Buona fede oggettiva e buona
fede soggettiva nel diritto romano[1]
Sommario: 1. Gli usi della locuzione “buona fede” nelle fonti latine e
nei codici di diritto civile moderni. – 2. La buona fede oggettiva
nel diritto romano. – 3. La separazione della buona fede soggettiva da quella
oggettiva nel diritto romano. – 4. Il
problema dell’unificazione delle due nozioni di buona fede. – 5. Riflessioni
finali.
L’espressione moderna “buona fede” deriva dalla locuzione latina bona fides. “Fides” deriva dal verbo latino fieri
che significa «è stato fatto». Poi, questa parola cambia il suo senso in
fiducia. Cicerone, perciò, dal punto di vista etimologico, spiega fides come «fiat quod dictum est, appellatam fidem»[2]. Parlando in termini moderni, la buona fede
indica l’osservanza della propria parola. In questo caso, l’aggettivo bona funziona come un consolidamento di fides: la combinazione delle due parole
possiede il senso di buona fiducia.
Nelle fonti giuridiche latine, la locuzione di bona fides è stata usata su vasta scala. Il suo uso è presente
circa 38 volte nelle Iustiniani
Institutiones, circa 117 volte nel Codex,
circa 462 volte nei Digesta.
Prendiamo come esempio le Institutiones,
in cui i compilatori usarono questa locuzione rispettivamente in due aspetti.
Il primo è quello del diritto reale che si distingue nei segmenti seguenti: 1.
Possesso di cosa ed usucapione di essa (I. 2.1.33-34; 2.6.pr.); 2. Possesso di
persona libera (I 2.9.pr).
Colui che possiede inconsapevolmente questi due si chiamò possessore bonae fidei. La vendita era la causa
più frequente di questo tipo di possesso. Colui che ha fatto tale vendita si
chiamò bonae fidei emptor. Questi è
la persona che considera come proprietario un non proprietario della cosa, con
il quale conclude un contratto. 3. Atto di disposizione di una cosa in buona
fede, come atto di accessione ed atto di consumo in buona fede: colui che
semina o edifica senza sapere che la terra è altrui cade nella prima categoria
(I. 2.1.29-30); colui che
riceve in mutuo una somma di danaro da un pupillo, ignorando che il tutore di
quest’ultimo non ne abbia dato l’autorizzazione, cade nella seconda (2.8.2). Il
secondo aspetto è quello di diritto processuale che distingue actio bona fidei e actio stricti iuris. Nell’età giustinianea, c’erano 16 tipi di actio bona fidei: erano actio ex
emptio venditio, actio locati, actio
conducti, actio negotiorum gestorum,
actio mandati, actio depositi, actio pro
socio, actio tutelae, actio
commodati, actio pigneraticia, actio familiae erciscundae iudicio, actio
communi dividundo, actio praescriptis verbis, actio ex permutatione, actio
hereditatis petitio e actio rei
uxoris.
Insomma, nel diritto romano, ci sono principalmente due tipi di buona fede.
La prima è quella che si applica al diritto reale. Tale buona fede è una
situazione psicologica della parte che sia convinta di non avere violato i
diritti altrui; dunque la si chiama buona fede soggettiva. Secondo l’opinione
degli studiosi moderni, essa è dotata dei requisiti seguenti: 1. È una
convinzione personale del soggetto sulla legalità e moralità del contenuto dei
propri comportamenti. 2. Benché tale convinzione sia soggettiva, il processo in
cui il soggetto la ottiene testimonia la sua onestà e ragionevolezza. 3. Nella
formazione di tale convinzione, al soggetto non manca la diligenza. 4. Nel
processo di formazione di tale convinzione non rileva il dolo o la culpa del soggetto. 5. Tale convinzione
del soggetto può riferirsi non soltanto alla propria situazione, ma anche alla
situazione delle persone che lo riguardano. 6. Tale convinzione determina i
comportamenti del soggetto. La sua situazione psicologica ha un rapporto
assolutamente corrispondente ai suoi comportamenti. 7. La legge riconosce al
soggetto un trattamento favorevole per la sua convinzione[3].
La seconda è quella che si applica al diritto contrattuale. Gli obblighi
delle parti di adempiere fedelmente ai propri doveri presuppongono la buona
fede oggettiva. Secondo le opinioni degli studiosi moderni, anch’essa è dotata
dei punti chiave seguenti: 1. È un obbligo di comportamento del soggetto di
contenuto ovviamente morale. 2. Il contenuto di tale obbligo di comportamento è
di astensione dal ledere gli interessi altrui, salva la protezione degli
interessi legali propri. 3. Per valutare il comportamento del soggetto, si deve
abbandonare il metro soggettivo e si deve utilizzare un criterio oggettivo; 4.
Ma tale oggettività non esclude una considerazione sull’elemento soggettivo
come dolo e culpa. 5. Tale criterio oggettivo
consiste in un paragone fra i comportamenti del soggetto e il criterio
giuridico o comportamento sociale medio tipico. 6. Per trovare un criterio
giuridico applicabile ai comportamenti del soggetto, si deve considerare il
contesto in cui lo stesso soggetto pone i suoi comportamenti[4].
Da qui si scopre la differenza grandissima tra i due tipi di buona fede:
uno è una situazione interiore, l’altro è un comportamento esteriore; ambedue
sembrano appartenere a due mondi diversi, ma li si denomina con la stessa
locuzione di bona fides. Tale
differenza tra i due tipi di buona fede nel diritto romano passa ai diritti
civili moderni. Come eredi di primo grado del diritto romano, i popoli che
parlano le lingue di origine latina (italiano, spagnolo, portoghese, francese,
rumeno, etc.) denominano i due tipi di buona fede con la stessa parola “buona
fede”, “buena fe”, “boa-fè”, “bonne foi”, “buna-credinta”[5].
La cosa va diversamente nel mondo di lingua tedesca. Da un lato, la sua
cultura giuridica divide l’onore dell’origine del sistema giuridico
continentale dal diritto romano; pertanto, i suoi istituti giuridici, spesso,
adattarono gli istituti del diritto romano, anzi vi aggiunsero qualcosa.
