N° 2 - Marzo 2003 – Tradizione
Romana
Università di Sassari
Interpretazioni giurisprudenziali in tema
di inviolabilità dei tribuni
della plebe
(a proposito di Tito Livio 3.55.6-12)
Sommario: 1. Oggetto
e limiti dell’esposizione. – 2. Sulle tracce del tribunato della plebe nella scienza giuridica
dell'età repubblicana. – 3. Tito Livio 3.55.6-12: iuris
interpretes e lex Valeria Horatia de
tribunicia potestate. – 4. Per una «Palingenesia iuris Romani publici» (oltre i
canoni palingenetici e la logica delle omissioni di Otto Lenel).
Per indagare su alcune interpretazioni degli antichi
giureconsulti romani in materia di inviolabilità dei tribuni della plebe, a
fronte della relativa inconsistenza dei frammenti “propriamente” giuridici,
acquistano particolare valore le cosiddette fonti "letterarie"[1].
Su un tema come quello della sacrosanctitas
tribunizia, assai controverso nella storiografia romanistica contemporanea[2]
e, tuttavia, cruciale per la comprensione della “divisione dei poteri” nel
sistema giuridico-religioso romano[3],
ci soccorrono soprattutto le opere di storiografi ed antiquari; da analizzare
con quello spirito e quel metodo che Santo Mazzarino ha insegnato alle scienze
romanistiche del nostro tempo. Credo che dell’insigne studioso italiano siano
da tutti conosciute quelle acutissime tesi sulla «caratteristica storica del
pensiero giuridico romano», che si leggono in alcune memorabili pagine del
secondo volume del Pensiero storico
classico[4];
ma, nella prospettiva assunta per questo intervento sono da rimeditare
soprattutto le pagine da lui scritte più di recente, «intorno ai rapporti fra
annalistica e diritto»[5].
Intendo riferirmi quale oggetto precipuo di questa comunicazione ad un passo di Tito Livio[6], peraltro assai conosciuto, tratto dal terzo dei suoi ab urbe condita libri (Liv. 3.55.6-12). In quel testo il grande annalista commentava – discutendone anche le implicazioni giuridiche – una “sententia” di alcuni non meglio identificati iuris interpretes; i quali, a proposito del contenuto della lex Valeria Horatia de tribunicia potestate[7], avevano negato sia il fondamento legislativo della sacrosanctitas tribunizia, sia il carattere inviolabile degli edili della plebe[8].
Per quanto riguarda l’inviolabilità degli edili della plebe, al
testo liviano va accostato il contenuto della glossa Sacrosanctum del De verborum
significatu di Sesto Pompeo Festo[9]:
vi si legge un cenno alla dottrina di Catone il Censore, favorevole invece alla
sacrosanctitas di questi magistrati
plebei. Si tratta, quindi, di una posizione oggettivamente antitetica alla “sententia” degli iuris interpretes citati da Tito Livio, che tuttavia può costituire
una utile integrazione del quadro di riferimento della nostra discussione.
Prima di entrare nel vivo della comunicazione, sarà utile
procedere ad un inquadramento più generale dell’intera problematica, attraverso
una breve ricognizione sulle fonti giuridiche, finalizzata a ricercare qualche
traccia della riflessione sul tribunato della plebe nel pensiero
giuspubblicistico romano dell'età repubblicana[10].
Nonostante siano quasi del tutto inesistenti frammenti di
giureconsulti riferibili, anche nella maniera più generica, alle funzioni e
alle prerogative dei tribuni della plebe[11];
nelle fonti permangono, tuttavia, visibili e ben definite, spesso legate alla
contingenza della storia politica, le tracce di un'elaborazione
giurisprudenziale intorno alla massima magistratura plebea.
Certamente, ad esempio, C. Sempronio Tuditano[12]
nei suoi Magistratuum libri si era
occupato della creazione della magistratura tribunizia ed aveva indagato sul
numero originario dei tribuni della plebe[13].
Stando a quanto ci viene riportato da Asconio, il giurista aveva sostenuto la
tesi che al momento dell’istituzione del tribunato fossero stati nominati solo
due i tribuni; ma che già in età assai risalente avessero raggiunto il numero
di cinque per successive cooptazioni.
Asconio, in Cicer.
Cornel., p. 68 K.: Ceterum quidam non duos tribunos plebis, ut Cicero
dicit, sed quinque tradunt creatos tum esse singulos ex singulis classibus.
Sunt tamen qui eundem illum duorum numerum, quem Cicero, ponant, inter quos
Tuditanus et Pomponius Atticus, Livius quoque noster. Idem hic et Tuditanus
adiciunt tres praeterea ab illis duobus sibi collegas creatos esse. Nomina
duorum qui primi creati sunt, haec traduntur: L. Licinius L. f. Bellutus, L.
Albinius C. f. Paterculus[14].
Alla luce di questo testo, che offre qualche elemento di
valutazione del pensiero politico e giuridico di Sempronio Tuditano, appaiono
convincenti le ipotesi prospettate tempo addietro da Mario Bretone, in merito
alle linee ricostruttive delle competenze e della prerogative dei tribuni della
plebe nell’opera del giurista: «Anche dei tribuni – scrive l'insigne studioso
dell’Università di Bari –, della natura e struttura del loro potere, è lecito
supporre che Tuditano proponesse una definizione; alcuni temi, come il ius intercedendi e la possibilità (o
l'impossibilità) dell'abrogatio,
allora al centro del dibattito politico, dovevano essere considerati nella sua
opera dall'angolo visuale dell'oligarchia senatoria»[15].
Né è pensabile che il tema fosse trascurato da Giunio Graccano[16].
Questo giurista trattava del contenuto e della gerarchia dei poteri nella Roma
repubblicana[17]
in una sua opera di almeno sette libri, intitolata De potestatibus; composta con l'intento neppure tanto celato di
fornire un supporto storico-giuridico alle teorie politiche dei populares[18].
Il piano dell'opera avrebbe perseguito l'esposizione monografica
delle singole magistrature in ordine decrescente: riguardando il settimo libro
la questura, si è perciò ipotizzato che i primi sei esaminassero
rispettivamente il consolato, la censura, la pretura, l'edilità curule,
l'edilità plebea, il tribunato della plebe[19].
La stessa titolazione sarebbe in stretto rapporto con la prospettiva assunta
dal giurista: «La prospettiva di Giunio Graccano – scrive al riguardo
Pierangelo Catalano – è diversa da quella di Sempronio Tuditano soprattutto
perché non guarda alla titolarità del potere studiato (magistratus) bensì alla sua natura, al suo contenuto (potestas). Ciò doveva avere varie
implicazioni. In primo luogo le potestates
magistratuali erano, così, studiate congiuntamente alla potestas populi, ed era quindi più facile porre in evidenza la
derivazione di quelle da questa, cioè il fondamento popolare dei poteri dei
magistrati»[20].
In questa linea si colloca, perfettamente, il frammento
sull’origine della questura, l’unico peraltro di cui si sia conservata
l’attribuzione precisa ad un libro (il VII) de
potestatibus:
D. 1.13.1 pr. (Ulpianus libro singulari de officio quaestoris): Origo quaestoribus creandis
antiquissima est et paene ante omnes magistratus. Gracchanus denique Iunius
libro septimo de potestatibus etiam ipsum Romulum et Numam Pompilium binos
quaestores habuisse, quos ipsi non sua voce, sed populi suffragio crearent,
refert. Sed sicuti dubium est, an Romulo et Numa regnantibus quaestor fuerit,
ita Tullo Hostilio rege quaestores fuisse certum est: et sane crebrior apud
veteres opinio est Tullum Hostilium primum in rem publicam induxisse quaestores[21].
Apprendiamo, dunque, da questo frammento dei Digesta Iustiniani, tratto dal liber
singularis de officio quaestoris del giurista Ulpiano[22],
che M. Giunio Graccano riteneva antichissima l’origine della questura e che ne
datava ai primordi dell’organizzazione politica di Roma l’elezione da parte del
popolo[23].
A suo dire, fin dai tempi di Romolo e Numa, i re avevano due questori, nominati
non direttamente dagli stessi re (sua
voce), ma mediante il suffragio popolare[24].
Sulla base di questo frammento, ormai da tempo, la dottrina sostiene la
tendenza filopopolare del suo autore[25];
il quale, riconducendo «ai primordi della città la funzione essenziale
dell'assemblea popolare»[26],
prendeva nettamente posizione sulla grave controversia costituzionale – sorta a
seguito della destituzione del tribuno Gaio Ottavio, fatta votare al concilio
della plebe da Tiberio Gracco[27]
– relativa ai contenuti della sovranità popolare e quindi al rapporto tra
magistrati e assemblee.
Sulla stessa linea di salvaguardia del potere popolare in
rapporto all’esercizio dei poteri magistratuali, si colloca anche il frammento
relativo alla controversa facoltà di convocare (e presiedere) il senato da
parte del praefectus urbi Latinarum causa
relictus.
Aulo Gellio., Noct.
Att. 14.8.1: Praefectum urbi
Latinarum causa relictum senatum habere posse Iunius negat, quoniam ne senator
quidem sit neque ius habeat sententiae dicendae, cum ex ea aetate praefectus
fiat, quae non sit senatoria[28].
Nel frammento – che mi pare possa ascriversi, ragionevolmente, al
liber I de potestatibus, soprattutto
in considerazione del fatto che la celebrazione delle feriae Latinae[29]
era prerogativa del potere consolare e solo in assenza dei due consoli veniva
nominato un dictator a tale scopo[30]
– M. Giunio Graccano discuteva della facoltà di convocare il Senato da parte
del praefectus urbi Latinarum causa
relictus[31].
Il giurista negava che un tale potere competesse al praefectus feriarum latinarum causa, adducendo a riprova della sua
contraria opinione la constatazione che «ne
senator quidem sit neque ius habeat sententiae dicendae, cum ex ea aetate
praefectus fiat, quae non sit senatoria»; ma la tesi di Graccano non fu
condivisa in seguito né da Varrone, né da Ateio Capitone[32].
Per quanto si possa convenire con la notazione di P. Willems, il quale
considerava questo disaccordo tra gli autori antichi prova inconfutabile del
fatto che la controversia «n’avait qu’un intérêt théorique»[33];
mi parrebbe tuttavia riduttivo non cogliere la motivazione profonda del
pensiero del giurista: Graccano, in sostanza, interpretava in senso popolare la
tradizione “costituzionale” romana, negando prerogative più ampie a quelle
magistrature che non fondavano il loro potere sulla potestas populi.
Ma all’interno del suo discorso, tutto volto alla definizione
delle diverse potestates, M. Giunio
Graccano mostrava anche di essere particolarmente attento alla legislazione
tribunizia: ne costituisce riprova un suo frammento, inserito nella glossa festina
Publica pondera, in cui viene
riportata una legge tribunizia su pesi e misure ufficiali.
Festo, De verb.
sign., v. Publica pondera, p.
Per quanto riguarda l'attribuzione del frammento a uno dei libri de potestatibus, forse quello
dedicato ai tribuni plebis, il testo
verriano presenta difficoltà al momento insuperabili. Tuttavia, non va
sottovalutata l’importanza della testimonianza indiretta che fornisce il testo
dell’altrimenti sconosciuto plebiscito Silio de ponderibus publicis[35].
