Le origini delle compagnie barracellari e
gli ordinamenti di polizia rurale nella Sardegna moderna*
Università di Sassari
Sommario: 1 La tradizione storiografica e il «Tractatus de
barracellis». – 2. Il problema delle origini del
barracellato. – 3. La contrastata affermazione
del barracellato nelle terre infeudate. – 4. Il
barracellato tra giurisdizione regia e giurisdizioni territoriali.
La diffusione delle compagnie
barracellari nella Sardegna del Seicento segna la nascita di un’originale forma
di polizia rurale che trova ben pochi riscontri nel panorama dei corpi di
polizia dell’Europa moderna[1].
Nel XVII e nel XVIII secolo la compagnia barracellare si presenta, infatti,
come una speciale squadra di guardie campestri che si rinnova di anno in anno
nell’ambito della comunità rurale o urbana e che in cambio dei contributi
versati dagli allevatori e dai coltivatori s’impegna a pattugliare il
territorio, a proteggere le attività agricole, a prevenire i reati, a
sorvegliare i beni rurali e in particolare a risarcire i danni causati da
furti, atti vandalici e sconfinamenti del bestiame che siano rimasti impuniti.
Le peculiarità di questo singolare istituto, che ha profondamente
caratterizzato la storia rurale della Sardegna moderna e contemporanea, sono in
realtà molteplici: la struttura associativa e insieme corporativa della
compagnia, la dimensione strettamente locale del reclutamento e del campo
operativo, il ruolo d’indirizzo svolto dalla municipalità urbana o dalla
comunità rurale, il coinvolgimento degli agricoltori e degli allevatori
chiamati a finanziarne i servizi in proporzione al valore dei beni affidati in
custodia, e infine il caratteristico impegno dei barracelli a rispondere
dell’eventuale inefficacia delle loro attività di vigilanza indennizzando i
proprietari per le perdite subite in seguito a furti e danneggiamenti rurali.
Non è facile ricostruire le caratteristiche delle prime forme
embrionali di barracellato che compaiono nella Sardegna spagnola, ma certamente gli
ordinamenti agrari ereditati dal periodo giudicale e le robuste consuetudini
territoriali del mondo rurale sardo giocarono un
ruolo determinante nel modellarne la fisionomia e le funzioni. Non a caso i
complessi rapporti che legavano le compagnie barracellari alle normative
agrarie d’età comunale e giudicale costituiscono il fulcro di un’interessante tradizione
di studi, i cui esordi risalgono al XVIII secolo.
Fu un oscuro ma dotto giurista cagliaritano, Giuseppe Lorenzo Carta
Deidda, a teorizzare, forse per primo, negli anni Ottanta del Settecento, nel
quadro di un’ampia rivalutazione dell’antico «diritto patrio» della Sardegna,
la discendenza dei barracelli dai majores
e dagli juratos de justicia cui
Scrupolosamente Carta Deidda si preoccupava di esibire un primo
dettagliato elenco dei non pochi capitoli del testo normativo arborense «ubi
dispositum novimus – osservava – maiores et iustitiae iuratos insimul
constrictos malefactores probare, et capere, damnum parti laesae risarcire, sub
poenis ibidem praescriptis»[3].
Ma il riferimento più significativo riguardava soprattutto il capitolo XVI, in
cui era stabilito che gli «juratos de logu», per le delicate funzioni cui erano
preposti, fossero scelti con cadenza annuale tra i membri più capaci e stimati
della comunità, in numero di dieci per i villaggi maggiori e di cinque per
quelli minori; che fossero tenuti a impegnarsi con apposito giuramento a
ricercare, denunciare, arrestare («tenner») e consegnare alla giustizia
(«batire ad sa corte») i colpevoli di reati contro le proprietà e contro la
sicurezza delle persone; e che nel caso in cui i colpevoli fossero rimasti
ignoti o impuniti, ciascuno di essi pagasse una multa e «comunamente sos
homines dessa villa et sos jurados» pagassero «su dannu a cuy hat essere»[4].
Sia i barracelli che i majores
e gli juratos della Carta de Logu erano presentati, dunque,
come gli ultimi anelli di una lunga catena di magistrature che, snodandosi
dall’antichità greca e latina, e passando per le tortuose esperienze dell’età
medievale, giungeva fino alla Sardegna sabauda. Sicché, com’era buona
consuetudine per i giuristi del Settecento, anche Carta Deidda non rinunciava
ad aprire il suo trattato giuridico con un’erudita digressione storica in cui,
rifacendosi agli studi romanistici dei giuristi tedeschi e olandesi dell’«Usus
modernus Pandectarum» e affidandosi ai celebri commentari di Dionisio
Gotofredo, Johannes Brunneman e Samuel Stryk[5],
disquisiva sul bisogno di sicurezza e sulle esigenze di tutela dell’ordine
pubblico che avevano indotto i romani a istituire l’officium praefecti vigilum e a creare quelle particolari figure di
ufficiali e funzionari di polizia locale che sotto diverse denominazioni – curiosi e stationarii, irenarchae e
apparitores – avevano svolto compiti
e funzioni che ora apparivano propri dei moderni barracelli.
In effetti, osservava Carta Deidda, nessuno aveva mai messo in
dubbio che durante la dominazione romana quegli ordinamenti fossero stati in
vigore nell’isola come nelle altre province dell’Impero. Si poteva dunque
correttamente supporre che anche dopo la sua caduta quelle antiche figure di
funzionari e ufficiali di polizia così somiglianti ai moderni barracelli
avessero continuato a svolgere, seppure sotto altre denominazioni, le loro
tipiche e originarie attività di polizia locale («et licet barracellorum nomine
minime insigniti, substantialiter tamen ipsorum explebant officium»).
Così, ricorrendo all’autorità del cardinal De Luca e ai celebri
«annali» di Paolo Tronci, Carta Deidda rievocava il lungo periodo delle
invasioni barbariche nella penisola italiana, le incursioni dei Mori e
l’avvento della dominazione pisana in Sardegna, le tradizioni giuridiche
longobarde e pisane, la complessa gestazione della legislazione giudicale[6].
In particolare, sulla scorta degli scritti georgici del giurista e storico
monopolitano Prospero Rendella (1553-1630) – autore, fra l’altro, di un
interessante Proloquium in reliquias
iuris Longobardi («una vera e propria introduzione al sistema delle fonti
del diritto patrio», secondo l’efficace definizione di Domenico Maffei) – il Tractatus de barracellis metteva
acutamente in luce l’influsso che le leggi longobarde avevano finito per
esercitare su alcuni istituti del diritto sardo («Analogia itaque nostrorum, et
combinatio statutorum cum Longobardo iure, ipsius in hoc Regno comprobat
observantiam»)[7].
Ne offrivano un chiaro esempio i capitoli della Carta de Logu e le disposizioni delle regie prammatiche che a
protezione delle attività agricole imponevano all’interno delle comunità rurali
la pratica delle tenture e delle maquizie e disciplinavano, in perfetta
sintonia con i «Longobardica iura», la cattura e la macellazione dei capi di
bestiame sorpresi sui terreni coltivati o vietati al pascolo brado («pro nunc
sufficit conferre cap. 154 et cap. 194 Cartae Localis, capitulumque 2 et 3
Regiae Prammaticae, tit. 43, ubi de quadrupedum macello parili forma dispositum
cernimus»).
Le analogie che si potevano stabilire tra alcuni capitoli della Carta de Logu e le normative di matrice
longobarda presenti negli ordinamenti dei principali Stati della penisola erano
dunque la riprova del contributo che le tradizioni giuridiche longobarde
avevano apportato anche alla legislazione giudicale e alla formazione del
diritto patrio: alla luce di un’attenta analisi comparativa, alcuni istituti
giuridici, che di primo acchito potevano sembrare tipici del diritto sardo,
risultavano presenti in diversi ordinamenti territoriali e a ben vedere erano
riconducibili alle dominazioni barbariche. Ne erano appunto un esempio le
complesse disposizioni che regolavano il sequestro e la macellazione del
bestiame nel caso dello sconfinamento di pascolo che il giurista cagliaritano,
rifacendosi al fortunato Jus georgicum,
sive Tractatus de praediis di Gottfried Christian Leiser apparso a Lipsia
nel 1698, non esitava a classificare tra le normative che il diritto sardo
aveva mutuato dalla tradizione longobarda[8].
E del resto, come si poteva evincere dalla Practica
criminalis di Bossius (i Tractatus
varii del giurista lombardo del primo Cinquecento Egidio Bossi), dalle Decisiones di Capycius (le pluriedite Decisiones Sacri Regii Consilii Neapolitani del
sorrentino Antonio Capece, apparse a Venezia nel 1541) e dalle Quaestiones di Onciacus (le classiche Quaestiones academicae relative alle
decisioni del Senato di Savoia di Guillaume D’Oncieaux), era proprio attraverso
l’influsso della dominazione longobarda che l’istituto del sequestro e della macellazione
del bestiame si era imposto non solo in Sardegna ma anche nel Regno di Napoli,
in Lombardia, in Savoia e in altre regioni della penisola italiana[9].
Era dunque evidente che la pratica del sequestro e della macellazione del
bestiame e, più in generale, l’articolata e complessa normativa che regolava la
prevenzione e la repressione dello sconfinamento di pascolo erano penetrate
nell’isola per il tramite della legislazione longobarda («Igitur concludimus
[...] animalium pignorationem et macellum a Longobardis legibus in hoc
introductam Regno, prout in Italia [...] in Sabaudia [...] pluribusque in
regionibus usu et moribus recepta fuit»).
Certo, in questa dotta ricostruzione delle radici romanistiche e longobarde
del «diritto agrario patrio» la sottolineatura di una presunta continuità
dell’esperienza barracellare, dall’età classica al periodo sabaudo, finiva per
offuscare le numerose trasformazioni che avevano portato a quei nuovi corpi di
polizia rurale che tra il Sei e il Settecento avevano affiancato (e in molti
casi soppiantato) gli antichi juratos previsti
dalla Carta de Logu. In effetti,
negli anni in cui Carta Deidda componeva il suo trattato, le compagnie
barracellari si erano già imposte come soluzione predominante in gran parte dei
villaggi della Sardegna. La relazione della «visita generale del Regno»
compiuta nel 1770 dal viceré sabaudo conte d’Hallot des Hayes testimonia il
radicamento che il nuovo istituto aveva ormai raggiunto nelle campagne
dell’isola. Come risultava dall’ampia e approfondita inchiesta viceregia (per
ogni villaggio la «visita» doveva accertare non solo la presenza della
compagnia barracellare, ma anche la qualità dei servizi da essa resi), la
maggior parte delle comunità rurali si avvaleva abitualmente di squadre
barracellari che sulla base di capitolati assai dettagliati assicuravano le
ronde nell’agro e risarcivano i furti e i danni, talvolta soltanto dopo lunghi
ed estenuanti contenziosi, come lamentavano soprattutto i rappresentanti delle
comunità agro-pastorali della Sardegna centro-settentrionale, ma più spesso con
una certa regolarità e con soddisfazione delle popolazioni, come risultava
invece dalle numerose testimonianze raccolte nei villaggi a prevalente economia
agricola delle aree pianeggianti del meridione dell’isola[10].
In realtà, sulle oscure vicende del barracellato nel periodo
spagnolo, la ricostruzione storica di Carta Deidda glissava assai
disinvoltamente limitandosi a ipotizzare che sotto i nuovi dominatori le
disposizioni giudicali sugli antichi juratos
fossero state abrogate, o fossero cadute in desuetudine, come faceva
supporre l’energica petizione presentata dallo Stamento militare nel Parlamento
del viceré Cardona (1543), che ne aveva invocato il pronto ristabilimento e la
piena applicazione in tutti i villaggi del Regno: «Abolitos postea fuisse
Hispani guberni temporibus ex eo coniectamus, iuratos, quod ad observantiam
dictae Cartae Localis revocatur per Regni Stamenta, dispositio»[11].
E del resto anche l’autorevole giurista Francisco de Vico, primo reggente sardo
del supremo Consiglio d’Aragona, non aveva mancato di deplorare, circa un
secolo dopo, negli anni Quaranta del Seicento, l’assurda condotta di quei
regnicoli che «in boni publici detrimentum» facevano di tutto per rendere
inoperanti quelle sagge disposizioni[12].
Successivamente, all’aprirsi del XVIII secolo, lo spirito di quelle
norme era stato ampiamente ripreso dal pregone generale del viceré duca di S.
Giovanni che aveva riaffermato la responsabilità dei capitani, podestà,
ufficiali e giudici ordinari nell’individuazione, cattura e punizione degli
autori dei reati e nel pagamento delle sanzioni e degli indennizzi:
denuoque praescripta fuit methodus anno
Così, giungendo a grandi passi alla dominazione piemontese, la
ricostruzione storica di Carta Deidda finiva per ricollegare, con qualche
evidente forzatura, la nascita dei moderni barracelli alla benevola protezione
assicurata all’isola dalla dinastia sabauda e da Vittorio Amedeo III: «Horum
tandem deputatorum infractus usus paucis post annis, quo invictissimi Regnantis
arma Regnum protegerunt; in locumque istorum barracellos submissos agnovimus
modo et forma infra exaranda»[14].
Sarebbe però sbagliato fermarsi a considerare nel lavoro di Carta
Deidda soltanto i suoi riferimenti storici. Il Tractatus de barracellis è infatti un’opera di spiccato taglio
giuridico e rappresenta il primo pionieristico tentativo di ricostruire il
quadro delle fonti normative e di offrire, insieme, un’organica chiave
interpretativa delle convenzioni più diffuse e dei capitolati stipulati dalle
compagnie barracellari. Non a caso, il giurista cagliaritano prendeva di petto
uno dei nodi più controversi dell’amministrazione della giustizia nell’isola
mettendo subito in evidenza lo stridente contrasto tra il moderno impianto
civilistico della responsabilità dei barracelli per i furti rimasti impuniti e
l’assurda persistenza dell’arcaico istituto dell’«incarica» fondato sulla
presunzione della responsabilità dell’intera comunità per i reati commessi nel
suo territorio. In effetti, la diffusione delle compagnie barracellari metteva
profondamente in crisi il sistema dell’«incarica»: non era più tollerabile,
osservava Carta Deidda, che le comunità rurali che erano già impegnate a
mantenere a proprie spese la squadra barracellare fossero poi chiamate a pagare
anche la gravosa sanzione dell’«incarica», quando in realtà toccava al principe
assicurare ogni protezione ai sudditi con le imposte che a questo fine gli
erano versate.
Nimis adhuc urget alia
super recensita ratio – affermava pertanto il giurista cagliaritano – ut
universitates a pecuniaria encarica poena tueamur, dum barracellis salarium
perhibent; quippe princeps tenetur purgare terram latronibus et mare piratis,
idque suis sumptibus [...]; ad hoc enim ei tributum et vectigalia penduntur[15].
Sulla vita e sulla formazione di Carta Deidda si sa ben poco:
sappiamo che nacque e visse a Cagliari e vi morì tra la fine del Settecento e i
primi anni dell’Ottocento; sappiamo che si laureò in utroque iure, che svolse l’attività forense fino agli anni Ottanta
del Settecento e che in seguito, preso l’ordine sacerdotale, divenne canonico
della cattedrale di Cagliari e consigliere del vescovo di Ales. Sappiamo
inoltre che nel 1778 finì di redigere l’ultimo di tre volumi manoscritti,
l’unico pervenutoci, di un’ampia raccolta di sentenze della Reale Udienza – il
supremo magistrato del Regno – da lui stesso selezionate[16].
Così, nel gennaio del 1781, quando si accinse a comporre il Tractatus de barracellis, Carta Deidda
aveva già al suo attivo una ricerca giuridica approfondita cui doveva la sua
notevole padronanza non solo della normativa, ma anche della giurisprudenza e
della dottrina. Ciononostante il giurista cagliaritano era consapevole di
cimentarsi in un’impresa che si prospettava particolarmente difficile, anche
perché il tema che aveva prescelto non era mai stato affrontato fino ad allora:
eppure tra i tanti argomenti che gli si erano affacciati alla mente «nessuno –
raccontava nella prefazione – aveva solleticato il suo interesse quanto
l’analisi degli ordinamenti barracellari». Peraltro il giurista cagliaritano
aveva ben presente la molteplicità degli usi locali e delle normative agricole
che caratterizzavano la realtà dell’isola, nettamente distinguendo, per
esempio, i Campidani di Cagliari e di Oristano dalle aree del Capo di Sassari e
di Gallura. Sicché il suo programma di lavoro prevedeva anche un secondo
volume, che forse non fu mai composto, nel quale avrebbe trovato collocazione
una raccolta commentata delle convenzioni e dei cosiddetti capitolati
barracellari adottati nelle diverse zone del Regno[17].
Fin dalla sua progettazione il Tractatus
de barracellis si presentava, dunque, come un lavoro d’indubbio impegno
teorico, ma ideato con lo spirito del giurista pratico, sensibile alle esigenze
del mondo forense e alla necessità di ancorare l’interpretazione dei casi e
delle problematiche esaminate al quadro normativo vigente. L’esperienza del barracellato
si era sviluppata, infatti, sulla base di una regolamentazione assai fluida e
frammentata, che aveva scarsissimi riferimenti nella normativa regia e faceva
prevalentemente perno sulle convenzioni e sui capitoli, sempre più numerosi e
dettagliati, che di anno in anno erano rinnovati tra le comunità e le compagnie
barracellari.
Di qui il particolare interesse del Tractatus de barracellis, che costituisce non solo una preziosa
rassegna delle problematiche giuridiche e sociali legate all’esperienza barracellare,
ma anche una testimonianza viva delle numerose critiche che denunciavano le
disfunzioni delle giustizie feudali, l’arcaicità di alcuni antichi istituti del
diritto patrio e l’inadeguatezza della normativa vigente nelle campagne
dell’isola, la cui base principale era ancora costituita dai capitoli della Carta de Logu. Non era, dunque, una
preoccupazione meramente antiquaria quella che portava Carta Deidda a scavare
nella ratio delle disposizioni della Carta arborense: egli, infatti, si
prefiggeva di rintracciare tutte quelle norme che dovevano orientare il
funzionamento delle istituzioni barracellari e costituire quindi un
imprescindibile punto di riferimento nelle controversie giudiziarie e nei
contenziosi giurisdizionali.
L’interesse di questa testimonianza deriva inoltre dal fatto che il
Tractatus de barracellis rispecchia
una realtà destinata a subire di lì a poco radicali trasformazioni, sia sotto
la spinta del movimento patriottico e antifeudale degli anni Novanta, sia per
effetto delle incisive riforme neoassolutistiche imposte dalla monarchia
sabauda negli anni dell’esilio della corte (1799-1815). A partire dai primi
dell’Ottocento, una serie di provvedimenti governativi prese, infatti, a
disciplinare in modo uniforme l’attività delle compagnie barracellari, dapprima
modificandone profondamente i connotati originari e poi sciogliendole
all’interno di un nuovo corpo di polizia a struttura centralizzata e
gerarchizzata[18].
Si chiudeva così quella fase storica in cui, nell’assenza di una specifica
normativa unitaria, l’attività delle compagnie barracellari era stata
principalmente regolata dalle convenzioni locali e dalle disposizioni della Carta de Logu (o degli statuti urbani),
fatti salvi naturalmente i riferimenti più generali alle regie prammatiche, ai
capitoli di corte, agli editti e ai pregoni del periodo spagnolo e sabaudo.
A parte il singolare caso del Tractatus
di Carta Deidda, la tradizione degli studi sugli ordinamenti barracellari
presenta tre momenti particolarmente significativi sia per il rapporto con
l’evoluzione della storiografia sulle istituzioni agrarie dell’isola, sia per
le sollecitazioni provenienti dal dibattito politico e giuridico del tempo.
Il primo momento coincide con la grande discussione sul destino
degli antichi ordinamenti del Regnum
Sardiniae che agitò la società isolana nel periodo delle riforme feliciane
e carloalbertine e soprattutto all’indomani della «fusione perfetta» con gli
Stati sabaudi di terraferma[19].
Le accese discussioni sulla necessità di riformare il barracellato o
sull’opportunità di decretarne l’abolizione per far posto alle «libere e mutue
assicurazioni» spinsero diversi intellettuali, amministratori e uomini politici
a interrogarsi sui caratteri peculiari di quell’antico istituto e sulle sue
connessioni con le tradizioni e con gli ordinamenti del mondo agro-pastorale[20].
In questo contesto vide la luce La
questione barracellare di Giovanni Battista Tuveri, un battagliero e
documentato studio attraverso il quale l’ex deputato, filosofo e brillante
polemista, analizzava le ragioni economiche, giuridiche e sociali che
imponevano un’energica ripresa della tradizione comunitaria locale e un
convinto e massiccio rilancio delle compagnie barracellari. Non a caso
l’eccentrico esponente del pensiero democratico e risorgimentale sardo
sottolineava romanticamente la nobile tradizione comunitaria e pubblicistica
del diritto patrio e ricollocava le origini e lo sviluppo dell’istituto
barracellare nell’alveo normativo dello ius
municipale e della Carta de Logu.
