N°
2 - Marzo 2003 – Tradizione Romana
Università di Sassari
Ut iustum
conciperetur bellum: guerra “giusta” e sistema giuridico-religioso romano
Sommario: 1. Carattere
originario del “diritto internazionale” di Roma antica. – 2. Concezioni romane della
guerra (e della pace). – 3. Hostis apud maiores nostros is
dicebatur, quem nunc peregrinum dicimus: da ‘straniero’ a ‘nemico’. – 4. La
guerra tra religione e diritto: il concetto di bellum iustum.
– 5. Dalla guerra alla
pace.
In un lavoro pubblicato agli inizi degli anni Novanta del secolo
appena trascorso[1],
avevo avuto modo di affrontare il tema della guerra e della pace nel sistema
giuridico-religioso romano[2],
studiando gli impieghi virgiliani di alcune categorie del “diritto
internazionale antico”. I risultati di quelle mie lecturae vergilianae[3],
soprattutto in riferimento agli hostes, al bellum
e alla pax, offrono solidi argomenti per criticare convinzioni
inveterate della dottrina romanistica contemporanea[4]:
intendo riferirmi alle posizioni di
quanti hanno teorizzato l’ostilità permanente fra i popoli e l’assenza di
diritti per gli stranieri quali condizioni primordiali dei rapporti fra gli
uomini[5];
da cui consegue la convinzione che, normalmente, gli antichi considerassero la
guerra (e non la pace) come stato naturale delle relazioni “internazionali”,
ogni qualvolta non esistesse comunità di etnia, ovvero non fosse intervenuta la
stipulazione di un trattato[6].
Non è certo possibile procedere, qui di
seguito, ad un esame dettagliato della dottrina favorevole a tali tesi, che per
lungo tempo sono state accolte quasi unanimemente nel campo degli studi
romanistici, soprattutto in ragione della determinante influenza di Theodor
Mommsen[7].
Sarebbe troppo lungo perfino il semplice elenco degli studiosi che hanno
aderito a questa impostazione storiografica[8];
anche se non tutti consentirono con le estremizzazioni di Eugen Täubler, il
quale non si limitò a propugnare la tesi dell’ostilità naturale nei rapporti
“internazionali” dell'antichità («Der Staatsfremde gilt rechtlich als Feind.
Der einzelne wie der Staat tritt erst durch eine Rechtshandlung, den Vertrag,
aus dem Zustande der natürlichen Feindschaft in den der Verkehrsgemeinschaft»)[9];
ma si spinse fino a teorizzare che la stessa origine dei trattati
internazionali fosse da ricercare nel superamento della primitiva usanza di
uccidere i nemici sconfitti[10].
Basterà ricordare come ancora oggi, pur
tra precisazioni e cautele, una parte autorevole della dottrina
romanistica continui a ritenere elementi caratteristici della più antica
esperienza giuridica del Popolo romano proprio l’ostilità naturale e la carenza
di protezione giuridica per lo straniero[11].
Le tesi del Mommsen e dei suoi numerosi seguaci, contestate
sporadicamente tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento[12],
furono sottoposte a serrate critiche da parte di
Alfred Heuss[13];
il quale, sulla base di un attento riesame delle fonti, pervenne alla
conclusione che i Romani considerassero esistenti con gli altri popoli un certo
numero di rapporti giuridici, indipendentemente dalla stipulazione di trattati;
dimostrando in particolare: che non esistevano trattati di
amicizia per porre fine all’ostilità naturale; che il bellum iustum era
considerato necessario anche in caso di guerra contro popoli con i quali non
preesisteva alcun trattato; infine, che nella formula e nel rituale dell’indictio
belli non si trovava alcun riferimento ad una precedente violazione di
trattati[14].
La critica alla tesi dell’ostilità naturale fu riproposta in
Italia da Francesco De Martino nel 1954, con la pubblicazione della prima
edizione del secondo volume della sua Storia della costituzione romana[15].
L’insigne studioso ha contestato in maniera radicale «l'opinione comunemente
accettata sul carattere originario delle relazioni internazionali di Roma»[16];
posizioni ribadite ancora nel 1988, con coerenza e mirabile rigore
argomentativo, nella relazione dedicata a L’idea della pace a Roma dal’età
arcaica al’impero[17].
In seguito, le conclusive ricerche sul sistema sovrannazionale
romano di Pierangelo Catalano[18]
(lo studioso che – per esplicito riconoscimento del De Martino – «ha dato i
maggiori e più originali contributi al tema dei rapporti con gli stranieri»[19])
hanno dimostrato la virtuale universalità del sistema giuridico-religioso
romano[20]
e quanto questa «concezione universalistica del diritto» contrasti «con le teorie moderne e contemporanee secondo cui lo stato
naturale (o 'primitivo') delle relazioni tra i popoli sarebbe la guerra»[21].
Come ha ben documentato Karl-Heinz Ziegler nella rassegna sul Völkerrecht
der römischen Republik[22],
le posizioni contrarie all'esclusivismo giuridico e all'ostilità naturale hanno
guadagnato sempre nuovi consensi tra gli studiosi che si sono occupati di
“diritto internazionale” dell'antichità. Per alcuni si è assistito perfino alla
revisione di opinioni espresse in precedenza: è il caso di Paolo Frezza, il
quale, introducendo forti limitazioni alle tesi mommseniane[23],
ha ammesso l’esistenza di rapporti intertribali, seppure
in un processo dialettico che vede il «momento “volontaristico” profondamente
compenetrato col momento “naturalistico”»[24].
Nel filone delle tesi propugnate dal Heuss, si colloca la
monografia che Werner Dahlheim ha dedicato allo studio della struttura e
dell'evoluzione del diritto internazionale romano, in cui appare ben fermo il
rifiuto della tesi dell'ostilità naturale[25];
anche se, invero, lo studioso tedesco non sembra cogliere a pieno il valore
dello ius fetiale[26].
Analizzando la condizione giuridica dei socii nominisve Latini e degli
Italici, Virgilio Ilari si è orientato nello stesso senso: «Oggi i presupposti
stessi della teoria tradizionale appaiono superati. Dopo le critiche del Heuss,
l'idea dell'ostilità naturale fra i gruppi etnici e l’assenza di diritti dello
straniero, sono diventate insostenibili»; lo studioso ritiene, inoltre, che
superata «l’idea dell'inesistenza di rapporti internazionali in mancanza di una
comunanza giuridica costituita da legami storici o da trattati perpetui», si
siano poste le premesse «per una concezione c.d. “volontarista” dei rapporti
tra Roma e l’Italia e della natura giuridica dell’alleanza italica»[27].
Infine, pur non trattando espressamente la questione nel suo lavoro dedicato all'analisi giuridica della tavola bronzea di Alcántara, anche Dieter Nörr mostra di seguire lo stesso orientamento laddove, a proposito del diritto internazionale di Roma, postula «die Existenz einer
gemeinschaftlichen Normenordnung»[28].
Negli scrittori antichi emerge con molta chiarezza l’enorme
distanza che separa le concezioni romane della guerra e della pace dalle
moderne tesi dell’ostilità naturale. Al riguardo, sarà sufficiente proporre la
testimonianza di Virgilio; per quanto, la discussione fin
qui condotta esigerebbe una riflessione più generale sulle potenzialità di
ricerca insite nell’uso sistematico delle cosiddette fonti letterarie da parte
dei giusromanisti[29].
Dai versi del sommo poeta traspare la convinzione che la guerra,
lungi dall'essere la condizione naturale delle relazioni umane, costituisca una
violazione della religione e del diritto[30]:
una triste necessità cui si deve talora ricorrere, ma solo dopo aver fatto
constatare agli Dèi, mediante rituali che si ripetevano immutati nel tempo,
l'esistenza dell'ingiustizia e il rifiuto degli uomini a riparare. In merito
alle concezioni virgiliane della pace e della guerra, bisogna evidenziare la
perfetta coincidenza di esse con l’elaborazione teologica e giuridica dei
sacerdoti romani[31],
come risulta dalle occorrenze dei termini relativi ad arcaici
istituti della pace, quali amicitia, hospitium, foedus, e
alle regole della guerra.
Il termine amicitia compare solo due volte nelle opere di
Virgilio (Aen. 7.546; 11.320-322), ma in entrambi i luoghi la parola viene utilizzata dal poeta,
sempre in connessione con foedus, nel pregnante significato
giuridico-religioso di “amicizia tra popoli”[32];
stupisce, semmai, che l'autrice della v. amicizia dell’Enciclopedia
Virgiliana consideri tale impiego una «accezione secondaria»[33].
In merito a hospitium, è stato osservato che pur
non trovandosi nelle occorrenze virgiliane «riferimenti alla disciplina
giuridica dello hospitium», vi è tuttavia «un accenno all’antichissima
tutela di ordine religioso», col pertinente richiamo alla funzione di Iuppiter di dare hospitibus
iura[34].
Nell’uso del termine foedus, «allorché, narrando la
stipulazione di alleanze fra gruppi etnici differenti, non esita ad evocare per
tutte il tipico rituale dei feziali e a indicare in Giove colui che foedera
fulmine sancit»[35],
Virgilio manifesta, una volta di più, la sua piena adesione alla terminologia
ufficiale, ai concetti teologici ed alla giurisprudenza dei sacerdoti romani[36].
Ed è proprio nelle elaborazioni sacerdotali – come ha mostrato
autorevolmente Francesco De Martino – che si è conservato nella sostanziale
integrità originaria «il pensiero antichissimo, la vocazione politico-religiosa
di un popolo, il cui fine supremo è la pace e l'amicizia con lo straniero»[37].
Per quanto, nel latino della tarda età repubblicana,
il termine hostis avesse ormai acquisito «le sens d’ennemi en général,
de même que inimicus s'emploie pour hostilis»[38];
l'antico significato della parola restava comunque ben vivo sia nella
cultura giuridica, sia nella scienza antiquaria. Ne aveva
conservato l’originario significato il testo delle XII Tavole, anche nella forma linguistica in cui si
leggeva nel I secolo a.C.[39]:
il termine hostis vi figurava, infatti, per indicare genericamente lo “straniero”, come attesta un noto passo del De officiis ciceroniano:
Cicero, De off. 1.37: Hostis enim apud maiores nostros is dicebatur, quem nunc peregrinum
dicimus. Indicant duodecim tabulae: aut status dies cum hoste itemque adversus
hostem aeterna auctoritas. Quid ad hanc mansuetudinem addi potest, eum, quicum
bellum geras, tam molli nomine appellare? Quamquam id nomen
durius effecit iam vetustas; a peregrino enim recessit et proprie in eo, qui
arma contra ferret, remansit[40].