La trascrizione letterale del plebiscito dall’opera del giurista, seppure forse
non sufficiente – come rileva Ferdinando Bona – a provare la diretta utilizzazione
del de potestatibus da parte di
Verrio Flacco[36],
attesta invece assai bene la serietà del metodo di lavoro di M. Giunio
Graccano, il quale evidentemente aveva la consuetudine di argomentare le tesi
sostenute con dati testuali di documenti legislativi; dunque, proprio tali
documenti dovevano costituire le fonti privilegiate delle sue ricerche
giuridiche e antiquarie.
Infine, un ritorno d'interesse per il tribunato da parte della
scienza giuridica risulta attestato sul finire della repubblica, anzi per dirla
con le parole di Capitone: divo Augusto
iam principe et rem publicam obtinente. Sia M. Antistio Labeone sia C.
Ateio Capitone mostrarono un certo interesse per il tema dei poteri e delle
prerogative dei tribuni della plebe.
Dalle Noctes Atticae di
Aulo Gellio conosciamo una controversa interpretatio
di M. Antistio Labeone[37],
relativa alla precisazione dei confini e delle modalità di esplicazione del
potere tribunizio.
Aulo Gellio., Noct.
Att. 13.12.1-4: In quadam epistula Atei Capitonis scriptum legimus Labeonem
Antistium legum atque morum populi Romani iurisque civilis doctum adprime
fuisse. “Sed agitabat”, inquit, “hominem libertas quaedam nimia atque vecors
usque eo, ut divo Augusto iam principe et rem publicam obtinente ratum tamen pensumque
nihil haberet, nisi quod iussum sanctumque esse in Romanis antiquitatibus
legisset”. Ac deinde narrat, quod idem Labeo per viatorem a tribunis plebi
vocatus responderit: “Cum a muliere”, inquit, “quadam tribuni plebis adversum
eum aditi <in> Gallianum ad eum missisent, ut veniret et mulieri responderet,
iussit eum, qui missus erat, redire et tribunis dicere ius eos non habere neque
se neque alium quemquam vocandi quoniam moribus maiorum tribuni plebis
prensionem haberent, vocationem non haberent; posse igitur eos venire et prendi
se iubere, sed vocandi absentem ius non habere”[38].
Come risulta dal testo, Aulo Gellio trascrive letteralmente
quanto aveva letto in quadam epistula
Capitonis, cioè una interpretatio
labeoniana in materia di potere tribunizio (ius
eos non habere neque se neque alium quemquam vocandi, quoniam moribus maiorum
tribuni plebis prensionem haberent, vocationem non haberent), saldamente
ancorata ai mores maiorum; ma proprio
per questo motivo, sostiene Mario Bretone, doveva presentarsi agli occhi dei
contemporanei anche velatamente polemica contro il nuovo potere del principe[39].
Mentre per Capitone[40]
il discorso si presenta molto più sfumato. Tuttavia, due dei suoi frammenti, il
primo riguardante un decreto tribunizio:
Aulo Gellio, Noct.
Att. 4.14.1-6: Cum librum IX Atei
Capitonis coniectaneorum legeremus, qui inscriptus est De iudiciis publicis,
decretum tribunorum visum est gravitatis antiquae plenum. Propterea id
meminimus, idque ob hanc causam et in hanc sententiam scriptum est: Aulus
Hostilius Mancinus aedilis curulis fuit. Is Maniliae meretrici diem ad populum
dixit, quod e tabulato eius noctu lapide ictus esset, vulnusque ex eo lapide
ostendebat. Manilia ad tribunos plebi provocavit. Apud eos dixit commessatorem
Mancinum ad aedes suas venisse; eum sibi recipere non fuisse e re sua, sed cum
vi inruperet, lapidibus depulsum. Tribuni decreverunt aedilem ex eo loco iure
deiectum, quo eum venire cum corollario non decuisset; propterea, ne cum populo
aedilis ageret, intercesserunt[41];
il secondo, le
definizioni che il giurista propone di plebe e plebiscito:
Aulo Gellio, Noct.
Att. 10.20.5-6: “Plebem” autem Capito in eadem definitione seorsum a populo
divisit, quoniam in populo omnis pars civitatis omnesque eius ordines
contineantur, “plebes” vero ea dicatur, in qua gentes civium patriciae non
insunt. [6] “Plebisscitum” igitur est secundum eum Capitonem lex, quam plebes,
non populus, accipit[42];
mi parrebbero dei
significativi esempi di questo ritorno d’interesse per il tribunato da parte
della giurisprudenza romana nell’età di transizione tra repubblica e
principato.
Veniamo, finalmente, all’esame del testo di Tito Livio; o meglio,
all’esame della “sententia”[43]
degli iuris interpretes intorno alla
legge Valeria Orazia ut qui tribunis
plebis aedilibus iudicibus decemviris nocuisset eius caput Iovi sacrum esset,
che non a torto un grande studioso quale Santo Mazzarino ha definito: «esempio
classico dell'interpretazione giuridica nell’ambito del diritto pubblico»[44].
Tito Livio 3.55.6-12: Et cum plebem hinc provocatione,
hinc tribunicio auxilio satis firmasset, ipsis quoque tribunis ut sacrosancti viderentur,
cuius rei propre iam memoria aboleverat, relatis quibusdam ex magno intervallo
caerimoniis renovarunt, [7] et cum religione inviolatos eos tum lege etiam
fecerunt, sanciendo ut qui tribunis plebis, aedilibus, iudicibus decemviris
nocuisset, eius caput Iovi sacrum esset, familia ad aedem Cereris, Liberi
Liberaeque venum iret. [8] Hac lege iuris interpretes negant quemquam
sacrosanctum esse, sed eum qui eorum cuiquam nocuerit sacrum sanciri; [9]
itaque aedilem prendi ducique a maioribus magistratibus, quod etsi non iure
fiat - noceri enim ei qui hac lege non liceat -, tamen argumentum esse non
haberi pro sacrosancto aedilem; [10] tribunos vetere iure iurando plebis, cum
primum eam potestatem creavit, sacrosanctos esse. [11] Fuere qui
interpretarentur eadem hac Horatia lege consulibus quoque et praetoribus, quia
eisdem auspiciis quibus consules crearentur, cautum esse; iudicem enim consulem
appellari. [12] Quae refellitur interpretatio, quod iis temporibus nondum
consulem iudicem, sed praetorem appellari mos fuerit[45].
Dal racconto liviano, emerge un vivido quadro della
“normalizzazione” postdecemvirale, di cui l’annalista presenta come artefici
principali i consoli L. Valerio Potito e M. Orazio Barbato. Questi, dopo la
cacciata dei decemviri legibus scribundis,
si peritarono di ripristinare le prerogative del popolo e della plebe[46],
presentando ai comizi centuriati tre leggi consolari (consulares leges): la
prima legge vincolava i patres alle
decisioni delle assemblee della plebe[47];
la seconda legge vietava la creazione di magistrati esenti da provocatio ad populum e, nello stesso
tempo, regolamentava l’esercizio della provocatio[48];
infine, la terza legge sanciva che ai tribuni della plebe, agli edili (plebei)
e non meglio definiti «giudici decemviri» fosse riconosciuta l’inviolabilità
(per mezzo di una legge popolare): et cum
religione inviolatos eos tum lege etiam fecerunt, sanciendo ut qui tribunis
plebis, aedilibus, iudicibus decemviris nocuisset, eius caput Iovi sacrum
esset, familia ad aedem Cereris, Liberi Liberaeque venum iret[49].
Proprio sul valore e sull’estensione della sacrosanctitas sancita da questa legge si aprì, poi, il contrasto
interpretativo, di cui Tito Livio dà conto[50].
Gli iuris interpretes da lui citati
negavano, infatti, l’estensione della sacrosanctitas
per mezzo della legge ad altri che non fossero i tribuni della plebe (Hac lege iuris interpretes negant quemquam
sacrosanctum esse, sed eum qui eorum cuiquam nocuerit sacrum sanciri); non
senza ragione, poiché constatavano quanto era sotto gli occhi di tutti a
proposito degli edili, i quali non godevano di alcuna inviolabilità rispetto ai
magistrati maggiori (aedilem prendi
ducique a maioribus magistratibus)[51].
Riguardo all’inviolabilità degli edili della plebe, al citato
passo di Tito Livio va accostato almeno un altro testo: la glossa Sacrosanctum del De verborum significatu di Sesto Pompeo Festo:
Festo, p.
Nella glossa festina si legge un preciso riferimento ad una interpretatio di ius publicum riconducibile alla dottrina di Catone il Censore; il
quale, nella sua orazione «aedilis plebis
sacrosanctos esse»[53],
aderiva ad un’altra prospettiva della dottrina giuspubblicistica romana, forse
di matrice plebea[54],
mostrandosi decisamente favorevole alla sacrosanctitas
degli edili della plebe[55].
Possiamo così conoscere, grazie alla testimonianza di Festo, gli elementi di
una polemica tra iuris intepretes sul
valore della lex Valeria Horatia de
tribunicia potestate; l’interpretatio
di Catone appare, infatti, del tutto inconciliabile con la “sententia” degli iuris interpretes citati da Tito Livio[56].
Per quanto non sia possibile precisare l’identità di questi iuris interpretes, sarà bene, tuttavia,
cercare di individuarne almeno l’orientamento interpretativo. Una cosa mi pare
di poter sostenere con sicurezza: gli autori di cui Tito Livio riferisce la sententia erano dei giureconsulti, nel
senso professionale della parola[57];
infatti, nel corpus liviano
espressioni quali iuris consultus o scientia iuris sono sempre usate con forte valenza tecnica[58].
Forse, non appare del tutto infondata l’ipotesi di Santo Mazzarino, per il quale
negli iuris interpretes liviani sarebbe da vedere il giurista L. Cincio[59]
(unico giurista citato nell’opera di Livio), «o comunque giuristi della sua tendenza»;
anche perché, l’indizio da lui indicato per corroborare il riferimento alla
dottrina di L. Cincio, cioè notizia dell’antica designazione del console come praetor, presenta forti elementi di
probabilità, in quanto davvero «tema essenziale pel giurista»[60].
Se l’identificazione propugnata dal Mazzarino fosse plausibile, avremmo
anche il quadro più generale in cui collocare la sententia degli iuris interpretes; infatti, i frammenti
superstiti di L. Cincio (oltre trenta) rivelano una solida cultura giuridica e
un campo di interessi che spaziava con eguale padronanza della materia tra ius sacrum, ius publicum, ius privatum[61].
La trama interpretativa del giurista si misurava con i temi più scottanti dello
ius publicum tardo-repubblicano:
quali la potestas populi, di cui non
poteva non occuparsi nel liber de
comitiis; o il potere dei magistrati, a cui dovevano essere dedicati i libri de consulum potestate. Temi,
dunque, legati a quel dibattito sulla definizione dei rapporti tra poteri dei
magistrati e poteri del popolo, che aveva appassionato la giurisprudenza
romana, almeno a partire dall'età dei Gracchi. Non è dato sapere la
collocazione ideologica di Cincio, ma forse era di tendenza antipopolare; a
questa interpretazione si presta, quanto meno, il testo dell'unico frammento
del de comitiis, in cui il giurista,
per spiegare il valore del termine patricii,
richiamava l'antica identificazione tra ingenui
e patricii[62].
Torniamo alla “sententia”.
Gli iuris interpretes, stando al
resoconto liviano, negavano che in virtù della terza lex Valeria Horatia alcuno fosse inviolabile[63],
ma ritenevano che essa stabilisse semplicemente di doversi considerare sacer chi avesse recato offesa ad uno
dei magistrati menzionati nella legge[64];
con l'eccezione dei tribuni, la cui innegabile sacrosanctitas fondava le sue radici sul vetus ius iurandum della plebe, al tempo della prima secessione.