Al barracellato –
osservava acutamente Tuveri – si suole attribuire un’antichità che forse non
ha. Quel che è antichissimo in Sardegna è il principio, che niuno sia in
facoltà di lasciare incustodite le sue proprietà, e che i danneggiati debbano
essere indennizzati. [...] Nella Carta de
Logu di Eleonora si ordinava che in ciascun comune vi fosse un certo numero
di giurati da scegliersi tra le persone più reputate. Era uffizio loro lo
scoprire i delitti e l’arrestare i delinquenti. [...] Da queste ed altre prescrizioni
[...] è facile l’inferire come gli elementi [...] dell’istituzione che poscia
ebbe il nome di barracellato si trovino nei monumenti più antichi della sarda
legislazione: anzi è da presumere, che stante la deferenza che si aveva un
tempo alle abitudini del popolo, i nostri legislatori non facessero che
inserire tra le leggi scritte ciò che già esisteva nel diritto consuetudinario.
Dubito però – concludeva Tuveri – che il barracellato propriamente detto sia di
molto anteriore alla metà del secolo decimo settimo[21].
Né era senza significato che l’aspro dibattito sul destino delle
istituzioni barracellari finisse per intrecciarsi con quella singolare
controversia politico-giuridica che riguardava la salvaguardia delle norme con cui
nel 1848 erano state escluse dall’abrogazione del codice feliciano le
disposizioni sulle maquizie e sulle tenture, risparmiate dalla «saviezza dei
legislatori» fino al varo di una nuova organica legislazione agraria[22].
Ma, in realtà, era stata l’autorevole e fortunata Storia di Sardegna di Giuseppe Manno, apparsa a Torino tra il 1825
e il 1827, ad accreditare sul piano storiografico non solo un’acuta
ricostruzione in chiave patriottica delle origini e dello sviluppo del
barracellato nell’isola, ma anche la singolare tesi (che in verità circolava
già negli ultimi decenni del Settecento)[23]
della spiccata natura assicurativa e della precoce modernità
giuridico-economica delle istituzioni barracellari.
Quella parte della
militare sorveglianza che tende a guarentire l’interiore tranquillità dello
stato [...] esercitavasi in Sardegna – affermava Manno – dai così detti giurati
delle curie per quanto ragguardava ai malefizi che offendono le persone; e
dalle bande conosciute nell’isola col nome di compagnie di barracelli per quanto dipendeva dai delitti contro la privata
proprietà. Queste compagnie, cognite già fra noi nel tempo dei giudicati –
spiegava ai lettori subalpini ed europei il grande storico sardo – furono
stabilite in ciaschedun villaggio per particolare accordo coi comuni; dal quale
derivava in quelle bande l’obbligo di ricompensare di qualunque danno
sopportato nelle proprietà quei popolani che di buon grado si volessero giovare
della loro opera; e ciò mediante una retribuzione di cui era determinata dalle
convenzioni la quantità, come lo era il valsente delle indennità. Sentivano
dunque quelle compagnie il bisogno di affrancarsi dall’obbligo di rifare gli
altrui danni impedendoli. Ed in tal modo davasi in Sardegna in tempi assai da
noi discosti l’esempio di quelle utili società di assicurazione le quali,
stabilite primieramente per la salvezza delle spedizioni di commercio,
pullularono poscia in Europa ai nostri dì in tanti altri rispetti. Dissimili in
ciò solamente dalla società dei custodi delle nostre proprietà – puntualizzava
Manno – che molte di quelle sono ciecamente governate dalla ventura, [mentre]
questa si appoggia nelle opere concordi e fruttifere degli stessi soci[24].
Nello stesso periodo sia l’appassionata Histoire de Sardaigne di Jean-François Mimaut, sia il solido Voyage di Alberto
Cette
garde, qu’on appelait la barracelleria –
osservava l’ex console francese a Cagliari – était composée des propriétaires
et cultivateurs des villages, et formait une compagnie par canton. [...] Au
moyen d’une faible rétribution, proportionnée à la valeur des biens, que chaque
cultivateur payait aux barracelli [...],
ces officiers se rendaient responsables de tous les dommages, de toutes les pertes
que pouvaient éprouver les souscripteurs. Leur premier soin était de faire
bonne garde, et d’exercer une active surveillance, assistés des hommes qu’ils
commandaient, et qui eux-mêmes y étaient intéressés. [...] Sans attacher à la barracelleria la même importance que le
savant magistrat sarde [il riferimento era all’entusiastico elogio che il
giudice Giovanni Maria Mameli de’ Mannelli aveva dedicato agli antichi corpi
barracellari nel suo commento alla Carta
de Logu apparso circa vent’anni prima][25],
il serait peut-être permis – azzardava Mimaut – d’y trouver la première pensée
des compagnies d’assurance[26].
Inoltre l’ex console francese a Cagliari non mancava di
sottolineare l’importanza dell’originario lascito giuridico che
dispositions du code rural de Mariano ayant pour objet de mettres les vergers et les récoltes à
l’abri des voleurs et de l’avidité des animaux [...]. C’est à lui – affermava
Mimaut – qu’est due l’idée première de l’établissement d’une autorité chargée
spécialement de la surveillance et de la conservation des productions de la
terre [...]. Cette création des gardes de récoltes [...] donna lieu, plus tard,
sous l’administration d’un vice-roi espagnol, à l’établissement d’une véritable
garde nationale champêtre[27].
Gli faceva eco di lì a poco Alberto
Le barrancellat [...] date en Sardaigne du
temps du gouvernement espagnol; modifié, étendu, aboli, et rétabli à maintes
reprises, il a survécu à toutes ces variations. On désigne, sous le nom de
barrancellat [...], une compagnie d’assurance armée, dont l’objet est non
seulement de préserver les campagnes des dégats et des vols de toute espèce,
mais aussi d’assurer une indemnité aux proprietaires, dans le cas où les
coupables ne pourraient être arretés [...]. Une telle institution – considerava
acutamente l’ufficiale dell’esercito sabaudo – qui peut-être ne serait pas
deplacée dans les plusieurs contrées les plus civilisées de l’Europe, est
d’autant plus utile en Sardaigne que les champs, ainsi que les bestiaux, y sont
en quelque sorte abandonnés au hasard, et que la distance qui sépare les
territoires cultivés et les villages, ainsi que l’éloignement des abitations
entre elles, ne permettent pas aux habitans d’avoir constamment l’œil sur leurs
propriétés[28].
Successivamente, nel 1844, fu ancora Giuseppe Manno, ormai reggente
di toga nel Supremo Consiglio di Sardegna a Torino, a richiamare l’attenzione
di un pubblico specialistico di storici e operatori del diritto – com’erano i
lettori dell’autorevole «Revue de droit français et étranger» – sulla saggezza
e finezza giuridica dell’antica legislazione sarda, all’interno della quale
rimarcava in particolare la sorprendente modernità degli statuti
des
anciennes compagnies d’assurance contre le vols et les dommages, qui existent
ancore aujourd’hui sous le nom de compagnie
di barrancelli. Propagées aujourd’hui sous tant de rapports, elles méritent
bien – avvertiva però l’autorevole storico – qu’on en étude les premières
ébauches dans les anciennes lois des peuples[29].
Il secondo interessante momento della tradizione di studi sulle
origini del barracellato si colloca tra la fine dell’Ottocento e i primi
decenni del Novecento e coincide non solo con la svolta della legislazione
speciale per l’isola, ma anche con l’aprirsi di quella felice stagione
d’intensa riflessione storiografica sugli ordinamenti della Sardegna medievale
e moderna che accompagnò la nascita della scuola storico-giuridica italiana.
Appartengono a questo periodo sia il contributo monografico sul barracellato
pubblicato da Natale Angioi nel 1909, sia i fondamentali lavori di Enrico
Besta, di Arrigo Solmi, di Ugo Guido Mondolfo, e più tardi di Antonio Era,
sulla Carta de Logu e sul diritto
sardo nel Medioevo, sul feudalesimo e sulla storia delle istituzioni agrarie
dell’isola[30].
Avremo modo di ritornare sull’importante contributo della scuola
storico-giuridica, ma intanto occorre segnalare che nello stesso periodo
appaiono anche gli studi linguistici di Pier Enea Guarnerio e di Max Leopold
Wagner, i cui apporti scientifici sono ancora essenziali per comprendere il
lessico, la cultura e gli stessi ordinamenti giuridici della società
agro-pastorale[31].
Il terzo momento significativo si delinea negli anni Sessanta e
Settanta del Novecento, nel clima autonomistico alimentato dai progetti di
rinascita dell’isola e dalle aspettative di riforma suscitate dall’inchiesta
parlamentare sul banditismo. È in questo quadro che matura una rinnovata
attenzione della storiografia per le peculiarità dell’isola nell’ambito della
storia agraria italiana ed europea. A metà degli anni Sessanta compaiono il
volume collettaneo di Saggi storici
sull’agricoltura sarda e i primi volumi della collana «Testi e documenti
per la storia della Questione sarda» all’interno della quale sono ripubblicati
alcuni dei più significativi studi della scuola storico-giuridica sulla realtà
agraria e sulle strutture feudali della Sardegna medievale e moderna[32].
Soltanto negli anni Settanta e Ottanta emerge però quella particolare
sensibilità per la storia della società rurale che favorì l’avvio di nuovi
studi e di una sistematica ricognizione delle relative fonti archivistiche. È
in questa linea di ricerca che si colloca l’efficace profilo storico del
barracellato tracciato da Giovanni Todde all’inizio degli anni Ottanta: un
contributo prezioso che avvalendosi di un’interessante documentazione
archivistica mette bene a fuoco i compiti e le caratteristiche delle compagnie
barracellari alla fine del Seicento e ripercorre le alterne vicende
dell’istituto nell’età moderna e contemporanea[33].
Ma la storia delle compagnie barracellari resta ai margini delle
ricerche di questi anni. Sicché il bilancio delle specifiche acquisizioni
relative al tema, messo a confronto con gli importanti contributi offerti per
la storia di altre istituzioni e per gli studi di storia del diritto della
Sardegna medievale e moderna, appare limitato: le nostre conoscenze sulle
intricate e complesse vicende che hanno portato all’affermazione delle
compagnie barracellari nella realtà rurale della Sardegna spagnola e sabauda
sono ancora estremamente frammentate e complessivamente insoddisfacenti[34].
Cavallo di battaglia della storiografia giuridica
otto-novecentesca, la ricerca delle origini e dei precedenti storici degli ordinamenti
del cosiddetto diritto intermedio ha segnato profondamente lo sviluppo degli
studi sulle istituzioni della Sardegna medievale e moderna[35].
Non deve meravigliare dunque che anche le ricerche sulle origini del
barracellato abbiano risentito a lungo dell’impostazione culturale (e
metodologica) della scuola storico-giuridica, coerentemente impegnata a
comparare normative e a ricercare nessi di causalità tra istituzioni di epoche
diverse più che a verificare le funzioni da esse concretamente svolte nelle
specifiche realtà storiche. Così, prendendo le mosse dalla fisionomia che il
barracellato aveva assunto nella Sardegna dell’Ottocento, la storiografia
d’impianto positivistico si è affannata a ricostruire le linee di continuità
che sul piano giuridico-formale potevano ricondurre le origini delle compagnie
barracellari agli antichi ordinamenti della Sardegna pre-aragonese.
Il saggio di Natale Angioi è il frutto più contraddittorio e
insieme più significativo di questo filone di studi. Nato come tesi di laurea
(«È il lavoro di un principiante», avvertiva nella sua graffiante recensione lo
storico Ugo Guido Mondolfo), il saggio era suddiviso in tre parti: la prima era
dedicata alla storia dell’istituto, la seconda alla legislazione vigente e la
terza alla diffusione del servizio barracellare nella Sardegna del primo
Novecento. Si trattava, in effetti, di tre parti qualitativamente assai
disomogenee, tra le quali, mentre la «parte giuridica», come sottolineava
Mondolfo, era certamente «la migliore», quella «storica» era invece la più
debole[36].
In essa l’autore, dopo alcune considerazioni sull’«etimologia della parola
barracello», si soffermava a illustrare le ipotesi affacciate da «vari
scrittori» sui precedenti giuridico-istituzionali delle guardie barracellari.
Certo, Angioi non mancava di prendere le distanze dalle tesi che
gli apparivano più ardite, come quelle che indicavano i «precedenti storici»
dei barracelli nei «vari agenti di polizia» dell’età romana o nel principio
della responsabilità collettiva vigente presso i Franchi[37];
ma non rinunciava ad aderire, seppur problematicamente, alle posizioni di chi
ricollegava la figura del barracello a quelle degli jurados e dei padrargios della
Carta arborense. Così, dopo aver
attentamente confrontato attraverso i procedimenti tipici della cultura
giuridico-positivistica le disposizioni degli Statuti sassaresi, del Codice rurale di Mariano IV e della Carta de Logu di Eleonora, Angioi non
esitava a presentare le affinità di carattere normativo come la dimostrazione della
discendenza dei moderni barracelli dagli «ufficiali di polizia» dell’età
giudicale: «Mi pare pertanto di poter razionalmente concludere – dichiarava –
che questi giurati (cioè gli jurados in
genere e i padrargios in specie) sono
all’evidenza i predecessori immediati dei nostri barracelli»[38].
Di qui il severo giudizio di Mondolfo, secondo cui
la ricerca intorno ai
precedenti storici del barracellato sarebbe stata più proficua [...], se
l’autore avesse chiarito da principio la natura giuridica della istituzione,
quale era prima della legge del 1853 [...], e prima anche del 1799 [...]. Ma le
ricerche dell’autore in questa parte – osservava – sono deficientissime[39].
E tuttavia il saggio, al di là del fragile impianto scientifico,
offriva una preziosa sintesi degli studi compiuti fino ad allora; sicché per
molti decenni e fino a tempi relativamente recenti – nel ristagno delle
ricerche e nell’assenza di altri contributi monografici – il lavoro di Angioi
ha costituito il testo di riferimento per chiunque intendesse documentarsi
sulla storia del barracellato e sulle sue trasformazioni ottonovecentesche[40].
Ma sulle origini dell’istituto nella Sardegna moderna le tesi di
Angioi erano certamente debolissime, appiattivano le peculiarità dei diversi
momenti storici e soprattutto accreditavano alcuni luoghi comuni, come per
esempio quello che faceva risalire alla metà del Seicento la prima attestazione
dell’esistenza di compagnie barracellari nell’isola. Il riferimento consueto
era alle Dissertationes quotidianae del
giurista Pietro Quesada Pilo, pubblicate a Napoli nel 1662, nelle quali
figurava un esplicito richiamo alle regole che presiedevano al funzionamento
dell’istituto, e che, seppure in assenza di altre testimonianze documentarie,
facevano datare a quell’epoca la nascita del barracellato[41].
In realtà, come era stato già rilevato da Vittorio Angius e come fu poi
ulteriormente documentato da Enrico Costa e Antonio Era, l’esistenza di
compagnie barracellari in Sardegna risulta attestata fin dalla fine del
Cinquecento.
Certo nelle fonti cinquecentesche il termine «barracello» designava
realtà e funzioni assai differenti, il cui comune denominatore era costituito
dall’idea di una squadra di guardie armate con compiti di polizia e di tutela
dell’ordine pubblico. In quest’accezione, il termine ricorreva già a partire
dalla seconda metà del XVI secolo. Per esempio nelle corti presiedute dal
viceré Coloma nel 1572-74, il rappresentante della città di Sassari chiedeva
che in tutto il Regno fossero istituiti
barincellos eo iusticia de campanya ab las
iurisdictions, poders, et altres com a Vostre Senyoria apparra convenir per que
aquells pugan y degan [perseguir] lladres i malfactors i bandejats que van per
la campanya [...] y los salaris de dits barinjellos que se le [pague de] la
suma del servei del Parlament[42].
La richiesta fu respinta («No te’ lloch per hara lo supplicat»,
decretava il viceré), ma alla base di questa bocciatura non c’era soltanto la
preoccupazione per le notevoli spese che si proponeva fossero poste a carico
del donativo, ma anche l’apprensione del viceré per l’evidente rischio
rappresentato dalla costituzione di nuove milizie che non sarebbe stato facile
sottrarre al controllo dei feudatari.
L’apparizione del termine «barracello» risulta dunque legata, almeno
inizialmente, al duro contenzioso tra l’autorità regia e i feudatari intorno
alla possibilità di reclutare milizie autonome e formare nuovi corpi armati.
Del resto era ancora viva l’eco del secco rifiuto che era stato opposto dal
viceré de Madrigal nel Parlamento precedente (1564) alla richiesta, che per
l’appunto era stata avanzata dallo Stamento militare, di abrogare la prammatica
regia che proibiva ai baroni di assoldare compagnie armate[43].
Non è un caso, però, che solo quattro anni prima della riunione del Parlamento
Coloma, nell’agosto del 1570, un’analoga richiesta fosse stata accolta invece
per alcuni territori delle incontrade reali, in cui naturalmente non si poneva
il problema di una concorrenza con la giurisdizione baronale. La proposta era stata
formulata dallo spagnolo Beltran de Guevara che, ormai residente in Sardegna da
alcuni anni, si dichiarava colpito dai numerosi abusi che erano perpetrati
dagli ufficiali delle incontrade e dalla massiccia presenza che il banditismo
faceva registrare nelle campagne dell’isola:
Seria muy util y necessario en este Reyno –
sosteneva de Guevara – uno que tuviesse cargo de capitan y barrachel de
campanya, con el qual cargo [...] dentro de breves anyos se poneria mucho
sossiego y quietud en el Reyno y se quietarian muchas ocasiones de insultos y
robos que en el se hazen.
La proposta, ottenuto il parere favorevole dei giudici della Reale
Udienza, fu accolta da Filippo II che affidò allo stesso de Guevara l’incarico
di «capitan y barrachel de campanya»[44].
Tuttavia, a parte l’interesse che il documento riveste per l’uso
del termine barrachel, il
provvedimento non sembra discostarsi dal modello delle compagnie armate,
costituite da soldati di mestiere e poste sotto il comando di capitani di
ventura, periodicamente assoldate dai viceré‚ ed efficacemente descritte da
Gabriella Olla Repetto come uno dei tipici strumenti di lotta contro la
criminalità in uso nella Sardegna spagnola[45].
A questo punto occorre però distinguere: è evidente, infatti, che
tanto in questo caso come in quello della petizione respinta nel Parlamento
Coloma, i termini barrachel e barincellos designano realtà assai
diverse da quella che invece troviamo documentata, circa un ventennio più
tardi, nei tredici capitoli della convenzione per la barracelleria stipulata,
il 25 giugno 1597, dai consiglieri civici di Sassari con il «suttavegueri»
Gaspar Brasino Restarellu e con l’«algozinu reale» Hieroni Mansanedda
(rispettivamente un giudice e una guardia regia),
pro causa et rexone –
si legge nel proemio dell’atto – de estirpare sos furtos, dannos et ruinas si
faguen in totale destrusione dessas vingias, jardinos, ortos et atteras
possesiones de custa dicta cittade. A questo fine – si dice – hat parfidu [è
sembrato] multu conveniente, antis necessariu, eliger et ponner barincellos[46].
La convenzione, come imponevano i regolamenti municipali per le
decisioni di particolare rilevanza, era stata precedentemente approvata dal
Consiglio maggiore della città. Con essa i due capitani dei barracelli si impegnavano
a custodire e a proteggere per un anno «de die et de nocte, totu sas vingias,
jardinos, ortos, cannedos, junc[argios], cungiados et domos et pinnetas de
dictas possessiones de sos cittadinos et habitadores de custa cittade»; e
contemporaneamente si obbligavano a risarcire ai proprietari, dietro semplice
denuncia e giuramento, tutti i danni, «in cale si siat modu sian istados
fattos», a eccezione di quelli derivanti da incendio e da furto di cavalli. Lo
stipendio spettante ai barracelli sarebbe stato pagato mensilmente previa
decurtazione delle somme necessarie per i risarcimenti. I due capitani inoltre
promettevano di sorvegliare il lavoro e la condotta dei salariati agricoli, di
impedire che il bestiame domito sconfinasse nei campi coltivati e in generale
di assicurare un continuo servizio di vigilanza e guardiania nell’agro.
Dal canto loro i consiglieri civici, considerando «multu justu et
degudu et conforme a rexone»[47]
che i principali beneficiari del servizio di vigilanza, i «particulares, padronos
et señores de sas tales possesiones», si facessero carico dell’intero salario
concordato in 115 lire mensili, s’impegnavano a ripartirne l’onere tra i
proprietari e a raccogliere (e a pagare agli stessi barracelli) le somme
dovute. Oltre ai due capitani la compagnia sarebbe stata composta da sedici
«homines de bona vida et fama», i cui nominativi dovevano essere
preventivamente approvati dai consiglieri, che comunque si riservavano il
diritto di licenziarli in ogni momento e a loro discrezione.
Fin qui ciò che risulta dai capitoli della convenzione. Ben poco
sappiamo però del concreto funzionamento dell’istituto nel contesto locale, che
proprio in quegli anni (e forse non è un caso) attraversava una fase di
straordinaria espansione demografica e produttiva[48].
