N. 4 – 2005 – Tradizione Romana

 

 

FRANCO  CASAVOLA

Presidente emerito della

Corte costituzionale italiana

 

Il tempo del diritto*

 

 

Il diritto usa il tempo come uno strumento che ordina le azioni umane[1]. Le liti tra i privati, se non si compongono spontaneamente, vanno ritualizzate nel processo. Il primo involucro in cui le XII tavole raccolgono il processo è quello delle tappe del sole nel corso della giornata, ante meridiem, post meridiem fino al tramonto, che segna la conclusione dell’attività processuale solis occasus suprema tempestas esto (Tab. 1.7-8-9). Al debitore, confesso o giudicato, prima che si possa esperire nei suoi confronti l’azione esecutiva della manus iniectio sono concessi trenta giorni perché egli abbia tempo di trovare il danaro per il pagamento del debito. I trenta giorni sono detti iusti. E la tradizione, raccolta da Gellio (Noct. Att. 20.1.42-45) accosta iusti a iustitium, «id est iuris inter eos quasi interstitionem quandam et cessationem, quibus diebus nihil cum his agi iure posset». Si tratta dunque di una sospensione della persecuzione giudiziaria del debitore insolvente come interruzione del diritto, inteso qui come attività processuale, secondo quanto sembra suggerire la glossa di Gellio, oppure i XXX dies iusti sono una guarentigia della libertà personale del debitore? Se il risultato pratico sembra essere sempre unico, e cioè quello di dar tempo per il pagamento spontaneo, il significato ideologico dominante nella espressione dies iusti è quello del fine del diritto cittadino di tutelare la libertà personale. Questa, allo spirare del trentesimo giorno, senza che si sia potuto provvedere al pagamento del debito, si troverà priva di protezione ed esposta all’esperimento della manus iniectio e alla caduta nella prigionia del creditore. Il tempo della prigionia è di sessanta giorni, durante i quali per tre giorni consecutivi di mercato vale a dire in uno spazio di circa un mese dato che il mercato ricorre ogni nove giorni, i debitori venivano portati dinanzi al pretore nel comizio per la proclamazione del debito ancora insoluto. Dopo di che se insoddisfatto il creditore poteva mettere a morte il debitore o venderlo schiavo oltre Tevere, in terra straniera.

La ritualità dei XXX dies iusti, dei sexaginta in vinculis, del trinundinum per la ripetuta pubblicità-notizia del debito insoluto, ha la finalità di contrastare le immediate vie di fatto del creditore sul corpo del debitore, il che sarebbe causa in una società maggioritariamente di poveri di una permanente guerra fra privati. La ritualità è scandita sulla misura temporale del periodo mensile, vale a dire sulle cadenze degli incontri sul mercato, uniche occasioni per gli scambi di una esigua ricchezza di agricoltori e di pastori, dalle quali poteva attendersi il danaro per il pagamento dei debiti o per le composizioni pecuniarie delle controversie da delitti.

Il tempo imposto o creato dal diritto vale dunque a conservare la compagine sociale e a ricondurre ai ritmi degli scambi sociali le compensazioni economiche uscite da quella fisiologica regolarità. Occorre riflettere sul nesso fra tempo del diritto ed ordine economico.

Sempre nella legislazione decemvirale ricorrono i termini dell’usucapione. Questo istituto postula l’arcaicità dell’impossessamento delle cose mediante la loro continua utilizzazione, appunto l’usus. Tab. 6.3. nel testo ricavato da Cic. Top. 4.23, stabilisce: «usus auctoritas fundi biennium est, ceterarum rerum omnium annuus est usus», vale a dire che per il fondo, paradigma di tutti gli immobili, il tempo dell’usucapione è il biennio, per ogni altra res è l’anno. La durata biennio-anno è commisurata al valore economico maggiore degli immobili rispetto ai mobili, oppure è a garanzia di chi non possedendo sta per perdere il bene posseduto da altri? Il che corrisponderebbe ad una fase della società agricola in cui la stanzialità non era ancora dominante. L’idea che fin dalle origini il contadino-proprietario vivesse al centro del suo campo è con ogni probabilità una mitizzazione funzionale alla ricostruzione della struttura arcaica della famiglia come organismo isolato e autonomo, per la teoria politica di Bonfante quasi uno Stato in miniatura, per le teorie economicistiche un Einzelhof, un’azienda anche spazialmente perimetrata. Invece ragioni di sicurezza spingevano i gruppi familiari ad addensarsi in villaggi, da cui si usciva per andare nei campi. Il nome dello straniero peregrinus perché per agros è un indizio eloquente dello stato delle campagne non abitato. Né si spiegherebbe l’affidare i confini del campo al dio Terminus e la gravità della pena capitale per chi rimuovesse le pietre di confine né l’azione di regolamento di confine se il contadino proprietario fosse quotidianamente presente sul suo fondo. Il maggior tempo per l’usucapione del fondo e di altri immobili è dunque a garanzia di chi non è nel controllo continuativo del bene. Una prova che la maggior durata tutela l’assente è nel diritto giustinianeo che stabilisce per la praescriptio longi temporis degli immobili dieci anni inter praesentes, venti inter absentes.

