamento alle regole non è ottenuto attraverso l’imposizione di divieti, ma attraverso la proposizione di modelli positivi di comportamento: e nella quale coloro che non si adeguano ai modelli incorrono nel biasimo sociale, e in una conseguente sensazione di “vergogna”»[109].

Quella omerica è una shame-culture, in cui il sentimento della vergogna per l’insuccesso dell’impresa prevale su quello della colpa per la propria condotta. Sebbene nella società eroica di Omero i tratti del modello siano nettamente delineati, dobbiamo osservare che questo particolare aspetto dell’ηθος si conserverà fino al periodo classico, sebbene in forma attenuata.[110]

Il sentimento che costituisce la più potente forma di sanzione della società greca è infatti la vergogna. Αιδώς ed elencheie (aidòs)[111] esprimono il sentimento di vergogna che prova l’eroe di fronte al suo fallimento in un’impresa di qualunque genere, che può essere la sconfitta in battaglia, ma anche in una competizione sportiva. Se, come abbiamo visto, il modello di vita ideale impone di primeggiare e non ammette l’insuccesso, il mancato adeguamento ad esso avrà come sanzione la vergogna e la pubblica riprovazione. Quest’ultima è espressa dal sostantivo elencheie e dall’aggettivo αισχρόν che, riferito alle azioni, rappresenta il termine più grave di riprovazione sociale. L’azione αισχρόν è, letteralmente, una “brutta azione”, biasimata per la sua indecorosità, in quanto contraria all’onore, così come καλόν è una bella azione, che risponde ai criteri di valore accettati nel sistema competitivo. Questi termini denotano, secondo Dodds «non che l’azione sia benefica o dannosa per l’agente, o buona o cattiva agli occhi di una divinità, ma soltanto che sembra  b e l l a   o  b r u t t a  alla pubblica opinione»[112].

La civiltà di colpa rispecchia invece «una società in cui i comportamenti vengono determinati attraverso l’imposizione di divieti, e in cui chi tiene un comportamento vietato si sente oppresso da un senso misto di angoscia, di colpa e di rimorso, approssimativamente espresso dal termine guilt»[113].

Il passaggio dalla vergogna alla colpa sarebbe avvenuto, secondo Dodds, intorno al VI - V secolo, in coincidenza con l’Illuminismo greco. Ne è un esempio il fenomeno della contaminazione, ritenuto estremamente rilevante per registrare i cambiamenti nel tessuto dell’etica greca, e ateniese in particolare. Per contaminazione s’intende una forma di impurità, derivante da azioni o eventi, che i greci ritenevano compromettesse i rapporti tra gli uomini e il mondo divino. Chi è ‘contaminato’ rappresenta un pericolo per sé e per gli altri, almeno finché non si sarà purificato; egli non solo non potrà pregare gli dei, ma dovrà stare lontano dal gruppo, che a sua volta potrebbe rimanere macchiato dalla sua impurità.

L’evoluzione del fenomeno della contaminazione[114] rivela il cambiamento che avviene nella struttura etica della società greca. In Omero l’omicida deve lavare il sangue dalle sue mani prima di poter pregare gli dei; così come la contaminazione non ha niente di metafisico e morale, anche la conseguente purificazione corrisponde a un atto meccanico e materiale, che ‘lava’ la sozzura che ha prodotto la contaminazione. Il contaminato in questa concezione non è colpevole, il suo animo può essere puro e innocente, ma la sua persona può essere macchiata ugualmente dal miasma[115]. Nel V secolo avvertiamo un cambiamento radicale nella credenza nella contaminazione, che si è notevolmente diffusa, passando da un concetto materiale ed oggettivo ad uno metafisico e soggettivo, da un’idea puramente esteriore e meccanica, ad una interiore, che anticipa il senso di colpa e il peccato cristiano[116]. Dalla fine del V secolo il concetto di purezza si sposta, dice Dodds, dalla sfera magica e incontrollabile degli eventi a quella morale della coscienza: per la purificazione non è più sufficiente che le mani siano pulite, «dev’essere puro anche il cuore»[117]. Tuttavia, questo passaggio dalla vergogna alla colpa non avviene in maniera netta e lineare; ogni insieme di credenze lascia la sua impronta su quelli successivi, in maniera tale che convivono e coesistono concezioni contraddittorie e immagini differenti di un medesimo fenomeno.

Shame-culture e guilt-culture sono due modelli interpretativi, avverte Cantarella, che non si presentano mai nella loro purezza, ma piuttosto in una forma mista: in alcune realtà sociali prevarranno i caratteri della società di vergogna, mentre in altre risulteranno dominanti quelli della colpa[118]. Lo stesso Dodds, esponendo i limiti nell’applicazione di questi due tipi ideali alla società greca, riconosce che si tratta di una distinzione relativa «perché molti atteggiamenti caratteristici della civiltà di vergogna sono sopravvissuti nel periodo arcaico e in quello classico»[119]. Nell’insieme incoerente di concetti che costituisce la base del pensiero del V secolo, accanto all’idea di colpa morale che si va affermando con l’opera dei tragici e dei filosofi, è presente e radicata nella coscienza popolare quella di una contaminazione come conseguenza automatica di un atto. L’omicidio rimane, anche nella società ateniese del V secolo, il caso più importante di contaminazione, ma, precisa Adkins, «si è anche ‘contaminati’ per aver fatto un brutto sogno; per aver avuto contatto con un morto, contatto dal quale gli dei dell’Olimpo sono completamente liberi; per la nascita di un figlio e per le malattie – di un certo repellente e non naturale – genere»[120].

Il processo di agglomerazione culturale, prospettato da Dodds, tratteggia una società greca, arcaica e classica, in cui coesistono elementi antitetici, in cui la stessa responsabilità risponde ancora alle aspettative della civiltà di vergogna, ma comincia a piegarsi alle esigenze morali della colpa, teorizzate da Aristotele con l’analisi della volontà nell’Etica Nicomachea.

 

 

1.2.5. – Dal mondo eroico all’Atene del Liceo: le variazioni della responsabilità

 

Nell’età eroica cantata da Omero il giudizio su uomini e donne dipende dalle loro azioni e da ciò che di loro viene detto. L’etica del successo e la civiltà della vergogna forniscono, sebbene con una certa approssimazione, le coordinate del sistema di responsabilità della società greca eroica e arcaica. Questo sistema etico implicava un rigido insieme di doveri, determinato dal ruolo che ciascuno svolgeva nella comunità. Questi doveri erano le responsabilità di una persona.

«L’identità, nella società eroica, spiega MacIntyre, implica la particolarità e la responsabilità. Io sono responsabile del mio fare o non fare ciò di cui chiunque rivesta il mio ruolo è debitore nei confronti degli altri, e questa responsabilità termina solo con la morte.»[121] L’insieme dei doveri che nascono dal ruolo è strettamente intrecciato alla sorte assegnata a ciascuno, che plasma la sua vita morale. L’idea della morte e della vulnerabilità accompagnano i pensieri e le azioni degli eroi, che con la loro αρετή esaltano la fragilità umana e tributano alla fortuna il dovuto riconoscimento[122]. «Inoltre, continua MacIntyre, questa responsabilità è particolare, é a, per e con certi determinati individui che devo fare ciò che devo, ed è verso questi stessi e verso altri individui, membri della medesima comunità locale, che sono responsabile.»[123].

Nell’Atene del V secolo ci troviamo in una situazione radicalmente diversa, in cui gli antichi valori della società aristocratica sopravvivono in una società che scopre la democrazia, in cui l’αγαθός è ancora colui che vince e ha la capacità di dominare, ma in un assemblea, più che sul campo di battaglia. Sebbene i valori omerici non definiscano più l’orizzonte morale, tuttavia continuano a farne parte; non ci sono più re, dice MacIntyre, ma molte virtù regali sono ancora chiamate virtù[124]. Il loro esercizio non è più strettamente legato a un ruolo sociale particolare, ma si esercita in un orizzonte sociale allargato, che segna il definitivo passaggio dai valori della famiglia e della stirpe a quelli della πολις[125]. Ma com’è allora il nuovo orizzonte morale dell’età classica?

Sia Adkins, con la sua divisione tra virtù cooperative e virtù competitive, sia Dodds, con la distinzione tra culture della colpa e culture della vergogna, tentano di definire il cambiamento che investe la cultura greca, e ateniese in particolare, a partire dal V secolo. La cultura della vergogna è omogenea a un sistema di valori competitivi, così come quella della colpa nasce insieme all’affermarsi delle virtù cooperative. Tuttavia, nessuno dei modelli si presenta privo di contaminazioni, ma all’opposto, secondo quel processo di ‘agglomerazione’ più volte segnalato, ritroviamo gli antichi valori omerici inseriti nel nuovo contesto culturale. Infatti, l’utile distinzione di Adkins tra due sistemi etici antagonisti non spiega adeguatamente il conflitto di valori in atto nella società ateniese del periodo: non è un sistema ordinato di valori che ne sostituisce un altro, ma piuttosto la presenza di concezioni antagoniste della medesima virtù, e la pretesa di riconoscere determinati valori come prioritari rispetto ad altri, che determina il contesto nel quale opera Platone per ridefinire coerentemente il sistema delle virtù[126].

Sofocle esprime nelle sue tragedie queste concezioni antagoniste, che impongono una scelta tra valori opposti di cui è riconosciuta l’indiscussa autorità.

Nel Filottete[127] assistiamo al confronto e allo scontro irrisolto tra i valori aristocratici, cantati da Omero, e i nuovi valori cooperativi, esemplificati dalle idee e di giustizia e compassione. Ulisse e Neottolemo, figlio di Achille, devono entrare in possesso dell’arco magico di Filottete, necessario per conquistare Troia; si recano quindi sull’isola di Lemno, dove nove anni prima i greci hanno crudelmente abbandonato Filottete, ferito. Le strategie elaborate per sottrarre a Filottete l’arco mostrano due differenti interpretazioni del comportamento onorevole di un guerriero. Ulisse, suggerendo a Neottolemo di mentire per impadronirsi dell’arco, rappresenta il modello delle virtù competitive: usare l’astuzia e l’inganno per riuscire nell’impresa è una condotta onorevole, che rientra nel concetto di αρετή. Neottolemo, rifiutandosi di ingannare un uomo già maltrattato dai compagni, che non ha alcuna colpa della sua condizione, rivela una diversa concezione della virtù umana, ispirata alla giustizia. «Preferisco agire bene e fallire, piuttosto che vincere agendo male», egli dice, ribaltando la concezione dell’αγαθός, radicata nella coscienza sociale greca[128]. Sofocle ci lascia di fronte al conflitto irrisolto tra i due modelli antagonisti di comportamento e affida la soluzione del dilemma all’intervento divino di Eracle, che salva l’arco e lo stesso Filottete.

Se Sofocle affida alla coscienza soggettiva la scelta tra due legittime aspettative etiche[129], Platone definisce un sistema coerente di virtù, eliminando la possibilità del conflitto e del significato del pensiero tragico in un orizzonte razionale[130]. Tutto il suo progetto filosofico è dedicato ad una critica delle virtù competitive, che ha portato al disfacimento e alla crisi della società ateniese, e al riuscito tentativo di costruire un modello etico cooperativo, governato dall’idea di giustizia, virtù ancora considerata ‘minore’ nella concezione dominante[131].

Nel I libro della Repubblica, egli ci mostra due differenti modelli etici: quello esemplificato dal brillante sofista Trasimaco, che rappresenta i valori omerici trasferiti nel contesto della πολις, e quello di Socrate, che esprime il nuovo spirito critico verso la tradizione, e propone una risistemazione coerente delle virtù, secondo i nuovi valori della città.