Le gravi lacune della documentazione archivistica relative alla vita
amministrativa della municipalità sassarese in età moderna non consentono di
ricostruire organicamente le vicende dell’istituto: esse non impediscono
tuttavia di aprire qualche spiraglio sul ruolo e sull’attività di quella
compagnia barracellare. Dai pochi elementi che si ricavano risulta che
l’operatività dei barracelli si limitò in quell’anno ai soli mesi estivi,
concentrandosi dunque sul momento dei raccolti e giungendo fino al tempo della
vendemmia. L’incarico terminava alla fine di settembre: «S’est notefficadu a
Gaspare Brasinu, barizellu – si legge in una nota del 3 ottobre – qui no si
tengiat pius pro tale et dae hoi en avante no le det currer pius salariu de
barizellu»[49].
Le poche annotazioni
rintracciate sul funzionamento dell’istituto (riferite anch’esse ai soli mesi
estivi) non consentono però di delineare che un quadro ipotetico ed
estremamente parziale. Abbiamo, per esempio, la registrazione di un sopralluogo
svoltosi in seguito a un furto in un frutteto con la stima dei danni attribuita
a tre periti (revisors), scelti e
nominati con l’assenso dei barracelli e della parte lesa[50]. Appare chiaro, per
gli aspetti non previsti dalla convenzione, il ricorso ai tradizionali meccanismi di apprezzamento dei danni regolati dalla consuetudine e
dalla normativa locale[51].
Per molti versi simile a quello di Sassari è il caso di Alghero,
che è stato messo in luce alla fine degli anni Trenta del Novecento
dall’intenso lavoro di scavo delle fonti normative municipali condotto da
Antonio Era[52].
Nella città catalana la presenza di una compagnia di barracelli incaricati di
assicurare la ronda nell’agro urbano, di proteggere i beni agricoli e risarcire
ai proprietari i danni dei reati rimasti impuniti, risulta documentata fin dal
Non è possibile proporre una minuziosa comparazione fra i testi
normativi di Sassari e di Alghero. È però necessario tener presente che i
tratti essenziali che emergono dal breve (e incompleto) documento algherese
riconducono al modello di polizia campestre già esaminato per Sassari.
Sappiamo, inoltre, che analoghe convenzioni barracellari, purtroppo
non pervenuteci, furono stipulate ad Alghero nel 1618, 1619, 1648 e 1652.
Infine, da alcune delibere assunte dai Consigli generali della municipalità
algherese possiamo evincere quale fosse il principale oggetto della custodia e
dell’attività di vigilanza affidata alla compagnia barracellare. La stessa
determinazione della durata del servizio non lascia dubbi: i barracelli,
infatti, erano chiamati a operare dalla tarda primavera fino al periodo
immediatamente successivo alla vendemmia, «fin portan lo vi en casa los
vinyonols» (1618) o «des del primer de maig fins a encunyar lo vi» (1619)[53].
È dunque in qualche modo possibile delineare i principali aspetti
che sembrano caratterizzare le compagnie barracellari comparse nelle due città
regie tra la fine del XVI secolo e l’inizio del XVII, individuandone questi
tratti distintivi:
1) la predominanza dei quadri urbani come contesto di nascita
dell’istituto barracellare nell’accezione di polizia campestre, legata
probabilmente sia ai particolari poteri normativi che a quell’epoca erano ancora
riconosciuti ad alcune municipalità dell’isola, sia all’intensa presenza,
nell’agro delle città principali, di colture specializzate e di una società
agricola evoluta che chiedeva una tutela delle proprietà più articolata ed
efficace di quella fino ad allora assicurata dagli ordinamenti tradizionali;
2) la netta caratterizzazione delle funzioni dei barracelli, sul
piano della prevenzione e della repressione dei reati connessi al
danneggiamento del patrimonio rurale e, in primo luogo, del furto e dello sconfinamento
del bestiame;
3) il carattere sussidiario e integrativo dei compiti affidati alla
compagnia barracellare rispetto ai compiti tradizionalmente svolti dalle altre
figure istituzionali preposte a funzioni di polizia rurale: non a caso, accanto
ai barracelli, continuavano a operare giurados,
padrargios, vidazzonargios;
4) la precisa connessione tra le prestazioni richieste alla
compagnia barracellare e l’interesse dei beneficiari, chiamati a sostenerne le
spese;
5) il ruolo centrale dell’istituzione municipale, che interviene
direttamente non solo come committente del servizio ma anche come ente
regolatore delle attività svolte dai barracelli e come garante delle reciproche
obbligazioni tra gli stessi barracelli e i proprietari dei beni agricoli affidati
alla loro tutela. E qui incise probabilmente quella particolare forma di
responsabilità e garanzia collettiva per i danni patrimoniali che alcuni
capitoli degli Statuti sassaresi ponevano specificatamente a carico del Comune:
Nei capitoli I, 17 e I,
108 dello statuto di Sassari – osservava Ugo Guido Mondolfo – troviamo il germe
(anzi qualcosa più che il germe) del barracellato [...]. I jurati villarum [dello Statuto di Sassari] e sos jurados dessas villas [della legislazione di Eleonora
d’Arborea], nei loro obblighi e nelle loro funzioni relative all’arresto dei
colpevoli di furti, specialmente di furti campestri, sono poi predecessori
diretti dei barracelli, e ancor più direttamente questi si possono considerare,
quanto alle loro funzioni, figli o trasformazioni posteriori del Maggiore o dei
Giurati di Prato che Mariano IV
d’Arborea aveva già introdotto sin dalla metà circa del sec. XIV nel suo codice
rurale, in capitoli che passarono poi nella carta di sua figlia Eleonora[54].
Alla luce di questi elementi vale la pena di riesaminare le
considerazioni del Quesada Pilo, più volte richiamate nella letteratura
storiografica sui barracelli. Per l’insigne giurista sassarese il richiamo
all’istituto del barracellato costituiva soltanto uno dei molteplici argomenti
di cui si serviva per dipanare l’aggrovigliato tema della sua XXII
dissertazione dedicata alla causa che nel 1657 aveva opposto il sindaco di
Sassari e il conte di San Giorgio, cavaliere dell’ordine di San Giacomo e di
Calatrava, che pretendeva di essere esentato dalla gabella di esportazione del
formaggio dal Regno[55].
Quesada Pilo ricorreva all’esempio della ripartizione delle spese del
barracellato, da cui non erano esclusi né i cavalieri degli ordini militari, né
gli altri cosiddetti «esenti», per sostenere l’inapplicabilità dell’immunità
invocata dal conte di San Giorgio, anche nel caso esaminato.
Appare chiaro che il giurista sassarese faceva riferimento a una
realtà ormai conosciuta e ben radicata: infatti, non solo richiamava il
barracellato come istituto già regolato «iuxta consuetudinem huius Regni», ma
poteva anche riferirsi con una certa sicurezza alle norme del suo funzionamento
puntualizzandone le finalità più ampie non solo a protezione dei beni dei
singoli, ma «in communem utilitatem». Resta da chiedersi però in quale periodo
il barracellato si sia esteso al di là delle realtà periurbane di Sassari e di
Alghero e abbia messo radici nella realtà della Sardegna feudale e
agro-pastorale.
Le tracce più remote della presenza di compagnie barracellari
all’interno di comunità infeudate sono individuate alla fine degli anni Trenta
del Seicento e riguardano la costituzione di squadre di «barancheles de campaña»
in una decina di villaggi del Capo settentrionale del Regno. L’area interessata
è quella dei quattro feudi sardi della contea di Oliva, appartenenti ai Borja,
duchi di Gandía, residenti in Spagna (uno dei più vasti complessi feudali
dell’isola, che comprendeva le incontrade dell’Anglona, di Osilo, del
Monteacuto e del Marghine), dove il reggitore del feudo Geronymo de Sossa si
affannava, nel
Ma al di là di questo incerto avvio, l’esperienza del barracellato
riprese a diffondersi nei decenni successivi, attecchendo soprattutto nel
settentrione dell’isola. Il consolidamento delle istituzioni barracellari nelle
comunità agro-pastorali coincise dunque con quella lunga fase di recrudescenza
e «soprassalto» della criminalità rurale che accompagnò gli anni Quaranta del
Seicento, quando iniziarono a farsi sentire i contraccolpi sociali del pesante
carico fiscale e dell’emorragia di risorse cui il Regno fu sottoposto nel corso
della guerra dei trent’anni: tanto più che nel 1637 la massiccia distribuzione
di fucili e munizioni alle popolazioni locali in occasione dello sbarco
francese sulle coste occidentali dell’isola aveva notevolmente aumentato la
quantità di armi da fuoco in circolazione, rendendo ancor più aggressive le
bande criminali[58].
Successivamente, nel corso degli anni Cinquanta, il ribellismo
nobiliare, da un lato, e il dissesto sociale provocato dalla grande peste
mediterranea, dall’altro, alimentarono una nuova ondata di banditismo e di
criminalità rurale[59].
Il marchese di Castel Rodrigo, viceré di Sardegna dal 1657 al 1662, dipingeva a
tinte fosche la situazione dell’ordine pubblico nelle campagne al tempo del suo
arrivo nel Regno: «las muertes eran sin numero – scriveva al sovrano – y los
hurtos fuera de toda credulidad». In particolare le
dimensioni dell’abigeato erano inimmaginabili, «pues como en otras partes se
suele tomar un carnero, aqui se trataba de millares, y algunas veces de tres y
quatro mil obejas, quinientas vacas y cosa de este genero». Non stavano tranquilli
gli agricoltori, spesso depredati di grandi partite di grano o dei raccolti
delle vigne. I malfattori colpivano ovunque: «reducianse
con un encendio en çenisa posesiones y casas, matabanse rebaños de ganado por
mera invidia o vengança, y hubo villa en la qual se mataron en un hora veinte y
tres personas»[60].
S’inquadra in questo contesto l’energico programma di
ristabilimento dell’ordine nelle campagne varato alla fine degli anni Cinquanta
dal marchese di Castel Rodrigo, che di fronte alla gravità della situazione nel
Capo di Sassari non esitò a imporre lo scioglimento delle barracellerie di
villaggio e la loro sostituzione con «soldados de campaña» pagati dalle stesse
comunità, ma tenuti a render conto del loro operato direttamente all’autorità
viceregia[61].
Il provvedimento nasceva dalla stessa esperienza delle barracellerie fino ad
allora attivate nell’ambito dei singoli villaggi: la riflessione critica da cui
derivava costituiva contemporaneamente una delle prime testimonianze di parte
viceregia su quel sotterraneo processo di diffusione del barracellato nei
territori feudali che era già in corso da oltre un ventennio. In alcune zone della Sardegna settentrionale, riferiva il viceré,
de muchos años a esta parte [...] havianse juntadose
las comunidades y instituido un genero de guardas que llamaban barrancheles, a
los quales entregaban y registraban sus haciendas, como sembrados, viñas,
ganados domesticos y en algunas partes los rudes, y dandole un tanto de trigo
por cada jugo de la labrança, tanto mosto a la vendimia [...] se obligaban a la
guardia de todo su distrito y a la refacción de los daños[62].
Il viceré spiegava però che quell’esperienza – che era stata
avviata, riferiva, molti anni prima del suo arrivo – presentava ormai alcuni
gravi difetti: capitava per esempio che i barracelli di un villaggio rubassero
nel territorio del villaggio confinante, che finissero per spararsi gli uni con
gli altri, e soprattutto che si rifiutassero di risarcire i danni.
Ciononostante, anche le comunità che per qualche anno avevano deciso di fare a
meno della barracelleria si erano dovute ben presto convincere della necessità
di ristabilirla per evitare il maggior danno sperimentato dal restare
senz’alcuna difesa.
Prendendo spunto da queste esperienze il viceré aveva suddiviso le
incontrade del Capo di Sassari in «capitanie», calcolando per ciascuna un
contingente di truppe proporzionato alla popolazione e al territorio; ai
capitani e ai soldati chiamati a comporre le nuove milizie aveva attribuito
ampi poteri e soprattutto il rango di «ministros de campaña»; le contribuzioni
versate dai vassalli per il nuovo servizio non avrebbero dovuto superare quelle
riconosciute ai precedenti barracelli, e i risarcimenti dei danni sarebbero
stati pagati con priorità rispetto agli stipendi dei «soldados de campaña».
Infine, i capitani sarebbero stati scelti direttamente dal viceré all’interno
di terne di nominativi appositamente fornite da ciascun distretto.
Ma il provvedimento viceregio, benché concertato con
Ma in assenza di ulteriori informazioni il sovrano si era limitato
a raccomandare di sospendere le nuove imposizioni, lasciando che le cose
riprendessero il loro corso tradizionale[63].
E tuttavia, poiché il provvedimento rimaneva in vigore, il braccio di ferro tra
i baroni e il viceré non tardò a trasformarsi in un ampio contenzioso che toccò
il culmine nell’estate del 1661, quando alcuni feudatari particolarmente
agguerriti e influenti – i marchesi di Orani, di Lombay e di Quirra e il conte
di Monteleone, residenti in Spagna, e i conti di Sedilo e di Bonorva, residenti
in Sardegna – presentarono alla corte di Madrid due nuovi memoriali in cui
rivendicavano il rispetto delle prerogative baronali e invocavano la piena
osservanza delle disposizioni della Carta
de Logu[64].
Intorno alle istituzioni barracellari si apriva così un conflitto
giurisdizionale destinato a riaccendersi, fino agli ultimi decenni del
Seicento, tutte le volte che il governo viceregio avrebbe cercato d’inserirsi
nel controllo dell’ordine pubblico nelle campagne e nella gestione dei corpi di
polizia rurale nei feudi.
Il primo memoriale dei feudatari prendeva le mosse da una
dettagliata ricostruzione del contesto normativo nel quale era maturato il
provvedimento viceregio. I baroni sostenevano innanzitutto che la prevenzione e
la repressione dei furti, sia del bestiame che di altri beni agricoli, erano
già compiutamente disciplinate dallo ius
municipale (cioè dalla Carta de Logu e
dagli altri statuti territoriali), dalle regie prammatiche e dalle consuetudini
locali, che stabilivano la presunzione di responsabilità per i pastori degli
ovili vicini e il coinvolgimento dei ministri e dell’intera comunità per i
reati rimasti impuniti. Ricordavano, inoltre, che circa dieci anni prima, il cardinal
Trivulzio, viceré dal 1649 al 1651, accogliendo la richiesta dei villaggi di
alcune incontrade reali, aveva concesso alle comunità a giurisdizione regia,
previo parere favorevole della sala criminale della Reale Udienza, di
costituire proprie compagnie barracellari, purché a loro spese. Ma anche i
villaggi infeudati, secondo i baroni, erano soliti dotarsi di proprie compagnie
barracellari, salva la preventiva autorizzazione del feudatario: esse però, a
differenza dei «soldados de campaña», erano pagate con salari assai modici e
soprattutto erano composte da abitanti del luogo (e loro vassalli), nominati e
revocati dalle stesse comunità.
Così il memoriale offriva un’interessante (e rara) descrizione del
modello di barracellato che iniziava a profilarsi negli anni Cinquanta del
Seicento con il primo consolidamento delle barracellerie di villaggio nelle
comunità agro-pastorali del Capo settentrionale del Regno. Secondo l’idilliaca
(e forse un po’ nostalgica) definizione fornita dai feudatari, la compagnia
barracellare era infatti
una
quadrilla de diez o dotze hombres de buena vida y costumbres, a cuyo cargo
estuviesse el correr la campaña, y prender los facinorosos que cometen hurtos
en el ganado mayor y menor, o otros delictos, y entregarlos a las justicias
ordinarias para que fuessen castigados conforme a derecho, y en caso de no
prenderlos, pagassen los daños, que sucediessen en a quel parage, para lo qual
davan fiansas idoneas, y por su ocupación se les señalava una porción de dinero
que se depositava en poder del juez ordinario, y a fin del año se pagavan de
este pósito los daños que havian sucedido a los particulares, y si sobrava se
repartia entre los barracheles, y si faltava lo pagavan de sus proprios[65].
E tuttavia i delicati equilibri su cui si fondavano le esperienze
barracellari maturate nei villaggi baronali erano stati già compromessi,
secondo i feudatari, verso la metà degli anni Cinquanta, quando il viceré conte
di Lemos (1653-57), di fronte all’imperversare della peste (e soprattutto di fronte
alle resistenze oppostegli da una parte della nobiltà locale), aveva attribuito
speciali poteri a diversi commissari, che «con absoluta mano obraban en todo a
su alvedrio» nelle incontrade reali e baronali. Ne erano derivati gravissimi
danni all’amministrazione della giustizia, che aveva iniziato a riprendersi,
secondo i feudatari, soltanto nel 1657, quando il governo viceregio era
provvisoriamente passato al presidente e capitano generale del Regno,
Bernardino Matthias de Cervellón, che aveva messo fine agli abusi revocando i
commissari e ordinando che l’amministrazione della giustizia e la custodia del
bestiame fossero ricondotte «a la disposición de Carta de Logu, reales
pragmáticas y costumbre antigua siempre observada». Sebbene informato di questi
tormentati precedenti, il marchese di Castel Rodrigo non si era fatto scrupolo,
sostenevano i feudatari, d’istituire «nuevos barracheles y capitanes de
campaña», e di dar loro il potere di punire i delinquenti, senz’alcun rispetto
«de las justicias ordinarias» e dei ministri baronali.
I baroni sottolineavano quindi l’esosità delle contribuzioni
stabilite dal viceré e arrogantemente pretese dai suoi «soldados de campaña»,
che si presentavano ai vassalli come ufficiali regi[66].
A conti fatti, secondo i feudatari, l’ammontare complessivo «de las nuevas
cargas» configurava un gettito di oltre duecentomila ducati: una vera
«imposición universal», che soltanto il sovrano, con il consenso dei tre corpi
privilegiati del Regno riuniti in Corti generali, avrebbe potuto istituire. Si
rimarcava inoltre l’inefficienza dei «soldados de campaña», ridotti in realtà a
squadre di pochi uomini tra i quali figuravano noti delinquenti arruolatisi
gratuitamente in cambio del condono delle pene. Nel richiedere l’immediata
revoca del provvedimento viceregio, i feudatari auspicavano che la lotta alla
delinquenza rurale fosse ricondotta nell’alveo delle disposizioni della Carta de Logu e soprattutto restituita
alle competenze dei ministri baronali e delle comunità locali. A questo aspetto
era in particolare dedicato il secondo memoriale, che denunciava i poteri che
il viceré si era arbitrariamente attribuito per condizionare i processi di
competenza dei giudici feudali, ai quali aveva perfino vietato di concludere le
cause criminali o di concedere la libertà ai carcerati senza la sua preventiva
approvazione[67].
Per parte sua il marchese di Castel Rodrigo, mettendo in evidenza i
risultati ottenuti dai suoi «soldados de campaña», sottolineava la diminuzione
dei delitti, dei maneggi e delle «compaderias» dei baroni, delle protezioni
accordate ai facinorosi e soprattutto delle «illegales composiciones y
perdones» espressamente vietati dalla Carta
de Logu e dalla normativa regia. Spiegava, inoltre, che dopo aver
constatato che i malfattori consegnati ai giudici baronali erano regolarmente
rimessi in libertà, aveva escogitato un meccanismo che gli consentiva di
controllare gli esiti giudiziari dell’attività repressiva avviata dai suoi
«soldados» con la consegna dei malfattori alle curie baronali: aveva infatti
ordinato
a
los capitanes de campaña, que a los reos, que ellos prendiessen hiciessen los
procedimientos, y hechos los entregassen a la justicias ordinarias (pues con
eso – spiegava – tomando yo cuenta cada tres meses, y visto las copias de los procedimientos,
tendria forma como haçerles cargo)[68].
Di fronte alle furbizie dei feudatari non gli restava però che
rivendicare il merito di aver profuso tutto il proprio impegno per alleggerire
i sudditi
de las tiranias que algunos de los barones
usan con ellos [...], baliendose del dominio no para serles padres o dueños,
sino fierissimos lobos, que deboran a los buenos las asiendas y vidas,
protegiendo, amparando y ocultando las bellaquerias de los ladrones[69].
Il viceré non esitava a segnalare al sovrano le connivenze e la
torbida condotta del marchese di Lombay, che istigava i baroni a ribellarsi
alle nuove disposizioni ma ospitava nella sua casa un pericoloso delinquente
ricercato per gravi delitti nel Regno di Valencia ed estorceva ai suoi vassalli
gravosi donativi promettendo in cambio l’abolizione dei «soldados de campaña»
quando tutti sapevano che «el mayor numero de ladrones y de facinorosos» si
concentrava proprio nei suoi feudi. Insomma, i lupi non vogliono i cani («Los
lobos no quieren perros»), concludeva amaramente il viceré[70].
La controversia era diventata incandescente. Con la saldatura delle
proteste dei feudatari residenti in Sardegna e di quelli residenti in Spagna il
conflitto era rapidamente rimbalzato nel Supremo Consiglio d’Aragona: la posta
in gioco andava ormai ben al di là dello specifico contrasto sull’istituzione
dei «soldados de campaña», per investire i delicati rapporti tra l’assolutismo
e le prerogative cetuali, tra i poteri viceregi e l’autonomia della
giurisdizione feudale, tra le facoltà normative del sovrano e quel complesso di
vincoli e di ordinamenti – «leyes, constituciones y fueros del Reyno» – di cui
i baroni si facevano scudo per difendere le proprie prerogative. Così, su questa
controversa materia anche il Consiglio d’Aragona si divise e deliberò a
maggioranza.