Dalla sententia degli iuris interpretes citati da Tito Livio emerge, non solo che il problema
della qualificazione giuridica della tribunicia
potestas consisteva essenzialmente nella questione della sacrosanctitas, ma soprattutto che era
proprio la sacrosanctitas, fondata
sul vetus ius iurandum plebis del
Ma l'esito di questa interpretatio
iuris publici conduceva soprattutto alla negazione della sacrosanctitas degli edili plebei[66];
contro i quali valevano entrambi i metodi interpretativi usati: sia «il
procedimento per via dell'analisi "grammaticale" (etimologica)»[67],
che conduceva gli iuris interpretes
ad intendere sacrosanctus equivalente
a iure iurando, e dunque a fondare
l’inviolabilità proprio sullo ius
iurandum; sia l'argomento basato sulla osservazione dei mores maiorum in materia di ius magistratuum, ponevano, cioè, questi
giuristi a giustificazione della loro dottrina la constatazione (eminentemente
pratica) che aedilem prendi ducique a
maioribus magistratibus[68]:
la qual cosa, nonostante non iure fiat,
costituisce invero una innegabile dimostrazione del fatto che non haberi pro sacrosancto aedilem.
Non sembra riferibile agli stessi iuris interpretes, di cui finora abbiamo discusso, l'altra interpretazione
giuridica riferita da Tito Livio a proposito della terza lex Valeria Horatia
(3.55.11-12)[69].
Questi altri giuristi, richiamandosi al fatto che col termine iudices si designavano talvolta anche i
supremi magistrati cittadini, sostenevano che la citata legge avesse provveduto
a rendere inviolabili anche i consoli ed i pretori, questi ultimi quia eisdem auspiciis quibus consules
crearentur. Ma, sul punto abbiamo il netto rifiuto dell'annalista, il quale
argomenta la sua opinione (o degli altri iuris
interpretes), ricorrendo alle
risultanze della scienza antiquaria sullo ius
publicum (magistratuum), da cui
risultava che ai tempi dell'antica legge Valeria Orazia nondum consulem iudicem, sed praetorem appellari mos fuerit.
La discussione fin qui condotta suggerisce una riflessione più
generale sulle potenzialità di ricerca insite nell’uso sistematico delle
cosiddette fonti letterarie da parte dei giusromanisti contemporanei[70].
Una riflessione che necessariamente deve muovere dal paragrafo iniziale della Praefatio alla Palingensia iuris civilis di Otto Lenel[71];
dove il giurista tedesco dà conto dei criteri adottati per la scelta dei
frammenti giurisprudenziali, soffermandosi ampiamente anche sulle esclusioni
operate.
Al fine di cogliere le implicazioni metodologiche esplicitate o
sottese in quella pagina leneliana, sarà utile riprodurre qui di seguito il
testo integrale dell’intero paragrafo.
«Exceptis igitur iis fragmentis quae mox enumerabuntur,
omnia recepi quae Iustiniani digestis continentur quaeque praeterea e civili
Romanorum iuris prudentia servata sunt. Gai autem institutiones, Pauli
sententias, Ulpiani regularum librum singularem, Dositheana quae vocantur
fragmenta, fragmentum de iure fisci propterea exclusi, quod molem per se iam
satis amplam huius collectionis inutiliter auxissent. Omissa sunt praeterea
quaecumque sive ius publicum sive sacrum spectant fragmenta extra digesta
tradita: quod invictus et quodammodo coactus feci, cum propter difficultatem
satis accurate discernendi quaenam ad ius proprie sic dictum spectent quaeve ad
antiquitates referenda sint, tum ob miseram condicionem, qua longe maxima pars
fragmentorum quae huc faciunt – ea praesertim quae Festo debentur – tradita
sunt. Nec tamen nimis anxius fui in excludendis huius generis fragmentis, cum
tres illae iuris partes – ius sacrum publicum privatum – arta saepe necessitate
inter se conexa sint: eorumque librorum, in quibus et de iure sacro vel publico
et de iure privato quaeritur, omnia fragmenta recepi vel saltem indicavi»[72].
Il Lenel prosegue, quindi, illustrando i criteri adottati nella
disposizione dei singoli giureconsulti, nella restituzione delle loro opere e
nell'esegesi dei frammenti ad essi attribuiti. Quanto al primo punto, dichiara
di aver preferito seguire l'ordine alfabetico, non solo «quod ad usum maiorem
commoditatem praebet», ma soprattutto perché non sempre la sucessione cronologica
dei giureconsulti risulta determinabile con assoluta certezza[73];
nella restituzione delle opere giurisprudenziali prevale invece l'esigenza di
individuare «ratio et conexus totius operis», da cui la conseguente
collocazione dei relativi frammenti; solo quando ciò sia risultato impossibile,
si è seguito il criterio di anteporre i frammenti dei Digesta a quelli reperito «in ceteris de iure libris» e a quelli
«quae alibi tradita sunt»[74].
La lettura dei paragrafi citati, mentre da un lato lascia
emergere l'estremo rigore professato nella scelta dei testi[75]
e nella loro esegesi[76];
dall'altro, con le ragioni addotte a sostegno della lista delle omissioni,
rivela le motivazioni culturali e metodologiche, che hanno determinato la linea
di condotta del Lenel nella sua impresa palingenetica.
Più che discutibile appare, invero, la scelta di escludere dalla
raccolta «quaecumque sive ius publicum sive sacrum spectant fragmenta extra digesta
tradita». Non si possono di certo condividere le motivazioni che indussero il
Lenel a omettere, seppure a suo dire «invitus et quodam modo coactus», sia la
quasi totalità dei testi in materia di ius
publicum e di ius sacrum, sia i
frammenti di opere giuridiche citati nel De
verborum significatu di Sesto Pompeo Festo.
Anche a proposito di queste motivazioni conviene distinguere.
Mentre per i frammenti giurisprudenziali contenuti nell'epitome festina, si
adducevano ragioni di critica filologica, legate in gran parte alla
consapevolezza della «misera condicio» delle principali edizioni dell’opera
allora esistenti[77];
alla praticabilità (e utilità) di una Palingenesia
iuris publici il Lenel opponeva obiezioni metodologiche e “fattuali”
ritenute veramente insuperabili. Non a caso lo studioso sottolineava con vigore
le immani difficoltà che avrebbe dovuto affrontare colui che avesse voluto
distinguere, con buona approssimazione, fra le variegate fonti di ius publicum
e di ius sacrum «quaenam ad ius proprie sic dictum spectent quaeve ad
antiquitates referenda sint». Prevaleva, insomma, nella valutazione del Lenel
un radicato pessimismo sulla qualità delle fonti, in gran parte “letterarie”,
da utilizzare per la raccolta di questo tipo di materiali; dovendo muoversi più
tra fonti storico-antiquarie che giuridiche, il giurista moderno rischiava di
smarrire in quel terreno infido e senza confini la dimensione stessa del
“giuridico”[78].
Mette conto, infine, formulare un’ultima notazione riguardo
all’assunto leneliano che nello «ius proprie sic dictum» non potessero trovare
collocazione né lo ius publicum, né
lo ius sacrum[79];
segnalandone, in particolare, l’omogeneità con le posizioni dottrinali di
quella parte della storiografia romanistica ottocentesca – peraltro di gran
lunga maggioritaria –, che identificava il diritto romano esclusivamente nel Corpus iuris civilis di Giustiniano. Il
pensiero del Lenel non si discostava, dunque, dalla communis opinio della
pandettistica del suo tempo, nel considerare oggetto dell'indagine giuridica
unicamente quello che, parafrasando il titolo di un celebre manuale di A.
Heimberger, potrebbe definirsi «il diritto romano privato e puro»: «Il Diritto
romano in senso lato è quel complesso di leggi civili che furono in vigore
nell’antico Impero romano dalla sua origine fino alla sua caduta in Oriente.
Preso in questo senso, il Diritto romano
abbraccia non solo le leggi emanate da Giustiniano, ma ben anche tutte le altre
che furono promulgate prima e dopo di lui. Per Diritto romano però in
senso stretto e proprio s’intendono soltanto leggi dettate da Giustiniano»[80].
Sarà facile perciò intendere come ius
publicum e ius sacrum, in questa
prospettiva, non fossero ritenuti riconducibili al «vero diritto romano», ma
alla «parte storica e archeologica del medesimo»[81].
La scienza romanistica odierna è chiamata a superare questa metodologia
compilatoria, le relative omissioni e l'ideologia ad essa sottesa: si tratta di
operare, soprattutto, per il concreto ripristino dei frammenti giurisprudenziali
che «sive ius publicum sive sacrum spectant». Del resto l'omissione di queste
parti rilevantissime degli iura populi Romani[82]
ha provocato reazioni contrarie nella dottrina più avvertita[83];
fra cui mette conto ricordare, per l'autorevolezza dello studioso, quelle di R.
Orestano: nell’ultima edizione del suo manuale Introduzione allo studio del diritto romano, l’illustre Maestro ha
richiamato ancora una volta la dottrina romanistica odierna all'esigenza di un
ripensamento critico sui canoni palingenetici del Lenel, auspicando quasi una
sorta di riparazione: «A tal fine sarà sommamente utile – scrive l'Orestano –
una Palingenesia iuris romani publici in cui venissero raccolte tutte
le testimonianze e tutti gli squarci di autori giuridici e non giuridici
concernenti lo ius publicum. Si pensi, al riguardo, che
essi sono stati deliberatamente esclusi dal Lenel, nella sua Palingenesia iuris civilis»[84].
(*) Pubblicato in Ius Antiquum-Drevnee
pravo 1, (Moskva) 1996, pp.
80-94 (= Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma
antica, Torino 2001, pp. 273-322).
[1] L’usuale distinzione tra i diversi «mezzi di cognizione del
diritto romano», nonché la definizione più generale di fonti primarie e
secondarie, in A. Guarino, L'esegesi delle fonti del diritto romano,
a cura di L. Labruna, I, Napoli 1968, pp. 285 ss. Questa distinzione, seppure
con diverse denominazioni, si presenta peraltro comune a storici e giuristi:
cfr., fra i primi, A. Rosenberg, Einleitung und Quellenkunde zur römischen
Geschichte, Berlin 1921, pp. 1 ss.: «Die Primärquellen»; pp. 113 ss.:«Die
Historiker»; K. Latte, Römische Religionsgeschichte, München
1960, pp. 3 s.; K. Christ, Römische Geschichte: Einführung, Quellenkunde,
Bibliographie, 3ª ed., Darmstadt 1980, pp. 35 ss.; fra i giuristi basterà
inoltre citare, per tutti, C. W. Westrup,
Introduction to Early Roman Law, IV e
V. Sources and Methods,
London-Copenaghen 1950-1954 (IV, pp. 9 ss.: «Primary sources»; V, pp. 17 ss.:
«The Ancient Roman Tradition»); L. Wenger,
Die Quellen des römischen Rechts,
Wien 1953, p. 46. Maggiori approfondimenti sull’importante questione
metodologica della «gerarchia delle fonti», in F. Sini, Documenti
sacerdotali di Roma antica, I. Libri
e commentarii, Sassari 1983, pp. 143 ss.; nello stesso senso, cfr. ora R. Fiori, Homo sacer. Dinamica politico-costituzionale di una
sanzione giuridico-religiosa, Napoli 1996, pp. 2 ss.