Trasimaco rappresenta il cittadino ateniese che non è disposto a rinunciare al proprio interesse individuale in nome del benessere collettivo, ed esalta l’ingiustizia come una virtù dell’αγαθός: «E così, Socrate, sempre che sia realizzata in misura adeguata, l’ingiustizia è più forte e più degna di un uomo libero e di un signore di quanto lo sia la giustizia; e, come dicevo fin dal principio, la giustizia consiste nell’utile del più forte, e l’ingiustizia in ciò che comporta vantaggio e utile personale.»[132]. L’ αρετή è ancora, nel V secolo, la capacità, l’abilità di raggiungere determinati risultati, l αγαθός’è ancora, nel V secolo, colui che ha il coraggio, lo spirito d’iniziativa e la volontà per avere successo. Ciò che cambia è il contesto nel quale egli dispiega la sua αρετή: l’αγαθός’è ormai l’ αγαθός πολίτης, il buon amministratore, che ha il talento per procurare alla città i massimi vantaggi[133]. Ma anche in ciò egli persegue il suo utile e quello dei suoi amici, del gruppo ristretto a cui è legato. L’uomo giusto, che amministra la città nell’interesse di tutti, è un concetto che Socrate fatica a sostenere contro le solide argomentazioni di Trasimaco, proprio perché αγαθός, nella sua estensione, non designa propriamente anche δικαιος. Il principio tradizionale dell’etica aristocratica, secondo cui è giusto fare del bene agli amici e del male ai nemici, è infatti profondamente radicato e più volte affermato dagli interlocutori di Socrate[134]. Essere dei buoni amministratori, secondo la concezione tradizionale, non implica necessariamente essere giusti.

L’obiettivo di Platone è quello di sradicare questa concezione, introducendo la novità che in nessun caso è giusto fare del male. La frase che Socrate rivolge a Critone: «non è mai cosa retta né fare ingiustizia, né rendere ingiustizia»[135], che evoca in una mente moderna un concetto morale familiare[136], nell’Atene di Trasimaco rappresenta un paradosso, generato dall’uso improprio del termine. Per Trasimaco, infatti, se la giustizia non può essere definita come un vizio, è tuttavia una, benché nobile, follia[137]. La salda posizione di Trasimaco ci mostra la difficoltà del compito che Platone si è assunto, attribuendo al sostantivo ‘giustizia’ (δικαιοσΰνη) e all’aggettivo ‘giusto’ (δικαιος) significati fino allora esclusi dal corredo dei termini tradizionali.

La giustizia, che nella concezione omerica e tradizionale appare riferita alle azioni esteriori, e ha un carattere eminentemente procedurale[138], subisce un processo di interiorizzazione, divenendo una qualità dell’anima e della città: «essa però consiste nell’adempiere i propri compiti non esteriormente, ma interiormente, in un’azione che coinvolge veramente la propria personalità e carattere, per cui l’individuo non permette che ciascuno dei suoi elementi esplichi compiti propri di altri né che le parti dell’anima s’ingeriscano le une nelle funzioni delle altre; ma, instaurando un reale ordine nel suo intimo, diventa signore di sé stesso e disciplinato e amico di sé medesimo e armonizza le tre parti della sua anima»[139].

Entrando a far parte del territorio delle virtù, la giustizia diventa una qualità morale, e fra queste assume un ruolo determinante, come garante di un ordine stabile nella psiche e nella polis. La tesi di Platone è, infatti, com’è noto, che vi sia una giustizia nell’uomo, ed una nello stato, e che entrambe abbiano lo stesso significato[140]. Δικαιοσΰνη è l’armonia che governa le tre facoltà dell’anima, così come le tre classi corrispondenti dello stato[141]. Poiché è più grande, Platone comincia la ricerca della giustizia nello stato, che renderà in seguito più «facile vedere che cosa essa è in un individuo»[142]. Egli distingue la classe dei sapienti che governano lo stato, da quella dei valorosi che lo difendono e da quella di coloro che lo rendono prospero: ciascuna delle classi ha una funzione precisa, alla quale corrisponde una αρετή; i governanti esercitano la virtù della sapienza (σοφία), i guerrieri la virtù del coraggio (ανδρεία), il popolo, che lavora e produce, esercita la virtù della moderazione (σωφροσΰνη), che tuttavia anche le altre due classi devono mostrare di possedere. Giusto è quello stato in cui ciascuna delle classi svolge adeguatamente la propria funzione. La quarta virtù dello stato è infatti la δικαιοσΰνη, che Socrate definisce come «quella dote che a tutte le altre ha dato la forza di nascervi e, quando sono nate, permette loro di conservarsi, finché viva in esse»[143].

Anche nell’uomo, ad ogni funzione specifica corrisponde una virtù particolare: al controllo razionale degli appetiti del corpo corrisponde la σωφροσΰνη, all’esercizio razionale della facoltà irascibile corrisponde l’ανδρεία, e alla facoltà intellettiva, educata alla conoscenza del bene, infine, corrisponde la σοφία. La δικαιοσΰνη, nel suo aspetto individuale, consiste nell’equilibrio tra le tre facoltà dell’anima. «Dobbiamo allora ricordare, dice Socrate a Glaucone, che anche ciascuno di noi, se ciascuno dei suoi elementi adempie i suoi compiti, sarà un individuo giusto che adempie il suo compito»[144]. Δικαιοσΰνη entra a far parte del gruppo delle virtù maggiori, come uno strumento essenziale per il raggiungimento dell’ευδαιμονία. In questo modo Platone istituisce una correlazione necessaria tra αγαθός e δικαιος: chiunque aspiri ad essere buono, deve necessariamente essere anche giusto. Offrendo una nuova prospettiva per i concetti morali, Platone rappresenta il superamento del sistema delle virtù competitive.

Ma, in cosa consiste questo superamento? Siamo davvero di fronte ad una nuova prospettiva che ‘rompe’ con la tradizione eroica ed aristocratica? L’argomentazione di Adkins non deve trarci in inganno. Platone trasforma la giustizia in un concetto morale, scoprendo che la sua fonte si trova dentro l’uomo, nell’equilibrio razionale delle sue virtù. Lo stato deve riflettere quest’ordine rigido e immutabile, in cui ognuno ha il suo posto. Così come le facoltà dell’animo, anche le classi dello stato hanno ciascuna la propria funzione e debbono attendere ognuna ai propri affari; questa rigida divisione preclude ai cittadini la possibilità di appartenere a più di una classe, così come di transitare agevolmente dall’una all’altra. Ma se guardiamo l’ordine dello stato perfetto non ci sembra poi così lontano dalla rigida divisione in ruoli che caratterizza la società omerica, in cui ciascuno riceve in sorte le condizioni che definiscono la sua prospettiva morale. «Τα αυτου πράττειν»[145], fare la propria cosa, è la formula con cui Socrate conclude la sua lunga e articolata indagine sulla giustizia, dicendo che è ingiusto quello stato in cui i cittadini vogliono svolgere un ruolo che non è adatto alla loro natura: «Quando però, credo, uno che per natura è artigiano o un altro che per natura è uomo d’affari e che poi si eleva per ricchezza o per numero di seguaci o per vigore o per qualche altro simile motivo, tenta di assumere l’aspetto del guerriero; o un guerriero quello di consigliere e guardiano, anche se non ne ha i requisiti; e costoro si scambiano gli strumenti e gli uffici; o quando la stessa persona intraprende tutte queste cose insieme, allora, io credo, anche tu penserai che questo loro scambiarsi di posto e questo attendere a troppe cose sia una rovina per lo stato»[146].

Questa conclusione appare giustificata dal principio secondo cui ciascuno deve fare la cosa che gli è propria, ma, dice Havelock, questa formula platonica sembra «moralmente meschina, sorprendentemente meschina!»[147]; cosa è, infatti, la «propria cosa», e qual è l’origine del principio, se non l’etica tradizionale che Platone intende conservare e consolidare su nuove basi? La formula, continua Havelock, «(...) sottolinea il fatto che il cittadino deve fare correttamente cosa sta facendo, che deve accettare, diremmo noi, il ruolo che gli è stato assegnato. Chi, o che cosa, può averglielo assegnato se non lo stile di vita stabilito dal contesto sociale nel quale vive? E che cosa è questo se non la descrizione di una maniera di essere che corrisponde alla tradizionale regola di buon comportamento che ha conservato e protetto gli esistenti nomos ed ethos della società greca?»[148].

La teoria platonica, che appare rivoluzionaria[149] nei confronti di un’etica fattuale, basata sull’esteriorità, si inserisce tuttavia sul terreno ancora fertile dei valori competitivi, e sulla struttura dell’etica tradizionale[150], in cui a ciascuno viene assegnato un ruolo in ragione del suo rango, o natura, come dice Socrate a Glaucone.

Platone può essere considerato l’ultimo degli intellettuali che agisce in sintonia con il tessuto sociale ateniese. Dal IV secolo, nel periodo che prelude alla conquista macedone, il distacco tra il ceto degli intellettuali e il popolo si accentua notevolmente, mostrando una ristretta cerchia di sapienti che ha perso il contatto con la realtà cittadina[151]. Se il pensiero di Socrate costituisce il primo rilevante passo per la scoperta della coscienza e di un nuovo universo morale, l’ateniese comune continua ad agire e valutare le sue azioni secondo gli schemi della civiltà omerica, sebbene plasmati da quattro secoli di storia. È in questo orizzonte che si affaccia la responsabilità di Aristotele.

 

 

1.2.5.1. – Genitori delle proprie azioni

 

Aristotele non si chiede che cosa sia la responsabilità, ma piuttosto in quali casi una persona può essere ritenuta responsabile per le sue azioni[152]. Il suo è un problema pratico che, come egli precisa, riguarda anche i legislatori in vista dei premi e delle punizioni che essi stabiliscono: non è un concetto astratto quello che egli intende definire, ma le condizioni in base alle quali il nostro agire è suscettibile di valutazione morale.

Poiché solo le azioni volontarie possono essere oggetto di biasimo o di lode, fin dall’inizio del terzo libro dell’Etica Nicomachea Aristotele manifesta il proposito di definire ciò che è volontario e ciò che è involontario. Egli procede dalle testimonianze della realtà, oltre le quali Platone ci esorta ad andare nella ricerca della verità[153]. Conformemente al suo metodo dialettico[154], che va dalle opinioni per giungere ai principi, egli parte da ciò che è comune[155], da ciò che si dice e da ciò che si pensa: «Sembra che siano involontarie le azioni che si compiono per forza o per ignoranza.»[156]. Forza e ignoranza sono le due condizioni che circoscrivono il campo dell’involontario, rendendo le nostre azioni ακούσια, non soggette né al biasimo né alla lode[157].

Forzate sono quelle azioni la cui origine è esterna all’agente, in modo tale che egli non vi deve aver contribuito in alcun modo, per esempio quando veniamo trasportati dal vento, o quando veniamo rapiti. Solo queste azioni possono essere definite propriamente involontarie.

Diverso è il caso, dice Aristotele, in cui agiamo in un certo modo perché vi siamo costretti dalle circostanze. Ad esempio quando veniamo ricattati: quando un tiranno che si è impadronito dei nostri figli o dei nostri genitori minaccia di ucciderli se non facciamo qualcosa di turpe che non avremmo mai compiuto liberamente, oppure quando una tempesta ci costringe a gettare in mare il carico della nave per salvare le nostre vite. E’ chiaro, aggiunge Aristotele, che nessuna persona sana di mente agirebbe in questo modo senza motivo, tuttavia è ragionevole aspettarsi che in questi casi tutti agirebbero allo stesso modo.