Circa la legittimità del provvedimento, il Supremo Consiglio
affermava che i viceré erano tenuti a governare le province «guardandoles las
leyes y derechos sin faltar a la puntualidad de su observancia», ma nel merito
sospendeva la valutazione, limitandosi a osservare che al di là delle loro
proteste i feudatari non avevano addotto alcuna prova delle lamentate
violazioni normative. E tuttavia, sul punto più delicato – l’ampiezza dei
compiti assegnati ai «soldados de campaña» inviati nei territori infeudati – il
verdetto non ammetteva dubbi. La sentenza era chiarissima: il viceré può
certamente ricorrere a ministri di sua fiducia per catturare i delinquenti in
tutti i territori del Regno, «pero no para que reciban información de qualquier
delito en las tierras de barones». Occorreva perciò revocare i poteri
inquisitori conferiti ai «soldados de campaña», e consentire ai baroni di
esercitare integralmente, in piena libertà e autonomia, la loro giurisdizione
all’interno del feudo. Al viceré toccava comunque il compito – faceva osservare
il Consiglio – di perseguire per via giudiziaria quei feudatari che avessero
mancato di punire i delinquenti o avessero abusato dei loro poteri «en
perjuicio de la causa publica del Reyno». Il Consiglio si asteneva dunque dal
suggerire l’abolizione delle nuove milizie viceregie, e poiché il successore
del marchese di Castel Rodrigo era stato già designato proponeva di affrettarne
l’insediamento nel Regno con l’idea che il contenzioso si sarebbe
definitivamente sgonfiato[71].
Schierati su posizioni nettamente distinte da quelle della
maggioranza dei consiglieri guidati dall’influente vicecancelliere Cristóbal Crespí
de Valdaura, due autorevoli membri del consesso, il reggente catalano Bernardo
Pons y Turell, conte de Robres, e il nobile sardo Giorgio di Castelví,
consigliere di cappa e spada, rifacendosi alle principali rivendicazioni dei
«titulos y barones del Reyno», non esitavano a censurare la condotta del
marchese di Castel Rodrigo, condannando in blocco i suoi «soldados de campaña»
e sottolineando apertamente il loro diverso parere con «voto singular»[72].
Anch’essi, come gli altri componenti del Consiglio, richiamavano il principio
generale in base al quale i governatori e i viceré erano tenuti a governare le
province «guardandoles sus leyes municipales, pramáticas y reales ordenes
[...], sin que en esto pasen a ninguna variación»; ma diversamente dai loro colleghi
sostenevano che il viceré non doveva, né poteva decidere, senza l’ordine del
sovrano, un’innovazione così importante com’era quella dei «soldados de
campaña»: l’esperienza aveva sempre insegnato quali gravi danni potevano
derivare dal «querer alterar las leyes con que se goviernan las provincias».
Certo, il provvedimento non aveva carattere generale, ma pur
riguardando soltanto il Capo di Sassari aveva finito per interessare, secondo i
due consiglieri, «mas de las tres partes del Reyno». Inoltre, a sentire i
feudatari, i risultati dell’esperienza erano stati fallimentari: nel villaggio
di Ittiri, secondo il marchese di Lombay, i furti e i danni che si erano
verificati da quando erano stati attivati i «soldados de campaña» avevano
superato, nel solo primo anno, quelli registrati nei quattro anni precedenti.
Nei villaggi del Monteacuto le denunce di «perdite» o furti di capi di bestiame
avevano toccato cifre impressionanti: nei tre anni trascorsi dall’istituzione
dei «soldados de campaña» risultavano scomparse – in base ai prospetti forniti
dalla curia baronale – 1.375 vacche, 145 buoi, 190 vitelli, 154 maiali, 29
cavalli, 132 capre, 93 pecore, 7 asini e 4 alveari. E i «soldados» del marchese
di Castel Rodrigo non avevano neppure risarcito i danni[73].
In assenza di dati sul periodo precedente era tuttavia impossibile
confrontare le due esperienze per verificare la crescita o la diminuzione dei
fenomeni criminali. Eppure il Monteacuto e gli altri feudi della Contea di
Oliva erano tra le poche terre che potevano già vantare una loro, seppur
modesta, tradizione barracellare. Ma al di là delle controverse valutazioni
sulla maggiore o minore efficacia dei «soldados de campaña» rispetto alle
preesistenti barracellerie di villaggio, i ragionamenti e le argomentazioni di
carattere giuridico dei due consiglieri puntavano a dimostrare l’illegittimità
dei barracelli viceregi e quindi la necessità di abolirli, «extinguiendolos
totalmente», e riportando «las guardias [...] en la forma que antiguamente
estaban». Così, le disposizioni della Carta
de Logu erano evocate ancora una volta come scudo delle prerogative
baronali e come ultimo argine da opporre allo strapotere viceregio:
no
parece ser necessaria la introducción ni continuación destos barracheles [...],
pues el Reyno – spiegavano i due consiglieri – tiene prevenido su modo de
governarse en esto, en la forma que siempre se ha estilado, que es quando
sucede algun hurto de ganado u otra especie de bienes en despoblado, no
constando de delinquente [...], suele acerse pagar el daño a los pastores mas
cercanos de donde sucedio, y en falta destos a la población mas vecina[74].
Ai due consiglieri appariva inoltre indispensabile che il
provvedimento fosse revocato prima che s’insediasse il nuovo viceré. Ma la
carta reale del 29 agosto 1661, rispecchiando il parere del Consiglio
d’Aragona, non imponeva il ritiro del provvedimento: i «soldados de campaña»
potevano, infatti, continuare a operare non solo nelle incontrade reali, ma
anche, seppure con minori poteri (e senza introiti adeguati), nell’ambito delle
comunità infeudate. E tuttavia al marchese di Castel Rodrigo era imposta una
decisa retromarcia: gli era intimato, infatti, non solo di revocare i poteri
conferiti ai «soldados de campaña» per controllare le giustizie feudali, ma
anche di astenersi da qualunque interferenza sul libero svolgimento dei
processi di competenza delle curie territoriali, fatta salva la possibilità di
perseguire per via giudiziaria i baroni inadempienti nei casi previsti dalle
normative[75].
In questo quadro non meraviglia che nel novembre del 1662, alla
vigilia dell’avvicendamento viceregio, i marchesi di Lombay e di Orani
ritornassero alla carica per chiedere alla corte di Madrid una perentoria
riaffermazione delle disposizioni impartite nell’anno precedente. Così, anche
il Consiglio d’Aragona, concordando sulla necessità di raccomandare il rigoroso
rispetto delle giurisdizioni baronali, suggeriva di comunicare al nuovo viceré
principe di Piombino «que todo lo que sea de haver puesto nueva contribución con
los barrachelles se deve quitar y reformar desde luego»[76].
Insomma, la prova di forza ingaggiata dal marchese di Castel
Rodrigo era stata definitivamente vinta dai feudatari. L’immissione di polizie
viceregie nelle terre baronali era ormai diventata un’esperienza da rigettare.
In realtà, sotto il fuoco di sbarramento delle obiezioni dei feudatari era
caduta l’idea stessa di sostituire le barracellerie di villaggio con un corpo
unico di milizie rurali dipendenti dal governo viceregio. Il principale punto
di divergenza che l’aspra contesa aveva messo a nudo – la ripartizione delle
competenze relative al controllo e alla sicurezza delle campagne – si sarebbe
periodicamente riproposto ancora per molti decenni; ma dell’ipotesi di
costituire un corpo di milizie viceregie che rimpiazzassero le barracellerie di
villaggio non si sarebbe più parlato per oltre un secolo.
Negli anni immediatamente successivi ci fu però un curioso
strascico amministrativo-contabile che aiuta a comprendere la compattezza delle
reazioni con cui i baroni e le comunità infeudate avevano osteggiato i
«soldados de campaña». Nel settembre del
E tuttavia, dopo la prima stagione, l’afflusso delle contribuzioni
per i «soldados de campaña» si era rapidamente inaridito, e alla renitenza dei
villaggi si era ben presto aggiunto il definitivo abbandono delle riscossioni.
L’esperimento finiva dunque in un groviglio di debiti, mentre una sfilza di contenziosi
avrebbe impegnato ancora per molti anni l’amministrazione viceregia, i capitani
e i soldati rimasti senza paga e alcune importanti comunità che continuavano a
lamentare il mancato risarcimento dei danni.
La rapida liquidazione dei «soldados de campaña», all’indomani
della partenza del marchese di Castel Rodrigo dal Regno, era peraltro il frutto
di una congiuntura politica particolarmente favorevole alla feudalità isolana.
Nel corso degli anni Cinquanta le tormentate vicende del Parlamento Lemos
(1653-57) avevano gravemente logorato l’autorità della Corona. Il fronte
parlamentare, che aveva cercato di forzare la mano al sovrano condizionando
l’approvazione del contributo fiscale del Regno alla concessione
dell’esclusività delle cariche pubbliche a favore dei sardi, aveva subito una
pesante sconfitta: ma lo spirito di rivincita di una parte importante dei corpi
privilegiati del Regno aveva posto le premesse per un ulteriore indebolimento
del potere regio nell’isola. Durante l’energico governo del marchese di Castel
Rodrigo, le principali fazioni della nobiltà locale erano passate al
contrattacco, contestando l’autoritarismo del viceré e creando nuove difficoltà
alle istituzioni della monarchia. Sicché i feudatari poterono approfittare
dell’evidente debolezza dell’autorità viceregia per pretendere, insieme con
l’abolizione dei «soldados de campaña», il pieno rispetto delle loro prerogative
giurisdizionali; e poco più tardi il Parlamento Camarassa (1666-68), facendo
ancora affidamento sulla debolezza della Corona, non esitò a richiedere la
soppressione della sala criminale della Reale Udienza, un provvedimento
radicale che avrebbe completamente affrancato le giustizie baronali dal
controllo della giurisdizione regia[77].
Ma la favorevole congiuntura politica si chiuse rapidamente nel
1668 con il drammatico epilogo del Parlamento Camarassa e la sconfitta del
partito nobiliare che aveva cavalcato le aspirazioni veteropattiste dei ceti
privilegiati del Regno. La repressione dei principali esponenti della nobiltà
ribelle, affidata all’inflessibile viceré duca di San Germano (1668-72), segnò
una precisa inversione di tendenza negli indirizzi di governo dell’isola. Nel
decennio successivo l’aristocrazia feudale, ormai costretta sulla difensiva,
dovette registrare non solo la netta riduzione della sua forza contrattuale nei
confronti del potere viceregio, ma anche la parallela crescita della capacità d’iniziativa
politica delle oligarchie urbane, delle contrade reali e delle stesse comunità
infeudate, che iniziavano a conquistare nuovi spazi di autonomia all’interno
del robusto involucro delle prerogative baronali.
Non a caso il conflitto giurisdizionale che aveva alimentato la
controversia sui «soldados de campaña» – il contrasto sulle interferenze del
potere viceregio nella sfera del potere feudale – ritornò di attualità già
nelle successive Corti generali del 1676-78, quando i tre bracci del Parlamento
chiesero congiuntamente al sovrano di annullare alcuni pregoni del viceré
marchese de los Vélez (1673-75) e di proteggere il libero esercizio delle
giurisdizioni baronali. Anche in questa occasione l’impegno della Corona a
garantire l’autonomia del feudo da eventuali prevaricazioni viceregie fu
solennemente confermato. Il sovrano, infatti, seppur evitando il giudizio sui
provvedimenti specifici, mostrava di voler accogliere la sostanza della
richiesta parlamentare, formalmente riaffermando che nessun pregone viceregio
poteva avere la forza di infrangere o eludere i privilegi baronali. Non si
trattava però, in questo caso, di un’astratta dichiarazione di principio. La
petizione parlamentare si ricollegava, infatti, alla vertenza giurisdizionale
improvvisamente esplosa nell’estate del 1675, quando la maggior parte dei
«titulos y barones del Reyno» era insorta contro le nuove misure repressive
adottate dal marchese de los Vélez nel quadro della lotta alla delinquenza.
Denunciando con forza le gravi ingerenze che si profilavano nelle giurisdizioni
feudali, i procuratori dei principali baroni dell’isola si erano precipitati a
depositare una vigorosa supplica al viceré scongiurandolo di revocare in
particolare l’articolo «según el cual, no podían nombrar, ni oficiales ni demás
ministros sin su autorización»[78].
È pur vero che il marchese de los Vélez aveva abbandonato il Regno poche
settimane dopo, per assumere l’incarico di viceré di Napoli, ma il Parlamento
apertosi nell’aprile del 1677 aveva ugualmente preteso un chiarimento formale:
il decreto regio che sanciva l’approvazione del capitolo parlamentare
rappresentò non solo un’implicita sconfessione delle disposizioni viceregie, ma
anche un’esplicita presa di posizione a favore delle autonomie giurisdizionali
del baronaggio.
È evidente che una feudalità così gelosa dei suoi privilegi
giurisdizionali poteva certamente autorizzare la costituzione di barracellerie
di villaggio composte da vassalli fedeli e condizionabili, ma non avrebbe
facilmente accettato l’interferenza di milizie esterne o di ministri viceregi
nell’esercizio delle funzioni di polizia e di amministrazione della giustizia
nel feudo. Di qui, il progressivo assestamento dell’iniziativa viceregia su due
direttrici principali: da un lato il rafforzamento dei vincoli e delle sanzioni
a carico dei feudatari e dei ministri baronali per i delitti rimasti impuniti,
dall’altro il rispetto dello ius
municipale e la non ingerenza dell’amministrazione regia nelle attività di
vigilanza e nella tutela della sicurezza nei territori infeudati. La facoltà di
istituire compagnie barracellari era dunque lasciata, in questo quadro,
all’iniziativa delle comunità locali, mentre di fronte all’amministrazione
regia i feudatari, i loro ufficiali e i ministri di giustizia restavano i
responsabili principali dell’ordine pubblico e delle attività di prevenzione
dei reati nei territori di loro competenza. L’istituzione della compagnia
barracellare si configurava pertanto come una possibile opzione organizzativa
di carattere locale nei confronti della quale i governi viceregi mostravano (e
a lungo avrebbero continuato a mostrare) una relativa indifferenza.
Nel 1688 un pregone del viceré duca di Monteleone, nel ribadire la
responsabilità di veghieri, podestà, ufficiali, luogotenenti e «principali»
delle città e delle ville del Regno nell’individuazione, l’arresto e la
condanna dei delinquenti, aggiungeva la seguente significativa precisazione:
Y si
dichas ciutades, villas y lugares quisieron nombrar barracheles lo puedan hazer
no obstante lo contenido en este capitulo, con calidad que el cap de los
barracheles no pueda nombrar otros sin que sean aprovados por los ministros de
justicia, de manera que el nombramiento con la calidad riferida no impida la
obligación que se ha puesto en este capitulo a los ministros y principales, ni
al contrario la obligación de los ministros y principales impida el
nombramiento de barracheles[79].
In realtà, nel vasto e assai variegato mondo della società rurale
continuavano a operare, in modo quanto mai articolato e diversificato, le
figure istituzionali e gli ordinamenti tipici previsti dalla Carta de Logu, su cui si era via via
innestata (e in parte sostituita e sovrapposta) la normativa dei capitoli di
corte e delle prammatiche regie. Sui majores
e sugli juratos delle ville
continuava a ricadere l’onere di scoprire e catturare i delinquenti e di
stimare e far risarcire i danni, mentre ai padrargios
era affidato il compito di impedire gli sconfinamenti del bestiame nella
vidazzone, vigilare sul prato e attivare le tenture
e le machizie. E tuttavia, al di
là delle modeste rettifiche che di tempo in tempo avevano ritoccato singoli
aspetti della normativa, gli istituti tradizionalmente preposti a regolamentare
la vita agricola e pastorale delle comunità avevano subito profonde
modificazioni.
I «capitoli di grazia» che le comunità rurali strapparono al potere
feudale nel corso del Seicento costituiscono una viva testimonianza del ruolo
mutevole giocato dagli ordinamenti della Carta
arborense di fronte alla pressione dell’individualismo agrario e alla
capacità d’iniziativa delle collettività locali[80].
D’altro canto la stessa istituzione del censore dell’agricoltura, con i suoi
vasti compiti di coordinamento delle attività agricole, pur così contrastata e
osteggiata, denotava quantomeno che nella struttura degli ordinamenti
tradizionali si erano ormai aperte brecce significative. E, tuttavia, le figure
istituzionali previste da quegli ordinamenti, sebbene sottoposte a pressioni e
sollecitazioni contrastanti, conservavano, almeno formalmente, tutte le loro
competenze.
Allo stato attuale delle ricerche non è possibile documentare
l’effettiva diffusione delle compagnie barracellari nelle realtà agro-pastorali
dell’isola. La frammentazione e la dispersione di questo tipo di fonti rendono,
inoltre, assai difficile ogni ricerca sistematica. Per esempio per la contea di
Bonorva, il cui feudatario era stato tra i promotori della protesta dell’estate
del 1661 contro i «soldados de campaña», la presenza di una compagnia
barracellare risulta finora documentata soltanto a partire dal 1673[81].
Certo, molte perplessità ha finora destato il fatto che il barracellato fosse
totalmente ignorato dal pregone generale del duca di San Giovanni (1700),
malgrado le aspirazioni di organicità che esso evidenzia, per esempio, nella
puntigliosa elencazione dei compiti dei padrargios,
bidazzonargios e saltargios e nella valorizzazione del censore dell’agricoltura. In
realtà, più che la spia di una ancora scarsa diffusione del barracellato, il silenzio
di questo importante pregone, che rimase una delle fonti più durature del
diritto agrario sardo nel XVIII e nel XIX secolo, derivava dalle
caratteristiche dell’istituto che probabilmente era ancora considerato una
presenza utile, ma non indispensabile.
Ma in ogni caso, come dimostrano le convenzioni stipulate negli
ultimi anni del Seicento (si veda, per esempio, quella di Flussio, del 1699, su
cui ha soffermato la sua attenzione Giovanni Todde)[82],
il barracellato aveva messo solide radici in diversi villaggi, segno
inequivocabile del consolidamento di un modello già capace di propagarsi e di
adattarsi in realtà assai diverse. D’altra parte nei primi decenni del
Settecento anche il governo viceregio mostra di tener conto della presenza
delle compagnie barracellari, le cui funzioni sono infatti valorizzate dagli
stessi provvedimenti viceregi. Poteva così accadere che il viceré ordinasse ai
ministri di giustizia di assicurarsi che i barracelli risarcissero
tempestivamente i proprietari del controvalore dei capi di bestiame da lavoro
dolosamente uccisi o rubati, e contemporaneamente disponesse che l’intera
comunità provvedesse al risarcimento del danno con la consueta colletta nel
caso che il villaggio non avesse una sua compagnia barracellare[83].
Tra la fine del Seicento e i primi decenni del Settecento la
stabilizzazione degli statuti barracellari, cioè il fatto che i termini
principali e le condizioni generali dei patti siano riproposti pressoché
immutati di anno in anno in ciascuna comunità, segnala che si è concluso un
processo di adattamento del modello e delle funzioni ai singoli contesti
locali. Il caso di Alghero (che consente di confrontare una significativa serie
di capitolati barracellari dal 1684-85 fino al 1737) dimostra, per esempio, la
sostanziale continuità dell’impianto iniziale. Per tutto il periodo documentato
i capitols dels barrancheles conservano
per lo più le stesse formule, mentre i nuovi capitoli integrativi o
specificativi vanno ad aggiungersi in coda a quelli adottati negli anni
precedenti[84].
Dai capitoli degli Statuti algheresi emerge un quadro assai
articolato dei compiti affidati alla compagnia barracellare, solitamente
composta da un minimo di dieci a un massimo di sedici uomini, compresi il
capitano e uno o due tenenti. Ai barracelli era attribuita in particolare la
responsabilità di assicurare la ronda nell’agro comunale e far rispettare le
prammatiche regie e le ordinanze municipali sia nei terreni riservati alle
colture che in quelli destinati al pascolo del bestiame manso: non rientravano
tra le competenze dei barracelli algheresi né la custodia degli ovini e del
bestiame rude, né la sorveglianza dei numerosi saltus, i vasti territori incolti lasciati al bosco, alla macchia e
al pascolo brado. Ai barracelli era invece specificamente imposto di garantire
la protezione dei vigneti e dei frutteti, dei fabbricati e degli attrezzi
rurali, e soprattutto del bestiame da lavoro, che giornalmente doveva essere
radunato in alcune zone del territorio specificatamente destinate a questo
scopo. La giurisdizione sui reati commessi nell’agro era di competenza del
veghiere reale, cioè del giudice municipale; ma ai barracelli che avevano
riscosso un’ammenda o avevano denunciato eventuali malfattori alla giustizia,
spettava una parte degli introiti delle pene pecuniarie incassate. Per parte
loro i barracelli erano tenuti a risarcire i danni entro termini stabiliti. E
del resto al momento della stipula della convenzione promettevano di prestare
il loro servizio per un anno impegnando «sas personas i bens mobles e inmobles,
de quiscu de eills simul et in solidum»[85]. Ogni anno, subito dopo l’approvazione dei capitolati, era fatto
obbligo a tutti gli agricoltori di recarsi presso la casa comunale per
denunciare i cavalli, i buoi da lavoro, i terreni seminati, le vigne che
specificatamente erano affidati alla custodia dei barracelli: nei mesi
successivi ciascun proprietario versava alla compagnia un compenso
(significativamente denominato «salario» e non «premio» com’era in uso nelle
assicurazioni marittime e mercantili) in denaro o in natura (soprattutto grano
e vino) commisurato al valore dei beni registrati e calcolato sulla base di
tariffe prestabilite:
Ultra del escut y migt
que se paga a dits barranchels per cada giu – stabilivano per esempio i
capitoli per la barracelleria di Alghero approvati nel 1737 – se lis ha de
pagar per los massayos y altres individuos particulars que fan llaurera, mich
estarel de forment de lo que sembraran per cada giu pagador à la encungia del
forment[86].