Dall’altro lato, i tedeschi, nel corso di recezione del diritto romano, si
sforzarono di germanizzare i tecnicismi giuridici latini, rifiutando le parole
straniere. Cosi, nei diversi paesi della lingua tedesca, o si cancellò
l’espressione di bona fides nella
legislazione, (l’ABGB del 1811 fece così) o si utilizzò una diversa
denominazione ad esprimere i due tipi di buona fede sulla base della differenza
tra essi. Il BGB del 1897 ed il Codice Civile Svizzero del 1907 seguirono
questa via.
Evitando di utilizzare una definizione difficile da capire al popolo comune[6],
l’AGBG non usò l’espressione astratta di buona fede; invece preferì utilizzare
un termine più concreto per definire i significati di buona fede in diversi
casi. Per quanto riguarda la buona fede oggettiva, l’articolo 863 prescrive che
la prova della volontà deve essere fornita considerando i gesti comunemente
praticati, i comportamenti impliciti, le usanze e le pratiche. L’articolo 897
prevede che le norme che regolano le condizioni apposte ad un testamento,
regolano anche le condizioni di contratto. Per l’articolo 1435 colui che riceve
un bene in consegna deve restituirlo appena la causa della consegna viene meno.
L’articolo 1451 contiene la definizione di prescrizione. L’articolo 1501
prevede che il tribunale non può invocare ex
officio la prescrizione senza che sia instaurato un processo o proposta una
domanda da una delle parti. Nonostante questi articoli non si riferiscano alla
nozione di buona fede, l’editore del codice li qualifica come articoli sulla
buona fede nell’ “Index delle parole chiave”, alla fine del codice.
Anche per quanto riguarda la buona fede soggettiva, l’ABGB non utilizzò il
tecnicismo buona fede, ma gli sostituì redlich,
che testimonia la concezione moralizzante degli autori del codice sul senso di bona fides nel diritto reale. Nell’
“Index delle parole chiave” del codice, anche lo stesso editore fa
corrispondere redlich e guter Glaube[7].
Come tutti sanno, non si pose il problema della comprensione del BGB per
gli uomini comuni; perciò, nel suo famoso articolo
La soluzione di questo problema nel Codice civile svizzero è uguale a
quella del BGB in qualche punto, ma ne differisce in qualche altro. Come
elemento comune, anche questo codice utilizzò le espressioni “Treu und Glaube” e “guter Glaube” per denominare rispettivamente la buona fede
oggettiva e la buona fede soggettiva. Il punto differente si trova nel fatto
che questo codice elevò la posizione della buona fede oggettiva da principio
relativo alla prestazione obbligatoria ad un principio basilare che governa
tutti i rapporti civili; da un articolo del secondo libro, sui rapporti di
obbligazione di questo codice ad un principio della parte generale (come
articolo 2 paragrafo 1 di essa).
Inoltre, anche questo codice promosse il ruolo della buona fede soggettiva,
da requisito per colui che riceve la prestazione, per l’acquirente e per il
possessore, secondo gli articoli 933 ss., a principio basilare per tutti i
soggetti del diritto civile, collocandolo come articolo 3, che è appunto dopo
l’articolo 2 sulla buona fede oggettiva. Così, il Codice Civile Svizzero ha
mostrato la coesistenza di due principi di buona fede in un codice. Il
legislatore svizzero pone in luce che l’introduzione della buona fede nel
diritto contrattuale, come principio basilare, implica l’eliminazione della
buona fede dal diritto reale: però comprese il principio della buona fede
troppo oggettivamente, così non credette che tale principio potesse essere
applicato ai rapporti reali; pertanto in quel codice si introdusse anche
l’applicazione della buona fede ai rapporti reali come principio basilare. In
tal modo si ottenne un risultato negativo: l’articolo 3 neutralizzò quasi del
tutto la portata dell’articolo 2 paragrafo 1, perché il principio della buona
fede espresso in tale paragrafo doveva essere purgato dalle impronte del
diritto di obbligazione e diventare un principio basilare che potesse essere
applicato a tutti rapporti civili – inclusi i rapporti reali. Le promozioni
parallele della buona fede oggettiva e della buona fede soggettiva nel Codice
Civile Svizzero non sono altro che una dimostrazione della difficoltà di
unificare due nozioni di buona fede. Infatti, nella vita reale del Codice
Civile Svizzero, la buona fede oggettiva è ancora quella del diritto
contrattuale; la buona fede soggettiva è ancora quella del diritto reale. Il
cosiddetto principio di buona fede unificato pare solamente un fantasma.
La cultura giuridica della Cina è stata influenzata profondamente dalla
cultura giuridica tedesca; così anche la legislazione cinese utilizza termini
diversi per esprimere le due definizioni di buona fede. Si utilizzano i termini
Chengxin e Shanyi (= buona volontà) per denominare rispettivamente la buona
fede oggettiva e la buona fede soggettiva. Sotto l’influenza del Codice Civile
Svizzero, i principi generali del diritto civile del nostro paese sono
improntati al principio della buona fede per tutti i rapporti civili (articolo
4). Ciò che diverge dal Codice Civile Svizzero è che
Per quanto riguarda la legislazione, prendiamo ad esempio
Per quanto riguarda la dottrina, da un lato, gli studiosi insistono sul
fatto che l’applicazione del principio della buona fede non può limitarsi al
diritto delle obbligazioni, ma debba riguardare tutto il diritto civile. Ad
esempio, il prof. Liang Huixing ha scritto che il principio della buona fede si
applica a tutte le manifestazioni del diritto ed a tutti gli adempimenti di
obbligazioni[11].
Anche il prof. Li Kaiguo ha scritto che la finalità legislativa del principio
della buona fede non è altro che quella di contrastare tutti i comportamenti
immorali e ingiusti e mantenere l’ordine e la sicurezza della vita nella
società civile[12]. Queste parole testimoniano la volontà degli
studiosi di rilievo del nostro paese di superare il limite tra la buona fede
oggettiva e buona fede soggettiva. Tale tendenza è molto avanzata e degna di
lode. Ma gli stessi studiosi, quando fanno le ricerche sul diritto reale, che è
un campo incentrato sulla buona fede soggettiva da un periodo lunghissimo,
insistono ancora in una differenziazione dei due tipi di buona fede,
considerando soltanto la buona fede oggettiva come buona fede, indicando la
buona fede soggettiva con la locuzione di «buona volontà»[13].
