Presidente emerito della
Il tempo del diritto*
Il diritto usa il tempo come uno strumento che ordina le azioni
umane[1].
Le liti tra i privati, se non si compongono spontaneamente, vanno ritualizzate
nel processo. Il primo involucro in cui le XII tavole raccolgono il processo è
quello delle tappe del sole nel corso della giornata, ante meridiem, post meridiem fino al tramonto, che segna la
conclusione dell’attività processuale solis
occasus suprema tempestas esto (Tab. 1.7-8-9). Al debitore, confesso o
giudicato, prima che si possa esperire nei suoi confronti l’azione esecutiva
della manus iniectio sono concessi
trenta giorni perché egli abbia tempo di trovare il danaro per il pagamento del
debito. I trenta giorni sono detti iusti.
E la tradizione, raccolta da Gellio (Noct.
Att. 20.1.42-45) accosta iusti a iustitium, «id est iuris inter eos quasi interstitionem quandam et cessationem,
quibus diebus nihil cum his agi iure posset». Si tratta dunque di una
sospensione della persecuzione giudiziaria del debitore insolvente come
interruzione del diritto, inteso qui come attività processuale, secondo quanto
sembra suggerire la glossa di Gellio, oppure i XXX dies iusti sono una guarentigia della libertà personale del
debitore? Se il risultato pratico sembra essere sempre unico, e cioè quello di
dar tempo per il pagamento spontaneo, il significato ideologico dominante nella
espressione dies iusti è quello del
fine del diritto cittadino di tutelare la libertà personale. Questa, allo
spirare del trentesimo giorno, senza che si sia potuto provvedere al pagamento
del debito, si troverà priva di protezione ed esposta all’esperimento della manus iniectio e alla caduta nella
prigionia del creditore. Il tempo della prigionia è di sessanta giorni, durante
i quali per tre giorni consecutivi di mercato vale a dire in uno spazio di
circa un mese dato che il mercato ricorre ogni nove giorni, i debitori venivano
portati dinanzi al pretore nel comizio per la proclamazione del debito ancora
insoluto. Dopo di che se insoddisfatto il creditore poteva mettere a morte il
debitore o venderlo schiavo oltre Tevere, in terra straniera.
La ritualità dei XXX dies iusti, dei sexaginta in vinculis, del trinundinum
per la ripetuta pubblicità-notizia del debito insoluto, ha la finalità di
contrastare le immediate vie di fatto del creditore sul corpo del debitore, il
che sarebbe causa in una società maggioritariamente di poveri di una permanente
guerra fra privati. La ritualità è scandita sulla misura temporale del periodo
mensile, vale a dire sulle cadenze degli incontri sul mercato, uniche occasioni
per gli scambi di una esigua ricchezza di agricoltori e di pastori, dalle quali
poteva attendersi il danaro per il pagamento dei debiti o per le composizioni
pecuniarie delle controversie da delitti.
Il tempo imposto o creato dal diritto vale dunque a conservare la compagine sociale e a ricondurre ai ritmi degli scambi sociali le compensazioni economiche uscite da quella fisiologica regolarità. Occorre riflettere sul nesso fra tempo del diritto ed ordine economico.