[2] Non è possibile dar conto in maniera esauriente della
bibliografia in tema di sacrosanctitas
tribunizia, né discutere le diverse soluzioni prospettate sul fondamento del
potere dei tribuni della plebe; vedi, pertanto, con varie soluzioni: L. Lange, Römische Alterthümer, I, 3ª ed., Berlin 1876, pp. 590 ss.; Id., De sacrosanctae potestatis tribuniciae natura eiusque origine
commentatio, Lipsiae 1883, pp. 40 ss.; E. Herzog,
Die lex sacrata und das sacrosanctum, in Neue
Jahrbücher für Philologie 113, 1876, pp. 139 ss.; Id., Geschichte und
System der römischen Staatsverfassung, I, Leipzig 1884 [rist. an. Darmstadt
1965], pp. 146 ss.; E. Cuq, Les institutions juridiques des Romains,
I, Paris 1881, pp. 114 ss.; F. Stella
Maranca, Il tribunato della plebe
dalla lex Hortensia alla lex Cornelia, Lanciano 1901 [rist. an., con nota di lettura di G.
Boulvert, Napoli 1982 (Antiqua, 20)], pp. 33 ss.; R. Rosenberg, Studien zur
Entstehung der Plebs, in Hermes
48, 1913, pp. 364 ss.; V. Groh,
Potestas sacrosancta dei tribuni della plebe, in Studi in onore di S. Riccobono, II,
Palermo 1936, pp. 1 ss.; F. Altheim,
Lex sacrata. Die Anfänge der plebeischen Organisation, Amsterdam 1940, p. 25.;
C. Gioffredi, Il fondamento della tribunicia postestas e i procedimenti normativi dell'ordine plebeo (“sacrosanctum - lex
sacrata - sacramentum”), in Studia et
Documenta Historiae et Iuris 11, 1945, pp. 37 ss.; A. Dell’Oro, La formazione dello Stato patrizio-plebeo, Milano-Varese 1950, pp.
87 ss.; R. Orestano, I fatti di normazione nell'esperienza romana
arcaica, Torino 1967, pp. 262 ss. Ma ormai, sul tema sono veramente
fondamentali gli studi di G. Lobrano,
Fondamento e natura del potere tribunizio
nella storiografia giuridica contemporanea, in Index 3, 1972, pp. 235 ss.; Id.,
Il potere dei tribuni della plebe,
Milano 1982, pp. 56 ss.
Più in generale sul tribunato vedi anche: J.
Bleicken, Das Volkstribunat der klassischen Republik, München 1955; Id., Das
römische Volkstribunat. Versuch einer Analyse seiner politischen Funktion in
republikanischer Zeit, in Chiron
11, 1981, pp. 87 ss.; R. T. Ridley,
Notes on the Establishment of the
Tribunate of the Plebs, in Latomus
27, 1968, pp. 535 ss.; S. Mazzarino,
Sul tribunato della plebe nella
storiografia romana, in Helikon
11-12, 1971-1972, pp. 99 ss.; J. Ellul,
Réflexion sur la révolution, la plèbe et
le tribunat de la plèbe, in Index
3, 1972, pp. 155 ss.; G. Grosso, Appunti sulla valutazione del tribunato della
plebe nella tradizione storiografica conservatrice, in Index 7, 1977, pp. 157 ss.; K. M. Girardet,
Ciceros Urteil über die Entstehung des
Tribunates als Institution der römischen Verfassung (rep. 2, 57-59), in Bonner Festgabe J. Straub, Bonn 1977,
pp. 179 ss.; Y. Thomas, Cicéron, le Sénat et les tribuns de la plèbe,
in Revue Historique de Droit Français et
Étranger 55, 1977, pp. 189 ss.; L. Perelli,
Note sul tribunato della plebe nella
riflessione ciceroniana, in Quaderni
di Storia 10, 1979, pp. 285 ss.; J. L. Halperin,
Tribunat de la plèbe et haute plèbe
(493-218 av. J.-C.), in Revue
Historique de Droit Français et Étranger 62, 1984, pp. 161 ss.
[3] Sull’espressione «sistema giuridico-religioso», cfr. P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, Torino 1965, pp. 30 ss.,
in part. p. 37 n. 75; Id., Aspetti spaziali del sistema
giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.16,1, Berlin-New
York 1978, pp. 445 s.; Id., Diritto e persone. Studi su origine e attualità del
sistema romano, Torino 1990, p. 57; G. Lombardi, Persecuzioni, laicità, libertà religiosa. Dall'Editto di Milano alla Dignitatis Humanae', Roma 1991, pp. 34 s. Per la
validità del concetto di «ordinamento giuridico», vedi invece R. Orestano: Diritto. Incontri e scontri, Bologna 1981, pp. 395 ss.; Id., Le nozioni di ordinamento giuridico e di esperienza giuridica nella
scienza del diritto, in Rivista
trimestrale di Diritto Pubblico 4, 1985, pp. 959 ss., in part. 964 ss.; Id., Introduzione allo studio del diritto romano, Bologna 1987, pp. 348
ss.; seguito, fra gli altri, da P.
Cerami, Potere ed ordinamento
nell’esperienza costituzionale romana, 3ª ed., Torino 1996, pp. 10 ss.; e
solo parzialmente da A. Guarino, L’ordinamento giuridico romano, 5ª ed.,
Napoli 1990, pp. 56 s.
[5] S. Mazzarino, Intorno ai rapporti fra annalistica e
diritto: problemi di esegesi e di critica testuale, in La critica del testo. Atti del Secondo Congresso Internazionale della
Società Italiana di Storia del Diritto, I, Firenze 1971, pp. 441 ss.
[6] Già G. Scherillo, Il diritto pubblico romano in Tito Livio,
in Aa.Vv., Liviana, Milano 1943, pp. 79 ss., sottolineava, a ragione, la
notevole rilevanza dei libri ab urbe
condita del grande annalista, quale fonte privilegiata per la conoscenza
della complessa materia dello ius
publicum in età repubblicana; nello stesso senso, più di recente, C. St. Tomulescu, La
valeur juridique de l'histoire de Tite-Live, in Labeo 21, 1975, pp. 295 ss.
[7] Sugli aspetti più generali della legge, con ampia rassegna di
fonti e della bibliografia precedente, vedi G.
Rotondi, Leges publicae populi
Romani, Milano 1912 [rist. Hildeshem - Zürich - New York 1990], pp. 204 s.; D. Flach, Die Gesetze der frühen römischen Republik.
Text und Kommentar, in Zusammenarbeit mit S. von der Lahr, Darmstadt 1994,
pp. 218 ss. Per una discussione su contenuti e
implicazioni giuridiche di essa, vedi invece G. Niccolini, Il tribunato
della plebe, Milano 1932, pp. 42 ss.; Id.,
I fasti dei tribuni della plebe,
Milano 1934, p 30; H. Siber, Die plebejischen Magistraturen bis zur lex Hortensia, in Festschrift der Leipziger Juristenfakultät für A. Schultze, Leipzig
1936, pp. 36 ss.; C. Gioffredi, Il fondamento della “tribunicia potestas” e
i procedimenti normativi dell’ordine plebeo, cit., pp. 42 ss.; J. Bayet, L'organisation plébéienne et les leges sacratae, in J. Bayet-G. Baillet (a cura di), Tite-Live. Histoire romaine,
Livre III, Paris 1962, pp. 145 ss.;
R. M. Ogilvie, A Commentary on Livy. Books 1-5, Oxford 1965, pp. 502 s.; Id.,
Early Rome and the Etruscans, London
1976, qui citato in trad. it.: Le origini
di Roma, Bologna 1984, pp. 134 s.; S. Mazzarino,
Intorno ai rapporti fra annalistica e
diritto: problemi di esegesi e di critica testuale, cit., pp. 442 ss.;
J.-C. Richard, Les origines de la plèbe romaine. Essai sur
la formation du dualisme patricio-plébéien, Rome 1978, pp. 573 ss.; P. Marottoli, Leges sacratae, Roma 1979, pp. 25 ss.; S. Tondo, Profilo di
Storia costituzionale romana, I,
Milano 1981, pp. 205 ss.; G. Lobrano,
Il potere dei tribuni della plebe,
cit., pp. 123 s.; G. Poma, Tra legislatori e tiranni. Problemi storici
e storiografici sull'età delle XII Tavole, Bologna 1984, pp. 303 ss.; P. Cerami, Potere ed ordinamento nell’esperienza costituzionale romana, cit.,
pp. 116 s.; P. Zamorani, Plebe genti esercito. Una ipotesi sulla
storia di Roma (509-
[8] Su questa magistratura plebea vedi, fra gli altri, W. Soltau, Die ursprüngliche Bedeutung und Competenz der aediles plebis, in Historische Untersuchungen A. Schaefer gewidmet, Bonn 1882, pp. 98
ss.; P. M. Pineau, Histoire de l’édilité romaine, Bordeaux
1893; G. De Sanctis, Le origini
dell'edilità plebea, in Rivista di
Filologia e di Istruzione Classica 10, 1932, pp. 433 ss. [= Id., Scritti minori, V, Roma 1983, pp. 147 ss.]; H. Siber, Die plebejischen
Magistraturen bis zur lex Hortensia,
cit., pp. 7 ss.; D. Sabbatucci, L’edilità romana: magistratura e sacerdozio,
in Atti dell’Accademia Nazionale dei
Lincei. Memorie della Classe di Scienze morali storiche e filologiche,
[serie VIII] 6, 1955, pp. 255 ss.; M. Q. Lupinetti,
Liv., 3.6.9, Dion. Hal., 6.95.3-4 e
l'origine dell'edilità plebea, in Rivista
Italiana per le Scienze Giuridiche 13, 1969, pp. 285 ss.; F. De Martino, Storia della costituzione romana, I, 2ª ed., Napoli 1972, pp. 345
s.; J.-Cl. Richard, Édilité plébéienne et
édilité curule: à propos de Denys d’Halicarnasse, Ant. Rom. VI 95.
[10] Sulle caratteristiche più generali del pensiero giuridico romano
in tema di ius publicum, rinvio al
saggio di G. Nocera, Il pensiero pubblicistico romano, in Studi in onore di Pietro de Francisci,
II, Milano 1956, pp. 557 ss.; ma, soprattutto, al bel libro di V. Giuffré, Il «diritto pubblico» nell’esperienza romana. Appunti di parte generale
del corso, Napoli 1977; mentre, per l’analisi dei giuristi di ius publicum e delle loro opere è da
vedere anche il saggio di A. Heuss,
Zur Thematik republikanischer
«Staatsrechtslehre», in Festschrift
für Franz Wieacker zum 70. Geburtstag, Göttingen 1978, pp. 72 ss.
[11] D. 1.2.2.20 (Pomponius libro
singulari enchiridii): Isdem
temporibus cum plebs a patribus secessisset anno fere septimo decimo post reges
exactos, tribunos sibi in monte sacro creavit, qui essent plebeii magistratus.
Dicti tribuni, quod olim in tres partes populus divisus erat et ex singulis
singuli creabantur: vel quia tribuum suffragio creabantur. D. 1.2.2.34
(Pomponius libro singulari enchiridii):
Ergo ex his omnibus decem tribuni plebis,
consules duo, decem et octo praetores, sex aediles in civitate iura reddebant.