Il
contrasto tra la buona fede oggettiva e quella soggettiva deriva dal diritto
romano, ove trova l’unificazione. Dunque, una ricerca sulla storia del
contrasto ed unificazione dei due tipi di buona fede, nel diritto romano, è
molto significativa per comprendere lo stesso problema nel diritto civile
moderno.
La buona fede oggettiva nel diritto romano deriva dall’actio bona fidei. Quintus
Mucius Scaevola per primo insegnò che tale categoria di actio incluse sei tipi di azioni
concrete: actio tutelae, actio pro socio;
actio fiduciae; actio mandati; actio ex empto; actio venditi, actio conducti e actio locati[14]. Dopo Quintus
Mucius Scaevola, l’ambito dell’actio
bona fidei si ampliò sempre più. Dunque, nel periodo classico, a questa
categoria, si aggiunsero due tipi di azioni:
actio negotiorum gestorum e actio rei
uxoriae. Nell’età di Severus, ad
essa si aggiunse anche il iudicium
communi dividundo e l’actio familiae
ercisundae[15]. Gaius,
nel II secolo d.C., aggiunse tre tipi di azioni, cioè iudicium contrarium depositi, actio
commodati e actio pigneraticia[16]. Eliminando l’actio fiduciae dalla categoria, le Iustiniani Institutiones del VI secolo d.C., aggiunsero tre tipi di
azioni: actio permutatione, actio aestimatoria ed actio hereditatis petitio. Così, nel
diritto giustinianeo, la tipologia dell’actio
bona fidei si ampliò fino a comprendere 16 generi[17]. Si può epitomarli in 4 classi: contratto
reale, contratto consensuale, certi quasi-contratto e certi rapporti di diritto
reale. Si può considerarli come rapporti di buona fede, dai quali nasce il
principio moderno di buona fede.
Giacché
tutti questi rapporti furono considerati rapporti di buona fede, essi dovettero
presentare il requisito della buona fede oggettiva. Osservando i trattamenti
giudiziari di questi rapporti da parte dei Romani, potremmo riconoscere il
criterio della buona fede oggettiva nella loro regolamentazione. Sotto questo
aspetto, le pratiche giudiziarie dei Romani sul contratto di compravendita ci
danno prove preziose su tale criterio. La compravendita è il “re” di tutti i
contratti onerosi. È contratto tipico e per questo, le regole sul contratto di
compravendita possono essere applicate in un altro contratto oneroso quando
quest’ultimo lasci una lacuna su qualche punto. Poiché il contratto di
compravendita gode di tale posizione, anche il requisito della buona fede
sarebbe tipico. È una fortuna che i Romani ci abbiano lasciato tre casi di
questa categoria. Vediamo di esaminarli.
Prendiamo le mosse
dal caso no.
Caso no. 2. Il caso
è forse una finzione scenica. Un mercante trasportò in una nave carica di
granaglie da Alessandria a Rodi, che versava in condizioni di grave carestia.
Egli sapeva che molti altri mercanti trasportavano granaglie con le loro navi
verso Rodi, addirittura nel corso della sua navigazione, egli stesso vide
diverse navi cariche di granaglie che navigavano velocemente in direzione di
Rodi. Da qui emerge una domanda: egli doveva dire quello che sapeva ai
cittadini di Rodi, o tacere, alfine di vendere le sue granaglie al prezzo più
alto possibile?[19] La risposta a tale
questione, data da Cicerone, fu che il mercante di granaglie avrebbe dovuto
rivelare la verità. Solo nel caso in cui avesse fatto così, egli si sarebbe
comportato secondo buona fede[20]. La narrazione di
Cicerone insegna che in base alla buona fede oggettiva, i mercanti avrebbero
dovuto riferire alle controparti negli affari le informazioni lucrative,
nonostante tale rivelazione fosse sfavorevole a se stesso. Senza l’altro, tale
criterio di comportamento è più alto di quello di honos aeconomicos.
Caso no. 3. I due
casi seguenti ci spiegano quale è il comportamento che viola in maniera
negativa la buona fede oggettiva; invece, questo caso ci spiega che cosa è un
comportamento positivo di buona fede. La storia è così: il giurista Quintus Mucius Scaevola volle comprare
un pezzo di terra chiedendo a un venditore di fargli un’offerta di prezzo. Il
venditore fece come era stato richiesto; però Scaevola disse che la sua valutazione della terra era più alta di
quella del venditore, perciò egli pagò un extra di 100.000 sesterzi più del
prezzo richiesto[21]. Questo caso ci
dimostra che la buona fede oggettiva impone a colui che riceve un vantaggio, un
dovere di pagarlo sufficientemente, non gli consente di arricchirsi mediante
negligenza o inesperienza della sua controparte.
Nell’ambito dei tre
casi sopraccitati, si può dire che il criterio della buona fede oggettiva dei
Romani è piuttosto alto, rispetto al criterio corrispondente nel diritto civile
moderno, che solamente impone ai soggetti un dovere negativo di non ledere gli
altri. Invece, i Romani adottarono il criterio del buon padre di famiglia, che
significa che la legge impone a tutti i soggetti un dovere di comportarsi
positivamente, nella maniera di colui che ama il prossimo. Credo che se le
parti dei casi no. 2 e no. 3 fossero giudicate in un tribunale del nostro
tempo, ad esse non verrebbe imputato di aver violato la buona fede oggettiva.
La causa del contrasto tra antichità e modernità si trova nel fatto che i
tribunali moderni si staccano di più dalla religiosità e dalla filosofia
stoica.
Nel diritto romano,
la buona fede soggettiva fu un requisito che si sviluppò nel quadro
dell’istituto dell’usucapione.
usus auctoritas
fundi biennium est, ... ceterarum rerum omnium ... annuus est usus.