Nel caso poi di mancata denuncia e registrazione dei beni presso il
Comune, il proprietario non aveva diritto al risarcimento dell’eventuale danno
subito, anche se restava obbligato al pagamento del «salario» barracellare
dovuto in via generale da tutti gli agricoltori.
Dall’insieme dei capitoli emerge con chiarezza la funzione della
compagnia barracellare a presidio delle attività agricole, a tutela degli
strumenti e degli animali da lavoro e a difesa dei campi coltivati dalla
pressione della pastorizia e del pascolo brado. Non a caso uno dei primi
provvedimenti che i capitoli contenevano (e a cui i barracelli dovevano quanto
prima dare esecuzione) era l’intimazione data ai pastori all’inizio di ogni
nuova annata agraria perché evacuassero il loro bestiame dai terreni destinati
alle semine:
Ittem
se notifica y mana a tots los pastors de la present Ciutat – disponevano i
capitoli della barracelleria per l’annata agraria 1684-85 – que atgian y degan
de buhidar llur bestiar que portaran y pasturan del prado, vidazoni y segada de
la present Ciutat dins tres dies del dia de la pubblicasiò de les presents sots
pena de deu lliures aplicadores ut supra y un mes de presò[87].
Dal tenore di alcuni capitoli traspaiono peraltro alcune delle disfunzioni
più frequenti (e forse divenute ormai fisiologiche) dell’esperienza
barracellare. È indicativo per esempio il capitolo, già presente negli statuti
del 1684, che regolava addirittura le sanzioni previste per il furto commesso
dai barracelli:
Ittem
que sempre y quant costàs que algu de dits barranchellos prenguessen de
qualsevol viña o jardì, fruita y dels de mes arreos seran en dita viña, jardì o
olivar, hatgia de pagar deu escuts al amo y lo dany. Y de maquissa [cioè di
multa] altres deu escuts aplicadors ut supra[88].
Analogamente un capitolo del 1691 disciplinava le sanzioni per il
furto di frutta compiuto dai barracelli, e un altro vietava loro di omettere la
denuncia del ladro in cambio di una privata e interessata composizione della
questione. Infine un progressivo assorbimento del barracellato nella sfera
delle istituzioni sottoposte a particolari controlli da parte delle autorità
comunali: nello statuto del 1724 appare già documentata la creazione di una
«caxia de tres claus» in cui dovevano affluire i contributi e i proventi
riscossi dalla compagnia e da cui non poteva uscire alcuna somma di denaro se
non autorizzata congiuntamente dai titolari delle tre chiavi – un
rappresentante della città, un ecclesiastico e il capitano dei barracelli[89].
Appare peraltro evidente negli statuti barracellari che, tra la
fine del Seicento e gli inizi del Settecento, le compagnie hanno
definitivamente assorbito la gran parte delle funzioni precedentemente
riservate agli juratos de logu, ai padrargios, ai vidazzonargios, ai saltargios.
Ciò non significa tuttavia che tali figure scompaiano definitivamente dal
panorama delle campagne sarde: esse, al contrario, non solo continuano a
operare nei villaggi in cui non è presente la compagnia barracellare, ma
talvolta continuano a sopravvivere anche accanto ai barracelli[90].
Non a caso ancora nella seconda metà del XVIII secolo nella maggior parte dei
villaggi dell’isola la protezione dei seminativi non era in realtà affidata a
barracelli, bensì ai majores de padru previsti
dal capitolo 112 della Carta de Logu.
In plerisque vero oppidis
– osservava Carta Deidda – satorum cura non barracellis, sed prati maioribus
iniungitur ex praescripto Cartae Localis cap. 112, qui eadem, quae creantur
barracelli methodo, constitui debent bona scilicet opinionis et fama [...],
ternam enim universitas habilium format, ut pro libito baro unum ex eis religat
[...]. Maior iste prati vel aidazonis, qui idem esse solet, dum promiscue
usurpetur variis in capitulis dictae Cartae Localis [...], iuramentum et
homagium praestat in actis officialis iustitiae, cum publico omnes inservientes
ita iurent, ne scilicet lucrum turpe efficiant, fideliterque gerent[91].
Nei villaggi in cui non si era costituita la compagnia
barracellare, al majore de padru e ai
padrargios suoi aiutanti erano dunque
affidate sia la sorveglianza del prato riservato al bestiame domito, sia la
protezione dei seminativi, delle vigne e degli orti. Ad essi, inoltre, era
riconosciuta una specifica competenza giurisdizionale e il precipuo compito di
perseguire i responsabili dei danneggiamenti rurali, sotto la minaccia di una
penale di venti soldi a testa («quod si neglexerit – sottolineava Carta Deidda
– damnum exigere prati maior cum apparitoribus suis, solidorum viginti poenam
singuli subibunt»), oltre all’obbligo del risarcimento, sancito dalla Carta de Logu e fondato sul sospetto
della connivenza con gli stessi responsabili dei danni.
Neque hoc – avvertiva il
giurista – a communi iure exorbitat [...]; non enim proba excusatio custodis, si
animalia fruges devorent, et ipse nesciat, cum quamvis de regio iure nam et de
lievissima etiam tenetur culpa, dum operarum locator summam praestare debeat
diligentiam.
Per questa ragione, affermava Carta Deidda, nel marchesato del
Marghine e in molti villaggi del Capo settentrionale del Regno, dove lo spirito
e la lettera della Carta de Logu erano
più in auge che nei Campidani del Capo di Cagliari («ubi Cartae Localis mens,
et dispositivo magis famigerata, quam in nostris Campidaneis»), il compenso dei
padrargios e dei vidazzonargios veniva saldato in natura con lo stesso genere di
beni che erano affidati alla loro protezione («in speciebus ipsis quorum
suscipiunt custodiam»)[92].
Tra gli anni Cinquanta e Settanta del Settecento un’ampia azione riformatrice
nel campo agricolo ridisegna il contesto anche normativo nel quale sono
chiamate a operare le compagnie barracellari. L’elenco delle innovazioni
intervenute nelle comunità locali è assai lungo: si rafforzano l’autorità e i
poteri del censore dell’agricoltura, si sviluppa il Monte granatico, si
valorizzano le disposizioni a tutela dell’agricoltura, sorgono nuovi organismi
preposti al controllo e all’indirizzo delle politiche agricole, si rafforzano
le prescrizioni relative alle destinazioni colturali e all’utilizzo economico
del territorio, si incoraggiano le colture cerealicole, s’impone un’embrionale
razionalizzazione della giustizia anche all’interno dei feudi, si rilancia il
ruolo delle comunità di villaggio riorganizzando e rafforzando i poteri dei
consigli comunitativi, s’impegnano gli ecclesiastici nel governo delle risorse
agricole della comunità, s’istituiscono i nuovi Monti di soccorso chiamati a
erogare i prestiti agricoli in denaro accanto a quelli in natura assicurati dai
Monti granatici. Ci si potrebbe attendere che la vasta normativa regia e
viceregia, che a più riprese intervenne a disciplinare i molteplici aspetti
della vita economica e sociale dei villaggi, comprenda anche una specifica
ridefinizione del ruolo e delle funzioni delle compagnie barracellari: colpisce
invece il carattere assolutamente marginale dei pochissimi cenni ai compiti dei
barracelli presenti in tutta la serie di editti e pregoni emanati in questi
anni[93].
Ma questa assenza non deve trarre in inganno. Sarebbe infatti un
errore supporre che niente fosse mutato nelle modalità di funzionamento delle
compagnie. Al contrario è sufficiente scorrere i capitoli di uno statuto
barracellare di quegli anni per rendersi conto delle profonde trasformazioni in
corso. Traspare intanto il nuovo ruolo del censore a difesa degli agricoltori e
a salvaguardia della tempestività e dell’equità degli indennizzi. Diventano
inoltre sempre più dettagliate le clausole che i barracelli sono tenuti a
rispettare, segno di un contesto ambientale e sociale sempre più esigente nel
richiedere una rigorosa difesa delle proprietà adeguatamente recintate e nel
rivendicare il «giusto prezzo» degli indennizzi. Va accentuandosi il carattere
obbligatorio del servizio che i pastori e gli agricoltori sono tenuti a
prestare, a turno, nella compagnia barracellare; e parallelamente si precisano
i casi di esenzione. Si profila la costituzione di un fondo stabile di
pertinenza dell’istituto barracellare che di anno in anno viene trasmesso alla
nuova gestione.
Il ruolo delle compagnie barracellari risulta dunque profondamente
rafforzato dalla nuova dimensione giuridica e istituzionale che le riforme
degli anni Cinquanta-Settanta del Settecento hanno ormai conferito al governo
delle attività agricole. La stessa gestione delle attività e dei fondi
barracellari è sottoposta a un penetrante sistema di indirizzo e di controllo
che fa capo ai rappresentanti delle comunità locali e alle nuove magistrature
agricole. Anche il governo viceregio, a distanza, vigila sul buon funzionamento
delle compagnie e sempre più spesso interviene a correggere e a condizionare le
decisioni delle comunità. «Hodiernis tamen moribus – osservava lucidamente
Carta Deidda – aliter res se haberet: non enim a mero universitatis pendet
placito barracellorum creatio, sed a principis et proregis imperio»[94].
Il funzionamento dell’istituzione è oggetto di una verifica
sistematica in tutti i villaggi toccati dalla visita generale compiuta nel Regno
dal viceré Des Hayes. Il quadro che ne scaturisce mostra, come si è accennato,
una Sardegna divisa in due: nella parte meridionale dell’isola l’istituto
raccoglie i giudizi positivi (e talvolta lusinghieri) dei rappresentanti delle
comunità, ma nei villaggi dell’area centro-settentrionale le disfunzioni, le
inadempienze e gli abusi dei barracelli suscitano molteplici proteste. L’accusa
più frequente riguarda i ritardi e le resistenze nel risarcimento dei danni, ma
in alcuni casi emergono gravi connivenze come quelle di cui risulta sospettato
il capitano dei barracelli di Paulilatino, accusato di macellare pubblicamente
bestiame rubato[95].
A cavallo degli anni Ottanta e Novanta, il barracellato svolse un
ruolo importante ma anche molto controverso. L’ampia relazione sullo «stato
attuale e miglioramento» del Regno di Sardegna che il nobile Antonio Ignazio
Paliaccio, conte di Sindia, indirizzò agli Stamenti nella primavera del 1793,
conteneva, tra molti punti di grande interesse, un’analisi impietosa delle principali
distorsioni che caratterizzavano il funzionamento dell’istituto:
Queste convenzioni tra
comunità e barracellerie [...] – osservava il nobiluomo sardo, capitano del
Reggimento di Sardegna – sono tanti motivi di continue altercazioni essendo il
villico opposto al barrancello e il barrancello nemico del villico a segno tale
che spesse volte il povero proprietario oltre la perdita dei salari e
maltrattamento delle mal conservate sue proprietà è costretto a soccombere alle
spese di una giudiziaria decisione, attese le continue vettiglie e nullità che
da’ barrancelli s’oppongono. Inoltre è doglianza comune di tutto il Regno che
le stesse compagnie di barracelli sono per lo più composte dalle stesse persone
sospette del luogo, anzi molte volte vengono pregate ad arruolarsi nelle
compagnie per essere interessate e recare minori danni alle comunità[96].
Non si trattava evidentemente di un’analisi imparziale:
l’impostazione cautamente riformatrice della relazione non deve, infatti, far
dimenticare l’ispirazione aristocratica delle critiche e delle soluzioni
proposte dal gentiluomo sardo. Traspaiono, per esempio, la diffidenza del mondo
nobiliare e l’avversione degli ambienti feudali per quei corpi armati che
sempre più spesso negli ultimi decenni del Settecento, dopo le riforme del
periodo boginiano, sfuggivano al controllo dei ministri baronali e facevano
riferimento ai consigli comunitativi, alle nuove magistrature agricole e agli
esponenti più attivi dei nuovi ceti emergenti del mondo delle campagne. Non a caso
il punto d’approdo di quest’analisi non era la riforma, ma il completo
superamento del barracellato coerentemente perseguito attraverso una
significativa rivalutazione del ruolo dei «luoghitenenti saltuarj» (cioè di
quegli ufficiali baronali, majores e juratos de logu, che erano preposti al
controllo dei salti e dei confini del feudo) e soprattutto attraverso un netto
rafforzamento del ruolo delle truppe regie che con nuovi squadroni di
cavalleria avrebbero assicurato l’ordine pubblico nelle campagne e reso
superflue le milizie barracellari. In sostanza, la direzione e la sorveglianza
delle attività di polizia rurale sarebbero passate dalle comunità di villaggio
all’autorità viceregia e ai comandi militari che le avrebbero esercitate in
modo centralizzato e uniforme, facendo attenzione a rispettare sul piano locale
le prerogative dei feudatari e le competenze degli ufficiali baronali. Ma sui
«luogotenenti di salto» vale la pena richiamare il sarcastico giudizio di Carta
Deidda, che nel suo Tractatus de barracellis
non esitava a denunciare la propensione dei feudatari a nominare soggetti
di pessima fama, che col pretesto di reprimere gli sconfinamenti di pascolo
spadroneggiavano indisturbati su vasti territori pressoché spopolati
appropriandosi impunemente di numerosi capi di bestiame:
nam et saltuarios quos
vocant ministros – riferiva il giurista cagliaritano – mala fama proponunt
barones [...]; isti nacque confinantia invigilant nemora oppidorum, et saltus;
furarunturque manu salva sub macelli specie; vulpes enim – considerava infine
Carta Deidda – potius pilum, quam mores mutat[97].
Certo, in quei primi anni Novanta i tempi non erano favorevoli per
il radicale rivolgimento che più tardi, in un contesto politico e sociale
profondamente mutato, avrebbe invece ispirato le trasformazioni dell’istituto
barracellare volute dal governo sabaudo nei primi decenni dell’Ottocento. E
tuttavia le tesi del conte di Sindia non erano affatto isolate. Già negli anni
Ottanta il moltiplicarsi delle lamentele per le inadempienze dei barracelli e
l’infittirsi delle accuse di complicità con i malfattori rispecchiavano un
clima di ostilità e sospetto che interessava ormai ambienti sociali assai
diversi. È emblematico di queste nuove sensibilità il singolare progetto che fu
presentato nella primavera del 1789 al viceré conte di Sant’Andrea dal nobile
Diego Marongio, un intraprendente proprietario terriero di Bessude (piccolo, ma
vivace villaggio del marchesato di Montemaggiore, nella Sardegna
settentrionale), che proponeva di sostituire le compagnie barracellari con
adeguati contingenti di truppe regie distribuiti in diverse zone dell’isola e
stipendiati con i fondi che in ogni villaggio venivano annualmente raccolti per
le barracellerie. L’autore del progetto era un esponente della piccola nobiltà
rurale che negli anni delle riforme boginiane aveva studiato nell’Università di
Sassari dove nel 1772 aveva conseguito il baccellierato in legge: un
personaggio abbastanza attivo e singolare, che nell’autunno del 1795 si sarebbe
distinto come campione delle rivendicazioni antibaronali delle comunità
infeudate e avrebbe attivamente partecipato al movimento angioiano e infine
alla marcia su Cagliari del giugno 1796.
La sua proposta era illustrata in un’ampia relazione che egli
stesso, quasi parodiando il titolo della celebre opera di Francesco Gemelli,
aveva intitolato Progetto sul
miglioramento della sarda agricoltura proposto nella riforma de’ barracellati.
La relazione si articolava in due parti ben distinte: nella prima erano
analizzate le caratteristiche e le disfunzioni del barracellato e nella seconda
venivano prospettati i vantaggi di un’energica attività repressiva direttamente
affidata alla «cavalleria aquartierata o allo squadrone volante» e dispiegata
quindi da truppe regie di stanza nel territorio, coadiuvate da colonne militari
mobili capaci di intervenire prontamente in diverse situazioni.
In realtà l’idea di Marongio si fondava sulla convinzione che il
furto e il «ladroneccio» fossero la principale causa del mancato sviluppo
dell’agricoltura dell’isola e insieme sulla certezza che le istituzioni
barracellari, sebbene nel passato avessero dato buoni frutti, erano poi così
degenerate che costituivano ormai una fonte di danni e corruzione più che di
vantaggi[98].
Alcuni componenti delle compagnie barracellari, sosteneva Marongio, «oltre la
colpevole connivenza che usano con i malfacenti, si fanno essi a gara di rubare
ogni sorta di bestiame in rovina de’ contadini, così che potrei quasi affermare
[che] niun furto si commette senza previa intelligenza de’ barracelli»[99].
Sconfortato, denunciava dunque la prassi, adottata ormai comunemente in diversi
villaggi dell’isola, di reclutare nelle compagnie alcuni esponenti della
malavita locale («gli eletti capitani van procacciandosi la grazia de’ ladri,
eligendo alcuni di essi in barracelli»)[100]
per ingraziarsene i favori e concretamente salvaguardare i profitti della
barracelleria.
Sotto il profilo economico, gli scopi dell’istituzione gli
apparivano ormai gravemente compromessi da due vizi sostanziali: da un lato
l’inadeguatezza dei risarcimenti pagati agli agricoltori nel caso di furti o
danneggiamenti («Non c’è villaggio o città dove la paga del bue rubato da farsi
da’ barracelli al contadino ascenda a più di due terzi del giusto prezzo»),
dall’altro l’estenuante ritardo con cui erano corrisposti gli indennizzi,
spesso al termine di lunghe controversie giudiziarie che l’agricoltore doveva
affrontare esclusivamente a proprie spese («Son tanti i sotterfugi, inviluppi e
studiate maniere che adopransi da’ barracelli per esimersi dal dovuto pagamento
del bue rubato che spesse volte il misero agricoltore spende il duplo del valor
del bue in citazioni e litigi»). E spesso non riusciva a ottenere giustizia
neppure il censore dell’agricoltura, che come protettore delle attività
agricole e primo difensore degli agricoltori era tenuto a perorare il
tempestivo risarcimento dei danni soprattutto nei casi di furto di animali da
lavoro.
Così il barracellato si rivelava «un semenzaio di liti, di
questioni e di risse, che sovente – sottolineava Marongio – vengono a terminare
in omicidi». Di qui, la condanna senz’appello di quel tradizionale sistema di
tutela dell’ordine pubblico, che gli appariva ormai non solo inadeguato ma
addirittura «pernicioso alla repubblica». Non restava dunque che abolire le
compagnie barracellari, ma continuare allo stesso tempo a raccogliere i fondi
delle barracellerie devolvendoli a favore di contingenti di cavalleria cui
affidare, oltre alla tutela dell’ordine pubblico nelle campagne, anche le
funzioni di polizia rurale e di risarcimento dei proprietari originariamente
svolte dai barracelli.
L’insieme dei fondi fino ad allora «malimpiegati da’ barracellati
in pubblico disvantaggio» sarebbe stato infatti più che sufficiente non solo
per mantenere «una cavalleria proporzionata alle popolazioni del Regno», ma
anche per «indennizzare il danneggiato contadino nelle straordinarie occorrenze
di furto», che la massiccia offensiva anticriminale assicurata dalle truppe
regie avrebbe ridotto, a suo avviso, a pochissimi casi.
L’autore del progetto, ben convinto dell’efficacia della sua
riforma, non esitava a offrirsi di sperimentarla, assumendone personalmente la
responsabilità per la zona in cui risiedeva (il Meilogu) e per gli undici
villaggi che gravitavano intorno ad essa (Thiesi, Bessude, Cheremule, Torralba,
Bonnanaro, Siligo, Banari, Ittiri, Uri, Usini, Tissi). «Altro non chiedo per
l’impresa – dichiarava al viceré – che cinque dragoni e venti fanti; e io li
provvederò de’ quartieri e dell’orzo per i cavalli dal fondo de’ depositi
[delle barracellerie]»; e poiché, sottolineava, «niuno ha ragione su detti
depositi se non quelli che nell’anno servono al barracellato», le somme
avanzate alla fine dell’esercizio sarebbero spettate alla regia cassa. Così,
sulla base dei risultati dell’esperimento, in capo a un anno il viceré avrebbe
potuto decidere se «stabilire o rigettare» la riforma.