Queste azioni sono definite miste, perché la scelta individuale, sebbene fortemente condizionata, coopera con le circostanze. Infatti, dopo aver manifestato il dubbio se queste azioni possano considerarsi volontarie o involontarie, Aristotele ci dice che sono più simili a quelle volontarie. Coerentemente con la sua definizione iniziale, secondo cui involontarie sono le azioni il cui principio si trova fuori dall’agente, egli dice che in questi casi il principio risiede nell’agente, che conserva la facoltà di fare o non fare l’atto, e che, nel momento in cui agisce, lo fa in base a una deliberazione. «Perciò tali azioni sono volontarie, per quanto in senso assoluto forse sarebbero involontarie: nessuno infatti, di per sé vorrebbe compiere nessuna di esse.»[158] La volontarietà di questi atti è segnalata anche dalla reazione sociale che li accompagna. Talvolta, quando si sopporta qualcosa di doloroso per fini grandi e belli, dice Aristotele, si viene lodati; in caso contrario si viene biasimati. In altri casi, quando ad esempio si compiono atti biasimevoli sotto tortura, si viene perdonati. Ma, per alcune azioni, chiarisce Aristotele, non vi è giustificazione che possa esonerarci dalla responsabilità, come nel caso del matricidio; in questo caso è preferibile la morte.

Egli conclude la rassegna delle azioni involontarie compiute sotto costrizione, precisando che non si può sostenere che gli atti compiuti in vista di cose belle e piacevoli non possono essere detti involontari, adducendo l’argomento che si tratta di oggetti che ci costringono dall’esterno ad agire, perché in tal caso ogni atto sarebbe compiuto sotto costrizione, perché è proprio in virtù del piacevole e del bello che agiamo. Non basta quindi dire che il principio dell’azione deve risiedere fuori dell’agente, si deve dire che «chi vi è costretto non vi partecipa per nulla.»[159].

L’altra causa che esonera dalla responsabilità, rendendo le azioni involontarie, è l’ignoranza. Nell’analisi dell’ignoranza Aristotele introduce una rilevante distinzione che segna il distacco dall’etica platonica. Egli distingue, infatti, tra l’azione compiuta nell’ignoranza e quella compiuta sotto gli effetti dell’ignoranza: solo la seconda può dirsi involontaria. Ma procediamo con ordine, seguendo la trattazione di Aristotele.

Un primo criterio di distinzione riguarda la reazione dell’agente al suo atto. Egli ci dice che l’azione compiuta per ignoranza è involontaria se produce dolore e pentimento, mentre quella compiuta per ignoranza, che non produce alcun effetto del genere nell’agente, non potrà definirsi involontaria (ακούσιον), ma verrà definita non-volontaria (ουχ εκούσιον). Così come non agì volontariamente, l’agente non agì neppure contro la sua volontà, come dimostra la totale mancanza di pentimento. Ross, nella sua celebre analisi del pensiero aristotelico, ritiene che la distinzione tra involontario e non-volontario sia insoddisfacente, perché non vi è una reale differenza di significato tra involontario e non-volontario. Forse, continua Ross, si può pensare che Aristotele con ακούσιον intenda riluttante, che esprime una volontà contraria (unwilling), e con ουχ εκούσιον intenda involontario, come può esserlo un atto irriflesso (involuntary), ma sembra chiaro, conclude Ross, criticando il bell’argomento di Aristotele, che l’atteggiamento successivo dell’agente non può essere un criterio utile per distinguere un atto riluttante da uno involontario[160]. Non possiamo fare a meno di notare che, sebbene breve, il commento con cui Ross liquida l’argomento di Aristotele sull’importanza del pentimento nella valutazione morale dell’azione, è espressione di un pensiero moderno, che ha del tutto espropriato l’indagine etica dalla sfera dei sentimenti[161].

Diverso dall’agire per ignoranza è il caso, continua Aristotele, in cui si compie qualcosa senza averne conoscenza[162]. Così quando qualcuno agisce sotto gli effetti dell’alcool o dell’ira, noi diciamo che non sa quello che fa, non a causa della sua ignoranza, ma a causa di una di queste ragioni. Ma in questo caso non possiamo considerare la sua azione come involontaria, perché chi ignora ciò che gli giova, e quindi il suo bene, ha avuto la possibilità di agire altrimenti.

Dal caso particolare dell’agire per mancanza di conoscenza, Aristotele passa a trattare il caso dell’«ignoranza dell’universale»[163], che costituisce un netto cambio di prospettiva rispetto all’etica socratica. La condizione di ignoranza in cui si trova l’agente nel momento della scelta non costituisce, per Aristotele, ragione alcuna di involontarietà dell’atto, ma all’opposto di «perversità»[164], secondo il principio per cui ciascuno è responsabile della sua formazione morale[165]. Chi agisce male, secondo la prospettiva socratica condivisa da Platone[166], lo fa perché ignora il proprio bene, per una sostanziale mancanza di conoscenza; nessuno che conosca la via per giungere all’ευδαιμονία agirebbe male volontariamente[167]. Aristotele invece non attribuisce l’azione malvagia a un errore intellettuale. Noi nasciamo con determinate capacità, che poi vanno sviluppate attraverso l’esercizio e la pratica. Questo sviluppo, che passa attraverso l’azione e la conoscenza, secondo un’idea armoniosa dell’essere umano, è qualcosa che dipende da noi compiere o meno[168].

Aristotele riprende l’argomento all’inizio del paragrafo V del Libro III, che chiude la trattazione delle virtù in generale: sia la virtù che il vizio, così come il fare bene e fare il male, egli dice, dipendono da noi, perciò, conclude, «la malvagità è volontaria»[169]. «In caso contrario, continua, occorrerebbe rimettere in discussione ciò che fu detto e si dovrebbe dire che l’uomo non è causa né padre delle proprie azioni, come lo è dei figli»[170].

Se l’ignoranza dell’universale non esclude la volontarietà delle azioni, è invece l’ignoranza del particolare che rende l’azione involontaria. Si tratta di tutti quei casi in cui l’ignoranza riguarda qualche fatto di estrema importanza, che determina il risultato dell’azione, come quando si scambia il proprio figlio per un nemico, dice Aristotele, oppure, per salvare una persona, le si fa bere una pozione, uccidendola. Si tratta di quelle circostanze a causa delle quali si svolge l’azione. In questi casi la loro mancata conoscenza, non attribuibile a colpa dell’agente, fa sì che il corso dell’azione sia diverso da quello che egli si era proposto.

A questo punto Aristotele può ridefinire il concetto di azione volontaria: «volontaria sarà dunque quell’azione il cui principio risiede in chi agisce, se conosce le circostanze particolari in cui si svolge l’azione»[171]. Proprio perché il principio risiede in chi agisce, sono da considerare come volontarie le azioni compiute sotto l’effetto dell’ira o del desiderio; in tal caso non potrebbero essere considerate volontarie nemmeno le azioni dei bambini; inoltre sarebbe ridicolo dire che nessuna delle azioni che compiamo per desiderio o ira sono involontarie, sarebbe come dire che le azioni malvagie sono involontarie e quelle buone volontarie: la causa delle azioni è sempre una.

Questa teoria aristotelica della responsabilità[172], ricavabile dalla lettura dell’Etica Nicomachea, è stata di recente definita incongruente e incompleta, perché non considera esplicitamente, tra le condizioni della responsabilità, insieme alla volontarietà degli atti, la capacità di decidere, propria di un soggetto adulto.

Irwin, a cui si deve il nuovo approccio critico, definisce come «teoria semplice» della responsabilità quella enunciata nell’Etica Nicomachea, segnalandone alcune incongruenze. In base a questa teoria la responsabilità deriva dall’azione volontaria, che si ha in presenza di due condizioni negative, quali la mancanza di forza e ignoranza. Abbiamo visto anche che Aristotele precisa che l’azione dettata dal desiderio e dalle emozioni è volontaria. In base a quest’argomento anche i bambini agiscono volontariamente, e nessuno avrebbe il coraggio di negarlo, tuttavia nella teoria aristotelica i bambini, così come gli animali, non sono ritenuti responsabili per le loro azioni. L’incongruenza, sostiene Irwin, deriva dal fatto che, se condizione della responsabilità sono le azioni volontarie, se i fanciulli e gli animali sono capaci di azioni volontarie, Aristotele, contrariamente alla logica conclusione, esclude che questi debbano essere ritenuti responsabili delle loro azioni[173].

Per superare il limite emerso dall’Etica Nicomachea, Irwin propone una «teoria complessa» della responsabilità, ricavata dal confronto dell’etica Nicomachea con le altre opere e in particolare con l’Etica Eudemia. Sebbene necessaria, la volontarietà dell’azione non è sufficiente, dice Irwin, per stabilire quando da questa deriva la responsabilità, è necessario che l’azione sia compiuta in base alla capacità di decisione, che manca agli animali e ai bambini[174]. Alla teoria semplice, per la quale l’agente è responsabile, e quindi suscettibile di lode o biasimo, per aver fatto x se e solo se l’agente agisce volontariamente, egli sostituisce una teoria più complessa, in base alla quale l’agente è responsabile per aver fatto x se e solo se è capace di decidere effettivamente in merito a x e agisce volontariamente.[175]

Irwin presenta quindi due modelli di responsabilità, uno semplice, che corrisponde più da vicino a quello espresso da Aristotele nell’Etica a Nicomaco, ed uno complesso, ricavato dal confronto tra le etiche aristoteliche, che non ritroviamo esplicitamente nelle parole di Aristotele, ma che, secondo Irwin, ci aiuta a capire meglio della teoria semplice che cosa intendesse Aristotele con agente responsabile. Non credo di aver sostituito, dice Irwin, la teoria di Aristotele con quella di qualcun altro, «abbiamo semplicemente esplorato le implicazioni della restrizione aristotelica della classe di agenti responsabili a quelli che sono capaci di decisione»[176]. L’agente responsabile non è semplicemente chi agisce in assenza di condizioni esterne negative, ma anche chi è in grado di prendere una decisione. Per questa ragione i bambini non possono essere considerati responsabili, sebbene siano capaci di azioni volontarie.

Presentando l’analisi della responsabilità nei termini di un sillogismo pratico, dovremmo quindi sostituire la premessa maggiore che subordina la pronuncia della responsabilità alle sole azioni volontarie con quella per cui si può pronunciare la responsabilità in presenza di azioni volontarie, compiute da persone in grado di prendere una decisione consapevole. Potremmo pensare, accogliendo il suggerimento di Irwin, che Aristotele nel suo ragionamento intendesse seguire uno schema di questo tipo: si è responsabili solo se si agisce volontariamente (non costretti da forza o ignoranza) e si ha la capacità di decidere; i bambini sono capaci di agire volontariamente, ma non di decisioni; i bambini non sono responsabili.

Irwin conclude accostando la responsabilità di Aristotele a quella di Kant, per l’idea che l’azione umana responsabile non è costretta né necessitata dagli impulsi dei sensi e deriva da un potere di autodeterminazione, ma se ne distanzia perché Aristotele individua il potere di autodeterminazione nella capacità di assumere una decisione consapevole, mentre Kant lo fonda su di un atto libero (non causato) della volontà[177].

Poiché attribuisce la condizione di responsabilità morale solo agli individui adulti, che sono capaci di scelte ponderate, e la nega ai bambini, capaci di azioni volontarie, ma non di deliberazione, la brillante interpretazione di Irwin è stata criticata da Martha Nussbaum. [178] I due modelli di responsabilità, individuati da Irwin, non sono da considerare in alternativa, sostiene Nussbaum, come se uno solo dei due fosse adeguato, ma complementari, secondo una logica della continuità[179]. É vero che per Aristotele solo le persone adulte, che hanno un carattere già formato e che hanno fatto le loro scelte di vita, sono capaci di una perfetta decisione, che implica profondi giudizi etici, ma, obietta Nussbaum, egli ammette anche che in determinati tipi di azioni, come quelle dei bambini, siano coerenti la lode e il biasimo, come in ogni coerente processo educativo. Irwin ritiene che la lode o il biasimo rivolti alle azioni dei bambini abbiano fini meramente manipolatori, per condizionarne i comportamenti, ma che non raffigurino un reale processo di apprendimento, proprio per quella mancanza di capacità deliberativa che escluderebbe la responsabilità dal loro orizzonte morale[180]. Ma ciò non spiega come avvenga il passaggio da un essere umano incapace di responsabilità ad uno adulto capace di una perfetta deliberazione, continua Nussbaum: «Lode e biasimo, sin dal principio, non sono soltanto stimoli, ma modi di comunicazione appropriati ad una creatura intelligente, che agisce secondo la sua visione del bene.»[181]. In questo caso la teoria semplice della responsabilità appare adeguata per consentire al bambino quel percorso educativo fondamentale, secondo Aristotele, per condurre una vita buona. La lode e il biasimo conseguenti, che racchiudono, insieme alle punizioni e gratificazioni, tutto quel corredo di sentimenti legato alla valutazione morale dell’azione, sono modi di comunicazione, non di manipolazione, rivolti a una creatura capace di modificare criticamente la propria visione del bene, attraverso azioni volontarie[182].