Rimanda all’antico significato di hostis
anche la formula del giuramento dei milites[41],
trascritta da Aulo Gellio nel sedicesimo libro delle “Notti Attiche”, ma
ripresa – com’è noto – dal quinto libro del De re militari del giurista
L. Cincio[42]:
Aulus Gellius, Noct. Att.
16.4.3-4: Militibus autem scriptis dies praefinibatur, quo die adessent et
citanti consuli responderent; deinde ita concipiebatur iusiurandum, ut
adessent, his additis exceptionibus: “nisi harunce quae causa erit: funus
familiare feriaeve denicales, quae non eius rei causa in eum diem conlatae
sunt, quo is eo die minus ibi esset, morbus sonticus auspiciumve, quod sine
piaculo praeterire non liceat, sacrificiumve anniversarium, quod recte fieri
non possit, nisi ipsus eo die ibi sit, vis hostesve, status condictusve dies
cum hoste; si cui eorum harunce quae causa erit, tum se postridie, quam per eas
causas licebit, eo die venturum aditurumque eum, qui eum pagum, vicum,
oppidumve delegerit”[43].
Di questo antico
significato della parola abbiamo un’altra attestazione nell’epitome di Paolo
Diacono:
Festi ep., p.
Si tratta della formula con cui il littore
allontanava da alcune cerimonie religiose determinate categorie di persone; una
formula che, attraverso il De verborum significatu di
Sesto Pompeo Festo, può farsi risalire alla scienza antiquaria di Verrio Flacco[45].
Anche il grande Varrone, nel De
lingua Latina, per esporre il caso delle molte parole che aliud nunc
ostendunt, aliud ante significabant, citava come esempio proprio il termine
hostis:
Varro, De ling. Lat. 5.3: Quae ideo sunt obscuriora, quod
neque omnis impositio verborum extat, quod vetustas quasdam delevit, nec quae
extat sine mendo omnis imposita, nec quae recte est imposita, cuncta manet
(multa enim verba li<t>teris commutatis sunt interpolata), neque omnis
origo est nostrae linguae e vernaculis verbis, et multa verba aliud nunc
ostendunt, aliud ante significabant, ut hostis: nam tum eo verbo dicebant
peregrinum qui suis legibus uteretur, nunc dicunt eum quem tum dicebant
perduellem[46].
Nella sua accezione originaria,
presente ancora nelle commedie di Plauto[47]
e quindi desunta senza dubbio dall’uso linguistico corrente, hostis
stava ad indicare lo straniero; più precisamente quello straniero qui suis
legibus uteretur ed al quale si riconosceva parità di ius col Popolo
romano.
Festus, De verb. sign., v. Status
dies <cum hoste>, pp. 414-
L’originaria accezione di hostis si presentava modificata
definitivamente nell’ultimo secolo della Repubblica[49],
in relazione con l’estendersi della valenza semantica di peregrinus, che
nei primi secoli dell’Impero finì per designare una particolare condizione
giuridica[50].
Di grande interesse, nella prospettiva
qui perseguita, appaiono alcuni versi in cui Virgilio utilizza il termine hostis
nel suo significato più squisitamente giuridico: per indicare, cioè, un “nemico” col quale esiste un legittimo stato di guerra.
Vergilius, Georg. 3.30-33: Addam urbes Asiae domitas pulsumque Niphaten / fidentemque fuga
Parthum versisque sagittis / et duo rapta manu diverso ex hoste tropaea bisque
/ triumphatas utroque ab litore gentis[51].
Nei versi citati,
la valenza giuridica di hostis è resa intelligibile dal poeta con il ricorso all’espressione triumphatas gentes; poiché, come attesta Aulo
Gellio, ma con molta probabilità il passo è tratto dai Memorialium libri di
Masurio Sabino[52]:
Aulus Gellius, Noct. Att. 5.6.21: Ovandi ac non triumphandi causa est, cum aut bella non rite
indicta neque cum iusto hoste gesta sunt, aut hostium nomen humile et non
idoneum est, ut servorum piratarumque, aut, deditione repente facta,
inpulverea, ut dici solet, incruentaque victoria obvenit[53];
solo nel caso in
cui avessero combattuto un bellum rite indictum contro
nemici qualificati come iusti hostes, il diritto pubblico romano
legittimava i magistrati vittoriosi all’onore del trionfo.
Un altro significativo exemplum virgiliano si legge nei
versi del primo libro dell'Eneide citati qui di seguito:
Vergilius, Aen. 1.378-380: Sum pius Aeneas, raptos
qui ex hoste penatis / classe veho mecum, fama super aethera notus. / Italiam
quaero patriam et genus ab Iove magno[54].
Enea riconosce implicitamente la legittimità del “nemico”, quando
presenta sé stesso come salvatore ex hoste dei Penati di Troia. Con la
salvezza degli Dèi Penati[55],
l’eroe troiano ha scongiurato l’estinzione religiosa e giuridica del suo
popolo, minacciata proprio dalla condizione di iusti
et legitimi hostes[56]
degli avversari. Per il diritto pubblico romano, in caso di vittoria militare,
solo la condizione di iustus hostis dava al vincitore la facoltà
di sottomettere con pieno diritto una città, o un popolo, e di porre fine
(eventualmente) all’esistenza giuridica e religiosa di quella comunità.
In questo senso, mi
pare che abbia valore pregnante l’antica formula solenne della deditio urbis,
ricalcata a parere di autorevoli studiosi sugli stessi documenti dei sacerdoti Fetiales[57].
L’annnalista Tito Livio ha conservato l’esempio paradigmatico della resa ai
Romani dell’antichissima Collazia: una città priva di qualsiasi importanza già
nella prima età repubblicana, che poi scomparve senza neppure lasciare traccia[58].
Livius 1.38.2: Deditosque Collatinos ita accipio eamque
deditionis formulam esse; rex interrogavit: “Estisne vos legati oratoresque missi
a populo Collatino ut vos populumque Collantinum dederetis?” – “Sumus.” –
“Estne populus Collatinus in sua potestate?” – “Est.” – “Deditisne vos
populumque Collatinum, urbem, agros, aquam, terminos, delubra, utensilia,
divina humanaque omnia, in meam populique Romani dicionem?” – “Dedimus.” – “At
ego recipio”[59].
Del resto, per i
giuristi romani, non solo la fine, ma anche l’inizio dell’esistenza giuridica
di una città (principium urbis) riposava sul compimento di un
solenne atto giuridico-religioso, il rito di fondazione[60],
le cui modalità improntate all’Etruscus ritus sono conosciute
grazie alla descrizione che ne ha lasciato M. Terenzio Varrone.
Varro, De
ling. Lat. 5.143: Oppida condebant in Latio Etrusco ritu multi, id est
iunctis bobus, tauro et vacca interiore, aratro circumagebant sulcum (hoc
faciebant religionis causa die auspicato), ut fossa et muro essent muniti.
Terram unde exculpserant, fossam vocabant et introrsum iactam murum. Post ea
qui liebat orbis, urbis pricipium; qui quod erat post
murum, postmoerium dictum, eo usque auspicia urbana finiuntur[61].
Senza dubbio, l’elaborazione etrusca del rito di fondazione di
città (e la sua adozione da parte della religione e del diritto di Roma) va
datata in età piuttosto risalente; Macrobio attesta, infatti, che in tale
cerimonia il vomere utilizzato per tracciare il solco pomeriale doveva essere
necessariamente di bronzo[62].
Riguardo agli hostes, non resta che riferirsi al pensiero
giuridico romano:
D. 50.16.118 (Pomponius libro secundo ad Quintum
Mucium): ‘Hostes’ hi sunt, qui nobis aut quibus nos publice bellum
decrevimus: ceteri latrones aut praedones sunt[63];
D. 50.16.234 pr. (Gaius libro
secundo ad legem duodecim tabularum): Quos nos hostes appellamus, eos
veteres 'perduelles' appellabant, per eam adiectionem indicantes, cum quibus
bellum esset[64].
I giuristi insegnavano, dunque, che la condizione giuridica di hostes
non poteva prescindere dalla persistente attualità di un bellum iustum,
cioè di un bellum publice decretum; in assenza di questa condizione, la
rigorosa disciplina dello ius belli esigeva che gli avversari di
Roma fossero considerati dei semplici latrones[65]
o praedones. Le conseguenze della distinzione non erano di poco conto
dal punto di vista del diritto, come attesta il giurista Ulpiano presentando il
caso dell’uomo qui a latronibus captus est:
D. 49.15.24 (Ulpianus libro
primo institutionum): Hostes sunt, quibus bellum publice populus Romanus decrevit vel ipsi populo Romano: ceteri
latrunculi vel praedones appellantur. Et ideo qui a latronibus captus est,
servus latronum non est, nec postliminium illi necessarium est: ab hostibus
autem captus, ut puta a Germanis et Parthis, et servus est hostium et
postliminio statum pristinum recuperat[66].
Proprio sulla base della condizione di latrones, il
giurista argomenta che la servitù legittima (cioè prevista
dallo ius gentium) non si deve applicare nei confronti del prigioniero (servus latronum
non est), né in caso di liberazione sarà necessario ricorrere
all’istituto del postliminium[67].
Anche nel trattare la concezione romana della guerra, voglio
muovere dalla prospettiva virgiliana. Pur connotate negativamente[68],
le quasi 200 occorrenze di bellum[69]
si presentano come materiale di prim’ordine per la ricostruzione delle
peculiarità giuridiche e religiose della guerra. Emergono, infatti, dai versi
virgiliani riti e cerimonie modellati, seppure con qualche anacronismo evidente,
in perfetta adesione alla teologia e alla giurisprudenza dei sacerdoti romani.
Avvenuto ormai da tempo il passaggio dell’antico du- iniziale a b-[70],
dell’originaria forma duellum[71] restava memoria solo in opere di
eruditi e antiquari, ricercatori curiosi delle superstiti forme arcaiche della
lingua latina[72].
Naturalmente, il termine arcaico duellum aveva continuato ad essere
utilizzato nelle formule solenni del più conservativo linguaggio sacerdotale[73]:
basterà leggere gli acta relativi ai Ludi saeculares di Augusto ed a quelli
celebrati da Settimio Severo[74],
per constatare come i termini guerra e pace siano ancora espressi dai sacerdoti
alla maniera arcaica con duellum e domus[75].