Questo è la più antica regola
sull’usucapione nella storia del diritto romano. Allora, fu certamente immatura
la pratica di questo istituto, perché i cinque requisiti ben conosciuti ai
moderni per completare l’usucapione, res
habilis, titulus o causa, bona fides (soggettiva), possesso delle cose, decorso di un certo
periodo di tempo, furono tutti costruiti dai giuristi del medioevo[22]; cioè, l’istituto dell’usucapione romano
che noi oggi studiamo così sistemato, è soltanto un prodotto di derivazione
dalla pratica romana ad opera dei giuristi di generazioni più tarde. Infatti, i
tempi in cui si formò ciascuno di questi cinque requisiti furono diversi. Non
esiste il requisito della buona fede soggettiva nell’età delle Leggi delle XII
Tavole[23]. Il prof. M. Talamanca nota che
all’istituto dell’usucapione nella sua forma originaria mancò il requisito
della buona fede soggettiva, perché dal punto di vista soggettivo,
nell’usucapione pro herede (cioè si
possiede un eredità senza erede e la si usucapisce), usureceptio fiduciariae, tutti i possessori erano in male fede, in
quanto essi sapevano che le cose da loro possedute appartenevano giuridicamente
ad altre persone, ma tale male fede non costituì un ostacolo a compiere
l’usucapione[24]. Per di più, la creazione dell’istituto
dell’usucapione, ab initio, nacque
per risolvere il problema di non potere ottenere una proprietà di ius civile[25] da parte del ricevente di res mancipi, che doveva essere
trasferita tramite mancipatio o in iure cessio, e che invece era stata
trasferita tramite traditio. Un
possessore di tale res, sicuramente
era in mala fede, perché il suo stesso possesso era un comportamento in frode
al diritto. Nel 193 d.C., l’imperatore Pertinax inviò un’orazione alle
province di Arabia e Syria in cui permetteva ai coltivatori delle terre
abbandonate, di ottenere la proprietà dopo due anni, solo se i proprietari
originari non le avessero mai rivendicate[26]. Ovviamente, tali coltivatori erano in male
fede soggettiva, ma potevano guadagnare la proprietà della terra tramite un
possesso di due anni. L’Imperatore Constantinus
I, in età più tarda (285-337 d.C.),
ordinò che una volta che un proprietario avesse abbandonato il possesso dei
suoi beni, sia mobili che immobili, da quaranta anni, la legge non proteggesse
più la sua proprietà; nonostante il possessore di questi beni avesse ottenuto
il possesso dei beni in male fede, con furto o violenza, egli poteva rifiutare
la rivendica da parte del proprietario originario[27]. Ciò è la c.d. longissimi temporis praescriptio. In questo istituto, il
legislatore, per lasciare che le ricchezze sociali potessero essere utilizzate
sufficientemente, non soltanto non richiese la buona fede soggettiva dei
possessori, ma non richiese neanche la buona fede oggettiva. Pertanto il furto
e la violenza non impedirono il compimento dell’usucapione.
Nella Lex
Icilia de Aventino publicando del
furtivam (rem)
...usucapi prohibet ...
Credo che questa sia una regola indiretta sulla
buona fede. Non si trattava di una richiesta ai possessori di essere nella
situazione psicologica di convinzione di non avere leso i diritti altrui, ma di
una richiesta di osservare l’obbligo di non possedere furtivamente i beni
altrui. Bisogna precisare che nell’età arcaica, i Romani non distinsero il
furto dalla rapina. Essi collocarono anche il comportamento di rapinare
pubblicamente i beni altrui nella categoria del furto. Perciò, questo versetto
fu un riconoscimento della buona fede che fu fissata nella Lex Icilia de Aventino publicando[29]. Il soggetto, il cui comportamento è
regolato, dovrebbe essere il ladro stesso (cioè il primo possessore delle
cose), ma non il possessore successivo (il secondo possessore). La sua finalità
era di evitare che i ladri usucapissero le cose rubate e di impedire che
l’istituto dell’usucapione diventasse un incoraggiamento a comportamenti in
violazione della buona fede oggettiva[30]. Dunque, vale la pena di esplorare di nuovo
i luoghi originari del versetto 3 della tavola sesta e del versetto 17 della
tavola ottava. Gli studiosi palingenetici precedenti li hanno posti in due
tavole diverse, ma dal punto di vista logico, preferisco ritenere che il
versetto 17 della tavola ottava e il versetto 3 della tavola sesta, originariamente,
fossero in una stessa tavola.
Certo, dal punto di vista della pura teorica possibilità, c’è spazio per
spiegare il versetto 17 della tavola ottava come un’impostazione, secondo la
quale, i compratori che acquistavano i beni rubati dai ladri non riuscivano ad
usucapirli. Ma dobbiamo tenere presente che
Qui bisogna domandarsi: Perché i legislatori romani dell’età delle Leggi
delle XII Tavole non richiesero la buona fede soggettiva del possessore? La mia
risposta è questa: nel periodo transitorio, dal regime di proprietà collettiva
della terra al regime di proprietà privata della terra, l’appartenenza della
terra non fu stabile. La “torta gratuita” dell’ager publicus fu causa, pertanto, di tanti eventi violenti tra i
cittadini romani, dato che le Leggi delle XII Tavole non configurarono la buona
fede soggettiva, essendo l’attenzione dei legislatori rivolta ad obbligare i
primi possessori ad osservare la buona fede oggettiva.
Il processo di transizione dall’ager
publicus all’ager privatus fu
completato nel periodo basso della Repubblica (circa nel I secolo a.C.)[32]. La narrazione storica ci dice che questo
processo fu pieno di violenza e di sangue. Nel Sul possesso di Savigny, leggiamo non poche notizie sui
comportamenti violenti tra i contadini romani, causati dalle dispute per i
problemi di fines, di acquedotti etc[33]. Le guerre, come le Guerre Puniche e
Nel periodo più tardo della Repubblica, la
privatizzazione dell’ager publicus si
completò. Ora tutte le terre avevano un padrone, così l’appartenenza della
terra diventò chiara. Proprio in questo momento la legge cominciò a distinguere
il possesso lecito da quello illecito[36]; la differenza tra questi due dipese dal
fatto che nel primo, i possessori osservarono la buona fede oggettiva, nel
secondo no. L’età commerciale nella storia romana coincise con questo periodo.
Questo fu un tempo in cui la società romana diventò stabile, si concludevano
negozi di frequente. Così il centro di gravità del diritto romano si spostò dal
diritto reale al diritto contrattuale: la base dell’ordinamento giuridico
romano cambiò dall’esigenza di soddisfare la richiesta di una società agricola
alla richiesta di una società commerciale.