Non sappiamo quale seguito abbiano avuto le ingegnose proposte di
Marongio: esse rappresentano comunque una preziosa testimonianza del clima di
radicale sfiducia che ormai circondava l’istituzione barracellare. Il fatto è
che, negli ultimi decenni del Settecento, il barracellato finì per trovarsi al
centro degli aspri conflitti sociali che scuotevano le comunità infeudate. Non
è un caso che una relativa inefficacia del barracellato fosse riconosciuta,
seppure amaramente, anche da Carta Deidda, che nel suo Tractatus de barracellis non trascurava di soffermarsi, oltre che
sulle regole e sulle normative, anche sui molteplici abusi, sulle disfunzioni e
sulle degenerazioni che ormai caratterizzavano l’istituzione. Le accuse erano
ancora le solite: sebbene il diritto patrio,
Per il giurista cagliaritano, la causa di queste gravi disfunzioni
andava ricercata nel pessimo stato della giustizia nel Regno: il disordine delle
giustizie feudali, l’ignoranza dei giudici locali, la mancanza di controlli
sull’operato dei ministri regi, l’inadeguatezza delle carceri baronali
favorivano un inquietante sistema di complicità e connivenze che imbrigliava e
condizionava la stessa azione dei barracelli. Gli inconvenienti e i vizi che
minavano il buon funzionamento delle compagnie barracellari risultavano dunque
indissolubilmente legati ai drammatici problemi dell’amministrazione della
giustizia nelle vaste realtà agro-pastorali dominate dalle istituzioni feudali.
Così, un’immagine rovesciata della giustizia era evocata a rappresentare il
degrado delle curie baronali: nei villaggi sardi il simbolo della giustizia –
osservava Carta Deidda – non è la giovane donna di solenne aspetto con la spada
nella mano destra e la bilancia nella sinistra, ma una donna avvilita e
accecata, con i ceppi ai piedi e con le mani legate. Di qui, la diffusa
impunità resa possibile, per l’appunto, da una giustizia che nei villaggi era
stata privata tanto della bilancia quanto della spada. E d’altra parte se i
giudici baronali finivano per patteggiare tutte le cause in cambio di denaro,
come si poteva pensare che i barracelli si astenessero dall’adeguarsi a un
sistema così diffuso e radicato? Così Carta Deidda richiamava le parole di
Francesco Gemelli che denunciavano i rischi di una giustizia corrotta,
«perciocché se i delinquenti lusinghinsi con fondamento di poter venire a
composizione con l’ufficiale delegato o giudice del luogo per danaro, i
pastori, sulla speranza dell’impunità, seguiteranno ad esser ladri».
Il giurista cagliaritano non esitava ad attribuire la
responsabilità di questo stato di cose ai feudatari e ai loro rappresentanti
nei feudi. In ogni incontrada i baroni disponevano infatti di loro scherani,
veri e propri «bravi» («Itali bravos vocant»), che proteggevano i malfattori e
all’occorrenza arrivavano a minacciare i giudici e gli stessi barracelli. Non
doveva pertanto stupire che i maggiori delitti rimanessero impuniti e fossero
addirittura occultati. È ben vero che la legge patria e l’istituto
dell’«incarica» attribuivano all’intera comunità la responsabilità di
individuare, denunciare e catturare gli autori dei reati chiamandone tutti i
membri a pagare una multa per i delitti impuniti. Ma il giurista cagliaritano
non esitava a giudicare assurda la presunzione, su cui si basava l’«incarica»,
che tutti i membri della comunità sapessero chi aveva commesso il reato.
Inoltre anche l’«incarica» era stata deformata dalla logica del patteggiamento
che aveva indotto i baroni a trasformarla in un tributo ordinario con cui si
era persa l’originaria ratio del disincentivo al crimine. Sicché le norme che
in origine dovevano colpire i protettori dei delinquenti erano ormai «campane
senza battaglio» («campanae sine pistillo»).
L’istituto dell’«incarica» doveva dunque essere abolito o
radicalmente riformato. In questo quadro il barracellato avrebbe potuto
ritrovare credibilità ed efficacia, ma solo se fossero stati adottati almeno
tre provvedimenti essenziali: la sostituzione dei giudici e dei ministri di
giustizia baronali non stipendiati con un giudice ordinario remunerato che
fosse competente a giudicare di tutte le cause e che non potesse essere
ricusato a piacimento o rimosso a semplice richiesta di una delle parti;
l’istituzione in tutti i villaggi di un corpo stabile di guardie campestri
(«milites stationarii») che si affiancassero ai barracelli, stimolandone e
controllandone l’iniziativa; il rafforzamento dei controlli non solo sui
giudici locali ma anche sui ministri regi. Il rilancio del barracellato si
configurava dunque come parte essenziale di una più ampia riforma della
giustizia, che inevitabilmente avrebbe messo in discussione i privilegi
nobiliari e le prerogative del potere feudale.
Non è un caso che la prima riforma del barracellato frutto dei
nuovi tempi, varata con i Capitoli di
convenzione tra la centuria dei volontari di campagna della città di Sassari e
li di più cittadini della medesima, prendesse corpo nella primavera-estate
del 1794 quando, all’indomani della sollevazione antipiemontese, il movimento
patriottico sardo s’impose prepotentemente nella vita pubblica del Regno
sperimentando nuove forme di governo e realizzando un primo significativo
allargamento delle élite dirigenti locali. Non deve perciò meravigliare che tra
gli artefici della riforma sperimentata a Sassari nel 1794 spiccassero alcuni
dei principali esponenti del movimento patriottico nel Capo settentrionale
dell’isola, com’erano due autorevoli capitani della nuova barracelleria – il
nobile Giorgio Scardaccio e il battagliero avvocato repubblicano Gioachino
Mundula – che avrebbero poi alacremente sostenuto le rivendicazioni antifeudali
dei villaggi del Logudoro e la coraggiosa iniziativa riformatrice del giudice
Giommaria Angioy, con il quale avrebbero infine condiviso nel giugno del 1796
la disperata avventura della marcia armata sulla capitale del Regno[103].
Le novità della riforma non erano poche, ma colpiva innanzitutto lo
straordinario dispiegamento di apparati e uomini messo in campo dalla nuova
«centuria dei volontari di campagna della città di Sassari». Complessivamente,
considerando anche i capitani e i tenenti, la nuova barracelleria poteva
contare su cento uomini armati, organizzati in quattro compagnie che dovevano
assicurare, con turni di tre settimane di attività e una di riposo, il
pattugliamento dell’agro sia di giorno che di notte e un presidio di due
«volontari» per ognuna delle cinque porte della città. Parallelamente le
categorie dei beni presi in custodia dalla «centuria» (e coperti dall’impegno
al risarcimento di eventuali danni) si erano notevolmente diversificate
arrivando a comprendere oltre al bestiame manso, ai terreni coltivati, ai
fabbricati e agli attrezzi rurali, anche i molini con le farine e i grani di provvista,
i carri e i buoi dei carratori, le «robe» conservate nelle «capanne o stazzi»
dei salti lontani dall’abitato e perfino «qualunque arma permessa dalla legge
che il padrone lasciasse dentro la casa del suo podere»[104].
Conseguentemente anche le prerogative dei nuovi barracelli risultavano
sensibilmente ampliate. Alla «centuria dei volontari di campagna» erano
attribuiti particolari compiti di rappresentanza e due compagnie a rotazione,
in occasione delle feste del 4 maggio e del 25 ottobre, erano tenute a scortare
il Consiglio civico che in pompa magna si recava alla basilica di San Gavino –
presso Porto Torres, a una ventina di chilometri da Sassari – per onorare il
santo protettore della città. Ai nuovi barracelli erano inoltre riconosciuti
particolari poteri in relazione ai loro compiti di prevenzione e repressione
dei reati rurali. Così, i «volontari di campagna» erano abilitati a controllare
le numerose concerie della città e a compiervi periodiche ispezioni con
l’assistenza di un funzionario designato dalla Reale Governazione per
contrastare la ricettazione delle pelli, verificando direttamente che non fosse
utilizzato «qualche cuoio di bue rubato». Analogamente i barracelli erano
autorizzati ad assistere alle operazioni del pubblico macello per controllare
la provenienza dei capi di bestiame e impedire che illecitamente fossero
soppressi animali di provenienza furtiva. Ad essi era inoltre consentito
«previa licenza dei legittimi superiori» perquisire «qualunque casa privata»,
sia di secolari che di ecclesiastici, ogniqualvolta avessero avuto notizia che
in essa fosse stata clandestinamente introdotta o vi fosse venduta della carne
di dubbia provenienza. E infine, a loro discrezione potevano arrestare e
condurre in carcere le «persone di sospetta fama e condizione» che nel corso
delle perlustrazioni notturne fossero state sorprese «fuori dal camino
ordinario» senza riuscire a giustificare «quel loro traviamento sospetto». Così
l’originale riforma varata a Sassari nel 1794 lasciava già intravedere quel nuovo
approccio ai problemi dell’ordine pubblico e quella nuova sensibilità per le
esigenze di sicurezza delle proprietà che nei primi decenni dell’Ottocento
avrebbero profondamente trasformato la natura e le funzioni dell’antico
istituto barracellare.
* Pubblicato
in
[1] Per
un inquadramento storiografico dei processi di formazione dei corpi di polizia
nel continente europeo cfr. M. Stolleis,
K. Härter (a cura di), Policey im
Europa der Früen Neuzeit, Frankfurt a.M. 1996, e soprattutto L. Antonielli (a cura di), La polizia in Italia nell’età moderna, Soveria
Mannelli 2002, cui si rinvia anche per la ricca e aggiornata bibliografia.
Occorre peraltro osservare che questo interessante filone di studi,
prevalentemente incentrato sulla storia degli ordinamenti di polizia nell’età
moderna e contemporanea, riserva ogni attenzione alla dimensione urbana e ai
processi di accentramento statale ma finisce per escludere dal campo d’indagine
quelle forme arcaiche di vigilanza comunitaria e di repressione della
criminalità rurale che, sebbene destinate a scomparire, costituivano una parte
assai significativa delle polizie di antico regime.
[2] Cfr. I.L. Carta Deidda, Tractatus de barracellis et ministris saltuariis politico-iuridicus, in
quo regaliarum, et munerum materia perlustratur, Senatus decisionibus,
patriisque moribus elucubratis forensium usui accomodatus, conservato nella
Biblioteca universitaria di Cagliari, Fondo
Baille, ms X, s.p. 6.1.14, cc. 8-8v.
Si tratta di un grosso volume in folio, di 626 carte con numerazione coeva (mm
310 x 215), manoscritte sul recto e
sul verso. Il volume, proveniente
dalla biblioteca del giurista e letterato cagliaritano Lodovico Baille
(1764-1839), fu donato alla Biblioteca universitaria di Cagliari dal fratello
Faustino, canonico della cattedrale, nel 1849. È un manoscritto autografo che,
in coda all’imponente Tractatus (cc.
1-609v), contiene tre brevi ma
interessanti pareri giuridici (cc. 612-626) resi dallo stesso Carta Deidda a
proposito di privilegi ed esenzioni ecclesiastiche oggetto di controversie:
l’ultimo, datato Villacidro 28 luglio 1790, era stato rilasciato a favore
dell’arcivescovo di Ales Michele Antonio Aymerich, del quale Carta Deidda era a
quel tempo consultore. Come risulta dalle annotazioni autografe all’interno del
manoscritto, il Tractatus fu composto
tra il gennaio del 1781 e il gennaio del 1785; e nell’ottobre dello stesso anno
(o del 1789) fu ultimato il dettagliatissimo Index rerum notabilium (cc. 572-609v). L’opera si articola in sei corposi capitoli privi di titolo, ma
suddivisi in tanti piccoli paragrafi e opportunamente corredati di minuziosi
indici sommari che ne facilitano la consultazione. Il tema è dunque affrontato,
come si legge nella prefazione, attraverso sei principali angolazioni: le
origini storiche dell’istituto; la necessità e l’utilità dei barracelli; i
minori e l’arruolamento nelle compagnie barracellari; i doveri dei chierici e
degli ecclesiastici in ordine al servizio del barracellato; i privilegi e le
esenzioni dei cavalieri e dei nobili; il ruolo delle comunità (cfr. ivi, c. 1v). Ma gli argomenti preannunciati
risultano spesso soffocati all’interno di una trattazione farraginosa e
ridondante che per lunghi tratti si allarga ad altri temi, talvolta
abbandonando totalmente la materia principale.
[3] L’elenco comprendeva i capitoli 6, 7, 16, 17, 33, 38, 39, 41, 45,
46, 47: cfr. ivi, c. 8v. L’idea che i
barracelli avessero preso il posto degli antichi jurados arborensi è più volte ripresa anche nel prosieguo della
trattazione: «Etenim operae istae, barracellis nuper indicate, maiores
iustitiae olim, et iurati, nulla mercede praestita, perhibebant Eleonorae,
ipsiusque praepositis, ut Cartae Localis perplurima comprobant capitula» (c. 36v).
[4] H. Olives, Commentaria et glosa in Cartam de Logu,
apud I.B. Canavera, Calari 1708, prima ed. Matriti 1567, 46.
[5] I
riferimenti erano, in particolare, al Corpus
iuris civilis, che evidentemente Carta Deidda poteva consultare in
un’edizione «cum notis integris Dionysii Gothofredi», e soprattutto al classico
Johannis Brunnemanni, Commentarius in
quinquaginta libros Pandectarum, che dalla fine del Seicento aveva preso a
circolare nelle edizioni notevolmente arricchite dai commenti e dalle
annotazioni di Samuel Strikius, «de iure communi novissimo, Saxonico et
Marchico, aliisque provincialibus iuribus». Sull’opera di Samuel Stryk e sul
ruolo che la dottrina dell’«Usus modernus Pandectarum» giocò nella promozione
delle culture giuridiche territoriali e nella nascita della scienza del diritto
patrio cfr. I. Birocchi, Alla ricerca dell’ordine. Fonti e cultura
giuridica nell’età moderna, Torino 2002, 63-69, 229-30.
[6] «A
Turcis postea subactum – riferiva Carta Deidda – anno Domini 1022, tertio a
Pisanis, Mauritanus rex Musetus, qui tyrannice Regnum vexabat, profligatus,
prout episcopus testatur Tronci in suis annalibus, dum Pisanorum gesta dicto
anno 1022 refert, iisdem credimus Sardiniam nostram gubernatam Longobardicis
legibus, cum et Pisani ipsi hoc uterentur iure, ut citatus prope testatur De
Luca» (Carta Deidda, Tractatus de
barracellis, cit., cc. 7v-8). Per
il richiamo agli «annali pisani» cfr. P.
Tronci, Memorie istoriche,
Bonfigli, Livorno 1682, all’anno 1022. Ma il principale punto di riferimento di
Carta Deidda era il Theatrum veritatis et
justitiae sive decisivi discursus per materias, l’enciclopedica opera
giuridica del cardinale Gian Battista De Luca (15 tomi, Corbelletti eredi, Roma
1669-73), un caposaldo del diritto comune italiano tra Sei e Settecento, che il
giurista sardo poteva consultare in una delle tante edizioni ampliate che
continuarono ad apparire nel XVIII secolo (l’opera si era ben presto arricchita
di diversi tomi supplementari). Per gli ordinamenti giuridici affermatisi
nell’area della penisola nel corso del Medioevo i riferimenti erano ai tomi
secondo («De servitutibus praedialibus, usufructu ecc.») e sedicesimo
(«Conflictus legibus et rationis, sive observationes in iis legalibus
propositionibus ecc.»): «Invasione itaque Gothorum et Longobardorum, qui
Italiam integram subegerint, De Luca de servit., disc. 1, n. 11, Sardiniam
nostram et Siciliam [...], legibus ipsorum tunc moderatum Regnum fuisse
credimus [...], prout Italia ipsa saeculorum septem spatio ab ipsis gubernatam
iisdem novimus barbaricis legibus, De Luca conflict. leg. et ration., observ. 19,
iuncta observ. 22» (Carta Deidda, Tractatus de barracellis, cit., c. 7v). Sull’incidenza degli scritti di De Luca nella dottrina giuridica
europea tra XVII e XVIII secolo cfr. G.
Gorla, I tribunali supremi degli
Stati italiani fra i secc. XVI e XIX, quali fattori della unificazione del
diritto nello Stato e della sua uniformazione fra Stati, in La formazione storica del diritto moderno in
Europa, vol. I, Firenze 1977, 455-532, e in particolare 468-82; A. Mazzacane, Giambattista De Luca e la «compagnia d’uffizio», in H. Kellenbenz, P. Prodi (a cura di), Fisco, religione, Stato nell’età
confessionale, Bologna 1989, 505-30, e Id.,
De Luca Giovanni Battista, in Dizionario Biografico degli Italiani,
vol. XXXVIII, Roma 1990, 340-47; A. Lauro,
Il cardinale Giovan Battista De Luca.
Diritto e riforme nello Stato della Chiesa (1676-1683), Napoli 1991; e
soprattutto le penetranti osservazioni di Birocchi,
Alla ricerca dell’ordine, cit.,
297-315.
[7] Il riferimento
di Carta Deidda («Sic in l. De porcis, tit. de eo, qui pecul. in damn. inve.,
iure Longobardo sancitum, refert Rendella, De pasc. forest. et aquab., par. 4,
cap. 6») era alla fortunata opera di P.
Rendella, Tractatus de pascuis,
defensis, forestis et aquis regum, baronum, universitatum et singulorum. De
columbis et columbariis, de olea et oleo commentaria, Trani 1630,
ripetutamente ripubblicata nella prima metà del Settecento (Napoli 1718, 1726,
1732, 1742), in cui le vicende e le problematiche dell’economia agraria
meridionale e pugliese erano dettagliatamente esaminate nella loro dimensione
storico-giuridica, costituzionale, amministrativa, fiscale, contrattuale e
processuale. Sulla figura e sull’opera di Rendella cfr. il raffinato studio di D. Maffei, Prospero Rendella giureconsulto e storiografo. Con note su altri
giuristi meridionali, Monopoli 1987 (per la citazione in testo p. 26), ora
anche in Id., Studi di storia delle Università e della letteratura giuridica,
Goldbach 1995, 405-67.
[8] Il riferimento
(«Leisero, De iur. georg., lib. 2, cap. 11, n. 1 ad 6») era all’imponente
trattato di G.C. Leiser, Jus georgicum, sive Tractatus de praediis,
«von Land-Güther», in quo universum jus praediorum cum eorum constitutione,
differentia et pertinentiis [...] explicatum [...] illustratum est, [...] cum epistola de argumenti dignitate
cl. C.S. Schurtzfleiscii, Lipsiae et Francofurti 1698. L’opera, un volume
in folio di oltre 900 pagine, ebbe almeno altre due edizioni nella prima metà
del Settecento: Lipsiae 1713 e 1748, quest’ultima con il titolo variato Jus georgicum [...], in quo universum jus praediorum et pertinentiarum ex jure gentium,
publico, feudali, romano-germanico nec non e scriptoribus historicis, politicis
et oeconomicis de ductum [...] explicatum [...] est. Di Gottfried Christian
Leiser, giurista e proprietario terriero della Westfalia, sappiamo che visse
nella seconda metà del Seicento, che fece alcuni viaggi di studio, in Francia
nel 1680 e in Italia nel
[9] Cfr. E. Bossi, Tractatus varii, apud F. Senensem, Venetiis 1562; A. Capece, Decisiones Sacri Regii Consilii Neapolitani, apud Juntas, Venetiis
1541; G. D’Oncieaux, Quaestiones
academicae [...] permulta Catherini Pobelli Senatus Sabaudiae olim Praesidis
responsa extemporanea [...] continentur, Lugduni 1579). Non è possibile
fornire in questa sede un quadro esauriente delle nutrite serie di auctoritates e delle innumerevoli fonti,
di carattere giuridico, storico, religioso e letterario, costantemente
richiamate da Carta Deidda con puntualissimi riferimenti testuali sia di prima
sia di seconda mano: basti dire che accanto agli autori classici e ai giuristi
medievali figuravano i grandi maestri della tradizione civilistica e
canonistica del diritto comune da Bartolo a Baldo, i pionieri della
criminalistica moderna, Giulio Claro, Prospero Farinacci (e lo stesso Egidio
Bossi), i più celebri giureconsulti d’Oltralpe francesi e tedeschi, gli
spagnoli Jerónimo Castillo de Bobadilla, Pedro Belluga, Diego Covarrubias, le
più note raccolte normative degli Stati italiani, la giurisprudenza dei
tribunali territoriali, la dottrina, i consilia,
i commentari ai diritti consuetudinari di diverse città e regioni soprattutto
degli ex domini spagnoli e degli Stati sabaudi di terraferma.
[10] Era
la prima volta che il governo sabaudo si prefiggeva di acquisire un quadro
dettagliato della diffusione e del funzionamento delle compagnie barracellari,
ed è certamente significativo che le direttive per le audizioni dei
rappresentanti delle comunità locali prescrivessero d’indagare accuratamente
villaggio per villaggio «se vi siano barracelli, ed in qual numero sia composta
la compagnia, se gli abitanti sono contenti dei capitoli [della convenzione], e
se quelli che ora sono in osservanza sono legittimamente approvati, e se i
danni vengano puntualmente pagati»: Archivio di Stato di Torino (d’ora in poi
AST), Sardegna, Paesi, Visita generale del
Regno fattasi dal viceré don Hallot nel 1770, Pezze menzionate nella Relazione, vol. II (inedito), s. K, f. 45.