Ma anche fra gli antiquari, riguardo all'etimologia della parola bellum, le opinioni si presentavano contradditorie e (dal nostro punto
di vista) poco convincenti[76]:
questo vale tanto per l’intepretazione bellum a beluis di Festo (e
Verrio Flacco), attestata da Paolo Diacono[77];
quanto per il procedimento kata ¢nt…frasin, bellum a nulla re bella, del grammatico Servio[78].
Comunque, nell'accezione corrente del I secolo a.C., bellum sta a significare sia un conflitto armato tra hostes (definito quindi da precise
regole religiose e giuridiche)[79];
sia il periodo di tempo necessario alla conclusione delle ostilità, in antitesi
quindi al tempo di pace[80].
Sul piano giuridico-religioso la guerra
fu sempre concepita dai Romani come rottura traumatica delle naturali relazioni
pacifiche tra i popoli: «essa quindi – scrive Francesco De Martino – abbisognava
di una giustificazione, doveva essere bellum iustum piumque,
avere cioè una giusta causa»[81].
La consapevolezza che l’esercizio della guerra poneva il miles a
contatto con qualcosa di “sacrilego” e che, in ogni caso, l’uso immoderato
della violenza rischiava di provocare l’ira degli Dèi[82],
spinse il Popolo romano, il quale significativamente considerava sé stesso il
più religioso del genere umano (religione,
id est cultu deorum, multo superiores)[83],
a preoccuparsi fin da epoca risalente di attrarre anche la guerra nella sfera
del fas[84];
avvalendosi degli strumenti concettuali offerti dalla riflessione teologica e
giuridica dei suoi sacerdotes.
Formule e riti dello ius fetiale e dello ius
pontificium furono perciò elaborati con la funzione precipua di liberare
i cittadini-soldati dalla paura del sangue versato, di aiutarli con la
religione a vincere l’antico terrore davanti al furor, segno di un
possesso che priva l’uomo della sua libertà, di esimerli infine dal timore di
impegnarsi in azioni sgradite agli Dèi[85].
Anche la scansione del tempo fu impostata seguendo quello che J.
Bayet ha chiamato «le rythme sacral de la guerre»[86].
Sono da intendere in tal senso, infatti, le feste e le cerimonie religiose dei
mesi di marzo e ottobre del calendario romano arcaico, legate all’inizio e alla
fine delle attività guerriere, veri e propri «rites saisonniers de
sacralisation et désacralisation militaires»[87].
Si spiegano, in tal modo, le ragioni dell’estrema cautela, religiosa
e giuridica, che circondava l’esercizio della guerra da parte dei singoli
cittadini, ai quali – ammoniva Catone – era consentito combattere solo in
quanto milites:
Cicero, De off. 1.36-37:
[Popilius imperator tenebat provinciam in cuius exercitu Catonis filius tiro
militabat cum autem Popilio videretur unam dimittere legionem Catonis quoque
filium qui in eadem legione militabat dimisit. Sed cum amore pugnandi in
exercitu remansisset Cato ad Popilium scripsit ut si eum patitur in exercitu
remanere secundo eum obliget militiae sacramento quia priore amisso iure cum
hostibus pugnare non poterat. Adeo summa erat observatio in bello movendo].
Marci quidem Catonis senis est epistula ad Marcum filium in qua scribit se
audisse eum missum factum esse a consule cum in Macedonia bello Persico miles
esset. Monet igitur ut caveat ne proelium ineat; negat enim ius esse, qui miles
non sit, cum hoste pugnare.
Dunque, come fa rilevare Virgilio allo stesso Enea, l’esercizio
della guerra si collocava nella sfera del nefas[88]
in ragione dei suoi effetti devastanti di morte e contaminazione:
Vergilius, Aen. 2.717-720: Tu, genitor, cape sacra manu patriosque penatis; / me, bello e
tanto digressum et caede recenti, / attrectare nefas, donec me flumine vivo /
abluero[89].
Per quanto nei versi appena citati, forse per dare maggiore
solennità al contesto, o per meglio sottolineare il ruolo sacerdotale di Enea[90],
il poeta sembra riferirsi più che ad una generica purificazione rituale alle
abluzioni dei sacerdoti[91],
come si rileva dall’uso del verbo attrectare,
verbo «di carattere rigorosamente sacrale», che aveva un significato
positivo solo se riferito ai sacerdotes
populi Romani[92],
mentre usato per il resto della collettività assumeva il valore negativo di
«contaminare»[93].
Nessun biasimo poteva comunque addebitarsi al soldato che ha
ucciso in battaglia, anzi il fatto era considerato dai Romani non solo utile
alla comunità, ma addirittura onorevole[94];
tuttavia per la religione il miles
viene a trovarsi nella condizione di impiatus[95],
con la conseguente necessità di purificazione. Queste erano certamente le
motivazioni religiose per cui i soldati, reduci dalla battaglia, entravano in
città portando rami d’alloro[96];
uguali motivazioni stavano alla base della cerimonia dell’armilustrium[97],
che si celebrava il 19 ottobre, come generale purificazione dell’esercito alla
fine della stagione della guerra[98].
Le considerazioni fin qui esposte giustificano la casistica
rigorosa con cui i sacerdotes Fetiales[99],
e i teorici del diritto e della politica, determinavano quali generi di guerre
si potessero intraprendere legittimamente: quali, cioè, avessero le
caratteristiche del bellum iustum[100].
Le testimonianze antiche, per quanto riguarda la definizione di bellum iustum,
non sembrano uniformate a principi di astratta morale, attengono piuttosto,
come nel caso di Varrone, a valutazioni di conformità con la sfera religiosa e
rituale dello ius fetiale:
Varro, De ling. Lat. 5.86: Fetiales, quod fidei
publicae inter populos praeerant: nam per hos fiebat ut iustum conciperetur
bellum, et inde[101] desitum, ut foedere fides pacis constitueretur. Ex his
mittebantur, ante quam conciperetur, qui res repeterent, et per hos etiam nunc
fit foedus, quod fidus Ennius scribit dictum[102].
Ancora alla rerum repetitio si richiamava la
definizione proposta da Isidoro di Siviglia:
Isidorus, Orig. 18.1.2: Iustum
bellum est, quod ex edicto geritur de rebus repetitis aut propulsandorum
hostium causa;
mentre assai
significativamente appare fondato sulla necessitas, fonte di ius
per i giuristi romani[103],
il concetto di bellum iustum enunciato da Tito Livio, per quanto
in riferimento ad ambiente non romano:
Livius
9.1.10: Iustum est bellum, Samnites, quibus necessarium, et pia arma quibus
nulla nisi in armis reliquitur spes[104].
Del resto, una parte consistente della cultura greca e romana nel
II e I secolo a.C. aveva contestato proprio il concetto di bellum iustum,
teorizzando l’inconciliabilità di bellum e iustitia. Questa
problematica si presentava connessa profondamente con la riflessione
storico-giuridica sulla legittimità dell’egemonia “mondiale” dei Romani[105];
ma si inquadrava, al tempo stesso, nel dibattito sulle idee giusnaturalistiche
della tradizione filosofica greca e romana[106].
Cicerone, nel famoso discorso di Furio Filo[107],
improntato per sua stessa ammissione all’insegnamento di Carneade[108],
ricorre all'esempio della guerra per dimostrare quantum ab iustitia recedat utilitas:
Cicero, De re publ. 3.20: Cur enim per omnes
populos diversa et varia iura sunt condita, nisi quod una quaeque gens id sibi
sanxit, quod putavit rebus suis utile? Quantum autem ab iustitia recedat
utilitas, populus ipse Romanus docet, qui per fetiales bella indicendo et
legitime iniurias faciendo semperque aliena cupiendo atque rapiendo
possessionem sibi totius orbis comparavit[109].
Tra gli autori antichi, quello che ha
manifestato maggiore interesse per la definizione della “guerra giusta” è stato
senza dubbio Cicerone. Nell’impossibilità di procedere ad un puntuale esame dei
riferimenti testuali[110],
sarà sufficiente discutere due importanti passi, tratti dal De re publica,
che descrivono alcune tipologie di bellum iustum, per quanto
modellate in negativo, mediante la qualificazione della guerra ingiusta ed
empia:
Cicero, De re publ. 2.31: [Tullus Hostilius] cuius
excellens in re militari gloria magnae que extiterunt res bellicae, fecitque
idem et saepsit de manubis comitium et curiam, constituitque ius quo bella
indicerentur, quod per se iustissime inventum sanxit fetiali religione, ut omne
bellum quod denuntiatum indictumque non esset, id iniustum esse atque inpium
iudicaretur[111].
Cicero, De re publ. 3.35: Illa iniusta bella sunt
quae sunt sine causa suscepta. Nam extra <quam> ulciscendi aut
propulsandorum hostium causa bellum geri iustum nullum potest[112].
Secondo Cicerone il bellum per
poter essere considerato iustum abbisognava, dunque, di requisiti
formali e sostanziali. I primi derivavano dalla esatta osservanza dei riti e
delle procedure dello ius fetiale; il precetto attribuito al re
Tullo Ostilio può volgersi in positivo: ut omne bellum denuntiatum indictum
esset. I requisiti sostanziali dovevano consistere in motivazioni
validamente determinabili: riconoscibili, quindi, come tali in maniera
oggettiva sia di fronte agli Dèi, sia di fronte agli uomini. In ultima analisi,
il principio illa iniusta bella sunt quae sunt sine causa suscepta,
mentre frena l’arbitrio e la cupidigia del Popolo romano, ne assicura al tempo
stesso la legittimazione religiosa dell’imperium universale[113].
Per concludere, alcune brevi
riflessioni sulla pace. Anche in questo caso, proprio un passo virgiliano
illumina, forse meglio di ogni altro testo antico, la nozione “romana” della
pace, intesa nei suoi aspetti essenziali giuridici e religiosi.
Vergilius, Aen. 6.847-853: Excudent alii spirantia
mollius aera / (credo equidem), vivos ducent de marmore voltus, / orabunt
causas melius, caelique meatus / describent radio et surgentia sidera dicent: /
tu regere imperio populos, Romane, memento / (hae tibi erunt artes) pacique
imponere morem, / parcere subiectis et debellare superbos[114].
La prima evidenza che emerge dai versi appena citati è il
carattere bilaterale e imperativo della pax: rimandano al carattere
imperativo sia il termine mos, connesso con lex nel commento del grammatico Servio: Pacis morem leges pacis[115];
sia il verbo imponere[116].