D. 1.15.1 (Paulus libro singulari de
officio praefecti vigilum): Apud
vetustiores incendiis arcendis triumviri praeerant, qui ab eo quod excubias
agebant nocturni dicti sunt: interveniebant nonnumquam et aediles et tribuni
plebis. Erant autem familia publica circa portam et muros disposita, unde si
opus esset evocabatur: fuerant et privatae familiae, quae incendia vel mercede
vel gratia extinguerent. Deinde divus Augustus maluit per se huic rei consuli.
[12] Sulla carriera politica del giurista, vedi F. Münzer, v. Sempronius (nr.
92), in Real-Encyclopädie der classischen
Altertumswissenschaft, II A, Stuttgart 1923, coll. 1441 s.; T. R. S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic,
I, New York 1951, pp. 470, 489, 498, 504; per altre referenze, con particolare
riferimento alle sue opere di carattere storico e giuridico, vedi H. Peter, Historicorum Romanorum reliquiae, editio altera, I, Stutgardiae
1914 [rist. an. 1967], pp. CCI ss.; M. Schanz - C. Hosius, Geschichte der römischen Literatur, I,
4ª ed., München 1927 [rist. 1966], p. 197; H. Bardon, La
littérature latine inconnue, I. L’époque républicaine, Paris 1952, pp. 105
s. Sostiene invece che tutti i frammenti di Tuditano provengano dai Magistratuum libri C. Cichorius, Das Geschichtswerk des Sempronius Tuditanus, in Wiener Studien 24, 1902, pp. 588 ss.,
per il quale non risulterebbe sufficientemente fondata su dati testuali
l’ipotesi della composizione da parte di Tuditano anche di un’altra opera, di
carattere marcatamente storiografico, intitolata Annales; all’impostazione del Cichorius, da ultimo, mi pare dia una
cauta adesione M. Bretone, Tecniche e ideologie dei giuristi romani,
2ª ed., Napoli 1982, p. 55.
[13] I frammenti giuridici di C. Sempronio Tuditano sono stati
raccolti da F. P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt,
I, Lipsiae 1896 [rist. an. Roma 1964], pp. 35 s.; Ph. E. Huschke - E. Seckel - B. Kübler, Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquiae, editio sexta, I, Lipsiae
1908 [rist. an. Leipzig 1988], pp. 9 s.; mentre H. Peter, Historicorum
Romanorum reliquiae, I, cit., pp. 143 ss., oltre i frammenti ex magistratuum libri, raccoglie anche i
frammenti provenienti dall’opera storica di Tuditano, gli Annales.
[14] Cfr. F. P. Bremer,
Iurisprudentiae Antehadrianae quae
supersunt, I, cit., p. 36 fr. 5; Ph. E. Huschke - E. Seckel - B. Kübler,
Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquiae,
I, cit., p. 9 fr. 4; H. Peter, Historicorum Romanorum reliquiae, I,
cit., p. 144 fr. 5.
[16] Fonti su questo personaggio: Lucilio, Carm. 595-
[17] Cicerone, De leg.
3.48-49: [Atticus] Quam ob rem, si de sacrorum alienatione dicendum
putasti, quom de religione leges proposueras, faciendum tibi est, ut
magistratibus lege costitutis de potestatum iure disputes. Marcus - Faciam breviter, si consequi
potuero; nam pluribus verbis scripsit ad patrem tuum M. Iunius sodalis perite
meo quidem iudicio et diligenter. I frammenti sono raccolti in F. P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt, I, cit., pp. 37 ss.; Ph. Ed. Huschke - E. Seckel - B. Kübler, Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquiae,
I, cit., pp. 10 ss. Per i frammenti di più immediato interesse grammaticale,
vedi anche H. Funaioli, Grammaticae Romanae Fragmenta, I,
Lipsiae 1907 [rist. an. Roma 1964], pp. 120 s.
[18] R. A. Bauman,
Lawyers in Roman republican politics: a
study of the Roman jurists in their political setting, 316-82 BC, München
1983, p. 292: «Moreover, M. Iunius Gracchanus De potestatibus, the costitutional handbook of the Gracchan faction
(written after 133), had, if it began with the higher magistracies and worked
its way down, got as far as the quaestorship by Book VII; historical material
was included, but in a most succinct form». Cfr. anche H. Bardon, La lettérature
latine inconnue, I, cit., p. 145: «D'autre part, son oeuvre offrait un
intérêt d'actualité: les pouvoirs
avaient été étudiés, avant lui, par le consul de l'an
[19] Cfr. C. Cichorius,
Untersuchungen zu Lucilius,
Zürich-Berlin 1908, p. 126; M. Bretone,
Tecniche e ideologie dei giuristi romani,
cit., p. 14.
[20] P. Catalano, La divisione del potere in Roma repubblicana,
in P. Catalano - G. Lobrano, Il problema del potere in Roma repubblicana, Sassari 1974, pp. 19
s. [= Id., La divisione del potere in Roma (a proposito di Polibio e di Catone),
in Studi in onore di Giuseppe Grosso,
VI, Torino 1974, p. 678].
[21] P. F. Bremer, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt,
I, cit., p. 37 fr. 1; O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, II, cit.,
fr. 2252 (Ulpiano). Sempre al libro VII de
potestatibus, gli editori attribuiscono anche il seguito del passo di
Ulpiano: D. 1.13.1.1 (= Ulpianus libro
singulari de officio quaestoris ): Et
a genere quaerendi quaestores initio dictos et Iunius et Trebatius et
Fenestella scribunt; dove si riferisce l'etimologia della parola quaestor, organicamente collegata nel
pensiero di Graccano alla funzione del magistrato, a quel genus quaerendi, che caratterizzava la natura stessa della
questura. Sul valore etimologico del frammento, vedi L. Ceci, Le etimologie dei
giureconsulti romani, Torino 1892, p. 66 fr. 3; P. F. Bremer, Op. cit., p. 37 fr. 2; H. Funaioli,
Grammaticae Romanae fragmenta, cit.,
p. 120 fr. 1. Su questa etimologia, cfr. anche altre fonti: Varrone, De ling. Lat. 5.81: Quaestores a quaerendo qui conquirerent publicas pecunias et maleficia,
quae triumviri capitales nunc conquirunt; ab his postea qui quaestionum iudicia
exercent quaes<i>tores dicti; Festo, p.
[22] Per quanto riguarda caratteristiche e ricostruzione del quadro
complessivo del liber singularis de
officio quaestoris di Ulpiano, vedi brevemente F. Schulz, Storia della
giurisprudenza romana, trad. it. a cura di G. Nocera, con presentazione di
P. De Francisci, Firenze 1968 [rist. 1975], pp. 444; quanto alla precisazione
della «natura dell’opera», con una ampia e puntuale analisi dei frammenti
superstiti, vedi invece A. Dell’oro, I libri de officio nella giurisprudenza romana, Milano 1960, pp. 98 ss.; resta
naturalmente indispensabile O. Lenel,
Palingenesia iuris civilis, II, cit.,
coll. 992.
Più in generale, sulla complessa figura del giurista, anche in
rapporto alla sua produzione letteraria, cfr. P.
Frezza, La cultura di Ulpiano,
in Studia et Documenta Historiae et Iuris
34, 1968, pp. 363 ss.; G. Crifò, Ulpiano. Esperienze e responsabilità del giurista, in Aufstieg
und Niedergang der römischen Welt, II.15, Berlin-New York 1976, pp. 708 ss.
(su cui, però, vedi i rilievi di M. Talamanca, Per la
storia della giurisprudenza romana, in Bullettino
dell’Istituto di Diritto Romano 80, 1977, pp. 236 ss.); T. Honoré, Ulpian, Oxford 1982; da ultimo A.
Schiavone, Linee di storia del
pensiero giuridico romano, Torino 1994, pp. 221 ss.
[23] Nello stesso senso di D. 1.13.1, vedi Giovanni Lido, De magistr. 1.24 (con la discussione sul
testo di J. Caimi, Burocrazia e diritto nel de
magistratibus di Giovanni Lido, Milano
1984, pp. 151 ss.).
[24] Questa posizione fu, comunque, del tutto isolata e sovente
rifiutata espressamente dalla storiografia successiva: cfr. Tacito, Ann. 11.22.4; Plutarco, Publ. 12.3.
[25] J. Rubino,
Untersuchungen über römische Verfassung
und Geschichte, Cassel 1839, p. 320 e n. 1; L. Mercklin, De Iunio
Gracchano commentatio, I, Diss. Dorpat 1840, pp. 34 ss.; M. Hertz, De Luciis Cinciis, Berolini 1842, p. 92 n. 74a; C. Cichorius, Untersuchungen zu Lucilius, cit., pp. 125 s.
[27] I problemi costituzionali dell'età graccana sono stati
analizzazi, con il consueto approfondimento, da F. De Martino, Storia della costituzione romana, II, 2ª
ed., Napoli 1973, pp. 459 ss.; per il quadro più generale del contesto storico,
cfr. anche R. F. Rossi, Dai Gracchi a Silla, Bologna 1980, con
particolare riferimento alle pp. 34-146.
[28] F. P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt,
I, cit., p. 39 fr. 10; Ph. E. Huschke-E.
Seckel-B. Kübler, Iurisprudentiae
Anteiustinianae reliquias, I, cit., p. 12 fr. 10.
[29] Per quanto riguarda gli aspetti giuridici di tali feriae e del culto di Iuppiter Latiaris, rinvio al lavoro di
P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, I, Torino 1965, pp. 169
ss.
[30] Sulla figura del dictator
Latinarum feriarum causa, vedi B. Bruno,
v. Dictator, in Dizionario epigrafico di antichità romane, II.2, rist. an. Roma
1961, p. 1773; ma soprattutto G. I. Luzzato,
Appunti sulle dittature imminuto iure.
Spunti critici e ricostruttivi, in Studi
in onore di Pietro de Francisci, III, Milano 1956, pp. 416 ss.; e G. Nicosia, Sulle pretese figure di dictator
imminuto iure, in Studi in onore di Cesare Sanfilippo,
VII, Milano 1987, p. 558.
[31] Più in generale sul Praefectus
urbi, vedi Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, I, 3ª ed., rist. Graz 1952, pp. 661 ss.; W. Kunkel-R. Wittmann, Staatsordnung und Staatspraxis der römischen
Republik. 2. Die Magistratur, [Handbuch der Altertumswissenschaft, X.3.2.2]
München 1995, pp. 274 ss.
[32] Cfr. Aulo Gellio, Noct. Att. 14.8.2: M. autem
Varro in IIII epistolicarum quaestionum et Ateius Capito in coniectaneorum
[CON]IIII ius esse praefecto senatus habendi dicunt; deque ea re adsensum esse
<se> Capito Tuberoni contra sententiam Iunii refert: 'Nam et tribunis'
inquit 'plebis senatus habendi ius erat, quamquam senatores non essent ante
Atinium plebiscitum'. F. P. Bremer,
Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt, II.1, Lipsiae 1898 [rist.
an. Roma 1964], p. 285 fr. 4; Ph. E. Huschke - E. Seckel - B
Kübler, Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquias, I, cit., p. 63
fr. 4; W. Strzelecki, C.
Atei Capitonis fragmenta, Lipsiae 1967, cit., p. 3 fr. 2.
[33] P. Willems,
Le Sénat de
[34] C. G. Bruns,
Fontes Iuris Romani Antiqui, pars prior. Leges et negotia, editio sexta cura Th. Mommseni et O. Gradenwitz, Friburgi in Brisgavia et Lipsiae 1893, p. 46, fr.
3; F. P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt,
I, cit., p. 39 fr. 11; Ph. E. Huschke - E. Seckel - B. Kübler,
Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquiae,
cit., p. 12 fr. 11; S. Riccobono,
Fontes Iuris Romani Antejustiniani, pars prima.