Per la relazione e per le risultanze dell’inchiesta cfr. F. Loddo Canepa, Relazione della visita del viceré Des Hayes al regno di Sardegna (1770),
in «Archivio storico sardo», XXV, 1958, 3-4, 113-14, e passim. Sulla documentazione inedita della «visita generale» cfr.
le osservazioni di G. Ricuperati, Il riformismo sabaudo settecentesco e
[11] Il
riferimento era a J. Dexart, Capitula sive acta Curiarum Regni Sardiniae,
Calari 1645, lib. IV, tit. VI (De furtis),
capp. 1 e 9, e in particolare al capitolo di corte approvato da Carlo V con cui
si ordinava di osservare puntualmente, in tutte le incontrade del Regno e «sin
excepción de pueblo», le disposizioni della Carta
arborense che imponevano ai majores e
juratos de logu di catturare i
malfattori o di pagare, insieme con la comunità, le multe e i danni per i reati
rimasti impuniti.
[12] F. de Vico, Leyes y pragmáticas reales del Reyno de
Cerdeña, Sassari 1781 (I ed., Napoles 1640), vol. II, tit. XXI (De la refacción y emienda de los daños que
comunemente se llama carrega o encarrega), cap. I, 12-19.
[13] Carta Deidda, Tractatus de barracellis, cit., cc. 8v-9. Cfr. inoltre Pregón general andado publicar por el excelentísimo señor don Fernando de
Moncada [...] duque de San Juan [...] sobre todas las materias pertenecientes à
la buena administración de justicia [...], Caller 1700, ed. con testo
italiano a fronte, Caller 1780, 16-20.
[15] Ivi, cc. 9v-10.
«Iuratis praedictis – riferiva Carta Deidda – ullum de publico salarium
praebitum, neque deputatis, prout modo ab universitate penditur barracellis;
quod an iusta factum ratione haesitare decet, non ex eo solum, quod insimul
gravatur universitas onere encaricas solvendi, sed etiam quia Principi incumbit
oppressos subditos ab omni iniuria, et molestia tueri: maior dubitandi ratio,
quoad primum, ex eo insurgit, quod plurimis in oppidis paciscant barracelli,
privatos ipsos universitatis, noctu prosilire intra populatum, neque ad
proprias recognoscendas segetes, et vineas pergere fas sit, sub certa stabilita
pecuniaria poena, a contraventoribus exsolvenda; indeque irrationabile certe
videtur, ipsos universitatis privatos ad encaricam pro delictis in istis locis
eo tempore commissis, compellere solvendam; cum exinde praesumpta cooperatio
contra istos penitus remaneat elisa potiusque contra barracellis insurgat
praesumptio negligentiae in qua praecisa stabiliri ratione potuit Patrium
statutum; quippe in capiendo et probando negligentes, fautores criminum
dicuntur [...] quod aliunde exorbitans, nimiumque durum contra iuris communis
regulas sit, alius pro alterius delicto poenam luere» (cc. 9-9v). Sull’opportunità di abolire l’«incarica» il Tractatus de barracellis insisteva ripetutamente sottolineando da
un lato l’iniqua arcaicità dei princìpi giuridici su cui poggiava, e dall’altro
la sua perversa natura di vero e proprio incentivo all’inerzia e all’avidità
dei baroni: cfr. per esempio cc. 10v-11,
13-14v, e soprattutto 93-94 («Etenim
iuridica sed insulsa praesumptio est, qua omnes de universitate sciant, quis
delictum occultum patraverit»). Sull’«incarica» e sui problemi della giustizia
penale nella Sardegna del Settecento cfr. M.
Da Passano, Delitto e delinquenza
nella Sardegna sabauda (1823-1844), Milano 1984, 39-40 e passim; Id.,
Riformismo senza riforme. I Savoia e il
diritto penale sardo nel Settecento, in Studi
in memoria di Giovanni Tarello, vol. I, Saggi
storici, Milano 1990, 209 sgg.; Id.,
La criminalità e il banditismo dal
Settecento alla prima guerra mondiale, in L.
Berlinguer, A. Mattone (a cura di), Storia
d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi.
[16] Cfr. I.L. Carta Deidda, Decisiones Regiae Audientiae congestae anno Domini 1778, volume in
folio ora conservato nello stesso fondo della Biblioteca universitaria di
Cagliari: «Autografo – commentava lo storico Pietro Martini – donde si
chiarisce viemeglio quanto il Carta faticasse per internarsi nelle pratiche del
foro cagliaritano» (cfr. P. Martini,
Catalogo della biblioteca sarda del
cavaliere Lodovico Baille, Cagliari 1844, 202). Sulla figura e l’opera di Carta
Deidda cfr. G. Siotto Pintor, Storia letteraria di Sardegna, vol. II,
Cagliari 1843, 301-302, 338, 357, e i pochi cenni di F. Loddo Canepa, I
giuristi sardi del secolo XIX, Cagliari 1938, 6, 8. Negli atti di una causa
civile in cui fu coinvolto nel 1784, Carta Deidda risultava di modeste
condizioni economiche, non possedeva beni né rendite e la sua attività di
avvocato gli consentiva a malapena di mantenere i due figli che aveva ancora a
carico e la madre povera e vecchissima: cfr. Archivio di Stato di Cagliari
(d’ora in poi ASC), Reale Udienza, Cause
civili, Pandetta 60, busta 70, fasc. 5. L’incartamento mi è stato segnalato
dalla dott.ssa Carla Ferrante, che ringrazio vivamente.
[17] «In
secundo postmodum volumine – prometteva l’autore – individuas uniuscuisque
regionis pactionatas leges exhibere fas erit, cum glossematis» (Carta Deidda, Tractatus de barracellis, cit., c. 1v). Va peraltro osservato che nei territori infeudati l’efficacia
dei capitolati barracellari era subordinata a una regolare delibera di
approvazione adottata dal consiglio della comunità con l’assistenza del
ministro di giustizia baronale e alla definitiva concessione del placet da
parte del feudatario: «aliunde capitula legesve barracellatus non sine baronis,
consultorisque sui approbatione obligare incipientes, decreti efficatiam
supplent» (ivi, c. 172). Del resto, anche gli ordinamenti del Regnum Sardiniae, come quelli del
Principato di Catalogna, ricordava Carta Deidda, riconoscevano alle comunità
soltanto la giurisdizione passiva: «universitates namque [...] ternam
barracellorum et maiorum iustitiae conficiunt» (ivi, c. 406: il riferimento era
al cap. 14 del regio editto 27 aprile 1775 che aveva ritoccato le competenze
dei consigli comunitativi). «Solam igitur passivam exercent universitates Regni
iurisdictionem, quatenus scilicet ternam efformant de personis illis, quae ad
vicarii, vel maioris iustitiae munus exercendum habiles diiudicant, ut unum ex
eis possit princeps aut baro pro libito secernere» (ivi, c. 473). Sulla riforma
dei consigli comunitativi e sul significato delle modifiche apportate nel 1775
cfr. I. Birocchi, M. Capra, L’istituzione dei Consigli Comunitativi in
Sardegna, in «Quaderni sardi di storia», luglio 1983-giugno 1984, 4,
139-58.
[18] Per i
riferimenti archivistici e normativi relativi alle trasformazioni dei primi
decenni dell’Ottocento, cfr. ASC, Regia
Segreteria di Stato e di Guerra, II s., vol. 1923, «Indice degli editti,
pregoni ed altre leggi relative alle milizie e barracellerie emanate dopo il
1799», s.d. [ma 1821]. Cfr. inoltre F.
Loddo Canepa, Dizionario
archivistico per
[19] Sul
dibattito politico e culturale che accompagnò la fine del Regnum Sardiniae, cfr. I.
Birocchi, La questione
autonomistica dalla «fusione perfetta» al primo dopoguerra, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad
oggi.
[20] Sulla
necessità di una profonda riforma dell’istituto, già in decadenza e perfino
sottoposto a uno sconsiderato prelievo fiscale, cfr. R. Orrù, Sulle
condizioni attuali e sulle sorti sperabili della Sardegna. Discorso al popolo,
Cagliari 1848, e sull’opportunità di una sua rapida abolizione, cfr. C. Baudi di Vesme, Considerazioni politiche ed economiche sulla Sardegna, Torino 1848,
ora entrambi in G. Sorgia (a cura
di),
[21] Cfr. G.B. Tuveri, La questione barracellare, Cagliari 1861, 6-7, ora in Id., Tutte
le opere, vol. IV, Il governo e i
comuni. La questione barracellare, a cura di L. Del Piano, G. Contu,
Sassari 1994, 193-94. Per un inquadramento delle posizioni di Tuveri, cfr. il
saggio di G. Contu, G.B. Tuveri e la questione barracellare,
in Tuveri, Tutte le opere, cit., vol. IV, 27-52; e inoltre, l’interessante
introduzione di N. Bobbio, Giovanni Battista Tuveri a cent’anni dalla
morte, in Tuveri, Tutte le opere, cit., vol. I, 11-29. Sul
pensiero di Tuveri cfr. inoltre il lavoro monografico di A. Delogu, Filosofia e società in Sardegna. Giovanni Battista Tuveri (1815-1887),
Milano 1992.
[23] «Stando
a ciò che mi si dice – aveva scritto Joseph Fuos (un pastore luterano tedesco
che in qualità di cappellano di un reggimento di stanza in Sardegna vi aveva
soggiornato dal 1773 al 1777 e aveva poi pubblicato a Lipsia le sue impressioni
e testimonianze sulla società sarda) – in molte regioni [dell’isola] la
pubblica sicurezza è presso a poco data in affitto. La comunità dà un tanto ad
una società la quale prende su di sé l’assicurazione di ciò che si ha nella
campagna. Se qualche cosa va perduta questa società è obbligata a pagarla»: J. Fuos, Nachrichten aus Sardinien, von der gegenwärtingen Verfassung dieser
Insel, Leipzig 1780 (trad. it. di P. Gastaldi Millelire,
[24] G. Manno, Storia di Sardegna,
vol. III, Torino 1826, ried. a cura di A. Mattone, Nuoro 1996, 20-
[25] Cfr. G.M. Mameli de’ Mannelli, Le costituzioni di Eleonora giudicessa di
Arborea intitolate Carta de Logu, Roma 1805, 184-
[26] J.-F. Mimaut, Histoire de Sardaigne ou
[27] Ivi, 455-56. «Mariano – spiegava inoltre Mimaut – avait ordonné par son code
rural qu’un certain nombre de jurés de chaque village, ayant leur major à leur
tête, seraient tenus de visiter fréquemment toutes les propriétés en culture,
d’examiner avec attention leurs clôtures respectives, de veiller à ce que
chacun jouît sans trouble du fruit de ses travaux, et de placer,
particulièrement dans les vignes, des observateurs, en correspondance les uns
avec les autres, aux regards desquels rien de ce qui faisait dans le territoire
ne devait échapper» (ivi, 455).
[28] A. De
[29] G. Manno, Législation de l’île de Sardaigne, in
«Revue de droit français et étranger» (continuation de la «Revue étrangère et
française»), I, 1844, 368. Ma si può meglio comprendere lo spirito del contributo
di Manno, se lo si inquadra in quel sapiente patriottismo (cautamente
riformatore e soprattutto riconciliato con
[30] Cfr. E. Besta, Il diritto sardo nel Medioevo, Torino 1899 e Id.,
[31] Cfr.
in particolare i lavori di P.E. Guarnerio,
Gli Statuti della repubblica sassarese,
in «Archivio glottologico italiano», XIII, 1892, estr. Loescher, Torino 1892; La lingua della «Carta de Logu» secondo il
manoscritto di Cagliari, in «Studi sassaresi», III, 1903-1904, fasc. 3, poi
in Besta, Guarnerio, Carta de Logu de Arborea, cit., 69 ss.; I dialetti odierni di Sassari, della Gallura
e della Corsica, in «Archivio glottologico italiano», XIV, 1892, 389. Cfr.,
inoltre, M.L. Wagner, La vita rustica della Sardegna riflessa
nella lingua (1921), a cura di G. Paulis, Nuoro 1996, 66, 130.
[32] Cfr. Fra il passato e l’avvenire. Saggi storici
sull’agricoltura sarda in onore di Antonio Segni, Padova 1965 e A. Boscolo (a cura di), Il feudalesimo in Sardegna, Cagliari
1967.
[33] Cfr. G. Todde, Il barracellato, in F.
Manconi, G. Angioni (a cura di), Le
opere e i giorni. Contadini e pastori nella Sardegna tradizionale, Consiglio
regionale della Sardegna, Cagliari 1982, 89-96; e inoltre Id., Le
fonti archivistiche per una ricerca sull’agricoltura in Sardegna, in
«Archivio sardo del Movimento operaio contadino e autonomistico», 1976, 6-7,
61-83; Id., Storia di Nuoro e delle Barbagie, Cagliari 1991, 106-107, 148 ss.
Cfr., inoltre, E. Tognotti, La prima «carta del barracello» a Massama
nel novembre del
[34] È
indicativo il recente e pur cospicuo lavoro di S.
Orunesu, Dalla scolca giudicale ai
barracelli. Contributo a una storia agraria della Sardegna, Cagliari 2003,
che si diffonde in un articolato commento e in una meticolosa ma formalistica
rilettura comparata degli antichi testi normativi, inevitabilmente soffrendo
della scarsa produttività di un filone di ricerca che ha ormai esaurito ogni
sua potenzialità. Analoghe caratteristiche presenta l’articolo di E. Mura, Responsabilità e garanzie collettive nella legislazione statutaria
sarda, in «Archivio storico e giuridico sardo di Sassari», n.s., 1996, 3,
61-65, con relativa appendice di fonti normative, 66-86.
[35] Sulla
«teoria dei fattori storici» e sulla sua singolare incidenza nella storiografia
giuridica sarda cfr. le penetranti considerazioni di E. Cortese, Appunti di
storia giuridica sarda, Milano 1964, 119-27. La ricerca delle origini dei
singoli fenomeni giuridici, «in anni in cui la diffusa mentalità positivistica
influenzava anche chi non la faceva consapevolmente propria», si configurava,
ha scritto Cortese, «quasi come una corsa all’individuazione di realtà
cronologicamente anteriori che si qualificavano come “cause” di realtà
cronologicamente posteriori, nella determinazione di un nesso governato,
appunto, da un rigoroso principio di causalità arbitrariamente trasposto dal
piano della logica su quello della vita» (ivi, 122).
[36] Cfr. U.G. Mondolfo, Recensione a N. Angioi, L’istituto
del barracellato in Sardegna sotto l’aspetto storico-giuridico-amministrativo,
in «Archivio storico sardo», V, 1909, 264-
[37] Il
collegamento tra l’istituto barracellare e l’«ordinamento della pubblica
sicurezza presso i Franchi» era stato riproposto di recente, fra l’altro in una
sede prestigiosa, da Enrico Presutti, che nel suo contributo al Trattato di diritto amministrativo diretto
da Vittorio Emanuele Orlando aveva approfonditamente analizzato i due
importanti regolamenti del 14 luglio 1898 con i quali il governo italiano, in
base alla legge per
[38] «Solo
è da osservare – aggiungeva – che questi giurati, sebbene costituiti in chida
[squadra], presentano semplicemente, a quel che pare, una forma di
responsabilità individuale, non collettiva, e credo che in Sardegna non si
abbia la vera forma di responsabilità solidale fra i componenti la società
barracellare se non negli ultimi secoli del dominio spagnuolo, cioè proprio al
sorgere dell’istituto del barracellato» (Angioi,
L’istituto del barracellato, cit.,
14).
[40] Il
lavoro di Angioi fu opportunamente ripubblicato nel 1969 con una brevissima
prefazione di Giancarlo Sorgia che si limitava a elogiare la serietà dello
studio, senza dar conto delle critiche che ad esso erano state mosse e senza
avvertire il lettore dei limiti storiografici e metodologici della ricerca, i
cui risultati erano già assai datati.
[41] Cfr. P. Quesada Pilo, Dissertationum quotidianarum iuris in tribunalibus Turritanis
controversi, tomus primus,
Neapoli 1662, 285-86.
[43] «Attes
accau moltes voltes – si legge nella petizione – als barons y heretats menar
molta gente per pendre lladres [...] se ha vist, y his veu, dit Fisch real
haver tentat fer instances contra alguns barons per haver menat algun numero de
gent de deu o doze per pendre lladres, seu alias, cullir alguns drets de dits
barons, que perço placia a Vostra Magestad abolir y llevar dita pragmatica». Dexart, Capitula sive acta Curiarum Regni Sardinae, cit., lib. I, tit. VII,
cap. IV, 230-31. Cfr. inoltre la «Pragmatica serenissimi regis Ioannis, quae
cum decreto istius capituli reiecta depraecatione in contrarium, observari
iubetur», 231-32; i provvedimenti regi sulla «Crida general» fatta pubblicare
dal viceré il 31 ottobre 1561, 262-67, e le decretazioni regie sui capitoli
oggetto del contrasto fra il viceré e il braccio militare, 267 ss. Sulle
milizie cfr. A. Mattone, Le istituzioni militari, in M. Guidetti (a cura di), Storia dei sardi e della Sardegna, vol.
III, L’età moderna dagli aragonesi alla
fine del dominio spagnolo, Milano 1989, 99-107.
[44] Archivo
de
[45] Cfr. G. Olla Repetto, Mezzi di lotta contro la criminalità nella Sardegna spagnola, in
«Rivista sarda di criminologia», IV, 1988, 2, 493-94.
[46] Archivio
di Stato di Sassari (d’ora in poi ASS), Archivio
storico del Comune di Sassari, busta 6, fasc. 11 (Libro di ordinazioni
comunali diverse, 1596-97), c. 6. Cfr. inoltre E.
Costa, Sassari, vol. II, t.
III, Sassari 1972 (ed. or. 1938), 255-56.
[47] Qui
il riferimento è probabilmente alle norme dello ius commune: cfr. Cortese,
Appunti di storia giuridica, cit.,
127-29. Cfr. inoltre il bel lavoro di F.
Sini, “Comente comandat sa lege”.
Diritto romano nella «Carta de Logu»
d’Arborea, Torino 1997, e ora Id.,
Influssi del diritto romano sulla «Carta de Logu» di
Arborea, in I.
Birocchi, A. Mattone (a cura di),
[48] Cfr. A. Mattone, Gli Statuti sassaresi nel periodo aragonese e spagnolo e G. Doneddu,
[49] ASS, Archivio storico del Comune di Sassari,
b. 6, fasc. 11, c. 8. La nota apposta a margine della convenzione precisava
inoltre che il saldo delle somme dovute al capitano sarebbe stato pagato solo
dopo che questi avesse soddisfatto ogni fondata richiesta di risarcimento dei
danni.
[50] Ivi, c. 16. Le altre registrazioni riguardano: due bandi dati il
27 luglio e il 18 agosto per rendere pubblici i termini entro i quali i
proprietari danneggiati avrebbero dovuto presentare, rispettivamente, la
denuncia del furto al veguer e la richiesta di risarcimento ai consiglieri civici;
e due brevi annotazioni contabili su alcune quote raccolte e pagate ai
barracelli (cc. 16v, 17r, 19r,
20v).
[51] Sulla
responsabilità collettiva cfr. L.
Zdekauer, Un caso di garanzia per
danni patrimoniali nelle origini del Comune, in «Rivista italiana per le
Scienze giuridiche», XXVII, 1899, 1, 40-57; e inoltre J.M. Carbasse, La
responsabilité des communautés en cas de «méfaits clandestins» dans les
coutumes du Midi de
[52] Cfr. A. Era, Ordinanze e deliberazioni del Consiglio civico di Alghero in materia
agraria (1582-1649), in Testi e
documenti, cit., 403-404, 434-36.
[53] Ivi, 403.
Nella deliberazione del 1619 si precisava inoltre che i barracelli avrebbero
dovuto operare con una squadra di sei uomini nel periodo estivo-autunnale e
soltanto con due per la restante parte dell’anno.
[54] Mondolfo, Responsabilità e garanzia,
cit., 14. Fra gli «speciali corpi» istituiti per la prevenzione e la
repressione dei delitti dovevano annoverarsi, secondo Mondolfo, oltre ai
giurati anche i barracelli, «sebbene questi [...], più che una funzione di vera
sicurezza pubblica, compiessero e compiano – considerava finemente lo storico
del diritto – una funzione di tutela dei patrimoni privati e dai privati
avessero ed abbiano appunto la loro retribuzione. Quando poi le leggi
comminavano una multa e sancivano una responsabilità pecuniaria dei giurati (e
dei barracelli) per quei delitti di cui non avessero saputo scoprire l’autore e
ottener quindi il risarcimento, esse miravano appunto a render i giurati (e i
barracelli) direttamente interessati a compiere quelle funzioni a cui erano
delegati» (ivi, 16). Assai opportunamente Mondolfo sottolineava, inoltre, le
peculiarità e la «diversa natura giuridica della norma contenuta nel cap. I,
79», presente in molti altri statuti comunali della penisola, che stabiliva che
i danni causati «per manu de homine o de
focu a sas domos dessa vingnas, ortos i molinos» ubicati nel territorio di
Sassari dovevano essere risarciti dal Comune in base alla semplice
dichiarazione giurata del danneggiato entro un mese dalla denunzia. «Nel cap.