L’osservanza della pax sembra
essere condizione necessaria per distinguere subiecti e superbi, assicurando la legittimità del parcere nei confronti dei primi[117]
e dello «sterminio con la guerra» nei confronti degli altri[118].
Nella pace, e nella sua conservazione, risiedevano dunque le motivazioni
teologiche e giuridiche della dimensione universale dell'imperium populi
Romani[119].
Il carattere bilaterale della pace risulta evidente anche nelle
definizioni che ne davano giuristi e antiquari, i quali sottolineavano la
connessione etimologica del termine pax con le parole pactio e pactum.
Tale è il caso della definizione attribuita da Verrio Flacco all’antiquario
augusteo Sinnio Capitone[120]:
Festus, De verb. sign., p.
o di quella che i
compilatori giustinianei trassero dal quarto libro ad edictum di Ulpiano:
D. 2.14.1.1-2
(Ulpianus libro quarto ad edictum): Pactum autem a pactione dicitur
(inde etiam pacis nomen appellatum est) et est pactio duorum pluriumve in idem
placitum et consensus[122].
Questa etimologia, ammessa anche da
molti linguisti moderni[123],
ricollega pax alla radice indoeuropea
pak-, alternante con pag-, da cui anche l'arcaico pacere delle XII Tavole[124],
pacisci, pacio, pactio. Pax, nome d'azione
femminile, designa l'atto di stipulare una convenzione, quindi gli atti
relativi alla situazione di pace[125];
in ciò sta anche la differenza tra pax e il termine greco e„r»nh: mentre questo
designa «il contenuto e i frutti del tempo di pace, la pax latina indica più semplicemente
il presupposto e la premessa di un contenuto, piuttosto che il contenuto
stesso»[126].
Dato il significato concreto della radice pak- «rendere saldo, fermo», si può perfino supporre che in origine
pax abbia indicato qualcosa di
materialmente determinato: in questo senso appare stimolante la proposta da
Marta Sordi[127],
per la quale l'arcaica pax sarebbe
connessa, mediante la pax deorum, alla vetusta cerimonia clavum pangere: il conficcamento
rituale del chiodo dextro lateri aedis
Iovis optimi maximi attestato da Tito Livio[128].
La definizione giuridica di pace, bilaterale e imperativa al
tempo stesso, esprime pienamente il «significato sacrale originario di pax»[129]:
accordo tra parti in conflitto (“atto” quindi rivolto alla pace e non alla
“situazione di pace” che da esso conseguiva), che tuttavia prefigurava, a
simiglianza della pax deorum[130], una gerarchizzazione dei rapporti
tra le parti contraenti, pur in presenza di idem
placitum et consensum. Da ciò lo strettissimo legame tra guerra e pace, o
meglio tra la vittoria militare e il paci
imponere morem[131], che rappresentava l'essenza della
vocazione pacifica ed universalistica perseguita dal populus Romanus, seppure attraverso una storia di guerre ininterrotte[132].
(*) [Questo scritto sarà pubblicato anche a stampa in: A. Calore (a cura di), Guerra
giusta? La metamorfosi di un concetto antico, Seminari di storia e di diritto, III, Giuffrè Editore, Milano
2003]
Davvero più che opportuna – in questo nostro
tempo, che pretende di coniugare la politica di potenza (e dunque la guerra)
con la giustizia internazionale – la decisione dell’amico Antonello Calore di dedicare il suo Seminario presso l’Università di
Brescia al confronto fra giuristi e storici sulla “guerra giusta”. L’iniziativa
del collega e la sua notevole capacità di persuasione mi hanno offerto
l’opportunità di riflettere ancora una volta sul tema e di ridefinire in questa
sede qualche idea già espressa in precedenza.
[1] F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto internazionale antico”,
[Pubblicazioni del Seminario di Diritto Romano dell’Università di Sassari, 7]
Sassari 1991. Recensioni di V. Giuffrè, in Iura 42, 1991 [ma 1994], pp. 213 ss.; N. Scivoletto, in Giornale Italiano di Filologia 49.1, 1997, pp. 138 s.
[2] P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano,
Torino 1965, pp. 30 ss., in part. 37 nt. 75; Id.,
Aspetti spaziali del sistema
giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.16.1, Berlin-New
York 1978, pp. 445 s.; Id., Diritto e persone. Studi su origine e
attualità del sistema romano, Torino 1990, p. 57; con il quale concorda, in
parte, anche G. Lombardi, Persecuzioni, laicità, libertà religiosa.
Dall’Editto di Milano alla Dignitatis
Humanae, Roma 1991, pp. 34 s. Tuttavia, la validità del concetto di
«ordinamento giuridico» è stata ribadita da R.
Orestano, Diritto. Incontri e
scontri, Bologna 1981, pp. 395 ss.; Id.,
Le nozioni di ordinamento giuridico e di
esperienza giuridica nella scienza del diritto, in Rivista trimestrale di Diritto Pubblico 4, 1985, pp. 959 ss., in
part. 964 ss.; Id., Introduzione allo studio del diritto romano,
Bologna 1987, pp. 348 ss.; seguito, fra gli altri, da P. Cerami, Potere ed
ordinamento nell’esperienza costituzionale romana, 3ª ed., Torino 1996, pp.
10 ss.; non del tutto in linea con le tesi dell’Orestano A. Guarino, L’ordinamento giuridico romano, 5ª ed., Napoli 1990, pp. 56 s.
[3] Ricalco il titolo dell’opera collettanea di critica filologica e
letteraria Lecturae Vergilianae, 3 voll., a cura di M. Gigante, Napoli 1981-1983.
[4] Cfr. F. Sini,
Populus et religio dans
[5] A.G. Heffter, De antiquo iure gentium prolusio, Bonnae
1823, p. 7; E. Osenbrüggen, De iure belli et pacis Romanorum,
Lipsiae 1836, pp. 8, 16, 36; M. Voigt,
Die Lehre von ius naturale, aequum et bonum und ius gentium der Römer, II, Leipzig 1858 [rist. an. Aalen 1966], pp. 102 ss.; Id., Die XII Tafeln, I, Leipzig 1883 [rist. an. Aalen 1966], pp. 269
ss.; R. von Jhering, Geist des römischen Rechts auf den
verschiedenen Stufen seiner Entwicklung, I (1852), Leipzig 1878, pp. 225
ss. [= Id., L'esprit du droit romain, trad. franc., I, Paris 1886 (rist. an.
Bologna 1969), pp. 226 ss.]; J. Madvig,
Die Verfassung und Verwaltung des
römischen Staates, I, Leipzig 1881, pp. 58 ss.; O. Karlowa, Römische
Rechtsgeschichte, Leipzig 1881, pp. 279 ss.; G. Fusinato, Dei
Feziali e del diritto feziale. Contributo alla storia del diritto pubblico esterno di Roma, in Memorie dell'Accademia
dei Lincei, ser. III, vol. 13, 1883-1884, pp. 455 ss.; G. Padelletti-P. Cogliolo, Storia del diritto romano, 2ª ed.,
Firenze 1886, p. 67; P.F. Girard,
Manuale elementare di diritto romano,
trad. it. di C. Longo, Roma-Milano-Napoli 1909, pp. 112 ss., 116; A. Bouché-Leclercq, Manuel des institutions romaines, Paris
1909 [rist. fot. 1931], p. 343; E. Cuq,
Manuel des institutions juridiques des
Romains, 2ª ed., Paris 1928, p. 92; P.
Huvelin, Études d'histoire du
droit commercial romain, opera postuma a cura di H. Lévy-Bruhl, Paris 1929,
pp. 7 s.; H. Horn, Foederati. Untersuchungen zur
Geschichte ihrer Rechtsstellung im Zeitalter der römischen Republik und des
frühen Prinzipates, Diss. Frankfurt a. M. 1930, pp. 6 s.; H. Lévy-Bruhl, Esquisse d’un théorie sociologique de l'esclavage, in Id., Quelques problèmes du trés ancien droit romain. Essai de solutions sociologiques, Paris 1934, pp. 15 ss.; P. Frezza,
Le forme federative e la struttura dei
rapporti internazionali nell’antico diritto romano, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 4, 1938, pp. 363 ss. [= Id., Scritti, I, Roma 2000, pp.
367 ss.]; P. de Francisci, Storia del diritto romano, I, Milano 1943, p. 335; P. Bonfante, Storia del diritto romano, I, rist. 4ª ed.
[6] Th.
Mommsen, Das
römische Gastrecht und die römische Clientel, in Id., Römische
Forschungen, I, Berlin 1864, pp. 326 ss.; E.
Täubler, Imperium Romanum. Studien zur Entwicklungsgeschichte des
römischen Reiches, I. Die Staatsverträge und Vertragsverhältnisse,
Leipzig 1913 [rist. an. Roma 1964], pp. 14 ss., 29 ss., 44 ss.
[7] Th.
Mommsen: Römische
Geschichte, I (1854), qui citata in trad. it.: Storia di Roma antica, nuova ed. con introduzione di G. Pugliese
Carratelli, I, Firenze 1984, p. 192; id.,
Das römische Gastrecht und die
römische Clientel, cit., pp. 319 ss.; Id.,
Römisches Staatsrecht, III.1, 3ª ed.,
Leipzig 1887, pp. 590 ss. [= Droit public romain, trad. franc. di
P.F. Girard, VI.2, Paris 1889, pp. 206 ss.]. è
nell’Abriss che la posizione del
grande giusromanista tedesco, forse proprio per esigenze di semplificazione, si
presenta più netta: Disegno del diritto
pubblico romano, trad. it. di P. Bonfante, rist. an. dell'ed. 1943, Milano
1973, p. 91: «Di fronte a questa federazione
latina, basata sulla comunità di razza e unita in una perpetua comunanza
giuridica, le comunità italiche di diversa nazionalità, e in seguito gli Stati
stranieri, si trovano in linea di diritto in perpetuo stato di guerra. Oltre i
confini della nazione latina non vi ha proprietà territoriale né romana né
straniera; l’abitante del territorio, l’hostis,
più tardi peregrinus, è in linea di
principio privo di diritto e di pace; l’immutabilità dello stato di guerra di
fronte alla nazione di stirpe diversa ha la sua espressione in questo, che con
le città etrusche, nelle quali la nazionalità diversa si affacciò per la prima
volta ai romani, non vennero altrimenti conchiusi trattati se non con termine
fisso».