Leges, 2ª ed., Florentiae 1941, p. 79 fr. 1. Un'accurata revisione
della glossa è stata compiuta nel recente lavoro di J. D. Cloud, A lex de ponderibus publicis (Festus p.
[35] Per quanto riguarda la datazione della lex Silia de ponderibus publicis, la dottrina più risalente si
mostrava in genere assai dubbiosi: così, ad esempio, il Rudorff, Romische
Rechtsgeschichte, I, Leipzig 1857, p.92, pensava al
[36] F. Bona, Contributo allo studio della composizione
del de verborum significatu di Verrio
Flacco, Milano 1964, p. 100: «La sola presenza del nome dell'antiquario –
una sola volta – nell'epitome festina, non è sufficiente a provare che Verrio
Flacco ne abbia utilizzato direttamente l'opera, mentre è più probabile che
questi abbia derivato la glossa direttamente da Varrone, dal quale discendono
probabilmente tutti i passi che di Graccano ci ha tramandato l'antichità».
[37] Sul grande giurista, a parte A.
Pernice, Labeo. Römisches
Privatrecht im ersten Jahrunderte der Kaiserzeit, 2 voll., Halle
Frammenti in O. Lenel,
Palingenesia iuris civilis, I, Lipsiae 1889, coll. 501 ss.; F.P. Bremer, Iurisprudentia
Antehadrianae quae supersunt, II.1, cit., pp. 9 ss.; Ph. E. Huschke - E. Seckel - B. Kübler,
Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquias, I, cit., pp. 55 ss.; H. Funaioli, Grammaticae Romanae
Fragmenta, I, Lipsiae 1907 [rist. an. Roma 1964], pp. 557 ss.
[38] Ph. E. Huschke-E.
Seckel-B. Kübler, Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquiae, I,
cit., p. 68 fr. 19; W. Strzelecki,
C. Atei Capitonis fragmenta, cit., p. 7 fr. 9.
[40] Sulla figura e sull'opera del giurista C. Ateio Capitone, da
vedere P. Jörs, v. C. Ateius
Capito, in Real-Encyclopädie der
classischen Altertumswissenschaft, II, Stuttgart 1896, coll. 1904 ss.; M.
Schanz-C. Hosius, Geschichte der
römischen Literatur, II, 4ª ed., München 1935 [rist. 1967], pp. 384 s.; W. Kunkel, Herkunft und soziale Stellung der römischen Juristen, 2a ed.,
Graz-Wien-Köln 1967, pp. 114 s.; R. A.
Bauman, Lawyers and politics in
the early Roman Empire. A study of relations betwen the Roman
jurists and the emperors from Augustus to Hadrian, München 1989, pp. 25 ss.
Per la ricostruzione completa dei frammenti del grande
giureconsulto augusteo, vedi ora il fondamentale lavoro di W. Strzelecki, C. Atei Capitonis fragmenta, cit., pp. VII ss., 3 ss. O. Lenel, Palingenesia iuris civilis,
I, cit., coll. 105 s., attribuisce a Capitone cinque frammenti, nel seguente
ordine: D. 8.2.13.1 (= Proculo, Libro
secundo epistularum); D. 23.2.29 (= Ulpiano, Libro tertio ad legem Iuliam et Papiam); D. 24.3.44 pr. (= Paolo, Libro quinto quaestionum), dove legge Capito in luogo del Cato dei mss.; Festo, v. Reus,
p.
[41] F. P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae quae
supersunt, II.1, cit., p. 283 fr. 1; Ph. E. Huschke - E. Seckel - B
Kübler, Iurisprudentiae Anteiustinianae
reliquiae, I, cit., p. 62 fr. 1; W.
Strzelecki, C. Atei Capitonis
fragmenta, cit., p. 5 fr. 5.
[42] F. P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt, II.1, cit., p. 287 fr. 14 e 15; Ph.
E. Huschke - E. Seckel - B. Kübler, Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquiae, I, cit., p. 69 fr. 23; W. Strzelecki, C. Atei Capitonis fragmenta, cit., p. 15 fr. 25.
[43] F.P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt, II.2, Lipsiae 1901 [rist. an.
Leipzig 1985], p. 530 fr. 1, colloca il passo liviano negli Addenda, fra le «Reliquiae sententiae,
quae non responsa dicuntur».
[44] S. Mazzarino, Intorno ai rapporti fra annalistica e
diritto: problemi di esegesi e di critica testuale, cit., p. 442.
[45] Numerosi studiosi analizzano, in vario modo, questo passo di
Tito Livio: vedi, fra gli altri G. Niccolini,
Il tribunato della plebe, cit., pp.
42 ss.; Id., I fasti dei tribuni della plebe, cit., p 30; V. Groh, Potestas sacrosancta dei tribuni
della plebe, in Studi in onore di
Salvatore Riccobono, II, Palermo 1936, pp. 1 ss.; G. Nocera, Il potere dei comizi e i suoi limiti, Milano 1940, pp. 71 ss.; C. Gioffredi, Il fondamento della tribunicia
potestas e i procedimenti normativi
dell’ordine plebeo, cit., pp. 42 ss.; G. De
Sanctis, Storia dei Romani, II
(Torino 1907), rist. an. dell’edizione 1960, Firenze 1988, p. 28; J. Bayet, L'organisation plébéienne et les leges sacratae, cit., pp. 145 ss.; R. M. Ogilvie, A Commentary
on Livy. Books 1-5, cit., pp. 502 s.; Id.,
Le origini di Roma, cit., pp. 134 s.;
S. Mazzarino, Intorno ai rapporti fra annalistica e
diritto: problemi di esegesi e di critica testuale, cit., pp. 442 ss.;
J.-C. Richard, Les origines de la plèbe romaine. Essai sur
la formation du dualisme patricio-plébéien, cit., pp. 573 ss.; S. Tondo, Profilo di Storia costituzionale romana, I, cit., pp. 205 ss.; G. Lobrano, Il potere dei tribuni della plebe, cit., pp. 123 s.; G. Poma, Tra legislatori e tiranni. Problemi storici e storiografici sull'età
delle XII Tavole, cit., pp. 303 ss.; P.
Cerami, Potere ed ordinamento
nell’esperienza costituzionale romana, cit., pp. 116 s.; P. Zamorani, Plebe genti esercito. Una ipotesi sulla storia di Roma (509-
[46] Cfr. per tutti F. de
Martino, Storia della costituzione
romana, I, cit., pp. 312 ss.; S.
Tondo, Profilo di Storia
costituzionale romana. Parte prima, cit., p. 202 ss.; G. Crifò, Lezioni di storia del diritto romano, Bologna 1996, pp. 69 ss. Di
carattere fortemente critico si presenta, invece, la ricostruzione generale
della «restaurazione valeria orazia» delineata da P. Zamorani, Plebei genti
esercito. Una ipotesi sulla storia di Roma (509-
[47] Tito Livio 3.55.3: Omnium
primum, cum velut in controverso iure esset tenereturne patres plebi scitis,
legem centuriatis comitiis tulere ut quod tributim plebes iussisset populum
teneret; qua lege tribuniciis rogationibus telum acerrimum datum est.
[48] Tito Livio 3.55.4-5: Aliam
deinde consularem legem de provocatione, unicum praesidium libertatis,
decemvirali potestate eversam, non restituunt modo, sed etiam in posterum
muniunt sanciendo novam legem, ne qui ullum magistratum sine provocatione
crearet; qui creasset, eum ius fasque esset occidi, neve ea caedes capitalis
noxae haberetur.
[49] Cfr. Festo, v. Sacratae
leges, p.
[50] Penetrante analisi interpretativa del contesto liviano, che
forse però sottovaluta la portata “sistematica” della sententia degli iuris interpretes, in P. Marottoli, Leges
sacratae, cit., pp. 31 ss.
[51] Intorno alle motivazioni di siffatta interpretatio, mi parrebbe alquanto limitativa la spiegazione
proposta da P. Cerami, Potere ed ordinamento nell’esperienza
costituzionale romana, cit., 123: «Ora, noi riteniamo che i motivi del
contrasto siano da individuare nelle diverse forze politico-costituzionali
sottese alle opposte concezioni. È noto come la religione sia stata spesso
strumentalizzata a Roma per fini politici. Ebbene, i iuris interpretes, dietro i quali stanno, verosimilmente, gli
esponenti dei gruppi dominanti, muovendo dal presupposto che soltanto i tribuni
fossero da considerare sacrosancti,
miravano in ultima analisi a subordinare gli edili plebei all’imperium dei magistrati superiori della civitas».
[52] Cfr. M. T. Sblendorio
Cugusi (a cura di), M.
Porci Catonis Orationum reliquiae,
Introduzione, testo critico e commento filologico, Torino 1982, p. 119 fr.
LXXIII.
[53], Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, II, 3ª ed.,
Leipzig 1887, p. 486 n. 2, come data dell’orazione pensava all’anno
[54] Sulla risalenza della interpretatio
iuris publici di matrice plebea, mi permetto di rinviare ad un mio
precedente lavoro: F. Sini, A
quibus iura civibus praescribebantur.
Ricerche sui giuristi del III secolo a.C., Torino (1992) 1995, pp. 76 ss.,
con particolare riferimento all’attività giurisprudenziale di P. Sempronio Sofo
e ad una sua interpretatio iuris publici sulla questione «ubi duae contrariae leges sunt, semper
antiquae obrogat nova»: «Dal frammento di P. Sempronio Sofo, al di là della
situazione contingente che vide prevalere l’opinione di Appio Claudio, si
percepisce non solo una raffinata peritia
del giurista, ma soprattutto la grande attenzione con cui anche il ceto
dirigente plebeo seguiva l’evoluzione del diritto e l’interpretatio del codice decemvirale». Sulla figura di questo
importante giurista plebeo (a parte il vecchio lavoro di F. D. Sanio, Varroniana in den Schriften der römischen Juristen, Leipzig 1867,
pp. 148 s.) vedi in particolare F. Münzer,
v. Sempronius (nr. 85), in Real-Encyclopädie der classischen
Altertumswissenschaft, II A, Stuttgart 1923, coll. 1437 s.; T. R. S. Broughton, The
Magistrates of the Roman Republic, I, cit., p. 167; W. Kunkel, Herkunft und soziale Stellung der römischen Juristen, Weimar 1952,
pp. 5 s.; F. Wieacker, Die römischen Juristen in der politischen
Gesellschaft des zweiten vorchristlichen Jahrhunderts, in Sein und Werden im Recht. Festgabe für
Ulrich von Lübtow, Berlin 1970, p. 190; Id.,
Römische Rechtsgeschichte. Quellenkunde,
Rechtsbildung, Jurisprudenz und Rechtsliteratur, München 1988, pp. 534 s.;
F. D'Ippolito, I giuristi e la città. Ricerche sulla giurisprudenza della
repubblica, Napoli 1978, p. 9; Id., Giuristi e
sapienti in Roma arcaica, Roma-Bari 1986, p. 88 ss.; infine per quanto
riguarda il ruolo politico di P. Sempronio Sofo, basterà vedere in particolar
modo F. Cassola, I gruppi politici romani nel III secolo a.C.,
Trieste 1962 [rist. an. Roma 1968], pp. 149 ss.; e da ultimo R. A. Bauman, Lawyers in
Roman republican politics: a study of the Roman jurists in their political
setting, 316-82 BC, München 1983, pp. 66 ss.