Nello stesso tempo, gradualmente, la volontà
sostituì il formalismo nella tipicità dei negozi giuridici. Pertanto, il
diritto dell’usucapione raggiunse un traguardo più civile, cioè il traguardo
della buona fede soggettiva. Certo, i primi possessori che ottennero le cose
altrui, tramite furto o violenza, violarono anche la buona fede soggettiva, ma
solo dopo che la chiarezza dell’appartenenza della terra fece venire meno
l’impeto di violenza, la buona fede soggettiva poté diventare un problema
autonomo. Insomma, la buona fede soggettiva, necessariamente è un prodotto di
età stabile e di un popolo più civile.
Tuttavia, proprio in questo momento,
Senza dubbio, in un’età relativamente civile
e pacifica, sarebbe naturale che i ladri non potessero usucapire le cose
rubate. Il problema nuovo è questo: le persone che ottengono tali cose dai
ladri tramite un accordo normale possono usucapirle? Certo, la tolleranza verso
i compratori di male fede delle cose rubate sarebbe un incoraggiamento
indiretto ai furti. La verità universale della politica criminale è questa: per
controllare i crimini originari bisogna sopprimere i crimini derivati. Dunque,
per controllare i furti, il diritto criminale cinese presuppone che colui che
compra una cosa al prezzo straordinariamente basso, è consapevole di essere
compratore della cosa rubata, per cui incorre nella responsabilità criminale.
Credo che i Romani affrontarono il problema che noi affrontiamo oggi e lo
trattarono nella stessa nostra maniera. A mio modesto avviso, la finalità delle
tre leggi sopraddette non è altro che controllare ulteriormente i furti e le
rapine. Così la buona fede, che fu originariamente un requisito per il
comportamento esteriore del primo possessore, si trasformò in buona fede come
requisito per la situazione psicologica interiore del secondo possessore.
Infine, nell’età giustinianea, mediante una transizione da me sconosciuta, tale
secondo possessore in buona fede delle cose illegali non poteva usucapirle,
perché la legge sull’usucapibilità delle cose rubate o rapinate cambiò di nuovo
il suo punto focale, dai comportamenti delle parti agli oggetti di tali
comportamenti. Si formulò un requisito nuovo per compiere l’usucapione: res habilis, secondo il quale nessuno
poteva usucapire le cose rubate o rapinate (Inst.
2.6.3); esse diventarono cose viziate che non potevano essere oggetto di
usucapione, salvo che venissero purgate tramite la loro restituzione nelle mani
del proprietario originario (Inst.
2.6.8).
Piuttosto, un possessore di buona fede non era certo di poter usucapire le
cose illegali, perché per compiere l’usucapione, oltre al requisito della buona
fede soggettiva, ancora, doveva soddisfare il requisito della giusta causa.
Tale requisito appare soltanto nel periodo classico ed è più recente rispetto a
quello della buona fede soggettiva. Infatti lo si utilizzò per limitare
quest’ultima[40]. Essa non fu altro che una serie di
circostanze legali per cui si poteva usucapire. Ci furono sette tipi di tali
circostanze come segue: pro emptore, pro donato, pro herede gestio, pro
derelicto, pro legato, pro dote, pro suo. La formulazione di tale requisito addizionale fu un
compromesso di due sfide che il legislatore dovette affrontare: innanzitutto,
agevolare le transazioni ed eliminare il formalismo. La funzione iniziale
dell’istituto dell’usucapione fu di rimediare ai difetti formali dei negozi
giuridici. Nella maggiore parte di tali sette circostanze, il legislatore
lasciò sempre che i difetti formali dei negozi giuridici venissero sanati dal
percorso del tempo. Così la rigidità delle norme legali sulle forme di accordo
fu mitigata. In secondo luogo, si doveva mantenere il vigore della legge. I
Romani compresero che l’istituto dell’usucapione era un’arma a doppio taglio:
da un lato, essa facilitava gli accordi; dall’altro, essa tollerava
utilitaristicamente i comportamenti illeciti. Allora, si dovettero limitare le
circostanze dell’applicazione dell’istituto dell’usucapione, al fine di
diminuire i suoi effetti distruttivi della legge. Grazie a tale considerazione,
le cause giuste e la buona fede sono entrambi i requisiti indispensabili per
compiere l’usucapione, cioè un possessore di buona fede non poteva usucapire
senza soddisfare una delle cause giuste.
L’impostazione della causa come uno dei requisiti dell’usucapione
testimonia ulteriormente che il diritto romano, già allora, comprese la buona
fede nell’usucapione come buona fede soggettiva del secondo possessore. Anche
tale impostazione causò questo problema: se un possessore si sbagliava sulla
causa, cioè, considerava una causa ingiusta come giusta, egli poteva usucapire
o no? Da qui emerse il problema del titolo putativo. Ad esempio, uno che
credeva di avere comprato qualcosa ed infatti non l’aveva comprata poteva
usucapirla pro emptore? Questo
problema fu discusso tra i giuristi romani. Ulpianus
e Paulus insistettero nella teoria
negativa; invece, Neratius, Africanus e Iulianus proposero una teoria contraria[41]. A Iulianus
parve che solo l’errore nella cognizione della causa del compratore avesse una
giusta causa; egli poteva usucapire la cosa comprata (D. 41.4.11). Nelle sue Institutiones,
Giustiniano adottò la teoria negativa (Inst.
2.6.11), con la finalità di mantenere una coesistenza di due requisiti (buona
fede e giusta causa) per compiere l’usucapione. Perché, a seguito del
riconoscimento del titolo putativo, si potesse cancellare il requisito della
giusta causa, bastava usare il requisito della buona fede soggettiva. Si fa
così nel diritto civile moderno. Così, l’applicazione dell’istituto
dell’usucapione si estese e perse la sua funzione originaria di rimediare ai
difetti formali dei negozi giuridici. Ciononostante, la disputa tra i giuristi
romani, relativa all’errore sulla causa dei negozi giuridici, introdusse la
teoria dell’errore nella buona fede soggettiva.