[8] Da ricondurre per larga parte «alla componente soggettiva della
storiografia dell’Ottocento e del primo Novecento»: così p. Catalano, Linee del
sistema sovrannazionale romano, cit.,
pp. 8 ss.; Id., Diritto e persone. Studi su origine e
attualità del sistema romano,
cit., pp. IX ss., 10 ss. Per
l’aspetto più propriamente filosofico di tale impostazione storiografica, cfr. P. Bierzanek, Sur les origines du droit de la guerre et de la paix, in Revue Historique de Droit Français et Étranger 38, ser. IV, 1960, pp. 105 ss.
[9] E.
Täubler, Imperium Romanum. Studien zur Entwicklungsgeschichte des
römischen Reiches, I, cit., p. 1.
[10] E.
Täubler, Imperium Romanum. Studien zur Entwicklungsgeschichte des
römischen Reiches, I, cit., pp. 402 ss., in part. 406 s.: «Auf den
primitivsten Kulturstufen wird man an Tötung aus Angst, Menschenfrass und
Menschenopfer denken, als erste Entwicklungsstufe die Wehrwahndung des Fremden
als Sklave annehmen müssen. Hier trennt sich dann die Entwicklung des
Staatenvertrags und Gastvertrags. Der Unterschied darf nicht darin gesucht
werden, dass die Entwicklung des einen vom Staate ausgehen muss, die des
anderen von jedem einzelnen ausgehen kann, beruht vielmehr darauf, dass die
Entwicklung, die zum Staatsvertrag führt, den Gefangenen zum Geisel macht, ihn
für die Gemeinschaft, welcher er angehört, bürgen lässt, die zum Gastvertrage
führende dagegen den Fremden nicht in Beziehung zu einem dritten setzt und
deshalb nicht zu dessen Bürgen umwandelt vielmehr den Sklaven zum freien Mann
und den freien Mann vertragsmässig als Eigenbürgen zum Gastfreund macht».
[11] Di «situation permanente d’interhostilité qui règne entre les peuples ou les
cités» scrive, ad esempio, é. Benveniste, Le vocabulaire des institutions
indo-européennes, 1. Économie, parenté, société, Paris 1969, pp. 355 ss., in part. 361; nello stesso senso, anche A. Piganiol, Le conquiste dei Romani, trad. it. di F. Coarelli, Milano 1971, pp.
147 s.; A. Guarino,
Storia del diritto romano, 7ª ed., Napoli 1987, p. 82. Altri sottolineano, piuttosto, la
mancanza di diritti per lo straniero: P. Frezza, Corso di storia del diritto romano, 3ª ed., Roma 1974, p. 210; M. Bretone, Storia del diritto romano, Roma-Bari 1987, p. 129; M. Pastori, Gli istituti romanistici come storia e vita del diritto, 2ª ed.,
Milano 1988, p. 175; M. Talamanca, in Lineamenti di storia del diritto romano, sotto la direzione di M.
T., 2ª ed., Milano 1989, p. 154; Id.,
Istituzioni di diritto romano, Milano
1990, p. 103.
[12] Cfr. G. Baviera,
Il diritto internazionale dei Romani (estr. dall’Archivio Giuridico “Filippo Serafini”, nuova
serie, voll. I e II), Modena 1898, pp. 25 ss.; E. Seckel, über Krieg und Recht in Rom, Kaisergeburtstagrede, Berlin 1915, pp. 9 s., 25 ss.; critico
soprattutto nei confronti del Täubler si mostra anche B. Kübler, Römische
Rechtsgeschichte, Leipzig-Erlangen 1925, pp. 109 ss.
[13] Sul ruolo di questo studioso nella storiografia tedesca
contemporanea, vedi brevemente K. Christ,
Römische Geschichte und deutsche
Geschichtswissenschaft, München 1982, p. 245.
[14] A.
Heuss, Die
völkerrechtlichen Grundlagen der römischen Aussenpolitik in republikanischer
Zeit, Leipzig 1933, pp. 4
ss., 12 ss., 18 ss.
[15] F. De Martino, Storia della costituzione romana, II [1ª ed., Napoli 1954], 2ª ed. Napoli
1973, pp. 13 ss., in part. 39 ss., 46 ss., con ampia rassegna di bibliografia.
[16] F. De Martino, Storia della costituzione romana, II, cit., pp. 14-15: «A noi sembra
che nell’epoca delle grandi formazioni gentilizie le cause della guerra
dovevano essere di gran lunga più rare di come non avvenne in seguito;
l’occasione più frequente doveva essere quella della vendetta gentilizia, la
quale peraltro presupponeva che ciascun gruppo fosse convinto della sua
necessità, cioè il riconoscimento di un ordine universale, religioso e
giuridico. L'opinione comunemente accettata sul carattere originario delle
relazioni internazionali di Roma deve essere dunque riveduta, sia per ragioni
di ordine generale, sia perché Roma derivava dal comune ceppo indoeuropeo, come
altri popoli italici, e non è verosimile, che ben per tempo quest’eredità fosse
dispersa, quando resisteva in altri campi della vita sociale e giuridica».
[17] F. De Martino, L’idea della pace a Roma dall’età arcaica
all’impero, in VIII Seminario Internazionale di Studi Storici «Da Roma alla
Terza Roma», 21 aprile 1988, poi pubblicata in Roma Comune, a. XII, n. 45, aprile-maggio 1988, pp. 86 ss.
Sull’opera storiografica e giuridica dell'illustre studioso, del
quale merita di essere segnalata anche la raccolta degli scritti “minori”
curata da A. Dell’Agli, T. Spagnuolo Vigorita e F. d’Ippolito (Scritti di
diritto romano: I. Diritto e società in Roma antica, Roma 1979; II. Diritto
privato e società romana, Roma 1982; III. Nuovi studi di economia e
diritto romano, Roma 1988), vedi F.
Casavola, L’opera storica di
Francesco De Martino, in Labeo
24, 1978, pp. 7 ss.; Id., Francesco De Martino storico, in Index 18, 1990, pp. XV ss.; T. Spagnuolo Vigorita, Francesco De
Martino. Il fascino della storia, in Au-delà des frontières. Mélanges de droit romain offerts à Witold
Wołodkiewicz, Varsovie 2000,
pp. 967 ss.
[18] p. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, cit., pp. 8 ss., 51 ss.; Id., Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano,
cit., pp. IX s., 10 ss.
[19] F. De Martino, L’idea della pace a Roma dall’età arcaica
all’impero, cit., p. 86. Anche in altre parti di questo testo è espressa
convinta adesione alle tesi del Catalano: «La nuova concezione dei rapporti fra
Romani e stranieri induce ad una revisione del principio della esclusività del
diritto nella città-stato. Questo non può intendersi nel senso che lo straniero
era escluso da qualsiasi protezione giuridica in Roma, ma nel senso che vi
erano rapporti riservati soltanto ai cittadini, ai quali lo straniero non
poteva essere ammesso: questi rapporti rientravano nella categoria del ius
Romanum Quiritium, denominazione che si può supporre, come fa il Catalano con
molta decisione, sorta appunta per delimitare il campo dell’esclusività del
diritto» (p. 88); «Nei suoi studi illuminanti sul sistema dei rapporti con gli
stranieri, che ha chiamato sistema sovrannazionale romano, il Catalano ha
recato contributi che si possono ritenere definitivi in questo campo, affrontando
coraggiosamente questioni che sembravano risolte nel senso di un rigoroso
carattere esclusivo non solo del diritto, ma anche della religione antica. Egli
ha tratto dalle fonti prove decisive ed argomenti che fino ad oggi non hanno
trovato alcuna valida contestazione. Dalla critica alla teoria tradizionale
dell’inimicizia primitiva egli ha costruito un quadro dei rapporti
internazionali romani nuovo e molto più accettabile. Assumono il loro giusto
valore espressioni delle fonti, che implicano l’esistenza di principi comuni,
in certo senso universali» (p. 91).
[20] Per una rapida visione delle tesi sostenute dallo studioso, si
legga la «riflessione conclusiva» di Linee del sistema soprannazionale
romano, cit., p. 288: «Il sistema giuridico-religioso romano ha il suo
centro in Iuppiter, ed è, proprio per questo, virtualmente universale.
La virtuale universalità è attuata in una sfera di rapporti (con reges, populi
o singoli stranieri) la cui esistenza è indipendente vuoi da particolari
accordi vuoi da comunanza etnica. Entro il sistema si formano sfere di rapporti
più ristrette, e più fitte, sulla base di atti unilaterali o di accordi con
altri popoli. Tra queste sfere hanno particolare importanza le federazioni
adeguate alle realtà etniche: il nomen Latinum, e poi quella che
possiamo dire la “federazione italica”. Ho chiarito come siano particolarmente
i foedera, adeguati alle realtà politiche (oltre che etniche), a
forgiare i gruppi etnici. Per tutto questo è possibile definire il sistema (che
è romano perché alla sua “validità” è sufficiente la considerazione che ne
hanno i Romani) come sovrannazionale: non solo ad indicare l’implicito
superamento dell’attuale categoria del “diritto internazionale”, ma ad
esprimere come esso, alimentandosi dai gruppi etnici, li costituisca in sintesi
sempre più vaste, con volontà politica tendente ad una società universale».
[21] p. Catalano, Diritto e persone. Studi su origine e
attualità del sistema romano, cit., p. IX; ivi, vedi
anche la nt.
[22] K.-H. Ziegler, Das Völkerrecht der
römischen Republik, in Aufstieg
und Niedergang der römischen Welt, I.2, Berlin-New York 1972, pp. 68 ss.
[23] P. Frezza, Le forme federative e la struttura dei rapporti internazionali
nell'antico diritto romano, cit., pp. 373 ss., 397 ss. [= Id., Scritti,
I, cit., pp. 377 ss., 401 ss.]; una prima revisione, con l'abbandono
della tesi dell’ostilità naturale, si riscontrava già nel saggio L'età
classica della costituzione repubblicana, in Labeo 1, 1955,
pp. 320 ss. [= Id.,
Scritti, II, Roma 2000, pp. 133 ss.], dove peraltro è
ancora sostenuta la mancanza di diritti per lo straniero, riaffermando anche, in polemica col De Martino, l’appartenenza
originaria ed esclusiva delle forme giuridiche dei rapporti internazionali alle
relazioni fra popoli della lega latina (pp. 327 ss. = 140 ss.).