[55] Nello stesso senso, fra i moderni, cfr. Th. Mommsen, Römisches
Staatsrecht, II, cit., pp. 472 ss.; E. De
Ruggiero, v. Aedilis, in Dizionario Epigrafico di Antichità Romane,
I, rist. Roma 1961, pp. 214 s.; P. M. Pineau, Histoire de l’édilité romaine, cit., pp. 9 ss.; P. Willems, Le droit public romain, 7ª ed., Louvain 1910, p. 267. Sul testo di Catone menzionato da Festo vedi, con interessanti
osservazioni, G. Nocera, Il potere dei comizi e i suoi limiti,
cit., pp. 71 ss.; C. Gioffredi, Il fondamento della tribunicia potestas e i procedimenti normativi dell’ordine plebeo, cit., pp. 42 ss.;
J. Bayet, L'organisation plébéienne et les leges sacratae, cit., pp. 145 ss.; R.
santoro, Potere ed azione
nell’antico diritto romano, in Annali
del Seminario Giuridico dell’Università di Palermo 30, 1967, pp. 489 ss.;
S. Mazzarino, Intorno ai rapporti fra annalistica e
diritto: problemi di esegesi e di critica testuale, cit., pp. 442 ss.; A. Piganiol, Les attributions militaires et les attributions religieuses du tribunat
de la plèbe, ora in Id., Scripta varia, II, Bruxelles 1973, pp.
267 ss.; J.-C. Richard, Les origines de la plèbe romaine, cit.,
pp. 573 ss.; P. Marottoli, Leges sacratae, cit., pp. 125 s.; S. Tondo, Profilo di Storia costituzionale romana. Parte prima, cit., p. 207;
G. Poma, Tra legislatori e tiranni, cit., pp. 304 s.; P. Cerami, Potere ed ordinamento nell’esperienza costituzionale romana, cit.,
pp. 118 s.; L. Garofalo, Il processo edilizio, cit., pp. 35 s.;
B. Albanese, Sacer esto,
cit., p. 165.
[56] Estremi della controversia in G. Poma, Tra legislatori e
tiranni. Problemi storici e storiografici sull'età delle XII Tavole, cit.,
pp. 304 s., la quale ipotizza anche l’età in cui si svolse: «Ad una
interpretazione ancora dissimile giungeva Catone, nell’affermare che la sacrosanctitas andava estesa dai tribuni
agli edili della plebe. A quando data questa controversia giuridica? Livio non
dà indicazioni, ma la citazione catoniana ci riporta ai tempi in cui Sesto Elio
Peto, console nel
[57] Seguo, pur consapevole dei rischi, la terminologia, ormai
classica, di F. Schulz, Storia della giurisprudenza romana, cit.,
pp. 34 ss.; 200 ss. Cfr. G. Nocera,
Iurisprudentia. Per una storia del
pensiero giuridico romano, Roma 1973, pp. 10 s.; M. Bretone, Storia del
diritto romano, Roma-Bari 1987, pp. 153 ss.
[58] Così, ad esempio, Tito Livio 10.22.7: Ea ingenia consularia esse: callidos sollertesque, iuris atque
eloquentiae consultos, qualis Ap. Claudius esset, urbi ac foro praesides habendos
praetoresque ad reddenda iura creandos esse; 39.40.5: Ad summos honores alios scientia iuris, eloquentia,
alios gloria militaris provexit; huic versatile ingenium sic pariter ad omnia
fuit, ut natum ad id unum diceres, quodcumque ageret. Certamente sono da
considerare giuristi anche quei periti
religionum iurisque publici, di cui l'annalista cita un responso sui poteri
del console suffetto: Tito Livio 41.18.16: periti
religionum iurisque publici, quando duo consules eius anni, alter morbo, alter
ferro perisset, suffectum consulem negabant recte comitia habere posse.
[59] Vissuto presumibilmente nell'ultimo secolo della repubblica (G. Wissowa, v. L. Cincius, in Real-Encyclopädie der classischen
Altertumswissenschaft, III.2, Stuttgart 1899, coll. 2555 s.), L. Cincio
viene considerato da una parte della vecchia dottrina un poligrafo non
giurista: così P. Krüger, Geschichte der Quellen und Litteratur des
römisches Rechts, Leipzig 1888, p. 69 n. 83 (= Id., Histoire des
sources de droit romain, trad. franc. di M. Brissaud, Paris 1894, p. 92 n.
2); H. Peter, Historicorum Romanorum reliquiae, I, 2ª
ed., Stutgardiae 1914 [rist. an. 1967], p. CV; M. Schanz - C. Hosius,
Geschichte der römischen Literatur,
I, 4ª ed., München 1927 [rist. 1966], pp. 175 s.; F. Bona, Contributo allo
studio della composizione del «de verborum significatu» di Verrio Flacco,
Milano 1964, p. 158; e da ultimo F. Wieacker,
Römische Rechtsgeschichte. Quellenkunde, Rechtsbildung, Jurisprudenz
und Rechtsliteratur, I, cit., p. 570; ma in altro senso già L. Ceci, Le etimologie dei giureconsulti romani, cit., p. 71; F. P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt, I, cit., p. 252; Ph. E. Huschke - E. Seckel - B. Kübler,
Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquiae,
I, cit., p. 24; e più di recente M. Bretone,
Tecniche e ideologie dei giuristi romani,
cit., p. 16; V. Giuffrè, La letteratura de re militari. Appunti per una storia degli ordinamenti
militari, Napoli 1974, pp. 38 ss. [= Id.,
Letture e ricerche sulla “res militaris”, II, Napoli 1996, pp. 242 ss.].
[60] S. Mazzarino, Intorno ai rapporti fra annalistica e
diritto: problemi di esegesi e di critica testuale, cit., pp. 443 s.
[61] Basta scorrere soltanto i titoli delle sue opere, per percepire
l'eco dei molteplici interessi presenti nella riflessione del giurista: scrisse
un liber de fastis, un liber de comitiis, un liber de consulum potestate; almeno sei de re militari libri, almeno due de officio iurisconsulti libri, e ancora
un liber de verbis priscis e dei Mystagogicon libri. I frammenti di tali
opere sono raccolti in L. Ceci, Le etimologie dei giureconsulti romani, cit.,
pp. 71 ss.; F. P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt,
I, cit., pp. 252 ss.; H. Funaioli,
Grammaticae Romanae fragmenta, cit.,
pp. 371 ss.; Ph. E. Huschke - E. Seckel
- B. Kübler, Iurisprudentiae
Anteiustinianae reliquiae, I, cit., pp. 24 ss.
[62] Festo, De verb. sign.,
v. patricios, p.
[63] Utili riflessioni in S. Tondo, Profilo di storia costituzionale romana.
Parte prima, cit., pp. 205 ss., in part. p. 207: «Veniamo ora al secondo.
Questo aveva formato oggetto di valutazioni discordi già presso gli antichi iuris interpretes: alcuni erano venuti a
sostenere che la lex, sancendo sotto
pena di sacertà l’inviolabilità come per i tribuni così per gli aediles, avesse esteso a quest’ultimi la
qualifica di sacrosancti ch’era stata
originariamente propria dei primi. Mentr’altri più giustamente continuavano a
tenere ferma la distinzione, considerando decisivo ai fini della qualificazione
il giuramento che aveva reso irrevocabile l’inviolabilità, quale fin
dall’inizio intervenuto sì per i tribuni (“tribunos vetere iure iurando plebis,
cum primum eam potestatem creavit, sacrosanctos esse”) ma non per gli aediles: tanto che rispetto a
quest’ultimi poté in prosieguo affermarsi un’interpretazione riduttiva della
stessa lex (tale precisamente da
consentire che l’edile potesse essere arrestato da magistratus maiores)».
[64] Insiste molto sul valore di questa legge Valeria Orazia come
«modello» G. Nocera, Il potere dei comizi e i suoi limiti,
cit., p. 72 : «Ma, a prescindere dagli scopi degli interpreti, è certo che la
legge Valeria Orazia fornì in seguito il criterio per definire come sacrate
quelle leggi che, a somiglianza di essa, dichiarava la sacertà del trasgressore.
Una tale interpretazione positiva della prima legge sacrata poneva, com'è
ovvio, a presupposto di ogni legge analoga quello della sua regolare votazione
nei comizi del popolo. Nondimeno, la necessità di questo presupposto non doveva
da tutti essere sentita se, già prima che i plebisciti fossero parificati alle
leggi, non mancavano coloro i quali sostenevano il carattere sacrato delle
deliberazioni prese dalla plebe sul Monte Sacro: sunt qui esse dicant sacratas quas plebes iurata in Monte sacro sciverit».
[65] G. Lobrano, Il potere dei tribuni della plebe, cit.,
pp. 60-61; mette conto seguire la riflessione metodologica del collega
dell’Università di Sassari nella sua compiutezza argomentativa: «La analisi di
questa formulazione la rivela articolata in due componenti, tra loro
reciprocamente integrantisi. Una è la ‘ostinazione’ metodologica a volere
trovare la chiave giuridica della tribunicia
potestas in ‘episodi’ di origine (cioè i procedimenti normativi posti in
essere alla base della sua costituzione o, meglio, della sua rilevanza
nell’ordinamento del populus romano),
senza avvertire che questi episodi non sono, in sé, intelligibili, se non in
riferimento alle coordinate di un (pre)-determinato sistema giuridico. L'altra
componente è, quindi, appunto il carattere necessitatamente preconcetto della
sistematica cui si è costantemente fatto ricorso, mutuandola sempre dalla
esperienza statualistica contemporanea ed invariabilmente utilizzandola nella
ricerca come un pre-giudizio mai posto in discussione dalla ricerca medesima.
Il sistema religioso-giuridico repubblicano romano diviene allora, sotto i
profili fondamentali e decisivi delle fonti e delle forme di produzione del
diritto, una copia straordinariamente fedele dello stato borghese ottocentesco,
e quelle sue componenti, che non si attagliano al modello contemporaneo, sono
liquidate, in tutto o in parte, come falsi storici di annalisti fantasiosi e
storici faziosi, o come mere situazioni ‘di fatto’, cioè agiuridiche o
antigiuridiche, eventualmente protraentisi per secoli» (pp. 61-62; cfr. anche
le pp. 121 ss.).
[66] Cfr. L. Garofalo, Il processo edilizio. Contributo allo studio
dei iudicia populi, cit., p. 35:
«Emerge dunque da questo brano che anonimi iuris
interpretes opinavano che la lex
Valeria Horatia del
[67] S. Mazzarino, Intorno ai rapporti fra annalistica e
diritto: problemi di esegesi e di critica testuale, cit., p. 443.
[68] Cfr. J. Bayet,
L'organisation plébéienne et les leges sacratae, cit., pp. 151 s.: «Lorsqu'il
s'agit des édiles de la plèbe, même ambiguïté, mais plus lucide, entre fonction
plébéienne religieusement protégée et magistrature d'État. Tite-Live connaît et
affirme la loi de 449, qui les déclare sacro-saints, seuls sans doute avec les
tribuns; et c'était aussi l'avis de Caton l'Ancien. Cependant, des juristes le
niaient, sur erreur philologique, nous l'avons vu, mais aussi parce qu'ils
avaient des exemples d'édiles saisis et emprisonnés sur l'ordre de magistrats
supérieurs. Mais cette expérience ne peut dater que d'une époque - sensiblement
postérieure - où l'édilité était entrée dans la chaîne des magistratures
régulières».