Sempre nella legislazione decemvirale ricorrono i termini
dell’usucapione. Questo istituto postula l’arcaicità dell’impossessamento delle
cose mediante la loro continua utilizzazione, appunto l’usus. Tab. 6.3. nel testo ricavato da Cic. Top. 4.23, stabilisce: «usus
auctoritas fundi biennium est, ceterarum rerum omnium annuus est usus»,
vale a dire che per il fondo, paradigma di tutti gli immobili, il tempo
dell’usucapione è il biennio, per ogni altra res è l’anno. La durata biennio-anno è commisurata al valore
economico maggiore degli immobili rispetto ai mobili, oppure è a garanzia di
chi non possedendo sta per perdere il bene posseduto da altri? Il che
corrisponderebbe ad una fase della società agricola in cui la stanzialità non
era ancora dominante. L’idea che fin dalle origini il contadino-proprietario
vivesse al centro del suo campo è con ogni probabilità una mitizzazione
funzionale alla ricostruzione della struttura arcaica della famiglia come
organismo isolato e autonomo, per la teoria politica di Bonfante quasi uno
Stato in miniatura, per le teorie economicistiche un Einzelhof, un’azienda
anche spazialmente perimetrata. Invece ragioni di sicurezza spingevano i gruppi
familiari ad addensarsi in villaggi, da cui si usciva per andare nei campi. Il
nome dello straniero peregrinus perché
per agros è un indizio eloquente
dello stato delle campagne non abitato. Né si spiegherebbe l’affidare i confini
del campo al dio Terminus e la gravità della pena capitale per chi rimuovesse
le pietre di confine né l’azione di regolamento di confine se il contadino
proprietario fosse quotidianamente presente sul suo fondo. Il maggior tempo per
l’usucapione del fondo e di altri immobili è dunque a garanzia di chi non è nel
controllo continuativo del bene. Una prova che la maggior durata tutela
l’assente è nel diritto giustinianeo che stabilisce per la praescriptio longi temporis degli immobili dieci anni inter praesentes, venti inter absentes.
L’applicazione dell’usus non
solo ai fondi e agli altri beni mobili, ma anche alla persona della moglie, per
la durata di un anno, con l’effetto di farla cadere nella manus del marito, pose il problema di salvaguardare l’indipendenza
della donna sposata dalla potestà del coniuge o se questi fosse filius familias dal padre di lui. Ancora
una volta la considerazione dello scorrere del tempo nella vita quotidiana dei
coniugi fa nascere un istituto giuridico, la usurpatio trinoctii, consistente nel sottrarre la donna per tre
notti consecutive alla convivenza maritale.
L’assenza ogni anni per tre notti della donna interrompe il decorso dell’anno
ininterrotto, che altrimenti l’assoggetterebbe alla potestas del capo-famiglia (Tab. 6.5).
Il tempo che il diritto accoglie ha una finalità sospensiva.
Sospende l’esecuzione sulla persona e sui beni del debitore, sospende la
perdita istantanea dell’appartenenza di un fondo o di un bene mobile, sospende
l’acquisto della moglie da parte del marito. Quell’effetto di sospensione
risponde ad una esigenza conservativa di pace sociale e di tutela dello status personale, libertatis o familiae.
In particolare i triginta
dies iusti, il trinundinum, il trinoctium evocano la forza magica del
numero tre e del suo multiplo utile nella suggestione rituale. E’ significativo
che nel rito della dichiarazione di guerra, la clarigatio o repetitio rerum,
custodito e celebrato dal collegio dei sacerdoti feziali, i triginta dies iusti valevano a
consentire al popolo straniero o di restituire le cose ingiustamente trattenute
o di rimuovere la causa dell’ostilità. Solo trascorso questo tempo si poteva
procedere alla dichiarazione del iustum
piumque bellum. L’analogia con il processo privato in diem tricensimum per condictionem[2] propone l’ipotesi che l’intuizione
originaria fosse unica, cioè quella di assicurare la pace sociale tra privati e
la pace internazionale tra i popoli. Il tempo che sospende la violenza, una
volta consumato, quella violenza legittima o nel processo o nella guerra
giusta.
Ma il diritto che governa il tempo soggiace al flusso temporale
fino a lasciarsene usurare e mutare? I diritti antiche, il diritto romano in
particolare rivelano la persuasione sociale che una legge, malgrado la
consapevolezza della occasionalità e contingenza della sua genesi, sia
destinata a durare in eterno. La prova di questa idea di eternità, o di
metatemporalità, è costituita da una clausola, detta caput tralaticium de impunitate, che esonera da qualunque sanzione
chi per obbedire ad una legge sopravvenuta trasgredisce quella precedente.
Questo è segno che una legge non può essere abrogata, ma solo neutralizzata nel
suo apparato sanzionatorio. L’idea della metatemporalità del diritto avvolge
sia le esperienze e le credenze in leggi divine o di natura sia le leggi
storiche. Le società antiche non si lasciavano disciplinare da un comando
legale se non postulandone una durata infinita.