[24] P. Frezza,
Il momento “volontaristico” e il momento “naturalistico”
nello sviluppo storico dei rapporti “internazionali” nel mondo antico, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 32, 1966, pp.
299 ss., in part. 301 [= Id., Scritti,
II, cit., pp. 551 ss., 553]: «Sono ora persuaso – oserei dire definitivamente –
che il segreto dello sviluppo storico dei rapporti internazionali del mondo
antico può essere colto soltanto a patto di pensarlo dialetticamente: ossia a
patto di pensare compresenti il momento (che potrebbe essere chiamato
naturalistico) particolaristico delle relazioni intratribali, ed il momento
universalistico (volontaristico) delle relazioni intertribali». Nello stesso
senso, cfr. Id.,
In tema di relazioni internazionali nel mondo
greco-romano, Ibidem 33, 1967, pp. 337 ss., in
part. 348 s. [= Id., Scritti, II, cit., pp. 577
ss., 588 s.].
[25] W. Dahlheim,
Struktur und Entwicklung des römischen Völkerrechts im 3. und 2. Jahrhundert
v. Chr., München 1968, pp. 136 s.: «Es ist das Verdienst von A. Heuss, die
These von der natürlichen Feindschaft als Grundlage der internationalen
Beziehungen und damit den aus dieser Annahme resultierenden
Freundschaftsvertrag als Grundvertrag, der diese Hostilität beendet, in
überzeugender Weise widerlegt zu haben».
[26] W. Dahlheim,
Struktur und Entwicklung des römischen Völkerrechts im 3. und 2. Jahrhundert
v. Chr., cit., pp. 171 ss. («Eine so weitgehende moralische
Konzeption ist in den rudimentären Anfängen Roms, in die das Fetialrecht zurückführt, gar nicht denkbar.
Richtig ist, dass der Krieg in Rom zu einer "Rechtsexekution" wurde,
jedoch verbürgt der hier ausgesprochene Begriff "Recht" keine
objektive Rechtmäßigkeit im moralischen Sinne, die Bindung an das ius fetale
ist vielmehr eine superstitiöse und juristische, die jedes moralische
Moment unbeachtet lässt»: p. 173); critici anche K.-H. Ziegler, Das Völkerrecht der römischen Republik, cit., pp. 78 s.: «Die Bindung an das ius
fetiale als "eine superstitiöse und juristische, die jedes moralische Moment
unbeachtet lässt”, zu qualifizieren, wie es zulest W. Dahlheim getan hat,
scheint mir nicht glücklich. Rechtsformalismus und Rechtsethik sind keineswegs
notwendig Gegensätze, vor allem nicht in frühen Rechtsordnungen»; e P. Catalano, Diritto e persone, cit., p. XI nt.
[27] V. Ilari,
Gli Italici nelle strutture militari romane, Milano 1974, pp. 10-11; per questo studioso la concezione c.d.
volontarista si presenta in costante riferimento allo ius fetiale, a
proposito del quale aderisce alla «lettura volontarista e universalista»
proposta dal Catalano: cfr. Id.,
L’interpretazione storica del diritto di guerra romano
fra tradizione romanistica e giusnaturalismo, Milano
1981, p. V.
[28] D. Nörr, Aspekte des römischen Völkerrechts. Die Bronzetafel
von Alcántara, München 1989, p. 13: «Die Römer (und sie nicht allein)
gehen davon aus, dass der jeweilige Gegner sich grundsätzlich normativ verhält;
umgekehrt weiss man von den entsprechen – den Erwartungen dieses Gegners.
Normbrüche werden mit einem Unrechts – urteil versehen. Wenn man “Werturteile“
fällt, so setzt man die Existenz (oder wenigstens das Postulat) einer
gemeinschaftlichen Normenordnung voraus - die etwa erlaubt, den Feind in Kampf
zu töten, nicht aber nach der deditio».
[29] Cfr. F. Sini,
Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto internazionale antico”, cit. supra in nt. 1; Id., Interpretazioni
giurisprudenziali in tema di inviolabilità tribunizia (A proposito di Liv. 3,
55, 6-12), in Ius Antiquum - Drevnee Pravo 1, 1996, pp. 92 ss.; Id., Sua cuique civitati religio. Religione
e diritto pubblico in Roma antica, cit., pp. 313 ss.; ma anche O. Diliberto, La struttura del votum alla
luce di alcune fonti letterarie, in Studi
in onore di Arnaldo Biscardi, IV, Milano 1983, pp. 297 ss.; G. Luraschi, Foedus nell’ideologia virgiliana, in Atti del III Seminario Romanistico Gardesano.
Promosso dall'Istituto Milanese di
Diritto Romano e Storia dei Diritti Antichi. 22-25 Ottobre 1985, Milano
1988, pp. 279 ss.
[30] L’epica virgiliana si presenta caratterizzata da una evidente
connotazione negativa della guerra: Nulla salus bello (Aen.
12.362); crimina belli (Aen. 7.339); scelerata insania belli (Aen.
7.461); il bellum è qualificato di volta in volta horridum (Aen.
6.86; 7.41; 11.96), asperum (Aen. 1.14), crudele (Aen.
8.146; 11.535), dirum (Aen. 11.21). Vi è poi da considerare che,
assai significativamente, per Virgilio il bellum sul piano religioso
appartiene alla sfera del nefas (Aen. 2.217-220; 10.900-902), il che
giustifica l’uso degli aggettivi nefandum e infandum (Aen.
7.583; 12.572, 804); a ciò si aggiunga che nelle occorrenze virgiliane del
termine a bellum non sono mai riferiti aggettivi tipici del lessico
religioso e giuridico quali iustum, pium, felix: cfr.
H. Merguet, Lexikon zu
Vergilius, Lipsiae 1912, [rist. an. Hildesheim-New
York 1969], pp. 88 ss.
[31] Mentre la storiografia contemporanea è pervenuta con difficoltà
e ritardo alla consapevolezza che «L’énéide
est avant tout un poème religieux» (G.
Boissier, La religion romaine
d’Auguste aux Antonins, I, 3ª ed., Paris 1884, p. 231); la cultura romana
tardoantica aveva individuato nella divini et humani iuris scientia di
Virgilio (Macrobius, Sat. 3.9.16: Videturne vobis probatum sine
divini et humani iuris scientia non posse profunditatem Maronis intellegi?)
la chiave interpretativa della poesia virgiliana e considerava il poeta – per
usare le parole del Servio Danielino – gnarus totius sacrorum ritus
(Servius Dan., Ad Georg. 1.269), colui il quale in ogni occasione
disciplinam caerimoniarum secutus est (Servius Dan., Ad Aen.
12.172). Per maggiori approfondimenti, vedi il lavoro di H. Lehr, Religion und
Kultus in Vergils Aeneis, Diss. Giessen 1934, pp. 9 ss.;
brevemente F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto internazionale antico”, cit.,
pp. 17 ss. Di grande interesse anche le osservazione dell’archeologo Fausto Zevi, Note sulla leggenda di Enea in Italia, in
AA.VV., Gli Etruschi e Roma (Incontro di studio in onore di M. Pallottino, Roma
11-13 dicembre 1979), Roma 1981, pp. 147 s., sui riferimenti virgiliani
all’Atena Tritonia di Lavinio: «L'identificazione ha una sua particolare
importanza, sia in sede storico-religiosa, sia, soprattutto, perché permette
una rivalutazione di Virgilio come fonte topografica: in vari passi
dell'Eneide, e specialmente là dove si accenna a Lavinio, la dea è designata
come Tritonia Pallas o Tritonia virgo. L'appellativo Tritonia,
che aveva dato luogo a discussioni e speculazioni erudite, si spiega ora perfettamente
e, direi, letteralmente, come reale appellativo della dea lavinate. Ciò
dimostra, una volta di più, lo sforzo filologico che è alla base del poema
virgiliano, e la scarsa attendibilità di coloro fra i moderni, che, per
spiegare passi non chiari o non conformi alle teorie in voga, hanno pensato di
poter giustificare le incongruenze (forse solo apparenti) con licenze poetiche
o voli di fantasia di un autore che, più che mai, si rivela invece un poeta
doctus. Certo è che, in questo caso specifico, Virgilio è l’unica fonte
letteraria sul culto di Atena Tritonia a Lavinio, ora confermato
dall’archeologia; ed è estremamente interessante rilevare che il santuario di
Atena Tritonia era in completo abbandono già all’inizio del III sec. a.C.».
[32] M. Bellincioni, v. Amicizia, in Enciclopedia Virgiliana, I, Roma
1984, pp. 135 ss. Le diverse attestazioni di questo significato sono raccolte
nel Thesaurus Linguae Latinae (v. amicitia), I, 1900,
coll. 1893 s. All’esame dell’uso di amicitia nelle fonti latine, sono
dedicate alcune pagine del libro di M.R.
Cimma,
Reges socii et amici populi Romani, Milano 1976, pp. 27 ss., dove mancano però riferimenti
ai testi virgiliani; cfr. infine J.
Spielvogel, Amicitia und res publica: Ciceros Maxime während
der innenpolitischen Auseinandersetzungen der Jahre 59-50 v.Chr., Stuttgart
1993, pp. 5 ss.
[33] M. Bellincioni, v. Amicitia, cit., p. 135: «Il termine amicitia figura
in Virgilio soltanto due volte nell’Eneide; in entrambi i casi è usato nell’accezione
secondaria di “amicizia fra popoli”, dunque in senso affine ad “alleanza”»; in
tal modo, questa studiosa non mi pare comprendere il profondo significato
religioso e giuridico della scelta virgiliana di privilegiare «nella sua epopea
patria quell’a(micizia) che supera i rapporti individuali».
[35] G. Luraschi, v. Foedus, in Enciclopedia Virgiliana, II, cit.,
pp. 546 ss.; Id., Foedus nell'ideologia virgiliana, cit., pp. 281
ss.
[36] Per l'archivio dei pontefici: J.-V. Le Clercq, Des journaux chez les Romains, recherches précédées d’un mémoire sur
les annales des pontifes, et suivies de fragments des journaux de l’ancienne
Rome, Paris 1838, pp. 127 ss.; E.
Lübbert, Commentationes
pontificales, Berolini 1859; A.
Bouchėé-Leclercq, Les
Pontifes de l’ancienne Rome. étude
historique sur les institutions religieuses de Rome, Paris 1871 [rist. an.