L’applicazione dell’usus non solo ai fondi e agli altri beni mobili, ma anche alla persona della moglie, per la durata di un anno, con l’effetto di farla cadere nella manus del marito, pose il problema di salvaguardare l’indipendenza della donna sposata dalla potestà del coniuge o se questi fosse filius familias dal padre di lui. Ancora una volta la considerazione dello scorrere del tempo nella vita quotidiana dei coniugi fa nascere un istituto giuridico, la usurpatio trinoctii, consistente nel sottrarre la donna per tre notti consecutive alla convivenza maritale. L’assenza ogni anni per tre notti della donna interrompe il decorso dell’anno ininterrotto, che altrimenti l’assoggetterebbe alla potestas del capo-famiglia (Tab. 6.5).

Il tempo che il diritto accoglie ha una finalità sospensiva. Sospende l’esecuzione sulla persona e sui beni del debitore, sospende la perdita istantanea dell’appartenenza di un fondo o di un bene mobile, sospende l’acquisto della moglie da parte del marito. Quell’effetto di sospensione risponde ad una esigenza conservativa di pace sociale e di tutela dello status personale, libertatis o familiae.

In particolare i triginta dies iusti, il trinundinum, il trinoctium evocano la forza magica del numero tre e del suo multiplo utile nella suggestione rituale. E’ significativo che nel rito della dichiarazione di guerra, la clarigatio o repetitio rerum, custodito e celebrato dal collegio dei sacerdoti feziali, i triginta dies iusti valevano a consentire al popolo straniero o di restituire le cose ingiustamente trattenute o di rimuovere la causa dell’ostilità. Solo trascorso questo tempo si poteva procedere alla dichiarazione del iustum piumque bellum. L’analogia con il processo privato in diem tricensimum per condictionem[2] propone l’ipotesi che l’intuizione originaria fosse unica, cioè quella di assicurare la pace sociale tra privati e la pace internazionale tra i popoli. Il tempo che sospende la violenza, una volta consumato, quella violenza legittima o nel processo o nella guerra giusta.

Ma il diritto che governa il tempo soggiace al flusso temporale fino a lasciarsene usurare e mutare? I diritti antiche, il diritto romano in particolare rivelano la persuasione sociale che una legge, malgrado la consapevolezza della occasionalità e contingenza della sua genesi, sia destinata a durare in eterno. La prova di questa idea di eternità, o di metatemporalità, è costituita da una clausola, detta caput tralaticium de impunitate, che esonera da qualunque sanzione chi per obbedire ad una legge sopravvenuta trasgredisce quella precedente. Questo è segno che una legge non può essere abrogata, ma solo neutralizzata nel suo apparato sanzionatorio. L’idea della metatemporalità del diritto avvolge sia le esperienze e le credenze in leggi divine o di natura sia le leggi storiche. Le società antiche non si lasciavano disciplinare da un comando legale se non postulandone una durata infinita.

L’ambiguità della eternità del diritto si tramanda dalle età arcaiche fino a Giustiniano. Nella costituzione Dedwken, confermativa dei Digesta, l’imperatore proto-bizantino opponendo l’assoluta perfezione delle cose divine alla condizione del diritto degli uomini, afferma che questo in infinitum decurrit, perché la natura costantemente propone negozi che non sono stati ancora annodati dai lacci del diritto, cioè non sono stati regolati da norme. Su questo scarto tra il diritto costituito e quello ancora da legiferare si fonda la funzione del sovrano legislatore, che Giustiniano interpreta come attività di riforma: «ut possit omnia quae noviter contingunt et emendare et componere et modis et regulis competentibus tradere» (Tanta Dedwken 18).