L’analisi aristotelica della responsabilità ci sembra molto familiare, richiamando alla nostra attenzione categorie come quelle di atto volontario e involontario, e attribuendo il biasimo o la lode solo a quelle azioni che possono considerarsi volontarie, delle quali possiamo essere considerati il principio, come un genitore rispetto ai propri figli. Ne sono una conferma le parole di Berti: «Questa trattazione mostra come già in Aristotele la valutazione morale tenga conto non tanto del contenuto materiale dell’azione, quanto piuttosto della sua intenzione, di quella che modernamente sarà chiamata la sua forma, e quindi della volontà e della stessa libertà. Da questo punto di vista pertanto l’etica aristotelica presenta dei singolari tratti di modernità.»[183]. Tuttavia, come vedremo, questa familiarità col pensiero moderno non deve trarci in inganno: l’atto volontario di Aristotele assume significati molto diversi da quelli che gli attribuivano Grozio o Pufendorf. Lo stesso principio delle azioni è un animale razionale, non un ente spirituale, e lo stesso criterio di valutazione delle azioni nasce pur sempre da quel sistema dell’etica greca che non distingue le intenzioni dell’agire dal suo risultato concreto[184].

Tradurre εκούσίος e ακούσιος con i termini ‘volontario’ e ‘involontario’ induce a una ricostruzione falsata della responsabilità in epoca classica e nel pensiero aristotelico in particolare, dice Giuliani[185]. I significati che noi contemporanei assegniamo alle parole volontario e involontario derivano dal giusnaturalismo moderno che, accogliendo l’eredità del pensiero teologico, introduce il concetto di causa morale. La volontà nel pensiero moderno esprime un significato ‘forte’, come facoltà spirituale del soggetto, strettamente legata al suo potere creativo. Aristotele, invece, esprime una concezione ‘debole’ della volontà, in cui l’agire umano appare limitato nella sua capacità di controllo della realtà, e conoscenza della causalità. L’azione è il frutto di un intreccio di catene causali, in cui la volontà umana, guidata dalla deliberazione, è solo una delle quattro cause che concorrono alla produzione della realtà[186]. Il moderno, attraverso l’elaborazione dell’epistemologia scientifica, ricondurrà la molteplicità aristotelica delle cause ad un’unica forma, quella della causalità naturale e meccanica, escludendo la causa finale dal campo della conoscenza.

La creazione di una forma di causalità, che si esplica nella realtà naturale secondo un principio meccanico ricavato dall’osservazione dei fenomeni naturali, condurrà i filosofi a ricercare il principio delle azioni nella volontà, intesa ormai come una facoltà spirituale, scissa dalla fisicità della natura. I filosofi del diritto naturale moderno, continua Giuliani, «hanno ignorato il fatto che la dottrina aristotelica non conosce né una morale del dovere né la distinzione tra “essere fisico” ed “essere morale”»[187].

Nella distinzione tra una concezione classica ed una moderna di responsabilità, anche il diritto romano partecipa dei caratteri della ‘volontà debole’, creando, come vedremo nei prossimi paragrafi, una dottrina delle cause di giustificazione, che si oppone alla teoria giuridica dell’imputazione, su cui il pensiero moderno ha edificato i sistemi di responsabilità civile e penale. L’azione umana viene valutata dal punto di vista della giusta riparazione di un danno, secondo il concetto di giustizia aristotelica che individua in essa un equilibrio basato sulla reciprocità e l’eguaglianza[188]. Piuttosto che il dispiegarsi di una libera volontà, il diritto romano cerca i condizionamenti sociali dell’agire umano nell’attribuzione della responsabilità.

 

 



 

[1] A. W. H.Adkins, La morale dei greci da Omero ad Aristotele, Roma-Bari, Laterza, 1987 (Merit and Responsibility. A Study on a Greek Values, Oxford University Press, 1960). É il problema intorno a cui ruota tutta l’analisi di Adkins, come egli afferma nella prima pagina del suo volume:«Il nesso conduttore della trattazione è lo sviluppo del concetto di responsabilità morale in Grecia: un concetto che, nel pensiero morale del periodo preso in esame, aveva innegabilmente un rilievo secondario.», (p. 9).

 

[2] Ivi, p.12.

 

[3] M. Villey, Esquisse historique sur le mot «responsable»,cit.

 

[4] P. Ricoeur, Le concept de responsabilité, cit.

 

[5] Cfr. P. Stein, J. Shand, I valori giuridici della civiltà occidentale, Milano, Giuffré, 1981 (ed.or Legal Values in Western Society, Edinburgh, Edinburgh University Press, 1974), p. 165 ss.cfr. inoltre P. Fauconnet, La responsabilité. Etude de sociologie, Paris, Alcan, 1920, che osserva in chiave critica il processo di individualizzazione della responsabilità, per sua natura oggettiva : «A se contenter d’une formule approximative, on peut dire que la repsonsabilité, au cours de l’évolution, s’individualise. Collective et communicable dans les sociétés inferieures, elle st en principe, strictemen personnelle dans les sociétés les plus civilsées. Comment une responsabilité communicable par nature peut-elle devenir rigoureusement individuelle?», (p. 330)

 

[6] Cfr. G. Duso, Storia concettuale come filosofia politica, in Filosofia politica, 1997, n.3, pp. 393-427, il quale nota, nel quadro teorico delineato dalla Begriffsgeschichte, come la ricostruzione dei concetti moderni avvenga attraverso una loro storicizzazione, in virtù della quale l’oggetto prima viene astratto dalla realtà e poi ricostruito storicamente attraverso l’uso delle categorie moderne, assunte in una valenza universale: «(…) la storia, originata dalle scienze moderne dello spirito, è condizionata dai concetti che esse hanno elaborato e che portano a considerare le complesse situazioni del passato – in cui tali concetti non sono ancora emersi, e diverse sono sia la realtà dei rapporti umani, sia il linguaggio che li esprime – come mera preistoria, come fasi ancora incomplete e non scientifiche di uno sviluppo che si è poi venuto determinando.», p. 406; cfr. inoltre O. Brunner, alla cui opera Duso nel saggio citato si riferisce, Il pensiero storico occidentale, in P. Schiera (a cura di), Per una nuova storia costituzionale, Milano, Vita e Pensiero, 1968, p. 50 ss.

 

[7]L. Husson, Les transformations de la responsabilité. Etude sur la pensée juridique, Paris, PUF, 1947., che concentra la sua analisi sul significato giuridico della responsabilità civile e sulla sua evoluzione.

 

[8] J. Henriot, Responsabilité (mor.), in Enyiclopédie Philosophique Universelle,vol.II Les Notions Philosophiques. Dictionnaire, Paris, P.U.F., 1990, pp. 2250-2253.

 

[9] P. Stein, J. Shand, op. cit., p. 178.

 

[10] Cfr. E. Cantarella, Norma e sanzione in Omero. Contributo alla protostoria del diritto greco, Milano, Giuffré, 1979, p. 225 ss.

 

[11] E. Dodds, I greci e l’irrazionale, Firenze, La Nuova Italia, 1978 (The Greeks and the Irrational, Berkeley e Los Angeles, University of California Press, 1951), p. 43.

 

[12] Cfr. M. Nussbaum, La fragilità del bene, Bologna, Il Mulino, 1986, (The Fragility of Goodness. Luck and Ethics in Greek Tragedy and Philosophy, Cambridge, Cambridge University Press, 1986), p.107 ss., Sulla maledizione ereditaria cfr. inoltre A.W.H. Adkins, op. cit., p. 170 ss.

 

[13] Cfr. V. Arangio Ruiz, Istituzioni di diritto romano, Jovene, Napoli, 1980, p. 369 ss.

 

[14] Sul processo di interiorizzazione come costruzione dell’identità del soggetto moderno, cfr. C. Taylor, Radici dell’io Milano, Feltrinelli, 1993 (Sources of the Self. The Making of Modern Identity, Cambridge MA, USA, Harvard University Press, 1989); sull’influsso di tale processo nella costruzione dell’idea di responsabilità Cfr. A. Giuliani, Imputation et justification, cit.

 

[15] Cfr. G. Cazzetta, Responsabilità aquiliana e frammentazione del diritto comune civilistico, Milano, Giuffré, 1991.

 

[16] E. Dodds, I greci e l’irrazionale, cit., p. 211.

 

[17] La coesistenza nel concetto moderno di responsabilità di una pluralità di elementi di differente provenienza storica e tradizioni filosofiche e giuridiche richiama uno degli argomenti centrali della teoria della storia concettuale di R. Koselleck, Storia dei concetti e storia sociale, in Id., Futuro passato, Genova, Marietti, 1986, (Vergangene Zukunft. zur Semantik geschichtlicher Zeiten, Frankfurt a. M., Suhrkamp Verlag, 1979): «La storia concettuale spiega quindi anche come un concetto sia costituito di più strati, ossia di significati che derivano cronologicamente da tempi diversi. In tal modo essa supera la rigida alternativa diacronis-sincronia, anzi richiama la contemporaneità del contenuto non-contemporaneo che può essere presente in un concetto.», p. 107.

 

[18] Op. cit., p. 11.

 

[19] É quello che E. Berti chiama il «paradosso di Adkins», in Introduzione a A.W.H. Adkins, La morale dei greci, cit., p. VI.

 

[20] A. W. H. Adkins, op. cit., cap. VIII e cap. XII. Cfr. inoltre E. Dodds, op. cit., p. 4: «(...) la giustizia greca primitiva non tiene conto dell’intenzione: solo l’azione importa».

 

[21] Così A. W. H. Adkins, op. cit., p. 13.

 

[22] Cfr. B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Torino, Einaudi, 1963, (ed or. Die Entdeckung des Geistes. Studien zur Entstehung des europäischen Denken bei den Griechen, Hamburg, 1946) che considera il concetto di αρετή come un fondamentale indicatore dei mutamenti nel sistema di valori della civiltà greca, p. 247 ss

 

[23] C. Taylor, Radici dell’io, cit., p. 34.

 

[24] Ivi, p. 42. Taylor precisa che il quadro di riferimento può essere sia esplicito che implicito. Infatti può accadere che le distinzioni qualitative che definiscono lo sfondo del nostro agire siano semplicemente percepite, attraverso l’accettazione di un modello, più che discusse criticamente, attraverso una teorizzazione filosofica: «Se qui ho voluto menzionare questa distinzione è, almeno in parte, per evitare un errore, in cui s’incorre molto spesso: quello consistente nel pensare che chi opera senza un quadro di riferimento filosoficamente definito semplicemente non ce l’ha. Questo può essere totalmente falso (io, anzi, intendo sostenere che lo è sempre). L’esistenza di quelle persone, infatti, (...), può essere interamente strutturata da distinzioni qualitative sommamente importanti, in relazione alle quali essi letteralmente vivono e muoiono. (...) E’ a questo livello ancora implicito, a cui noi peraltro funzioniamo così spesso, che alludo quando parlo di “percezione” di una distinzione qualitativa.», (p. 36).