New York 1975], pp. 19 ss.; P. Preibisch,
Quaestiones de libris pontificiis,
Vratislaviae 1874; Id., Fragmenta librorum pontificiorum,
Tilsit 1878; J. Marquardt, Römische Staatsverwaltung, III. Das Sacralwesen, 2ª ed. a cura di G. Wissowa,
Le basi per la ricostruzione critica del
materiale contenuto negli archivi sacerdotali erano già state poste, nella
prima metà dell’Ottocento, dalle opere di I.A.
Ambrosch: Studien und Andeutungen
im Gebiet des altrömischen Bodens und Cultus, Breslau 1839, pp. 159 ss.; Observationum de sacris Romanorum libris
particula prima, Vratislaviae 1840; Über
die Religionsbücher der Römer, Bonn 1843; Quaestionum pontificalium caput primum, Vratislaviae 1848; Quaestionum pontificalium caput alterum,
Vratislaviae 1850. Sulle compilazioni sacerdotali e sul valore
storico-giuridico dei dati provenienti da tali documenti, vedi, fra gli altri, C.W. Westrup, On the Antiquarian-Historiographical Activities of the Roman Pontifical
College, København 1929 (lo stesso tema viene poi ripreso dal Westrup nel
quarto volume della sua opera di maggiore impegno: Introduction to early Roman Law. Comparative sociological studies, IV. Sources and Methods, London-Copenhagen 1950); E. Norden, Aus altrömischen Priesterbüchern, Lund-Leipzig 1939; R. Besnier, Les archives privées, publiques et religieuses à Rome au temps des rois,
in Studi in memoria di Emilio Albertario,
II, Milano 1953, pp. 1 ss.; G.B. Pighi, La religione romana, Torino 1967, pp. 41
ss.; infine F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, I. Libri e commentarii,
Sassari 1983, pp. 17 ss.; J.A. North, The books of the pontifices, in La mémoire perdue. Recherches sur l'administration romaine, Avant-propos de Claude Moatti, [Collection
de l’École Française de Rome, 243] Rome 1998, pp. 45 ss.
[38] Così A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, 4a ed., Paris 1967, p. 301. Cfr. H. Ehlers, v. Hostis,
in Thesaurus Linguae Latinae, VI.2, 1934, coll. 3061 ss.; A. Walde-J.B. Hofmann, Lateinisches etymologisches Wörterbuch, I, dritte Auflage, Heidelberg 1938, pp.
662 s.; E Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, l. économie,
parenté, société, cit., p. 95.
[39] Sui problemi relativi alla trasmissione
delle norme decemvirali, vedi per tutti: F.
Wieacker, Die XII Tafeln in ihrem Jahrhundert, in AA.VV., Les origines de
[40] I due frammenti delle XII Tavole (= Tab. II.2;
VI.4 in Fontes iuris romani anteiustiniani, I. Leges, ed. S. Riccobono,
Florentiae 1941, pp. 31, 44) si presentano di non facile
interpretazione: per l'esegesi critico-ricostruttiva del primo rimando al
lavoro di G. Nicosia,
Il processo privato romano, II. La regolamentazione decemvirale, Torino 1986 [rist.
dell'ed. 1984], pp. 129 ss. Riguardo al precetto adversus hostem aeterna
auctoritas, la dottrina dominante ritiene che esso indicasse la garanzia
del mancipante a fronte dell'impossibilità di usucapire per gli stranieri: cfr.
in tal senso, P. Voci, Modi di
acquisto della proprietà, Milano 1952, pp. 47 ss.; V. Arangio-Ruiz, La compravendita in diritto romano,
Napoli 1954, pp. 313 ss.; M. Kaser,
Eigentum und Besitz im älteren romischen Recht, 2ª ed., Köln-Graz 1956, pp. 92 ss.; Id., Das römische
Privatrecht, I, 2ª ed., München 1971, p. 136; F. De
Martino, Storia della costituzione romana, II, cit., p. 18; O. Behrends, La mancipatio nelle XII Tavole, in
Iura 33, 1982 [ma 1985], p. 92; F.
Serrao,
Diritto privato, economia e società nella storia di Roma, I, (Parte prima), Napoli 1984, p. 349 nt. 66.
[41] S. Tondo,
Il “sacramentum militiae” nell’ambiente culturale
romano-italico, in Studia et Documenta Historiae et
Iuris 29, 1963, pp. 1 ss.; Id.,
“Sacramentum militiae”, Ibidem 34, 1968, pp. 376 ss.; H. Le Bonniec,
Aspects religieux de la guerre à Rome, in AA.VV., Problèmes de la guerre à Rome, a cura di
J.-P. Brisson, Paris 1969, pp. 105 s.; C. Nicolet,
Il mestiere di cittadino nell'antica Roma, trad. it., Roma 1980, pp. 131 ss.; J. Rüpke, Domi militiae. Die religiöse Konstruktion des Krieges in
Rom, Stuttgart 1990, pp. 76
ss.
[42] Vissuto presumibilmente nell'ultimo secolo
della repubblica (G. Wissowa, v. L.
Cincius, in Real-Encyclopädie der
classischen Altertumswissenschaft, III.2, Stuttgart 1899, coll. 2555 s.),
L. Cincio viene considerato da una parte della vecchia dottrina un poligrafo
non giurista: così P. Krüger, Geschichte der Quellen und Litteratur des
römisches Rechts, Leipzig 1888, p. 69 nt. 83 [= Id., Histoire des
sources de droit romain, trad. franc. di M. Brissaud, Paris 1894, p. 92 nt.
2]; H. Peter, Historicorum Romanorum reliquiae, I, 2ª
ed., Stutgardiae 1914 [rist. an. 1967], p. CV; M. Schanz-C. Hosius,
Geschichte der römischen Literatur,
I, 4ª ed., München 1927 [rist. 1966], pp. 175 s.; F. Bona, Contributo allo studio della composizione del “de verborum significatu”
di Verrio Flacco, Milano 1964, p. 158; e da ultimo F. Wieacker, Römische Rechtsgeschichte, I, cit., p. 570; ma in altro senso già
L. Ceci, Le etimologie dei giureconsulti romani, Torino 1892, p. 71; F.P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt, I, Lipsiae 1896
[rist. an. Roma 1964], p. 252; Ph.E.
Huschke-E. Seckel-B. Kübler, Iurisprudentiae
Anteiustinianae reliquiae, editio sexta, I, Lipsiae 1908 [rist. an. Leipzig
1988], p. 24; più di recente M. Bretone,
Tecniche e ideologie dei giuristi romani,
2ª ed., Roma-Bari 1982, p. 16; V. Giuffrè,
La letteratura de re militari. Appunti per una storia degli ordinamenti
militari, Napoli 1974, pp. 38 ss. [= Id.,
Letture e ricerche sulla “res militaris”, II, Napoli 1996, pp. 242 ss.].
Per una breve valutazione dell’opera del giurista, con critiche alla scelta
omissiva di O. Lenel nella Palingenesia
iuris civilis, vedi F. Sini,
A quibus iura civibus praescribebantur.
Ricerche sui giuristi del III secolo a.C., Torino 1995, pp. 64 ss.
[43] Ph.E. Huschke, Iurisprudentiae
Anteiustinianae quae supersunt, editio quinta, Lipsiae 1886, p. 87 fr. 13; F.P. Bremer,
Iurisprudentiae Antehadrianae, I, cit., p. 254 fr. 2; V.
Giuffrè,
Il “diritto militare" dei Romani, Bologna 1980, pp. 33 s., con traduzione italiana del testo
gelliano; infine F. d’Ippolito,
XII Tab. 2.2, cit., pp. 438 s.
[44] Riguardo a questo procedimento menzionato da Festo, risulta
assai difficoltoso per la dottrina romanistica determinare quali sacra ne
fossero interessati: K. Latte, v. Immolatio,
in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, IX.1,
Stuttgart 1914, col. 1121; allo stesso tempo appaiono poco convicenti i
tentativi di spiegazione finora proposti: vedi, con sostanziali differenze, G. Wissowa, Religion und Kultus der
Römer, 2ª ed., München 1912 [rist. 1971], p. 397 nt. 5; W.W. Fowler, The religious experience of the Roman
people, London 1911,
p. 37; cfr. infine, E. Norden, Aus altrömischen Priesterbüchern, cit., p. 263.
[45] Sui problemi relativi alla biografia e alla
molteplice produzione di Verrio Flacco vedi, per tutti, M. Schanz-C.
Hosius, Geschichte der
römischen Literatur, II, 4ª ed., München 1935 [rist. an. 1959], pp. 361
ss.; A. Dihle, v. Verrius, in Real-Encyclopädie der classischen
Altertumswissenschaft, VIII.A.2, Stuttgart 1958, coll. 1636 ss. Intorno al metodo di composizione delle glosse verriane
e alle probabili fonti di esse, sono veramente fondamentali gli studi di R. Reitzenstein,
Verrianische Forschungen, Breslau 1887, e di L. Strzelecki, Quaestiones Verrianae, Warszawa
1932; mentre resta per molti versi ancora valida la prefazione di C.O. Müller, Sexti Pompei Festi
De verborum significatione quae supersunt cum Pauli epitome, Lipsiae 1839. Questi temi sono stati riaffrontati, con
penetrante intuizione, in un lavoro significativo di F. Bona,
Contributo allo studio della composizione del “de
verborum significatu” di Verrio Flacco, cit. in nt. 42;
cfr. Id., Opusculum
Festinum, Ticini
1982.
[46] A. Cenderelli, Varroniana. Istituti e terminologia giuridica nelle opere di
M. Terenzio Varrone, Milano 1973, pp. 29 fr. 1, 113 s. Nello stesso senso
anche Servius Dan., Ad Aen. 4.424: Inde nostri ‘hostes’ pro
hospitibus dixerunt: nam inimici perduelles dicebantur; e Paulus, Fest.
ep., p.
[47] Plautus, Curc. 1.1.4-6: si media nox est sive est prima
vespera, / si status condictus cum hoste intercedit dies, / tamen est eundum
quo imperant ingratiis. Cfr. Servius Dan., Ad Aen. 4.424; Macrobius,
Sat. 1.16.4. Sull'attendibilità delle commedie plautine per la
ricostruzione del diritto romano, sono ancora validi gli studi di E. Costa, Il diritto privato romano
nelle commedie di Plauto, Torino 1890, pp. 21 ss.; ma vedi anche il più
recente lavoro di C.S. Tomulescu, Observations sur la terminologie juridique de Plaute, in Sodalitas. Scritti in onore di Antonio Guarino, VI, Napoli 1984, pp. 2771 ss.