Per il suo speciale processo di formazione,
la buona fede soggettiva dimostra un’artificiosità. Se la buona fede oggettiva
ebbe un tecnicismo giuridico, derivato dall’uso comune della lingua latina, la
buona fede soggettiva fu una concezione giuridica elaborata dai giuristi
romani, perché nella letteratura latina non esiste una locuzione non giuridica
in tal senso[42]. Credo che essa fu creata dai giuristi nel
loro studio per perfezionare l’istituto dell’usucapione. Così, mediante
l’elaborazione dei giuristi, il senso originario della buona fede cambiava
costantemente dall’esterno all’interno, ossia dalla richiesta di «non ledere
altri» per il primo possessore a «una consapevolezza di astenersi dal recare
danno ai possessori legittimi»[43]. Infine essa fu utilizzata per denominare
la situazione psicologica del possessore che ignorava la propria situazione
reale o era in errore. Nel cambiamento del significato, il suo valore morale
diminuì gradualmente. Infatti, tale tolleranza dei comportamenti di usurpazione
di beni altrui era estremamente utilitaristica:
1. lasciare che i beni sociali fossero
goduti sufficientemente da qualsiasi persona che ne avesse necessità. Per
l’ideologia romana, ogni bene aveva contemporaneamente due padroni: il
proprietario e la comunità. Se il primo non esercitava il proprio diritto attivamente,
subentrava, al suo posto, il secondo. Per disciplinare ulteriormente la
tolleranza all’uso dei beni sociali, il diritto giustinianeo richiese ai
possessori di avere la buona fede soggettiva soltanto all’inizio dei loro
possessi, quindi mala fede superveniens
non nocet.
2. Tale norma prendeva in considerazione
anche la sicurezza dei traffici. Se colui che riceveva delle cose, ne otteneva
il possesso in buona fede, l’usucapione di esse doveva finire in seguito alla
scoperta del suo errore ed egli doveva restituire le cose al proprietario
originario, nonostante potesse chiedere un risarcimento al dans per i danni subiti? La sua posizione sarebbe stata troppo
sfavorevole e sarebbe venuta meno la sicurezza dei traffici[44].
Quanto detto è il mio pensiero sul processo della buona fede soggettiva
differenziata dalla buona fede oggettiva.
Fin qui possiamo dire che nonostante la buona fede oggettiva e la buona
fede soggettiva, attualmente, abbiano significati abbastanza diversi, hanno tra
loro una radice comune. La distinzione dei due tipi di buona fede è soltanto il
risultato dello sviluppo del diritto dell’usucapione romano nel periodo
classico. Questo evento accadde così presto, che la base comune dei due tipi di
buona fede è stata dimenticata.
Nella lunghissima storia della giurisprudenza del diritto romano, i
giuristi di solito studiarono la buona fede oggettiva e quella soggettiva
separatamente, credendo che questi due fossero fenomeni indipendenti l’uno
dall’altro; quasi nessuno tentò di trovare l’identità di entrambi. Solamente
nel periodo del Rinascimento, il Ruffini fu la prima persona che sentì la
necessità di impostare un concetto unificato dei due tipi di buona fede e tentò
di farlo. Nella sua monografia “Buona Fede” egli lavorò sotto questo
aspetto. A suo avviso, poteva coprire tutti i fenomeni della buona fede la
definizione ciceroniana di fides,
secondo la quale, la buona fede è: dictorum
conventorumque constantia et veritas[45].
Quindi, se uno non onora quello che ha promesso si comporta in male fede[46]. Questa spiegazione si adatta in modo
conveniente alla buona fede del diritto contrattuale, ma non si adatta alla
buona fede nei rapporti di possesso. Se si volesse adattarla a quest’ultima
buona fede, bisognerebbe riconoscere l’esistenza di un contratto sociale tra
tutti i membri di una comunità, secondo il quale, questi membri hanno promesso
l’uno all’altro di non usurpare i beni altrui. Comunque, se uno usurpa i beni
altrui, ignorando che cosa abbia fatto, può sembrare che egli ancora abbia
osservato il contratto sociale. Solo ragionando così, si può capire il
significato della trasformazione delle nozioni della buona fede,
dall’osservanza della parola, all’ignoranza o all’errore sulla natura delle
cose.
Tale linea di
pensiero non è una fantasia senza fondamento; invece è un’asserzione basata
sulla storia del pensiero giuridico romano. In relazione al problema
dell’origine dello stato, i romani, sotto l’influenza dell’Epicureismo,
adottarono una visione contrattualistica. Titus Lucretius Carus (99-
nec commune bonum
poterant spectare neque ullis
moribus inter se scibant nec legibus uti[47].
Poi si cominciò a sapere come utilizzare il fuoco e si ebbero i vestiti, i
domicili e le famiglie. Così il livello della civiltà progredì. Di seguito:
Tunc et amicitiem coeperunt iungere
aventes
Finitimi inter se nec laedere nec
violari,
inde magistratum partim docuere
creare
iuraque constituere, ut vellent
legibus uti.
nam genus humanum, defessum vi
colere aevom,
ex inimicitiis
languebat; quo magis ipsum
sponte sua
cecidit sub leges artaque iura [48].
Questi versi dimostrano che i Romani
stipularono un contratto sociale ponendo fine allo stato naturale. Questa
spiegazione della storia dell’evoluzione dell’umanità fu il punto chiave dell’Epicureismo.
Ovviamente Lucretius recepì questa
teoria e la diffuse tramite la sua
poesia. Dunque, la teoria del contratto sociale dell’Epicureismo entrò nel
mondo del pensiero romano e produsse un’influenza profonda.
Secondo lo spirito del diritto romano, anche
Cicerone fu un contrattualista. Nel suo De
Legibus, disse attraverso le parole di Scipione che «la natura di essere
umano non desidera isolamento e solitudine». Tale natura spinse l’essere umano
ad unirsi in una civitas, o in una società civile, tramite contratto
sociale[49]. Prima di ciò, gli
esseri umani vissero allo stato naturale, in cui erano isolati l’uno
dall’altro. Dopo la fondazione della civitas,
gli esseri umani abbandonarono la situazione di isolamento ed entrarono in una
situazione di collaborazione. Per di più, egli disse nel suo De Officiis: «per quanto riguarda la città, se il popolo non si
fosse unito in una comunità, non sarebbe stata possibile una costruzione o un
denso centro abitato. Per mantenere questa vita comunitaria, si crearono la
legge, si formarono i costumi, poi si distribuirono i diritti e si formarono
certe regole di vita»[50]. Anche questo passo
mostra che la società umana si formò mediante il contratto sociale. Quindi non è strano che il prof. Luigi
Labruna sostenga giustamente che Cicerone è un contrattualista[51].