 

[25] Cfr. E. Cantarella, Itaca. Eroi, donne, potere tra vendetta e diritto, Milano, Feltrinelli, 2002, che delinea il passaggio da un sistema di responsabilità oggettiva ad uno di responsabilità soggettiva, già nei poemi omerici, e  nell’Odissea in particolare, p. 186 ss. Cfr. inoltre R. Mondolfo, Responsabilità e sanzione nel più antico pensiero greco, in Civiltà moderna, 1930, vol. II, pp. 1-16, che ritiene che il problema della responsabilità abbia un preciso rilievo già nei poemi omerici.

 

[26] A. W.H.Adkins, op. cit., p. 16 ss.

 

[27] Ivi, p. 326.

 

[28] E. Cantarella, Itaca, cit., non condivide questa aggettivazione delle virtù cooperative: «Non virtù “minori”, come sono state definite, ma virtù nuove, espressione e simbolo di nuove concezioni affioranti nel rapporti sociali, che nei poemi coesistono, non senza difficoltà, accanto alle vecchie virtù.», (p. 112).

 

[29] Cfr. R. Mondolfo, Responsabilità e sanzione nel più antico pensiero greco, cit., il quale nota, nel canto XIV dell’Odissea, un primo confronto tra due differenti sistemi morali: «In questo canto dell’Odissea, in cui il lavoro e l’attività utile alla famiglia si presentan essi pure quali virtù, contrapposte alle virtù guerriere, si vede (...) un primo affermarsi, di fronte alla morale guerriera ed eroica, di una ben diversa morale casalinga ed economica: primo passo verso il capovolgimento che si presenta poi con Esiodo, in cui si ha sostituzione (non più semplice contrapposizione) del pacifico e mite ideale contadino all’avventuroso ideale dell’eroe.», (pp. 9-10).

 

[30] Cfr. E. Cantarella, Itaca, cit., p. 108 ss.

 

[31] J. Burckardt, Storia della civiltà greca, vol. II, Firenze, Sansoni, 1974 (Griechische Kulturgeschichte) p. 220, in riferimento a Iliade, Trad. R. Calzecchi Onesti, Torino, Einaudi, 1990, 11, 628; 784.

 

[32] Cfr. W Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco, Firenze, La nuova Italia, 1999, (Paideia. Die Formung des griechischen Menschen, Berlin und Leipzig, Walter de Gruyter, 1944) : « I Greci sentirono che l’areté era soprattutto una forza, una capacità di fare qualche cosa. Forza e salute sono l’areté del corpo, intelligenza e acutezza l’areté della mente.» vol. I, p. 33, nota 10.

 

[33] Cfr. B. Williams, L’etica e limiti della filosofia, Roma-Bari, Laterza, 1987 (Ethics and  the Limits of Philosophy, Cambridge, MA, Cambridge University Press, 1985), che così definisce la virtù: «una virtù è una disposizione del carattere a scegliere o ad omettere le azioni in quanto sono di un certo tipo eticamente rilevante», precisando che si tratta di un termine considerato obsoleto nel linguaggio contemporaneo: «La parola “virtù” in moltissimi casi risente di associazioni che la rendono un po’ umoristica o che comunque sono per qualche verso indesiderabili, ed oggi sono ben pochi, a parte i filosofi, quelli che la usano (...).», (p. 12). Cfr. inoltre L. Fuller, La moralità del diritto, Milano, Giuffré, 1986 (The Morality of Law, Yale, University Press, 1964; 1969), che considera l’attuale significato del termine «virtù» in relazione al passaggio da un’etica dell’intenzionalità, come quella greca a un’etica del dovere, come  quella moderna: «Per noi la parola ‘virtù’ è stata a poco a poco identificata con la mora del dovere. Per I moderni la parola ha in gran parte perduto il suo senso originario di potere, efficacia, abilità e coraggio, una serie di caratteri che una volta si collocavano senza problemi nell’ambito della morale dell’intenzionalità.», (p. 23-24).

 

[34] Cfr. A. MacIntyre, Oltre la virtù, Milano, Feltrinelli, 1988 (After the Virtue. A Study in moral Theory, Indiana, U.N.D.P., 1981), p. 150.«La parola aretê, che in seguito venne ad essere tradotta con “virtù”, nei poemi omerici è usata per designare l’eccellenza di qualsiasi genere: un corridore veloce mostra l’ aretê dei suoi piedi (Iliade 20.411) e un figlio supera il padre in ogni sorta di aretè: come atleta, come soldato, e per intelligenza (Iliade 15.642).».

 

[35] W. Jaeger, Paideia., cit., vol. I, p. 34.

 

[36] B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, cit., p. 232; Così anche A.W.H.Adkins, op. cit., p. 53: «(...) agathos non ha nel suo impiego normale nessuna notazione puramente morale».

 

[37] Cfr. A. W.H.Adkins, Op. cit., p. 57 ss.

 

[38] Ivi, p.61. Si veda inoltre E. Havelock, Dike. La nascita della coscienza, Bari, Laterza, 1981 (ed.or. The Greek Concept of Justice from its Shadow in Homer to its Substance in Plato, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1978), cap. VII, che ritiene che la composizione della lite fra Achille e Agamennone avvenga secondo una serie di procedure accuratamente programmate. Se mancano i principi astratti superiori a cui appellarsi di fronte a un abuso, quale quello compiuto da Agamennone, sono presenti, riconosciuti e radicati i criteri procedurali di composizione della lite. Descrivendo la riunione dell’assemblea convocata da Achille per dibattere la decisione di Agamennone, che ha rifiutato al sacerdote la restituzione della figlia Criseide, bottino di guerra di Agamennone, Havelock osserva «Gli esametri formulari che descrivono la convocazione iniziale e lo scioglimento finale, il succedersi degli oratori che si alzano e si siedono, che offrono proposte e rifiuti, che sfidano e mediano, sono accuratamente programmati. Stiamo assistendo a un concilio cittadino in seduta (...)»; la riunione formale e il suo svolgimento ci mostrano che siamo in presenza di un parlamento, nel senso letterale del termine. «Per la fantasia omerica i greci sono un esercito in un campo che assedia Troia. Ma da un punto di vista realistico si stanno comportando come il “parlamento” di una polis, e pertanto forniscono un esempio paradigmatico di procedura civica come un elemento del materiale oralmente conservato.», (p. 156).

 

[39] A.W.H. Adkins, op. cit., che così continua: «L’agire ingiustamente non suscita l’ammirazione di quelli che ne subiscono le conseguenze; ma l’agire in modo giusto, virtù ‘minore’, è generalmente meno ammirato dalla società che non l’ingegno e il coraggio, perché di questi si prova più vivo il bisogno» (p. 84).

 

[40] A. MacIntyre, Oltre la virtù, cit., p. 151.

 

[41] Sulla distinzione tra valori morali e non-morali cfr. infra par.1.2.3.2.

 

[42] Cfr. G. Cosi, Il logos del diritto, Torino, Giappichelli, 1993, p. 107 ss.

 

[43] M. Nussbaum, La fragilità del bene, cit., p. 51. Sulla distinzione tra etica antica ed etica moderna cfr. E. Tugendath, Problemi di etica, Torino, Einaudi, 1987, (Probleme der Ethik, Stuttgard, Philipp Reclam jr., 1984), p. 22 ss.

 

[44] Ibidem; per la critica all’interpretazione di Adkins cfr. p.77,  n.9.

 

[45] Il volume di Adkins, che ha avuto una grande influenza sulla letteratura successiva, è stato fortemente criticato, proprio per aver assolutizzato la prospettiva kantiana, implicitamente considerata, nel suo lavoro, come unico possibile approccio al tema della responsabilità morale. Cfr B. Williams, L’etica e i limiti della filosofia, cit., p. 41 nt. 2: «L’assunto secondo cui le idee dei Greci in campo etico non reggono il confronto con quelle moderne, e in particolare con quelle di kant, è un tratto poco positivo del noto libro di A.W.H. Adkins». Sebbene questo rappresenti un limite nella prospettiva teorica di Adkins, riteniamo tuttavia che la sua ricerca minuziosa e puntuale sia una fonte preziosa e utile alla riflessione sul tema.

 

[46] M. Vegetti. L’etica degli antichi, Roma-Bari, Laterza, 2000, p. 5.

 

[47] E. Havelock, Dike. La nascita della coscienza, cit., p. 32.

 

[48] Cfr. G. Cosi, Il logos del diritto, cit.: «(...) specie nel periodo più antico, nomos copre un’aera semantica molto vasta, che si estende a comprendere praticamente ogni tipo di norma esistente o vigente, ordine, costume, usanza, consuetudine: indica cioè tutto ciò che è in vigore nel gruppo sociale.», (p. 120).

 

[49] Cfr. E. Dodds, op. cit., p. 28.

 

[50] «Questo modo intellettualistico di spiegare la condotta ha lasciato un’impronta durevole sulla mentalità greca: i cosiddetti paradossi socratici che “la virtù è conoscenza” e che “nessuno fa male di proposito” non erano novità, erano formulazioni, generalizzate in forma esplicita di un antico e radicato abito mentale» Ibidem.

 

[51] Sul concetto di αρετή femminile nei poemi omerici cfr. E. Cantarella, Norma e sanzione in Omero, cit.,: «Le qualità che la donna omerica doveva possedere per avere αρετή ed essere quindi stimata non erano poche. In primo luogo, doveva essere bella. (...) doveva curare il suo aspetto fisico e preoccuparsi del suo abbigliamento: sono queste, come dice Atena a Nausicaa, le qualità con cui una donna si conquista “fama gloriosa”. Doveva poi eccellere nei lavori domestici. E, soprattutto, doveva obbedire.»; dopo un’analisi dei passi omerici più significativi, Cantarella conclude: «Rigoroso rispetto della divisione dei ruoli e obbedienza, dunque, sono le virtù che ci si aspetta da una donna, insieme alla pudicizia e alla fedeltà: virtù, tutte, che appartengono proverbialmente a Penelope». Ma, sostiene l’autrice, le virtù femminili, non erano collaborative, per due ragioni: la prima è che anche le donne omeriche sono in competizione fra loro per la realizzazione di un ideale femminile; la seconda riguarda il fatto, molto significativo, che i valori collaborativi, nel mondo omerico, erano maschili: «la giustizia, infatti, la virtù collaborativa per eccellenza, è virtù di Odissea, non di Penelope.», (p. 157); Cfr. inoltre A. W.H.Adkins, op. cit., che sostiene invece che «Nelle donne, quindi, l’arete pregia le virtù ‘minori’», (p. 60).

 

[52] Cfr. E. Cantarella, Studi sull’omicidio in diritto greco e romano, Milano, Giuffré, 1976, che, analizzando i poemi omerici, ritiene del tutto irrilevanti le intenzioni dell’agente nella determinazione della responsabilità: «L’omicidio provocava sempre e ovunque una reazione di tipo vendicativo, del tutto indipendentemente dalla considerazione di quella che era stata l’intenzione dell’omicida» (p. 35).

 

[53] Sul rapporto tra uomini e dei nella poesia omerica cfr. H. Fränkel, Poesia e filosofia della Grecia arcaica, Bologna, Il Mulino, 1977 (Dichtung und Philosophie des frühen Griechentums, München, C.H. Beck, 1962), p. 113 ss.

 

[54] A. W.H.Adkins, op. cit.,«Nella società omerica, la fede in una causa non-umana delle azioni umane è praticamente priva di conseguenze nell’attribuzione della responsabilità», (p. 43). Ma si vedano anche le p.23 ss.

 

[55] Iliade, cit., canto XIX, 85-90.

 

[56] E. Dodds, op. cit., p. 4. Per un’analisi del concetto di ατη, inteso come uno stato d’animo, in cui vi è un annebbiamento o un temporaneo smarrimento della coscienza normale, si vedano le p. 7 ss. Cfr. inoltre E. Cantarella, Norma e sanzione in Omero, cit., che considera ’'Ατη come un concetto che esclude la volontarietà dell’azione, a differenza di άμάρτημα, che indica l’errore le cui cause stanno nell’uomo, e comporta la responsabilità morale, p.271 s.

 

[57] Iliade, cit., canto XIX, 137-138.