[69] Cfr. al riguardo anche G. Poma,
Tra legislatori e tiranni. Problemi
storici e storiografici sull’età delle XII tavole, cit., p. 304: «Secondo
altra interpretazione giuridica, con la stessa lex si provvedeva a rendere inviolabili anche i consoli e i
pretori, i quali ultimi si eleggevano con gli stessi auspici con cui si
eleggevano i consoli: la tesi era fondata sul fatto che i consoli erano in
precedenza chiamati iudices e che il
termine iudices compariva nel testo
della legge. Livio respinge decisamente questa seconda interpretazione (III,
55, 12): ... Iis temporibus nondum
consulem iudicem, sed praetorem appellari mos fuerit (osservazione che non
impedisce poi a Livio di chiamarli sempre e comunque consules!). L’errore discendeva, evidentemente, anche se Livio non
lo dice in forma esplicita, dall’aver inteso che nel sostantivo iudices fossero compresi i consoli e i
pretori, che, d’altra parte, non sono assimilabili ai magistrati plebei».
[70] Quale esempio di utilizzazione in senso giuridico di tali fonti,
mi permetto di citare F. Sini,
Bellum nefandum. Virgilio e il problema del "diritto internazionale antico",
Sassari 1991; ma vedi anche O.
Diliberto, La struttura del
votum alla luce di alcune fonti letterarie,
in Studi in onore di A. Biscardi, IV,
Milano 1983, pp. 297 ss.; G. Luraschi,
Foedus nell'ideologia virgiliana, in Atti del III Seminario Romanistico Gardesano.
Promosso dall'Istituto Milanese di
Diritto Romano e Storia dei Diritti Antichi. 22-25 Ottobre 1985, Milano
1988, pp. 279 ss.
[71] O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, 2 voll.,
Lipsiae 1889. Di recente, nella prestigiosa collana “Antiqua”, diretta da Luigi
Labruna, sono stati ripubblicati gli scritti del grande romanista tedesco: O. Lenel, Gesammelte Schriften, herausgegeben und eingeleitet von Okko
Behrends und Federico D'Ippolito, 4 voll., Napoli 1990-1992; con due importanti
saggi dei curatori (O. Behrends, Otto Lenel [13.12.1849 - 7.2.1935]. Positivismus im nationalen Rechtsstaat als Haltung und Methode. Zur
Herausgabe seiner gesammelten Schriften, pp. XIII ss.; F. D'Ippolito, Otto Lenel e la giurisprudenza romana, pp. XXXV ss.). Per il
profilo biografico e scientifico, nonché per la valutazione del suo contributo
alla scienza giuridica contemporanea, oltre i saggi appena citati, vedi fra gli
altri: E. Albertario, Otto Lenel, in Enciclopedia Italiana 20,
rist. 1933, col. 836; F. Pringsheim, In memoriam, in Studia et
Documenta Historiae et Iuris 1, 1935, pp. 466 ss.; M. Wlassak, Erinnerungen an Otto Lenel, in Almanach
der Akademie der Wissenschaften in Wien 85, 1935 (ma 1936), pp. 309 ss.; E.
Bund, Otto Lenel, in J. Vincke,
Freiburger Professoren des 19. und 20.
Jahrhunderts, Freiburg 1957, pp. 77 ss. (ivi altra letteratura biografica);
brevemente anche F. Wieacker, Privatrechtsgeschichte der Neuzeit, II,
neubearb. Aufl., Göttingen 1967; cit. in trad. it., Storia del diritto privato moderno, II,
Milano 1980, p. 108.
[72] O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, I, Lipsiae
1889, Praefatio, § I. Non è certo
senza significato, che in merito all'adozione del termine palingenesia quale titolo della raccolta, quasi per certo improntato
sull'opera di C. F. Hommel (Hommelii,
Palingenesia librorum iuris veterum, sive
Pandectarum loca integra ad modum indicis Labitti et Wielingii oculis exposita
et ab exemplari Florentini Taurelli accuratissime descripta, 3 voll.,
Lipsiae 1767-1768), il Lenel ricordasse di aver dovuto superare anche le forti
obiezioni espressegli dal Mommsen, il quale forse in tale titolo vedeva un
proposito quasi impossibile da mantenere: cfr. O. Behrends, Otto Lenel,
cit., p. XIX n. 26. Valutazione critica del “programma” esegetico del grande
studioso tedesco, da ultimo in F. Sini,
A quibus iura civibus praescribebantur.
Ricerche sui giuristi del III secolo a.C., cit., pp. 51 ss.
[73] O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, I, cit., Praefatio, § II: «Singulos scriptores, ratione
habita non ubique gentis nominis, sed quo designari solent, secundum litterarum
ordinem disposui. Ita ex. gr. Caelius Sabinus sub littera C, Masurius Sabinus
sub littera S invenientur. Qui ordo, praeterquam quod ad usum maiorem
commoditatem praebet, minoribus difficultatibus obnoxius est quam secundum
tempora dispositio, quippe cum non semper satis certo definire possit quo
quisque saeculo ixerit. In fine totius operis duplex additur index, alter alphabeticus, alter
chronologicus». Sui criteri adottati dal Lenel per ordinare i
materiali dei singoli giureconsulti, vedi la valutazione, stringata ma
efficace, di L. Wenger, Die Quellen des römischen Rechts, Wien
1953, p. 876 e n. 214.
[74] O. Lenel, Palingensia iuris civilis, I, cit., Praefatio, § III: «Singulorum librorum
fragmenta ita disponere conatus sum, ut inde ratio et conexus totius operis e
quo desumpta sunt perspiceretur. Quod ubi fieri non potuit, hunc ordinem
secutus sum, ut primum ponerentur e digestis fragmenta, deinde quae in ceteris
de iure libris inveniuntur, ultimo vero loco quae alibi tradita sunt, insertis
tamen inter digestorum fragmenta iis quae similis argumenti videbantur. Caute
autem in illa restitutione procedendum esse censui et ita ut artis nesciendi
numquam immemor essem. De varia ratione rerum disponendarum, qua iuris auctores
usi sint, suo quoque loco diximus neque hic accuratius inquiremus. Singula
singulorum librorum capita, ubi fieri potuit, rubricis distinxi».
[75] Da notare che tale rigore risulta, ancora oggi, condiviso almeno
in parte da settori non trascurabili della scienza romanistica: cfr., ad
esempio, F. Bona, Cicerone e i libri iuris civilis di
Quinto Mucio Scevola, in Questioni di
giurisprudenza tardo-repubblicana. Atti di un Seminario - Firenze 27-28 maggio
[76] O. Behrends,
Otto Lenel, cit., p. XIX, sottolinea,
a proposito della Palingenesia, la
acribia ricostruttiva e la «methodische Strenge» del Lenel: «Und auch die
Palingenesie verdeutlicht, indem sie für die historisch arbeitende Romanistik
den Vorrang der klassischen Juristenschrift gegenüber den Digesten klarstellt
und mit methodischer Strenge in den Digestenfragmenten eine Fülle von
justinianischen Glättungen und Interpolationen nachweist, mit grossem Nachdruck
den Abstand zwischen dem römischen und dem geltenden Recht».
[77] Sulla reale portata del pensiero del Lenel, riguardo alla
«misera condicio» delle edizioni del testo festino, vedi la riflessione di F. Bona, Cicerone e i libri iuris
civilis di Quinto Mucio Scevola,
cit., p. 244 n. 109 («Non so se - con riguardo a Festo -, la ‘misera condicio’
lamentata, attraverso cui i frammenti sono stati tramandati si debba intendere
esclusivamente con riguardo allo stato, veramente miserevole, in cui versa la
tradizione testuale dell'epitome, o se possa riferirsi anche alle difficoltà di
una sua lettura critica. Una domanda destinata forse a rimanere senza risposta
è se Lenel [...] abbia potuto o, pur potendolo, non abbia voluto tener conto
delle Verrianische Forschungen di R. Reitzenstein, che sono
del 1887 e che hanno aperto la strada all'esame stratigrafico delle glosse
delle “seconde” parti delle singole lettere, in cui si articola l'epitome
festina e che non avrebbe mancato di suggerire o qualche maggiore cautela
nell'ordine di idee perseguito dal Lenel o, viceversa, qualche maggiore fiducia
nell'allargare la scelta anche fuori dell'opera festina»); aderisce, nella sostanza,
F. D'Ippolito, Otto Lenel e la giurisprudenza romana,
cit., pp. XLIII s.: «Vorrei qui attirare l'attenzione sulla scelta dell'esclusione
di Festo. Bisogna, infatti, considerare che, quando
[78] Questo atteggiamento del Lenel, sembra trovare una qualche
giustificazione da parte di F. D'Ippolito,
Otto Lenel e la giurisprudenza romana,
cit., p. XLV, quando parla di un «suo inevitabile ritrarsi di fronte alla
sterminata platea della tradizione “letteraria” della giurisprudenza romana
(ancora tutta da indagare)».
[79] Per la critica alle posizioni del Lenel, vedi L. Raggi, Storia esterna e storia interna del diritto nella letteratura
romanistica, in Bullettino
dell'Istituto di Diritto Romano 62, 1959, pp. 199 ss. [= Id., Scritti, Milano 1975, pp. 72 ss.], il quale evidenzia il persistere
in esse della distinzione formulata dal Leibniz tra storia esterna e storia
interna del diritto: «Da sottolineare inoltre come questa concezione
leibniziana riecheggi la convinzione - a tutt'oggi non ancora scomparsa -
dell'estraneità dello jus publicum alla concezione romana dello jus» (p. 85; ivi anche n. 30).
[80] A. Heimberger, Il diritto romano privato e puro, trad.
it. di C. Bosio, 3ª ed., Bellinzona 1851, p. 1.
[81] Cfr. ad esempio quanto scriveva, a proposito delle ricerche
giuspubblicistiche di Carlo Sigonio, C. Bosio,
Prefazione del Traduttore, in A. Heimberger, Il diritto romano privato e puro, cit., p. IX: «L'opera del
Sigonio, De antiquo jure populi
romani, ancorché utilissima anche al
presente, più che del vero Diritto romano, si occupa della parte storica e archeologica
del medesimo».
Ma nello stesso senso, in tempi a noi più vicini, vedi anche S. Perozzi, Istituzioni di diritto romano, I, Roma 1928, p. 4: «Il nome di
diritto romano indica [...] per antonomasia il diritto romano privato e non
comprende il pubblico. Ciò pure dipende da ragioni storiche, dal fatto cioè che
la codificazione giustinianea nella parte prevalente e di maggior pregio è una
codificazione del diritto privato e quasi esclusivamente questa sola parte ebbe
nei paesi e dal tempo accennati valore di legge e trattazione scientifica».
[82] Utilizzo non casualmente l'espressione iura populi Romani, in quanto terminologia specialistica del
linguaggio giuridico romano: cfr. Gaio, Inst.
1.2: Constant autem iura populi Romani ex
legibus, plebiscitis, senatusconsultis, constitutionibus principum, edictis
eorum, qui ius edicendi habent, responsis prudentium. Sull’importante testo
gaiano, vedi ora V. Giodice-Sabbatelli,
Gli iura populi Romani nelle istitizioni di Gaio, Bari 1996,
pp. 41 ss.
[83] Contro tale tendenza omissiva vedi, ad esempio, le forti
obiezioni di F. Stella Maranca, Il diritto pubblico romano nella storia
delle istituzioni e delle dottrine politiche, in Id., Scritti vari di
diritto romano, Bari 1931, pp. 86 ss.