Tale pensiero fu
assorbito dal diritto romano. Nelle Institutiones
di Giustiniano, gli autori scrivevano:
Palam est autem
vetustius esse naturale ius, quod cum ipso genere humano rerum natura prodidit:
civilia enim iura tunc coeperunt esset, cum et civitates condi et magistratus
creari et leges scribi coeperunt”[52].
Questa frase ci rivela chiaramente un contrasto
tra due situazioni: una è lo stato naturale senza la città, i magistrati e la
legge scritta; l’altra è la situazione sociale, presenti tutte queste tre
istituzioni. Nonostante gli autori non parlarono esplicitamente di transizione
tra le due situazioni, considerato il contesto del pensiero romano, ho ragione
di credere che il contratto sociale giocasse questo ruolo.
Risolta la questione
dell’esistenza teorica del contratto sociale, il problema successivo è che cosa
sia scritto in tale contratto. Dato che nella storia del pensiero occidentale,
la teoria del contratto sociale è la dottrina più influente sulla spiegazione
della genesi del fenomeno di società-potere, le teorie dei pensatori dell’età
più avanzata, sotto quest’aspetto, potrebbero aiutarci a capire meglio l’idea
dei pensatori antichi, che ci lasciarono poca letteratura. Infatti, la teoria
di contratto sociale di Johann Gottlieb Fichte può giocare una parte positiva
in questo punto. Egli distinse il contratto sociale dei pensatori antichi in tre
contratti: il primo fu il contratto sui beni cittadini concluso da un cittadino
con tutti gli altri cittadini e con i quali, tutti i membri sociali riconobbero
reciprocamente le loro richieste di avere un diritto al possesso di beni;
ognuno dà tutte le sue proprietà come garanzia di non danneggiare i beni di
tutte le altre persone[53].
Il secondo fu il contratto protettivo, che fu una garanzia per realizzare il
primo contratto, con il quale tutti i membri sociali garantirono reciprocamente
protezione ai loro legittimi beni; per questo motivo si sentì la necessità di
organizzare una forza protettiva pubblica. Il terzo fu il contratto associativo
che unì tutti gli individui come una parte di un’unità organica, affinché
garantisse l’adempimento del contratto dei beni cittadini ed il contratto
protettivo[54]. A mio modesto
avviso, tra questi tre contratti, il secondo contratto, cioè il contratto
protettivo, era la base unificata della buona fede oggettiva e della buona fede
soggettiva, ed entrambe osservavano questo contratto.
Il Ruffini ha
ragione! Due tipi di buona fede possono ancora unificarsi nel diritto romano
sulla base della definizione ciceroniana della “fides”. Concludendo un
contratto sociale gli uomini si associarono in una società per proteggere i
propri beni. Per realizzare lo scopo associativo, ogni persona ebbe bisogno di
obbligarsi a riconoscere il diritto di proprietà altrui. Nel campo del diritto
reale, colui che possiedeva i beni altrui, sapendo che il proprietario
legittimo aveva violato gravemente la buona fede, si era comportato in mala fides; in altre parole, questa
persona era venuta meno alla propria promessa verso gli altri membri sociali
del contratto sociale. Invece, se uno avesse ottenuto tale possesso per
ignoranza o per errore, il suo comportamento avrebbe potuto essere considerato
ancora di buona fede o di buona fiducia, perché non aveva intenzione di mancare
alla sua promessa del contratto sociale. Nell’aspetto del diritto contrattuale,
l’adempiere onestamente ad un obbligo contrattuale non è altro che rispettare i
diritti di altri membri della società. Insomma, tanto la buona fede soggettiva
quanto la buona fede oggettiva, tutte e due sono un’osservanza del contratto
sociale. Prescindendo da tale interpretazione, non riesco a concepire che altre
persone possano unificare i due tipi di buona fede in altra maniera.
In
questa relazione, mi sono sforzato di rivelare il contrasto e l’unificazione
della buona fede oggettiva e della buona fede soggettiva nel diritto romano e
di spiegare il difficile problema della base unica dei due tipi di buona fede
con la teoria di contratto sociale. È ben chiaro che nella storia del diritto
romano il prototipo di buona fede fu oggettivo. Fino al periodo classico, tale
buona fede si divise negli aspetti di oggettività e soggettività, che
funzionarono rispettivamente nell’ambito del diritto contrattuale e del diritto
reale.
Utilizzando il diritto romano, questa
relazione tenta di testimoniare la necessità di unificare i due tipi di buona
fede nei diritti civili moderni. Ciò è un tema non realizzato dalla maggiore
parte dei giuristi della Cina. Ora è tempo di proporlo e di risolverlo.
Dal punto di vista della storia legislativa,
il contrasto tra la buona fede oggettiva e la buona fede soggettiva esisteva
costantemente, come due parallele; esse accompagnano l’una e l’altra per
sempre, ma mai s’incrociano. La scelta del BGB di denominare queste due con
linguaggi diversi dimostra chiaramente tale situazione. Il rilievo della
posizione della buona fede oggettiva nel diritto civile moderno causò un
incrocio dei due tipi di buona fede e ulteriormente causò il problema della
necessità dell’esistenza della buona fede soggettiva. Dal punto di vista
logico, giacché la buona fede nel diritto di obbligazione è stata elevata a
principio basilare del diritto civile, la buona fede soggettiva dovrebbe
perdere la sua stessa ragione di esistere. Nei paesi in cui si parlano lingue
di origine latina, poiché tanto la buona fede oggettiva che la buona fede
soggettiva hanno la stessa forma, si può superare tale dilemma tramite
un’interpretazione di assimilazione. Ma, nei paesi di lingua tedesca, in cui i
due tipi di buona fede hanno le forme simboliche diverse, non si può fare così;
si deve fare una scelta tra i due tipi di buona fede. È sorprendente che il
Codice Civile Svizzero abbia adottato una soluzione interessante nell’elevare i
due tipi di buona fede come principi basilari: il suo articolo 2 (comportamenti
di buona fede) paragrafo 1 statuì la buona fede oggettiva; il suo articolo 3 (guter Glaube) impostò la buona fede
soggettiva; il suo articolo 4 (giudizio) riconobbe la discrezione dei giudici.