 

[58] E. Cantarella, Norma e sanzione in Omero, cit., «Αίτιος, (...) nei poemi, ha un duplice significato: quello certamente più diffuso, di «causa» in senso oggettivo, esclusivamente legato alla constatazione del rapporto azione-evento, e quello, meno diffuso, ma egualmente attestato, di «responsabile», in quanto «colpevole» » (p. 273).

 

[59] Nell’interpretazione offerta da E. Cantarella, l’azione compiuta sotto l’influsso di ατη è considerata come un errore incolpevole, che esclude la responsabilità, si veda Norma e sanzione in Omero, cit., che descrive ’'Ατη come un concetto che esclude la volontarietà dell’azione, a differenza di άμάρτημα, che indica l’errore le cui cause stanno nell’uomo, e comporta la responsabilità morale, p.271; cfr Id., Itaca, cit., p. 183: «Ma, come che agisca, Ate produce sempre gli stessi effetti: chi è sua vittima si muove senza rendersi conto di quel che fa, e non può liberarsi di lei (...). Di conseguenza, chi agito per influsso di ate, non è colpevole (aitios). L’errore provocato da ate, insomma, esclude la responsabilità morale».

 

[60] Cfr. E. Havelock, Dike, cit., che analizza la dinamica del conflitto tra Agamennone e Achille come esemplificativa dell’idea di giustizia presente nell’Iliade. La ricomposizione del conflitto, descritta nel canto XIX, ha la funzione essenziale di ripristinare, attraverso la procedura assembleare, le regole che sono state violate. Non si tratta, quindi, di applicare un principio, o una serie di principi sostantivi, ma di seguire un insieme di procedure, riconosciute da tutti e stabilite in precedenza: «(...) la «giustizia» dell’Iliade è una procedura, non un principio o una qualsiasi serie di principî. Essa viene realizzata tramite un processo di negoziazione di carattere retorico tra le parti contendenti. In quanto tale, la giustizia guarda al particolare e non al generale, e ci si può riferire ad essa sia al singolare che al plurale (...). Non vi è un corpo giudiziario strutturato come un’autorità statale indipendente, ma vi sono degli esperti di «legge» orale: uomini, si penserebbe, dotati di una memoria particolarmente addestrata.» (p. 168), Si tratta di un sistema informale, come nota Havelock, che ha la funzione essenziale di mantenere un equilibrio all’interno della comunità, attraverso il riconoscimento della sua struttura di credenze e regole: «Per quanto queste procedure sembrino, in confronto alle pratiche letterarie, incerte e vaghe, erano metodi efficaci per mantenere «l’ordine legale» (eunomia) nelle prime città-stato» (p. 168).

 

[61] A.W.H. Adkins, op. cit., il quale, nelle righe seguenti conferma l’interpretazione di Dodds:«In queste circostanze, appellarsi ad ate non può essere un tentativo di evadere la responsabilità delle proprie azioni, anche se uno dice francamente ‘non sono aitios’, e sostiene che non meno di tre déi ne sono stati la causa: questa è un’asserzione che può implicare che l’errore è un’anormalità e una cosa che l’agente sente che ‘normalmente’ non avrebbe fatto, ma che non toglie che l’errore resti nient’altro che un errore.» e alla pagina successiva continua: «Nessuno può sperare di sottrarsi alle conseguenze dei suoi errori: e fortunato è chi è capace di correggerli. Così Agamennone ‘deve’ ricompensare Achille per correggere il suo errore e far tornare Achille nella battaglia: non ha alternative», pp. 79-80.

 

[62] Cfr. A.W.H. Adkins, ivi, p. 38 ss.

 

[63] Si è ormai creato un ampio consenso intorno alla tesi che configura la poesia, e la poesia omerica in particolare, come il principale veicolo di trasmissione della cultura in un mondo dominato dall’oralità. Sul punto cfr. H. Havelock, Dike. La nascita della coscienza, cit. Nella tesi di Havelock, Omero rappresenta uno strumento didattico, che trasmette i valori e le norme sociali, insieme a un fondamentale bagaglio di informazioni pratiche.(p.13 ss.) La società rappresentata nell’Iliade e nell’Odissea raffigura, secondo Havelock la società greca contemporanea alla data finale di composizione dei poemi, p. 70 ss. Si veda inoltre E. Cantarella, Itaca, cit.,che ritiene estrema la tesi di Havelock sull’idea della poesia omerica come una vera e propria enciclopedia culturale del tempo e rimane tuttavia una convinta sostenitrice della storicità dell’epos omerico: «Per me, credere nella storicità dell’epos omerico significa credere che l’Odissea, descrivendo la vita di Itaca e dei personaggi che la popolano, descriva i momenti dell’organizzazione sociale che i Greci si diedero in un determinato momento della loro storia. Significa credere che la poesia epica descriva, di quel momento, la cultura nel senso più ampio del termine: le credenze magiche e religiose, le regole etiche e sociali, la mentalità, i valori, la psicologia, il modo in cui venivano vissute le emozioni. Significa, in altre parole, credere che Omero trasmetta nella sua globalità la memoria del patrimonio culturale di un popolo.», p.19-20. Cfr. inoltre J. Burckardt, Storia della civiltà greca, cit., vol. II, p. 244 ss.

 

[64] Iliade, cit., XVI, 844-846; 850.

 

[65] Cfr. E. Havelock, Dike, cit., che riporta il pensiero di Nillson sull’Iliade: «Più di quarant’anni fa un critico acuto notò che l’Iliade, per quanto composizione orale, è un poema con connotazioni di carattere psicologico che dimostrano un grado di raffinatezza non comune al genere» (p. 155).

 

[66] Cfr. M. Nussbaum, La fragilità del bene, cit., che svolge la sua indagine sulle opere dei tragici greci, sottolineando l’importanza di estendere la ricerca anche a opere “letterarie”, che per i greci non avevano quella caratterizzazione settoriale che noi moderni assegniamo alla letteratura: «Difatti i poeti epici e tragici erano generalmente considerati come i pensatori ed i maestri più importanti della Grecia; nessuno credeva che le loro opere fossero meno serie, meno rivolte alla verità, dei trattati in prosa degli storici o dei filosofi. Platone non considera i poeti come colleghi di un altro dipartimento, dediti a scopi diversi, bensì come pericolosi rivali.», p.62. Cfr. inoltre W. Jaeger, Paideia, cit., che sottolinea il ruolo politico dei poeti tragici: «Mai, infatti, presso i contemporanei, né il carattere, né l’efficacia della tragedia furono sentiti come meramente artistici. Essa era per loro talmente regina, che la facevano responsabile dello spirito della collettività, e sebbene gli stessi sommi poeti, per il nostro pensiero storico, non siano che i rappresentanti, e non già i creatori di tale spirito, ciò non muta affatto la responsabilità del loro ufficio di capi, che nello Stato democratico ateniese era sentita ancor più grande e grave di quella, fissata dalla costituzione, dei capi politici continuamente rinnovati.», vol. I, pp. 433-434. Per una ricerca sull’etica attraverso le opere dei tragici cfr. G. Bombelli e A. Mazzei (a cura di),  Dike Polypoinos. Archetipi di giustizia fra tragedia greca e dramma moderno, Padova, CLEUP, 2004.

 

[67] R. Mondolfo, Responsabilità e sanzione nel più antico pensiero greco, cit., «(...) dinanzi al rimprovero l’imputato rifiuta la responsabilità della propria azione, attribuendo agli Dei la determinazione della propria volontà.». e poco più avanti:«In questi, come in tutti i casi consimili, l’agente è per l’accusa autore dell’opera sua e responsabile di essa e delle sue conseguenze; per la difesa strumento di ed esecutore della volontà irresistibile degli Dei, e perciò irresponsabile.» (p. 4).

 

[68] Ivi, p. 4

 

[69] Ivi, p. 5.

 

[70] Ivi, p.15: «(...) il concetto della coscienza etica, attraverso un lungo e faticoso processo di elaborazione, arriva in fine a costituirsi e ad affermarsi sul terreno proprio della interiorità e col proprio carattere di vigile spettatrice e giudice interiore.».

 

[71] E. Cantarella, Norma e sanzione in Omero, cit. p. 283.

 

[72] «I poemi ci pongono di fronte, sotto questo profilo, a un momento di fondamentale importanza nella formazione dei moderni concetti etici, vale a dire al momento della loro prima apparizione nel mondo greco. Ed è un’apparizione che rivela, nella sua contraddittorietà, l’esistenza di un lungo travaglio di pensiero, di cui i poemi riportano al tempo stesso le posizioni più tradizionali e le acquisizioni più avanzate.» Così E. Cantarella, ivi, p. 277.

 

[73] Ivi, «La responsabilità personale per così dire materiale, è molte volte scissa dalla responsabilità morale. Se, agli effetti pratici, l’azione è valutata in sé come puro effetto, sotto il profilo morale essa è ricollegabile al suo autore solo quando è volontaria» (p. 263).

 

[74] Ivi, p. 284.

 

[75] Ivi, p. 263 ss.

 

[76] Cfr. M. Vegetti L’etica degli antichi, cit., che sostiene che Agamennone non si ritiene in alcun modo responsabile per lo sgarbo fatto ad Achille: «Offendendo Achille, egli compie un errore: non un errore morale, ma di calcolo.», è per questo, continua Vegetti, che Agamennone non se ne considera in alcun modo responsabile, né dal punto di vista morale, per la sofferenza arrecata ad Achille, né dal punto di vista intellettuale, per l’errore commesso: «Del resto, ci sono molte buone ragioni perché, nel caso di Agamennone come più in generale delle figure eroiche in Omero, il problema della responsabilità delle azioni sia da considerare mal posto e anzi, improponibile. La più semplice di queste ragioni sta nel fatto che Agamennone ha agito secondo la logica e il senso dei valori della sua arete (...) Evitare la vergogna, perseguire l’onore, sono imperativi sociali fuori dei quali l’eroe perde il suo status e il suo diritto alla sovranità.». ma questo non è l’unico argomento che fa escludere a Vegetti la tematizzazione della responsabilità nell’etica omerica; le figure eroiche di Omero non sono libere nei loro comportamenti: «L’eroe è tramato dalla divinità : con esortazioni, consigli, minacce, spesso con inganni irresistibili (...). Questa determinatezza delle azioni eroiche si accompagna alla mancanza di un centro di responsabilità: l’eroe è concepito separato in una serie di funzioni, disaggregato: «Nell’uomo omerico, la vita, l’emozione, l’azione appaiono disaggregati in una pluralità di esperienze non accentrabili intorno ad un io consolidato, a un complesso psicosomatico unitariamente governato (...)» (pp. 25-26).

 

[77] Cfr. C. Taylor, Radici dell’io, cit., sostiene che la dicotomia interiorità/esteriorità è tipicamente moderna, e corrisponde a una particolare localizzazione dell’io: «La nozione moderna di io è strettamente legata a una certa immagine dell’interiorità (...) Nella terminologia della conoscenza di sé, l’opposizione “dentro/fuori”, o “interiore/esteriore”, gioca un ruolo importante. Noi siamo convinti che pensieri, idee e sentimenti siano “dentro” di noi, mentre gli oggetti del mondo a cui fanno riferimento questi nostri stati mentali sarebbero “fuori” di noi. (...) Ma questa spartizione del mondo, nonché la conseguente localizzazione, per quanto possano apparirci solide e ancorate nella natura dell’essere umano, sono in larga misura caratteristiche del nostro mondo, ossia del mondo dei moderni, degli occidentali.», (p. 149).

 

[78] Cfr. E. Cantarella, Itaca, cit.: «Chi, fra i proci, fosse più o meno responsabile dei soprusi subìti è cosa che non lo riguarda; se qualcuno di essi si è comportato male non per sua personale tracotanza, ma perché indotto da altri a farlo, è cosa del tuto irrilevante, per lui. Eurimaco deve morire, così come Anfinomo, nonostante la sua saggezza, e l’aruspice Leode (...). La strage viene portata a termine senza esitazioni, senza ripensamenti, senza pietà. (...) Coperto di sangue come una fiera che ha divorato la sua vittima, Ulisse è l’immagine stessa dell’eroe vendicatore.», (p. 167).