I, 79 – commentava Mondolfo – non c’è evidentemente una misura di ordine
poliziesco, ma d’ordine economico: non è sancito un dovere dei cittadini, ma un
diritto al quale corrisponde naturalmente un’obbligazione legale del Comune»
(ivi, 17).
[55] Cfr. Quesada Pilo, Dissertationum quotidianarum, cit., 285-86. Sulla figura e
sull’opera di Quesada Pilo cfr. P. Tola,
Dizionario biografico degli uomini
illustri di Sardegna, vol. III, Torino 1837, ad vocem.
[56] Sulla
contea d’Oliva e sul ducato di Gandía e sulla loro unione nella casata dei
Borja cfr. J. Sendra Molió, La città e il ducato di Gandía, in
«Quaderni bolotanesi», XXIX, 2003, 111-38, e inoltre Id., Els comtes
d’Oliva a Sardenya, Oliva 1998. Per un quadro delle caratteristiche e della
distribuzione dei feudi nella Sardegna del Seicento, cfr. B. Anatra, Economia sarda e commercio mediterraneo nel Basso Medioevo e nell’Età
moderna, in M. Guidetti (a
cura di), Storia dei sardi e della
Sardegna, vol. III, L’Età moderna.
Dagli Aragonesi alla fine del dominio spagnolo, Milano 1989, 190-216; G.G. Ortu, Villaggio e poteri signorili in Sardegna, Roma-Bari 1996, 291-95,
259-60; F. Floris, Feudi e feudatari in
Sardegna, vol. I, Cagliari 1996, 151-338; R.
Pinna, Atlante dei feudi in
Sardegna. Il periodo spagnolo, 1479-1700, Cagliari 1999, 106-24.
[57] Cfr.
la lettera di Salvador Sini al duca di Gandía, Cagliari 30 aprile 1642,
conservata in Archivo Histórico Nacional (d’ora in poi AHN), Casa de Osuna, leg. 604, n. 2/49, ora
tradotta e pubblicata da I. Bussa,
Pratica della vendetta e amministrazione
feudale negli stati sardi di Oliva (1642), in «Quaderni bolotanesi», XX,
1994, 335-
[58] Sul
banditismo sardo nei decenni centrali del Seicento cfr. B. Anatra, Dall’unificazione
aragonese ai Savoia, in Anatra, Day,
Scaraffia,
[59] Sulle
ripercussioni della grande peste mediterranea in Sardegna cfr. G. Serri, Il censimento dei fuochi sardi del
[60] Carta
del marques de Castel Rodrigo, virrey de Cerdeña, acerca la renovación de los
barracheles, que se han introducido en aquel Reyno para guarda de los campos,
Sassari, 12 aprile 1661, c.
[61] Cfr. ASC, AAR,
H. 40, cc. 243-244v. Sul governo del
viceré Francisco de Moura y Corte Real, marchese di Castel Rodrigo, cfr. J. Mateu Ibars, Los virreyes de Cerdeña. Fuentes para su estudio, vol. II, Cedam, Padova
1967, 95-101; Anatra, Dall’unificazione aragonese, cit.,
579-80; A. Mattone, Le istituzioni militari, in Guidetti (a cura di), Storia dei sardi, cit., 91-92.
Sull’impegno del viceré nella lotta alla criminalità cfr., inoltre, la vivace
cronaca composta negli anni Settanta del Seicento da J. Aleo, Storia
cronologica e veridica dell’isola e Regno di Sardegna dall’anno 1637 all’anno
1672, saggio introduttivo, traduzione e cura di F. Manconi, Nuoro 1998, 231-40,
che però non fa alcun riferimento all’istituzione dei «soldados de campaña».
[62] Carta del marques de Castel
Rodrigo, cit., c. 3. Sulla nascita di una compagnia barracellare a Ozieri nel 1656 e
sull’istituzione, pochi anni dopo, nel 1660, di un distaccamento fisso di
truppe regie nello stesso capoluogo del Monteacuto cfr. F. Amadu, F. Marongiu, Ozieri, Cagliari 1976, 37 ss.
[63] «Ha parecido encargar y mandaros, como lo
hágo – ordinava il sovrano – que siendo en esta conformidad se escuse así a
estos vassallos como a los demás del Reyno de la carga referida, y lo deseis
correr como se ha acostumbrado y me lo representa y suplica el marques» (Carta
reale del 31 ottobre
[64] Memoriales presentados en nombre de los
marqueses de Orani, Lombay y Quirra, condes de Sedilo, Monteleone y Bonorva, y
demás titulos y varones del Reyno de Cerdeña, Madrid 28 luglio
[66] Secondo la denuncia dei baroni, i tributi imposti a ciascun
abitante erano di un capo di bestiame, o quattro ducati, per ogni cinquanta
vacche, cavalli o maiali posseduti; uno ogni cento per gli ovini e i caprini;
due reali per ogni asino e quattro reali per ogni cavallo; uno starello e mezzo
di grano per ogni giogo di buoi; quattro reali per ogni orto e una carica di
vino per ogni vigna: «y por no poder supportar carga tan pesada, muchos de los
ganaderos – dichiaravano i baroni – han vendido sus ganados, los labradores han
destituydo sus labransas, viñas y huertas, y se han salido del Reyno, porque
solo se ha utilizado el Marques de esta contribución, sin haver pagado los
daños que han sucedido a los particulares, ni a los capitanes de campaña por
haverles dado este exercicio en castigo de sus delictos» (Memoriales presentados, cit., cc. 1v-2).
[67] Di qui la specifica richiesta della revoca
delle disposizioni e del pronto ristabilimento della situazione quo ante: «Supplican a Vuestra Magestad
– dichiaravano i sottoscrittori del memoriale – [...] que se deroghe lo que por
dicho marques de Castel Rodrigo se ha ordenado sobre este particular, y que los
regidores y consultores de los supplicantes y demas feudatarios hagan y
determinen las causas criminales y suelten los presos, en su caso, como y en la
forma que les esta concedido por reales privilegios, y se ha estilado y
observado siempre» (Memoriales
presentados, cit., c. 3v).
[68] Carta
del marques de Castel Rodrigo, cit., c. 6. Così il viceré difendeva orgogliosamente le
proprie disposizioni, che a suo avviso consentivano di eliminare gli abusi
senza violare i privilegi dei baroni, ai quali in definitiva «no se le negava
el conocimiento de la causa».
[70] Ivi,
c. 8v. Ai donativi e ai patti che il marchese
di Lombay era riuscito a strappare ai suoi vassalli tra il 1660 e il 1661
faceva ancora riferimento un’interessante relazione settecentesca sugli Stati
sardi di Oliva: cfr. I. Bussa, La relazione di Vincenzo Mameli de Olmedilla
sugli stati di Oliva (1769). Il principato di Anglona e la contea di Osilo e
Coghinas, in «Quaderni bolotanesi», XII, 1986, 323-24.
[71] Cfr. Consulta
sobre lo que supplican los titulos y varones del Reyno de Cerdeña en orden a la
introdución de los barracheles, Madrid, 22 agosto
[72] Sull’altro
versante, i consiglieri che insieme al vicecancelliere sostennero la linea
maggioritaria erano quattro: il catalano José Romeu de Ferrer, il valenzano
Pedro de Villacampa e gli aragonesi Luis de Exea y Talayero e José Pueyo y
Mendez. Sulla composizione del Consiglio d’Aragona e sulle sue funzioni in
materia di governo nei decenni centrali del Seicento, cfr. il bel lavoro di J. Arrieta Alberdi, El Consejo Supremo de
[73] Nòmina
de los daños han sucedido en las villas de
[74] Consulta
sobre lo que supplican, cit., c.
[75] «Y assí os encargo y mando – scriveva il
sovrano al viceré – deis las ordenes necessarias, y que convengan, para que de
aqui adelante se les dexa obrar libremente usando de su jurisdición, y que ni
los barracheles, ni otras perçonas reciban información sino en los casos que el
nombre de los delitos se la excluya» (Carta reale, Madrid, 31 agosto
[76] Consulta
sobre lo que supplican el marques de Lombay y el marques de Orani,
Madrid, 2 novembre
[77] Cfr. Anatra, Dall’unificazione aragonese, cit., 625 ss.; Id., Corona e ceti
privilegiati nella Sardegna spagnola, in B.
Anatra, R. Puddu, G. Serri, Problemi
di storia della Sardegna spagnola, Cagliari 1975, 111-13; Id., Istituzioni
e società in Sardegna e nella Corona d’Aragona (secc. XIV-XVII). El arbitrio de su libertad,
Cagliari 1997, passim.
[78] Los
procuradores del estado y ducado de Mandas, marquesados de Quirra, Orani,
Villasor, Laconi, Albis, Montemayor, Monteleon, Soleminis, contados de Sedilo,
Oliva, Villamar, Bonorva, Montalvo y diversas encontradas del Reino de Cerdeña,
suplican el virrey y capitán general de dicho Reino,
s.d. (ma 1675), in AHN, Casa de Osuna,
leg. 1010. Cfr. inoltre il Pregón sobre
la buena administración de la justicia, estirpación de los delitos y castigo de
delincuentes, Cagliari, 7 agosto 1675, cit. in Mateu Ibars, Los
virreyes de Cerdeña, cit., 139-40. Sul disordine politico e amministrativo degli Stati sardi d’Oliva
negli anni successivi alla crisi del Parlamento Camarassa cfr. B. Anatra, Banditi e ribelli nella Sardegna di fine Seicento, Cagliari 2002,
12-23.
[79] ASC, Reale Udienza, classe IV, 75/14, Pregone
del duca di Monteleone, Cagliari, 6 luglio 1688, c. 70.
[80] Cfr. R. Di Tucci, La proprietà fondiaria in Sardegna, Ledda, Cagliari 1928, 127 sgg.;
G. Murgia, Una fonte per lo studio della società feudale nella Sardegna moderna. I
«Capitoli di Grazia» di Villasor, estratto da «Annali della Facoltà di Magistero
dell’Università di Cagliari», n.s., vol. V, 1981, 107-45 e Id., Comunità
e baroni.
[81] Si
riferiscono agli anni 1673 e 1676 le annotazioni relative ad alcuni capi bovini
«iscrittos a magadita» o «pro seguridade» contenute nel Libro dell’amministrazione del bestiame appartenente alla Chiesa di
Santa Maria di Bonorva (1665-1679), cc. 36 e 62 [la numerazione è nostra].
Non figurano invece versamenti a favore dei barracelli nelle scritture
contabili relative al patrimonio ovino. Anche nel Libro di amministrazione della Chiesa di S. Antonio, cappellania di
Bonorva (1689-1706), mentre risultano puntualmente i pagamenti effettuati
alla compagnia barracellare per la custodia dei seminati e dei buoi da lavoro,
non figurano invece registrazioni di versamenti per la custodia del bestiame
rude: si può supporre che a quel tempo la compagnia barracellare di Bonorva
mentre assicurava la vigilanza per i terreni della vidazzone e per il bestiame
manso, non assumeva nessuna responsabilità per gli ovini e i bovini che
pascolavano nei salti. Su entrambi i registri, conservati nei locali della
sacrestia della Chiesa parrocchiale di Bonorva, cfr. F.G. Mura, Per una
storia della pastorizia in età moderna. Il caso della contea di Bonorva,
tesi di laurea, relatore P. Sanna, Università degli studi di Sassari, Facoltà
di Scienze politiche, a.a. 1992-93, 40-43, 70-71. Certamente le compagnie
barracellari continuarono a operare, anche negli ultimi decenni del Seicento,
in diversi villaggi degli Stati d’Oliva. Se ne ha una testimonianza, per
esempio, a Pattada dove nel 1678 i soprusi e i maneggi dei barracelli
suscitarono una gravissima serie di conflitti a fuoco e di vendette con sei
morti e numerosi feriti: cfr. F. Amadu,
Pattada dalla preistoria all’Ottocento,
Ozieri 1996, 52-53.
[83] Cfr.
i pregoni del viceré conte de Atalaya, Cagliari, 13 ottobre 1715 e 1º settembre
[84] Per i
testi degli statuti cfr. Archivio storico del Comune di Alghero (d’ora in poi
ASCA), busta 827 e reg. 394.
[85] Capitols
y pactes que se han de guardar y observar per lo capità y barrachels desta
ciutat de Alguer lo present ayn
[86] Capitols
de barrincheleria estabilits de observarse per los barranchels de
[87] Registre
dels capitols dels barranchellos del any 1684 y
[89] Cfr. Capitols
y pactes que se han de guardar y observar per espas de sinch ayns en lo que son
obligats servir de capitá de barranchels [...], los quals observarà lo present ayn 1724 lo dit noble Carrion y los
barranchels, in ASCA, reg. 394, ff. 1v-2r.
[90] Cfr. Loddo Canepa, Relazione della visita del viceré, cit., 137. «De
la misma manera se establece – recitavano i patti per la barracelleria di
Alghero del 1783 – que seran exemptos de servir de barrancheles [...] los
pedrargius que estuviere en attual exercisio [...] sirviendo [...] para la
guarda de los panes y lugares vedados, en cuyo oficio trabajaron la mayor parte
del año, como del henero en que se nombran, hasta el dia primero de agosto, en
que se nombran los barrancheles» (Capitulos
que deve observar la barranchelaria de la ciudad de Alguer,
[91] Carta Deidda, Tractatus de barracellis, cit., cc. 552v-553r.
Sull’affermazione del
baracellato tra Sei e Settecento, cfr. Ortu,
Villaggio e poteri signorili, cit.,
157 ss. e 272 ss.
[92] Ivi,
cc. 553r-553v. «Iurisdictio igitur prati maioris – spiegava ancora Carta Deidda
– pratorum vingitur ambitu, intraque satorum fines clauditur [...]. Prati nomen
comune est vineto, quod vinearum pratum dicitur, cap. 135 et 146 Cartae Localis
et pasco domitis destinato» (ibid.).
[93] Cfr. P. Sanna Lecca, Editti, pregoni ed altri provvedimenti emanati pel Regno di Sardegna
doppoiché passò sotto la dominazione della Real casa di Savoia sino all’anno
1774, Cagliari 1775, 122, 143-44. Cfr. inoltre le Istruzioni generali a tutti li censori del Regno [...] emanate d’ordine
di S.E. il signor viceré [...] des Hayes in data 10 luglio 1771, Cagliari
1771, 19-21 e 44-49 (una sorta di piccolo testo unico delle «diverse leggi
agrarie del Regno» predisposto dal censore generale Giuseppe Cossu e poi fatto
ritirare dal ministro Bogino), in cui i riferimenti alle attività dei padrargios e dei barracelli si
confermano marginali: cfr. ASC, Atti
amministrativi e governativi, vol. 6, n. 315. Sui criteri per la
determinazione del compenso dovuto ai barracelli per la custodia del Monte
granatico e dei terreni seminati con la «roadia» cfr. le interessanti
considerazioni di Carta Deidda, Tractatus de barracellis, cit., cc. 552r-552v:
«Salarium hoc moribus locorum diversimode praefinitur; quandoque solidi unius
pro libra est iusti rei valoris, per peritos vel per denuntiantem ipsum
stabilendi; neque enim eadem est ratio totius ac partis; quippe aequum minime
sit eundem barracellis solarium constituere pro mille ac pro decem vel centum;
dum maiorem ergo periculum, sollecitudinemve in se suscipiunt, maiori digni
sunt praemio, ut innui cap. 1, n. 50, et segg., ubi naturam contractus inter
barracellos et universitatem initi, declaravimus, quod scilicet operarum sit
locationis». Si tratta inoltre della evidente conferma della insostenibilità
della classificazione delle convenzioni barracellari fra i contratti di
assicurazione e della loro riconducibilità invece alla locatio operarum: ma il tema meriterebbe un apposito
approfondimento.
[95] Cfr. Loddo Canepa, Relazione della visita del viceré, cit., 306. Un’efficace e assidua
politica di protezione e controllo delle compagnie baracellari fu in particolare
dispiegata alla fine degli anni Settanta dal viceré conte Lascaris: cfr. M. Lepori, Dalla Spagna ai Savoia. Ceti e corona nella Sardegna del Settecento,
Roma 2003, 172-75. Un’interessante esperienza di ripresa della tradizione
barracellare in un piccolo villaggio della Sardegna meridionale è analizzata da
G. Murgia, Dalla restaurazione piemontese alla fine del ‘Regnum Sardiniae’, in
Villamar. Una comunità e la sua storia,
a cura di G. Murgia, Dolianova (CA) 1993, 225-31. Per un’utile comparazione con
un’esperienza ottocentesca cfr. I. Bussa,
La compagnia barracellare di Bolotana nel
1840-
[96] Cfr. F. Loddo Canepa, Una relazione del conte di Sindia sullo stato attuale e sui
miglioramenti da apportare alla Sardegna (1794?), in «Studi sardi»,
XII-XIII, 1952-54, parte II, 396-97. I barracelli, denunciava ancora il conte
di Sindia, «altro non curano che ricavar qualche lucro dal mercenario loro
servizio: in fatti è notorio che abbattendosi in qualche ladro, non cercano che
esigere con una qualche ricompensa il danno che loro avrebbe cagionato dal
derubamento occorso senza darne neppur avviso al Tribunale, e molto meno alla
parte offesa, alla quale per non soddisfarla si cercano detti pretesti, e
ragioni, e lo fanno litigare con eccepire, che non registrò in tempo, che il
salario non venne pagato come viene portato da’ loro capitoli, e mille altre
sottigliezze» (ivi, 398). Sulla relazione cfr. l’articolato giudizio di I. Birocchi, La carta autonomistica della Sardegna tra antico e moderno. Le «leggi
fondamentali» nel triennio rivoluzionario (1793-1796), Torino 1992, 92-93,
e inoltre L. Carta (a cura di), L’attività degli Stamenti nella «Sarda
Rivoluzione» (1793-1799), Cagliari 2000, vol. I, 103-105, 647-48, 650-92.
Su Antonio Ignazio Paliaccio cfr. ad
vocem V. Del Piano, Giacobini, moderati e reazionari in
Sardegna. Saggio di un dizionario biografico 1793-1812, Cagliari 1966.
[97] Carta Deidda, Tractatus de barracellis,
cit., cc. 100-100v. Per questo motivo,
spiegava il giurista cagliaritano, nei capitoli di corte era stato stabilito
che l’amministrazione viceregia fosse regolarmente informata della cattura e
dell’uccisione dei capi di bestiame sorpresi su terreni vietati al pascolo. Ma
l’assennata disposizione non era fatta osservare e si tratterebbe di grave
incuria, commentava Carta Deidda, «nisi supponamus, quod fiscales exteri
patrios mores ignorant» (ibid.).
[98] «Molti
con maggior facondia ragionarono – osservava Marongio, in garbata polemica con
Gemelli, di cui peraltro si considerava discepolo – della fecondità della
Sardegna, e quasi tutti parlando della agricoltura, all’ozio, poltroneria e
poca pratica di lavorar la terra, ne attribuirono la decadenza. Io all’opposto
[...] ben diversa ne considero la causa, e questa estirpata dal possente
braccio di Vostra Eccellenza nel giro di pochi anni saremo nel fortunato caso
di vedere il rifiorimento di sì nobil arte e l’accrescimento della pubblica e
privata ricchezza [...]. Atteso ben bene l’attuale stato del Regno [...] non
v’è chi non assicuri che il furto, il ladroneccio cotanto frequente nell’isola,
sia la ria e capital sorgente di tanto male» (Archivio Simon Guillot, Alghero,
cart. N, fasc. 396, Progetto sul miglioramento della sarda agricoltura proposto
nella riforma de’ barracellati dal nobile don Diego Marongio, 1-2). La prima
parte del passo soprariportato era in realtà una vera e propria, seppur
nascosta, autocitazione, che riprendeva un’intera frase della lettera con cui
lo stesso Marongio circa dieci anni prima, nel dicembre del 1779, aveva
inoltrato al viceré Lascaris una sua interessante memoria su diversi problemi
del mondo agricolo sardo, dalla scarsa custodia dei seminativi agli abusi ai
danni degli agricoltori, dalle difficoltà incontrate nello sviluppo dei Monti
frumentari al peso dei tributi e delle prestazioni feudali: cfr. G. Murgia, Insinuazioni sul rifiorimento della sarda agricoltura, in «Archivio
sardo del Movimento operaio contadino e autonomistico», 17-19, 1982, 205-26. Su
Marongio cfr. inoltre I. Birocchi,
Il «Regnum Sardiniae» dalla cessione ai
Savoia alla «fusione perfetta», in Guidetti
(a cura di), Storia dei sardi, cit.,
vol. IV, 185-87, e Del Piano, Giacobini, moderati e reazionari, cit.,
279-80.
[103] Cfr. Capitoli della nuova centuria di Sassari,
essendo capitani li signori don Giorgio Scardaccio, avvocato Gioachino Mundula,
notaio Francesco Manca e Pietro Manca Sequi per gli anni 1794-95 e 1795-