Il contrasto dei due tipi di buona fede in questi articoli manifestò la
difficoltà del legislatore ad unificare i due concetti. Ciononostante, il
codice Civile Svizzero è il codice che ha considerato più profondamente il
problema del rapporto dei due tipi di buona fede.
Influenzata dalla cultura giuridica tedesca,
attualmente,
[1] Testo della
relazione «Unica nozione: il fondamento comune della buona fede oggettiva e
della buona fede soggettiva nel diritto romano», letta nel corso dei lavori
del “Colloquio dei romanisti dell’Europa Centro-Orientale e dell’Asia: La
persona nel sistema del diritto romano. La difesa dei debitori. Lo studio e
l’insegnamento del diritto romano”, tenutosi a Novi Sad (24-26 ottobre
2002) per iniziativa dei professori Antun
Malenica (Facoltà di
Giurisprudenza dell’Università di Novi Sad) e Pierangelo
Catalano (Centro per gli studi su
Diritto romano e Sistemi giuridici del CNR, Università di Roma “
[2]Cfr. Cicerone, De Officiis, 1.23, a cura di Wang
Huansheng, Casa Editrice dell’Università della Cina di Scienze Politiche e
Giurisprudenza, 1999 Beijing, pp. 22 s.
[3] Vedi M. De
[5]A causa della
limitatezza dello spazio, vorrei solamente prendere come esempio il Codice
Civile Italiano per testimoniare questo punto. Nel senso della buona fede soggettiva,
negli articoli 23, 25, 1445, 1479, 1776, 2377, 2391 etc. del codice si usa la
parola buona fede. Nel senso della buona fede oggettiva l’articolo 1375 di questo codice usa la stessa parola
nella maniera tipica: «il contratto deve essere eseguito secondo buona fede».
Cfr. Adolfo di Majo (a cura di), Codice
Civile con
[6] Nell’ordinanza
imperiale di promulgazione del codice (1 giugno 1811), l’articolo 1 dichiarava
che il diritto civile «deve essere composto nella lingua comprensibile per i
cittadini…».
[7] Walter List, Zivilrecht, 6. Auflage, Manz·Wien 1997,
pp. 488 ss.
[10] I traduttori di
questa legge hanno tradotto la parola «Chengxin» nell’articolo 6 come «Good
faith»; «Shanyi» nell’articolo 47 paragrafo 2 con Bona fides. «Good faith» è una parola inglese, Bona fides è una parola latina, ambedue hanno un senso affatto
uguale. Cfr.
[11] Cfr. Liang Huixing, Il principio della buona fede e ripianamento delle lacune, in Rivista di Diritto Civile e Commerciale,
Vol. II,
[12] Cfr. Jiang Ping, a cura di,
[13] In Liang Huixing (sotto la direzione di), Lo studio del diritto reale della Cina,
tomo II, Casa Editrice delle Leggi, 1998, Beijing, p. 473 c’è l’espressione
«acquisizione di buona volontà» che testimonia come il prof. Liang Huixing
ancora insista nella scissione dei due tipi di buona fede. Lo stesso problema
esiste nel Progetto del diritto reale per
[15] Cfr. Bonfante, Istituzioni del Diritto Romano, A cura di Huangfeng, Casa Editrice
dell’Università della Cina di Scienze Politiche e Giurisprudenza, 1992, Beijing,
p. 89.
[16] Gaius, Istitutiones,
a cura di Huangfeng, Casa Editrice dell’Università della Cina di Scienze
Politiche e Giurisprudenza, 1996, p. 320.
[17] Cfr.
Giustiniano, Istitutiones, a cura di
Xu Guodong, Casa Editrice dell’Università della Cina di Scienze Politiche e
Giurisprudenza, 1999, p. 473.
[18]Cfr.Cicerone, De Officiis, cit.,
pp. 303 ss. Per quanto riguarda la definizione di dolo di Servius, cfr. Corpus Iuris
Civilis Fragmenta Selecta, Negozio Giuridico, a cura di Sandro Schipani,
Traduzione di Xu Guodong, Casa Editrice dell’Università della Cina di Scienze
Politiche e Giurisprudenza, 1998, p. 53.
[23] Cfr. Zhounan, Tratatto Originale del Diritto Romano, tomo II, Casa Editrice
Commerciale, 1994, Beijing, p. 323.
[26] Cfr. Thompson,
[28] Per quanto
concerne
[29] Bonfante ha sostenuto che solamente nel periodo classico, nel criterio di non
ledere altri nel possesso si cominciava a dividere l’aspetto soggettivo da
quello oggettivo. Cfr. Bonfante, op.
cit., pp. 218 s. Per quanto rigurda l’indifferenza tra rapina e furto
nell’antichità romana, cfr. Zhounan,
op.cit., tomo II, p. 786.
[30] Cfr. Volterra, Istituzione del diritto privato romano, Roma, 1960, pp. 402 s.;
anche Talamanca, op. cit.,
p. 422.
[32]
Cfr. Aldo Petrucci, op. cit.; vedi anche H.F.
Jolowicz and Barry Nicholas, Historical Introduction to the Study of Roman Law (Third Edition),
Cambridge University Press, Cambridge, 1972, p. 261.
[46] Vedi Josè Carlos Moreira Alves, A Boa-fè objetiva no sisitema contratual
brasileiro, in Sandro Schipani
(a cura di), Roma e America, Diritto romano comune, Vol. VII, Mucchi
Editore, Modena, 1999, p. 188.
[49]Cicerone, De Legibus, De Republica, a cura di Wang Huangsheng, Casa Editrice
dell’Università della Cina di Scienze Politiche e Giurisprudenza, 1997,
Beijing, p. 39.
[53] Cfr. Fichte, La base del Diritto Naturale secondo il principio di conoscenza, a
cura di Xie Dikun e Chen Zhimin, In Opera
Selecta di Fichte sotto la direzione di Liang Zhixue, tomo II, Casa
Editrice Commerciale, 1994, pp. 457 ss.
[54]Cfr. Fichte, op.
cit., pp. 454 ss.