 

[79] E. Cantarella, Norma e sanzione in Omero, cit., p. 284.

 

[80] Cfr. E. Havelock, Alle origini della filosofia greca, Roma-Bari, Laterza, 1996, che propone un’interessante rilettura dell’illuminismo greco. Egli infatti contesta l’aggettivo «presocratici», adottato da Eduard Zeller e riferito ai filosofi del IVe V secolo A.C., preferendogli quello di «preplatonici». Egli propone una revisione critica di alcune categorie ormai consolidate negli studi classici, il cui uso comporta una incongruenza cronologica, ma soprattutto una svalutazione dell’apporto filosofico di quel gruppo di pensatori, erroneamente definiti come presocratici.

 

[81] Sulla distinzione tra valore morale e valore non morale cfr. W. K. Frankena, Etica, Milano, Edizioni di Comunità, 1996 (Ethics, Englewood Cliffs, New Jersey, Prentice-Hall, Inc., 1973), cap. I e cap. IV; Cfr. inoltre E. Lecaldano, Etica, Torino, UTET, 1995, p.204 ss.

 

[82] Cfr. I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, trad. P. Chiodi,  Roma-Bari, Laterza, 1988, p. 36; Cfr. inoltre, per la critica a queste posizioni, gli scritti di B. Williams, L’etica e i limiti della filosofia,  cit., p. 67 ss., Id. Sorte morale, Milano, Il Saggiatore, 1987, (Moral Luck, Cambridge, Ca mbridge University Press, 1981), p. 37 ss.; si veda inoltre T. Nagel, Questioni mortali, Milano, Il Saggiatore, 2001 (Mortal Questions, Cambridge, Cambridge University Press, 1979). e in particolare il cap. 2 Sorte morale, in cui Nagel, discutendo la proposta di Williams, espone la sua teoria critica nei confronti della prospettiva kantiana.

 

[83] B. Williams, Sorte morale, cit. p.10.

 

[84] Platone, La Repubblica, Roma-Bari, Laterza, 1997, 352 d (p. 71).

 

[85] La questione che Kant pone, insieme a «Cosa posso sapere?» «Che cosa mi è lecito sperare?», in Critica della ragion pura, trad. di G. Gentile e G. Lombardo-Radice (1909-1910), ed. curata da V. Mathieu, Roma-Bari, Laterza, (1959), ((Kritik der reinen Vernunft, Riga, Hartknoch, 1781; 1787), (p. 607).

 

[86] E’ l’esempio che cita Williams, Sorte morale, cit., dove considera la vita di Gauguin, che abbandonò la sua famiglia e si trasferì a Tahiti per seguire la sua vocazione artistica. Williams si chiede se la scelta di Gauguin si possa considerare da un punto di vista morale, p. 36 ss.

 

[87] Cfr. M. Nussbaum, La fragilità del bene, cit., che indaga il rapporto tra fortuna e bene umano nella filosofia greca classica: «Questo problema, (...) era centrale per i Greci. Ma, come ho già suggerito, esso è importante anche per noi. Tuttavia in alcuni momenti della sua evoluzione si è pensato che esso non fosse affatto un vero problema. L’enorme influenza dell’etica kantiana sulla nostra cultura intellettuale ha portato a trascurare per molto tempo questi aspetti dell’etica greca. E anche quando essi vengono trattati, si finisce spesso per concludere che i Greci hanno posto il problema dell’azione e della contingenza in termini primitivi o erronei.», (p. 50).

 

[88] B. Williams, Sorte morale, cit., p. 44.

 

[89] Ivi, p. 35 ss.

 

[90] T. Nagel ha scritto il saggio Sorte morale, contenuto nel volume Questioni mortali, in risposta al lavoro di Williams dal medesimo titolo. Sulle divergenze teoriche rispetto alla tesi di Williams cfr., Questioni mortali, p. 34, nt. 3, in cui Nagel sostiene, a differenza di Williams, che nessun evento che giustifichi a posteriori una decisione può renderla morale.

 

[91] T. Nagel, Questioni mortali, cit., p. 31.

 

[92] Ibidem.

 

[93] T. Nagel, Questioni mortali., cit. riporta l’esempio del camionista che, accidentalmente, investe un bambino. Se il camionista è interamente innocente, non avrà nulla da rimproverarsi, ma proverà lo stesso un sentimento di rammarico, che non è certo assimilabile a un giudizio morale di colpevolezza. Ma se egli risulterà anche in minimo grado negligente, ad esempio per non aver fatto controllare i freni di recente, e se quella negligenza ha contribuito alla morte del bambino, allora egli si riterrà responsabile per quella morte. Il suo non sarà semplice rincrescimento, ma un vero e proprio biasimo morale. Tuttavia, nota Nagel, «ciò che rende questo un esempio di sorte morale è che egli avrebbe dovuto biasimarsi solo un poco per la negligenza in sé stessa se non si fosse prodotta alcuna situazione che gli avesse richiesto di frenare improvvisamente e violentemente per evitare di investire il bambino.» (p. 34).

 

[94] Si veda sul punto W. Frankena, Etica, cit., cap. IV.

 

[95] Ivi, p. 42. Cfr. inoltre Id., Uno sguardo da nessun luogo, Milano, Il Saggiatore, 1988 (The View from Nowhere, New York, Oxford University Press, 1986): «Una volta che gli individui sono visti come parti del mondo, determinate o non, non sembra esservi modo di assegnare loro una responsabilità di quello che fanno. Tutto ciò che li riguarda, incluse alla fine le loro stesse azioni, sembra mescolarsi con il contorno su cui essi non hanno controllo. E quando allora torniamo a considerare azioni dal punto di vista interno,non possiamo, dopo un esame attento, dare senso all’idea che quello che gli individui fanno dipende ultimativamente da loro. Tuttavia continuiamo a confrontare quello che fanno con le alternative che rifiutano, e a lodarli o condannarli per questo» (p. 149).

 

[96] H. FrÄnkel, Poesia e filosofia della Grecia arcaica, cit., p. 115.

 

[97] E. Dodds, I Greci e l’irrazionale, cit., p.30.

 

[98] Cfr. M. Weber, Il lavoro intellettuale come professione, Torino, Einaudi, 1948, (Politik als Beruf, Wissenschaft als Beruf, Berlin, Duncker & Humblot, 1919)

 

[99] Cfr. H. Jonas, Il principio responsabilità, Torino, Einaudi, 1990 (Das Prinzip Verantwortung, Frankfurt a. M., 1971)

 

[100] E. Cantarella, Itaca, cit., p.33.

 

[101] A.W.H. Adkins, op. cit., p.75.

 

[102] Iliade, cit., 293-294.

 

[103] Cfr. Euripide, Ifigenia in Aulide, 1030, in Id., Tutte le tragedie, a cura di F.M.Pontani, Roma, Newton, 1991, p.265; La data della composizione della tragedia è incerta. Venne allestita, postuma, nel 406 a cura del figlio di Euripide, e si ritiene che abbia subito rimaneggiamenti, Cfr. U. Albini F. Bornmann, Hellas, Firenze, Le Monnier, 1982, vol.I., p. 26ss., vol. II.

 

[104]  Sulla concezione della donna e sul processo di discriminazione di cui è stata oggetto nella cultura greca cfr. E. Cantarella, L’ambiguo malanno. Condizione e immagine della donna nell’antichità greca e romana, Roma, Editori Riuniti, 1981.

 

[105] E. Dodds, I Greci e l’irrazionale, cit., p. 30

 

[106] Ivi, p. 29 ss.

 

[107] E stata l’antropologa Ruth Benedict a elaborare la distinzione tra Shame-culture e Guilt-culture, nell’ambito di uno studio sulla società giapponese, nel volume Chrysanthemum and the Sword, Boston, Houghton Mifflin, 1946, «In anthropological studies of different cultures the distinction between those which rely heavily on shame and those which rely heavily on guilt is an important one. A society that inculcates absolute standards of morality and relies on men’s developing a conscience is a guilt culture by definition,(...) In a culture where a shame is a major sanction, people are chagrined about acts which we expect people to feel guilty about» (p. 222).

 

[108] E.Dodds, op. cit., espone i limiti nell’uso di questi due modelli interpretativi che vengono considerati come «contrassegni, senza presupporre nessuna particolare teoria circa i mutamenti di civiltà; in secondo luogo riconosco che si tratta soltanto di una distinzione relativa, perché molti atteggiamenti caratteristici della civiltà di vergogna sono sopravvissuti nel periodo arcaico e in quello classico» (p. 35).

 

[109] E. Cantarella, cit., p. 32.

 

[110] Cfr. A.W. H. Adkins, La morale dei greci, p. 215 ss.

 

[111] Sulla diversa interpretazione del significato dei due termini cfr. E. Cantarella, Itaca, p. 33 s, e A.W.H. Adkins, La morale dei greci, cit., 54 ss.

 

[112] E. Dodds, I Greci e l’irrazionale, cit., p. 30 nt. 3.

 

[113] E. Cantarella, Itaca, cit., p. 32.

 

[114] La contaminazione è descritta come un fenomeno estremamente complesso, le cui cause sono molteplici, legate sia all’evoluzione della coscienza morale del singolo, sia alla concezione sociale dominante. In particolare, sottolinea A. W. H. Adkins, op. cit il fenomeno si fa più intenso di fronte a situazioni alle quali la società non può trovare né una spiegazione né un rimedio, p. 132 ss.

 

[115] “Miasma” era il termine greco usato per indicare la contaminazione, cfr. E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, cit, vol. II, p. 485 ss..

 

[116] Mentre il peccato risponde ad una condizione della volontà, ad una sorta di malattia della coscienza interiore, E. Dodds, op. cit rileva che la contaminazione «è conseguenza automatica di un atto, appartiene al mondo degli avvenimenti esterni, ed opera con assoluta e spietata indifferenza per il movente, come il bacillo del tifo», (p. 48-49).

 

[117] Ivi, p. 49.

 

[118] E. Cantarella, Itaca, cit., p. 32 s.

 

[119] Ivi, p. 35.

 

[120] A. W.H.Adkins, La morale dei greci, cit., p. 128.

 

[121] A. MacIntyre, Oltre la virtù, cit., p. 154.

 

[122] Cfr. M. Nussbaum, La fragilità del bene, cit.: «La τύχη non implica la casualità o l’assenza di connessioni causali. Il suo significato di base è “ciò che semplicemente accade”; è l’elemento dell’esistenza umana che gli umani non controllano», p. 198. Sul concetto di fato espresso dai termini Μοιρα, Ανάγκη e Τύχη ,cfr. F. Todescan, Giustizia e destino: dalla filosofia presocratica alla tragedia attica, in G. Bombelli - A. Mazzei (a cura di), Dike Polypoinos,  cit., p. 26 ss.

 

[123] A. MacIntyre, Oltre la virtù, cit., p. 154

 

[124] Ivi, p.162.

 

[125] Cfr. W. Jaeger, Paideia, La formazione dell’uomo greco,cit., vol. I, p 127.

 

[126] Cfr. G. Reale, Storia della filosofia antica, Milano, Vita e Pensiero, 1993, vol. II, p. 167 ss.; cfr. inoltre Id. Platone. Alla ricerca della sapienza segreta, Milano, Rizzoli, 1996, p. 243 ss.

 

[127] Col Filottete Sofocle (497-406) vinse la gara tragica del 409 a.C., cfr. U. Albini F. Bornmann, Hellas, cit., vol.I., p. 26ss.

 

[128] Cfr. Sofocle,Filottete, in Id., Tutte le tragedie, Roma, Newton, 1998, p. 124.

 

[129] Cfr. M. Nussbaum, La fragilità del bene, cit., p. 170.