Non a caso, chiusi i tria volumina della sua compilazione, Giustiniano legifera con le Novellae constitutiones, che hanno tramandato fino ai giorni nostri al termine novellare il senso pregnante e tecnico di attività riformatrice, escludendo quello di una legislazione implicitamente abrogativa di altra precedente nel tempo. Non c’è stato altro legislatore più di Giustiniano consapevole della storicità del diritto. Egli computa i mille e quattrocento anni che corrono tra lui e Romolo, spazio del tempo in cui sono intervenute grandi variazioni nello Stato e nella società dei Romani e anche mutamenti nell’antropologia, quale più rilevante fra tutti la diversa concezione della natura e del fine dell’uomo introdotta dal Cristianesimo. Eppure Giustiniano difende il sentimento dell’unità e unicità nel corso dei secoli. Questo sentimento si fa ideologia quando Giustiniano per ogni evo venturo la validità di quel diritto costruendolo come conforme alla volontà divina di cui il legislatore imperiale è interprete. Un legislatore Deo auctore è necessariamente autore di un diritto non rinnegabile e abolibile con il trascorrere della temporalità.

Una tale concezione sarà contrastata solo nei secoli della modernità. Il testo più eloquente che rovescia l’idea della eternità del diritto storico è rappresentato dall’art. 30 della Declaration des droits de l’homme adoptée par la convention nationale le 29 Mai 1793 che ne fa applicazione a fortiori per le norme di una costituzione: «Un peuple a toujours le droit de revoir, de réformer et de changer sa Constitution. Une génération n’a pas le droit d’assujettir à ses lois les générations futures». Ma neanche questa così perentoria scelta per la breve durata del diritto e di una costituzione commisurata alla generazione vivente, sembra aver avuto ragione della idea multimillenaria che l’autorità del diritto riposa sulla sua lunga durata nel tempo. Dopo la Rivoluzione i giuristi del codice Napoleone tornarono a giustificare la forza di quel diritto codificato come fondato sulle eterne leggi della natura. Ed è tuttora dominante la formulazione di Jean-Etienne Marie de Portalis: «L’essentiel est d’imprimer aux institutions ce caractère de permanence et de stabilité qui puisse leur garantir le droit de devenir ancienne»[3].

 

 



 

* Testo pubblicato in Studium 100, 4-5 (2004), 687 ss. (doppio volume volume tematico, dedicato a “Il Tempo”).

 

[1] Sul decorso del tempo, come fatto giuridicamente rilevante, con particolare riferimento all’esperienza della giurisprudenza romana, si vedano qui, per tutti, ad es. Kreller, Spatium quoddam temporis, in Scritti Ferrini IV, Milano 1949, 148 ss.; Gernet, Le temps dans les formes archaiques du droit, in Journal de Psycologie normale et pathologique (1956), 379 ss.; Donatuti, Due questioni relative al computo del tempo, in BIDR 69 (1966), 155 ss.; Watson, The Origins of usus, in RIDA 23 (1976), 265 ss.; Dalla, I due saecula, in AG 204 (1984), p. 695 ss.;  Magdelain, Les XII Tables et le concept de ius, in Zum römischen und neuzeitlichen Gesetzesbegriff, Göttingen 1987, 14 ss.; Bona, Ius pontificium e ius civile nell’esperienza giuridica tardo-repubblicana: un problema aperto, in Contractus e pactum (Atti Copanello 1988), Napoli 1990, 225 nt. 46, 233, 238-241; Labriola, La legge del tempo e il tempo della legge, in Continuità e trasformazioni fra Repubblica e Principato, Bari 1991, 21 ss.; Albanese, La menzione del meridies in XII Tab.1,6-9, in AUPA 43 (1995), 95 ss.; Id., Suprema e sol occasus in XII Tab. 1,9 e nella lex Plaetoria de praetore urbano, in AUPA cit., 103 ss.; Id., Le XII Tavole e il calendario, in AUPA cit., 136 ss.; Id., Sulle cause di diffisio diei in XII Tab. 2,2, in AUPA cit., 176 ss.; D’Ippolito, Questioni decemvirali, Napoli 1993, part.te 61 e 168; Piro, Usu in manum convenire, Napoli 1994; Bretone, Diritto e tempo nella tradizione europea, Bari 1994.

 

[2] Cfr. Gai.4.17: in diem tricensimum tibi iudicis capiendi causa condico.

 

[3] Portalis, parr. 15 e 33 Discours préliminaire du project de code civil, in Locré, Législation civile, 159, 1621.