L’ambiguità della eternità del diritto si tramanda dalle età
arcaiche fino a Giustiniano. Nella costituzione Dedwken, confermativa dei Digesta, l’imperatore proto-bizantino opponendo
l’assoluta perfezione delle cose divine alla condizione del diritto degli
uomini, afferma che questo in infinitum
decurrit, perché la natura costantemente propone negozi che non sono stati
ancora annodati dai lacci del diritto, cioè non sono stati regolati da norme.
Su questo scarto tra il diritto costituito e quello ancora da legiferare si
fonda la funzione del sovrano legislatore, che Giustiniano interpreta come
attività di riforma: «ut possit omnia
quae noviter contingunt et emendare et componere et modis et regulis
competentibus tradere» (Tanta Dedwken 18).
Non a caso, chiusi i tria
volumina della sua compilazione, Giustiniano legifera con le Novellae constitutiones, che hanno
tramandato fino ai giorni nostri al termine novellare il senso pregnante e
tecnico di attività riformatrice, escludendo quello di una legislazione
implicitamente abrogativa di altra precedente nel tempo. Non c’è stato altro
legislatore più di Giustiniano consapevole della storicità del diritto. Egli
computa i mille e quattrocento anni che corrono tra lui e Romolo, spazio del
tempo in cui sono intervenute grandi variazioni nello Stato e nella società dei
Romani e anche mutamenti nell’antropologia, quale più rilevante fra tutti la
diversa concezione della natura e del fine dell’uomo introdotta dal
Cristianesimo. Eppure Giustiniano difende il sentimento dell’unità e unicità
nel corso dei secoli. Questo sentimento si fa ideologia quando Giustiniano per
ogni evo venturo la validità di quel diritto costruendolo come conforme alla
volontà divina di cui il legislatore imperiale è interprete. Un legislatore Deo auctore è necessariamente autore di
un diritto non rinnegabile e abolibile con il trascorrere della temporalità.
Una tale concezione sarà contrastata solo nei secoli della modernità.
Il testo più eloquente che rovescia l’idea della eternità del diritto storico è
rappresentato dall’art. 30 della Declaration
des droits de l’homme adoptée par la convention nationale le 29 Mai 1793 che
ne fa applicazione a fortiori per le
norme di una costituzione: «Un peuple a
toujours le droit de revoir, de réformer et de changer sa Constitution. Une génération n’a pas le droit d’assujettir à ses lois les générations
futures». Ma neanche questa così perentoria scelta per la breve durata del
diritto e di una costituzione commisurata alla generazione vivente, sembra aver
avuto ragione della idea multimillenaria che l’autorità del diritto riposa
sulla sua lunga durata nel tempo. Dopo
* Testo pubblicato in Studium 100, 4-5 (2004), 687 ss. (doppio
volume volume tematico, dedicato a “Il
Tempo”).
[1] Sul decorso del tempo, come fatto giuridicamente rilevante, con
particolare riferimento all’esperienza della giurisprudenza romana, si vedano
qui, per tutti, ad es. Kreller, Spatium quoddam temporis, in Scritti Ferrini IV, Milano 1949, 148
ss.; Gernet, Le temps dans les formes archaiques du droit, in Journal de Psycologie normale et pathologique
(1956), 379 ss.; Donatuti, Due questioni relative al computo del tempo,
in BIDR 69 (1966), 155 ss.; Watson, The Origins of usus, in RIDA 23
(1976), 265 ss.; Dalla, I due saecula, in AG 204 (1984), p. 695 ss.; Magdelain, Les XII Tables et le concept de ius, in Zum römischen und neuzeitlichen Gesetzesbegriff, Göttingen 1987, 14
ss.; Bona, Ius pontificium e ius civile nell’esperienza giuridica
tardo-repubblicana: un problema aperto, in Contractus e pactum (Atti Copanello 1988), Napoli 1990, 225 nt. 46,
233, 238-241; Labriola, La legge del tempo e il tempo della legge,
in Continuità e trasformazioni fra
Repubblica e Principato, Bari 1991, 21 ss.; Albanese,
La menzione del meridies in XII Tab.1,6-