 

[130] Cfr. A. Mc Intyre, op. cit., p. 174 ss. che contrappone la visione sofoclea a quella platonica delle virtù.

 

[131] Cfr. G. Reale, Storia della filosofia antica, cit., p. 173ss.

 

[132] Platone, La Repubblica, cit., 344 c. Trasimaco sta riconfermando la sua affermazione iniziale: «Io sostengo che la giustizia non è altro che l’utile del più forte», 338 c 2.

 

[133] Per l’analisi di Aretè  e agathos cfr. A.W.H. Adkins, op. cit., p. 303 ss.

 

[134] Platone, La Repubblica, cit., 332 d.

 

[135] Platone, Critone, in Opere complete, vol. 1, Roma-Bari, Laterza, 1993, 49 d.

 

[136] Sulla familiarità, per noi moderni, della dottrina morale platonica esposta nella Repubblica si vedano le osservazioni di C. Taylor, Radici dell’io, cit., 154 ss.

 

[137] Alla domanda di Socrate se la giustizia sia un vizio, Trasimaco risponde: «No, ma una nobile semplicità di carattere», La Repubblica, cit., 348 c 12.

 

[138] Cfr. E. Havelock, Dike, cit., p. 379 ss.

 

[139] Platone, La Repubblica, cit., 443 c 9

 

[140] Ivi, 435 b 2: «Allora un uomo giusto non differirà per niente da uno stato giusto per ciò che riguarda l’aspetto della giustizia in sé stesso, ma gli sarà simile». Cfr. inoltre ivi, 441 c 4: «Ecco, feci io, che, pur a stento, abbiamo superato queste difficoltà e ci siamo resi ben conto che le parti che costituiscono lo stato e le parti che costituiscono l’anima di ciascun individuo, sono le stesse e in numero uguale».

 

[141] Ivi, 427 d ss.

 

[142] Ivi, 434 d 6.

 

[143] Ivi, 433 b 7.

 

[144] Ivi, 441 d 10.

 

[145] Platone, La Repubblica, 433 d 9.

 

[146]Ivi, 434 b.

 

[147] E. Havelock, Dike, cit., p. 393.

 

[148] Ibidem.

 

[149] Sul punto cfr. M. Nussbaum, La fragilità del bene, cit., p. 284 ss.

 

[150] Sull’opera di conservazione del nomos, intrapresa da Platone, cfr. G. Cosi, Il logos del diritto, cit., p. 122 ss.

 

[151] E. Dodds, op. cit., p. 236 ss.

 

[152] «Aristotle is not explicitly asking when someone acts responsibly but when someone acts voluntarily (hekousiōs), così T. Irwin, Reason and Responsibility in Aristotle, in A. Oksenberg Rorty (ed.), Essays on Aristotle’s Ethics, Berkeley, Los Angeles-London, University of California Press, 1980, p. 118.

 

[153] Cfr. M. Nussbaum, La fragilità del bene, cit., cap. VIII.

 

[154] Cfr. D. Ross, Aristotle, London, Methuen & Co. Ltd.1964 (I° ed.1923), p. 189: «The first principles of ethics are too deeply immersed in the detail of conduct to be thus easily picked out, and the substance of ethics consists in picking them out»; Cfr. Inoltre E. Berti. Profilo di Aristotele, Roma, Edizioni Studium, 1979, cap. III.

 

[155] Cfr. A. Giuliani, Imputation et justification, cit.: «La recherche est conduite en termes nègatives (ce qui est involontaire), en procédant du simple au complexe en analysant le langage ordinaire: voici un exémple de définition dialectique. (...) Les définitions dialectiques ne sont, ni tout à fait claires, ni tout à afit obscures, car elles ont leur point de départ dans les opinions communes. La définition dialectique nous permet d’analyser les notoins confuses, omme la responsabilité, et se détermine à travers la réfutation: ce sera la preuve qui garantira de leur verité(p. 95). cfr. inoltre sul metodo della filosofia pratica aristotelica E. Berti, Le ragioni di Aristotele, Roma Bari, Laterza, 1989, p. 113 ss.

 

[156] Aristotele, Etica Nicomachea, in Opere, vol. 7, trad. di A. Plebe, Roma-Bari, Laterza, 1991, L.III, 1139 b 35.

 

[157] Cfr. T. Irwin, op. cit., che nota i due differenti tipi di approccio al tema della volontarietà sperimentati da Aristotele nell’Etica Nicomachea e nell’Etica Eudemia; in quest’ultima egli considera le condizioni positive dell’atto volontario, ne indaga gli aspetti psicologici e conclude che il pensiero è una condizione sufficiente e necessaria per rendere un’azione volontaria. Nell’Etica Nicomachea, Aristotele considera le condizioni negative dell’atto volontario: «The NE tries a different approach. The common beliefs considered are not about conditions of voluntariness but about conditions of involuntariness (1109b35- 1110a1): Aristotle finds it more fruitful to begin there than to begin with positive conditions.», p. 121. Cfr. A. Giuliani, Imputation et justification, cit.: «La recherche est conduite en termes nègatives (ce qui est involontaire), en procédant du simple au complexe en analysant le langage ordinaire: voici un exémple de définition dialectique.» (p. 95).

 

[158] Aristotele, Etica Nicomachea, cit., 1110 a 18.

 

[159] Ivi, 1110 b 18.

 

[160] D. Ross, Aristotle, cit., «This distinction is not satisfactory. There is no real difference between ‘involuntary’ and ‘non-voluntary’. It might be suggested that by ακούσιον Aristotle means ‘unwilling’ and by ουχ εκούσιον ‘involuntary; but it is clear that unwilling and merely involuntary acts cannot be differentiated by the agent’s subsequent attitude.»,  (p. 198).

 

[161] Cfr. M. Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni, Bologna, Il Mulino, 2000.

 

[162] Aristotele, Etica Nicomachea, 1110 b 25.

 

[163] Ivi, 1110 b 30-33.

 

[164] Ibidem.

 

[165] L’argomento della responsabilità della formazione costituisce un nodo centrale nel dibattito sul pensiero etico di Aristotele. Egli infatti, attribuisce all’educazione un ruolo determinante nella formazione del carattere, cfr. D. Ross, Aristotle, cit., p. 192 ss.; T. Irwin, Reason and Responsibility, cit., p. 139 ss.; cfr. inoltre R. Sorabji, Aristotle on  the role of intellect in virtue, in A. Oksenberg Rorty, (ed.) Essays on Aristotle’s Ethics , cit., p. 201 ss.; M.C. Donnini Macciò, Educazione e filosofia in Aristotele, Torino, Loescher, 1979, p. 67 ss.

 

[166] Cfr. A. W.H.Adkins, op. cit., p. 413 ss.

 

[167] Questa posizione crea a Platone una serie di problemi al momento in cui si trova a giustificare i premi e le pene dello stato, cfr. A. W.H.Adkins, ibidem.

 

[168] Sul tema della formazione del carattere in relazione al dibattito sul determinismo della teoria aristotelica, si veda l’ampia e argomentata ricognizione di. C. Natali, Responsabilità e determinismo nell’etica aristotelica, in M. Migliori ( a cura di) Il dibattito etico e politico in Grecia tra il V e il IV secolo, Roma, La città del Sole, 2002, che, dopo aver considerato le più recenti teorie sull’argomento conclude, interpretando il pensiero di Aristotele: «qualunque sia il carattere che abbiamo, noi siamo κύριοι, padroni, delle nostre azioni, dal principio alla fine.», p. 493.

 

[169] Aristotele,Etica Nicomachea, 1113 b 17.

 

[170] Ivi, 1113 b 17-20.

 

[171] Ivi, 1111 a 22 ss.

 

[172] Enunciata tra gli altri da D. Ross, op. cit., p. 197 ss.

 

[173] T. Irwin, op. cit.,«Aristotle seems to believe these things: (8) A is responsible (a proper candidate for praise and blame) for doing x if and only if A does x voluntarily. (9) Animals and children act voluntarily.(10) Animals and children are nor responsible for their actions.His account of voluntary action and responsibility seems to result in a contradiction.», (p125).

 

[174] Ivi, p. 124; 134 ss.

 

[175] Ivi, p. 133.

 

[176] «I do not think we have replaced Aristotle’s theory with someone else’s. We have simply explored the implications of Aristotle’s restriction of the class of responsible agents to those who are capable of decision. It is not unreasonable to call this Aristotle’s conception of responsibility, even though he never presents it as explicitly as he should; we can now understand his judgements about who is responsible, and when, better than we could from the simple theory», Ibidem.

 

[177] Ivi, p. 143: «Now Aristotle’s complex theory agrees with Kant on the conditions of human responsibility.», tuttavia, precisa Irwin, le due teorie appaiono radicalmente divise sul fronte del determinismo:«Aristotle, however, finds the power of self-determination in the capacity for effective decision, not in uncaused acts of will».

 

[178] Cfr. M. Nussbaum, La fragilità del bene, cit., p. 521 ss.

 

[179] «Le due classificazioni non sembrano costituire (come crede Irwin) due dottrine rivali su una stessa nozione, bensì due descrizioni che riguardano due nozioni correlate ed hanno un ruolo complementare nella sua teoria etica.», Ivi, p. 524.

 

[180] Cfr. T. Irwin, op. cit., p. 136; si veda inoltre J. Glover, Responsibility, cit., che critica l’argomento aristotelico secondo cui le azioni dei bambini e degli animali sarebbero caratterizzate dal desiderio e dall’impulsività, che connotano anche le azioni degli adulti: «It is not clear what is meant by saying that animals or children always act out of desire or impulsively. If it just means that they do what they want to do, in that elastic sense of ‘want’ in which it can be said that any action is what the agent ‘wanted’ to do, then this applies to adults also. But if ‘desire’ is being used here in such a way that we are to understand that children and animals can never refuse to gratify such desires as for food or sex, the doctrine is surely false. Both children and animals can be taught to reject food in certain circumstances, even if they are hungry. And there is a similar difficulty about the notion of ‘impulsive’ action. If it is merely being asserted that children and animals sometimes act without having any rational plan in mind, then this is equally true of adults. If, on the other hand, Aristotle means that children and animals never act on a rational plan, this is again simply false» (p.8).

 

[181] M. Nussbaum, op. cit., p. 525.

 

[182] «Se non accettiamo la visione assai pessimistica che Irwin esprime sugli animali e sui bambini, non dobbiamo necessariamente disprezzare lo hekousion “semplice”: esso è la base per i successivi sviluppi più complessi. E se pensiamo a ciò che accade quando si educa un bambino, l’insistenza di Aristotele sull’importanza dell’intenzionalità e dell’attenzione selettiva sembrano accordarsi con l’esperienza molto più del quadro comportamentista di Irwin. Aristotele ci offre un’interessante descrizione della base animale su cui si fonda lo sviluppo del carattere morale.», Ibidem.

 

[183] E. Berti, Profilo di Aristotele, cit., p. 258. Cfr. per un’interpretazione antideterministica del pensiero di Aristotele cfr. C. Natali, Responsabilità e determinismo nell’etica aristotelica, cit.

 

[184] Cfr. AW.H. Adkins, op. cit., che così conclude il suo volume: «Perché i Greci del periodo che abbiamo trattato potessero avere un concetto della responsabilità morale affatto simile al nostro, sarebbe necessario che la nostra concezione del mondo e quella greca coincidessero completamente; e, tenendo conto di questa considerazione,  non parrà strano che anche Aristotele si differenzi dalle concezioni cui siamo abituati.», (p. 475).

 

[185] A. Giuliani, Imputation et justification, op. cit., p. 93-94.

 

[186] Cfr. C. Natali, op. cit., p. 506 ss.

 

[187] A. Giuliani, Imputation et justification, cit., p. 95.

 

[188] Cfr. A Giuliani, La giustizia come reciprocità, in Rivista Trimestrale di Diritto e Procedura Civile., 1970, pp. 722-756.