[48] A commento del passo, vedi quanto ha scritto P. Catalano,
Linee del sistema sovrannazionale romano, cit., pp. 71-72: «Lascio da parte per un momento il problema se
lo status dies cum hoste di cui parlavano le Dodici Tavole si riferisse
a tutti gli stranieri o solo a quelli con cui sussistevano particolari rapporti
(hospitium, foedus); qui interessa rilevare che la
spiegazione data da Festo al termine hostes, con
evidente riferimento agli stranieri in genere, indica nella parità, una
compartecipazione allo ius. Tale idea di compartecipazione pone in nuova
luce la definizione di hostis (e peregrinus) come “qui suis
legibus uteretur”: l'appartenenza a una comunità diversa con proprie leggi
non toglieva la compartecipazione a una più generale sfera di ius considerato
valido, virtualmente, per tutti i popoli». Cfr. Id., Populus Romanus Quirites, Torino 1974, p. 140.
[49] Sulla probabile epoca in cui si produsse il
mutamento di significato del termine hostis si legga F. De
Martino, Storia della costituzione romana, II, cit., p. 20: «Più tardi, dopo l’età delle XII tavole e
probabilmente nell’età delle guerre d’espansione in Italia, si dovette
determinare il mutamento di valore del termine; come ciò accadde e per quali
cause non siamo in grado di stabilire, ma è chiaro che la nuova concezione
espansionistica delle classi dirigenti romane nel corso del IV-III secolo
indusse a considerare l’hostis nemico e non più il peregrinus, qui suis
legibus utitur»; cfr. anche F. Serrao,
Diritto privato, economia e società nella storia di Roma, cit., p. 344.
[50] E. Cuq, v. Hostis, in Dictionnaire des antiquités grecques et romaines,
III.1, Paris 1900, p. 303: «Aux derniers siècles de
[51] Sul significato “politico” del proemio del terzo libro delle Georgiche, cfr
J.-L. Pomathios, Le pouvoir politique et sa représantation
dans l’énéide de Virgile, Bruxelles 1987, pp. 240 s.
[53] Importanti considerazioni sul passo, di cui però non rilevano la
paternità sabiniana, sono svolte da H.S.
Versnel,
Triumphus. An inquiry into the origin, development and meaning of the roman triumph, Leiden 1970, pp. 166 s.; K.-H. Ziegler, Pirata communis hostis omnium, in De iustitia et iure. Festgabe für Ulrich von Lübtow, Berlin
1980, p. 98; infine vedi A. Petrucci, Il trionfo nella storia costituzionale
romana dagli inizi della repubblica ad Augusto, Milano 1996, pp. 62 s.,
secondo il quale «i criteri discriminanti fra triumphus e ovatio
[…] è molto improbabile siano riconducibili ai primi due secoli della
repubblica».
[54] Già nell’Ottocento G. Boissier, La religion romaine
d’Auguste aux Antonins, I, cit., p. 242, accentuava fortemente in senso
religioso i caratteri della figura di Enea: «Il travaille pour ses Pénates,
auxquels il faut bien donner une demeure sûre, pour son fils qu’il ne doit pas
priver de ce royaume que le destin lui promet, pour sa race qu’attend un si
glorieux avenir. Sa personnalité s’efface devant ces grands intérêts; il obéit
malgré ses répugnances et s’immole aux ordres du ciel. C’est à ces signes que
se reconnaît le héros d’une épopée religieuse». Del verso si occupa anche P. Boyancé, La religion de Virgile, Paris 1963, pp. 70 s., soffermandosi sulla pietas di Enea: «Bref
la piété d’énée est directement,
incontestablement piété au sens religieux du mot. Beaucoup plus que l’image d’énée portant son père, c’est l’image d’énée portant les Pénates romains qui
s’impose à nous»; consegue da ciò, per lo studioso francese, la piena
giustificazione della qualifica attribuitasi da Enea nel v. in questione:
«Proclamer qu’il est pieux, ce n’est pas dans ces conditions autre chose
qu’affirmer qu’il se sait instrument des dieux». Sulla
pietas di Enea e sull’origine della sua leggenda, vedi G.K. Galinsky, Aeneas, Sicily and
Rome, Princeton 1969, pp. 3 ss.; J.-P. Brisson, Le pieux énée!, in Latomus
31, 1972, pp. 379 ss.
[55] Gli antichi commentatori discutevano molto
sulla natura dei Penates di Enea: esemplare al riguardo Servius Dan., Ad
Aen.
[56] Utilizzo la terminologia di Cicero, De
off. 3.108. Regulus vero non debuit condiciones pactionesque bellicas et
hostiles pertubare periurio; cum iusto enim et legitimo hoste res gerebatur,
adversus quem et totum ius fetiale et multa sunt iura communia. Quod ni ita
esset, numquam claros viros senatus vinctos hostibus dedidisset. Su questo
importante testo ciceroniano, vedi P.
Catalano, Cic. De off. 3, 108 e il così detto diritto internazionale
antico, in Synteleia Arangio-Ruiz, I, Napoli 1964, pp. 373 ss.; Id., Linee del sistema
sovrannazionale romano, cit., pp. 4 ss.
[57] Cfr., in tal senso, G.B.
Pighi, La poesia religiosa romana, Bologna 1958, pp. 46 ss.;
anche per F. De Martino, Storia
della costituzione romana, II, cit., p. 55, la formula della deditio,
come è riferita da Tito Livio, può collegarsi agli archivi dei Feziali; infine,
F. Sini, Documenti sacerdotali
di Roma antica, cit., p. 170.
[58] Cfr. Cicero, De leg. agr. 2.96. Collazia compare, infatti, nel lungo elenco dei populi del
Lazio arcaico di cui scrive Plinio, Nat. hist. 3.96: Ita ex antiquo
Latio LIII populi interiere sine vestigiis. Per maggiori informazioni,
rinvio a Chr. Hülsen, v. Collatia,
in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, IV.1,
Stuttgart 1900, col. 364; ma soprattutto a L.
Quilici, Collatia, [Forma Italiae I, 10] Roma 1974, pp. 27 ss.;
brevemente vedi anche M.P. Muzzioli,
v. Collatinae arces, in Enciclopedia Virgiliana, I, cit., pp. 840
s.
[59] Cfr. Polybius 36.4.2; Livius 7.31.3-4: Quando quidem inquit,
nostra tueri adversus vim atque iniuriam iusta vi non vultis, vestra certe
defendetis; itaque populum Campanum urbemque Capuam, agros, delubra deum,
divina humanaque omnia in vestram, patres conscripti, populique Romani dicionem
dedimus, quidquid deinde patiemur dediticii vestri passuri. G. Dumézil, La religion romaine archaïque, 2ª ed., Paris 1974, p. 428 [= Id., La religione romana arcaica, trad. it. a cura di F. Jesi, Milano
1977, pp. 371 s.], ritiene il testo liviano di buona qualità e abbastanza
risalente; più cauta l'opinione di G. Pugliese, Appunti sulla ‘deditio’ dell’accusato di illeciti internazionali, in Rivista Italiana per le Scienze Giuridiche 18, 3ª
serie, 1974, pp. 8 s. [= Id., Scritti
giuridici scelti, I. Diritto romano, Napoli 1985, pp. 567 s.]; il
quale sostiene che la formula è «tramandata certo dagli annalisti e quindi
piuttosto antica (anche se, verosimilmente, non coeva agli avvenimenti narrati
in quel punto dallo storico)»; per una discussione critica più recente, vedi D. Nörr,
Aspekte des römischen Völkerrecht. Die Bronzetafel von
Alcántara, cit., pp. 16 ss. Sull’istituto della deditio
(la letteratura giuridica è peraltro vastissima) vedi: Th. Mommsen,
Römisches Staatsrecht,
III.1, cit., pp. 55 ss. [= trad. franc. di P.F. Girard: Droit public romain,
VI.1, cit., pp. 61 ss.]; E. Täubler, Imperium Romanum,
cit., pp. 14 ss.; A. Heuss, Die
völkerrechtlichen Grundlagen, cit., pp. 60 ss.; P. Frezza, Le forme federative e la struttura dei rapporti
internazionali nell’antico diritto romano, cit.,
pp. 412 ss. [= Id.,
Scritti, I, cit., pp. 416 ss.]; B.
Paradisi,
Deditio in fidem, in Studi in
onore di Arrigo Solmi, I, Milano 1940 [ma 1941], pp. 284 ss.; A. Piganiol, Venire in fidem, in Revue
Internationale des Droits de l’Antiquité 5, 1950 [= Mélanges
Fernand De Visscher, IV], pp. 339 ss.; U. von Lübtow, Das römische Volk. Sein Staat und sein Recht, Frankfurt a. M. 1955, pp. 643 s.; E. Badian,
Foreign Clientelae (264-70 B. C.), Oxford 1958, pp. 4 ss.; V.
Bellini,
Deditio in fidem, in Revue
Historique de Droit Français et étranger
42, 1964, pp. 448 ss.; S. Calderone, PISTIS-Fides. Ricerche di storia e diritto
internazionale nell’antichità, Messina-Roma 1964, pp. 59 ss.; W. Dahlheim,
Struktur und Entwicklung des römischen Völkerrecht, cit., pp. 5 ss.; F. De Martino, Storia della costituzione romana, II, cit., pp. 54 ss.;
K.-H. Ziegler,
Kriegsverträge im antiken römischen Recht, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte
102 (Rom. Abt.), 1985, pp. 51 ss.; J.
Rüpke, Domi militiae. Die religiöse Konstruktion des Krieges
in Rom, cit., pp. 209 s.; A. Watson,
International law in archaic Rome: war and religion, Baltimore and
London 1993, pp. 48 ss.
[60] Questa rilevanza giuridico-religiosa del rito di fondazione non
sfugge a R. Orestano, I fatti di normazione nel’esperienza romana arcaica, Torino 1967, p. 47: «per tutto il corso dell’esperienza romana
s’attribuirà al compimento di tale rito valore costitutivo per l’esistenza
giuridica di una città, proprio in quanto determinazione del “punto di
riferimento” di situazioni giuridiche».
[61] Vedi anche Ovidius, Fast. 4.819 ss.; Festus, De verb.
sign., p.
[62] Macrobius, Sat. 5.19.13: Sed Carminii <viri>
curiosissimi et docti, verba ponam, qui in libro de Italia secundo sic ait:
prius itaque et Tuscos aeneo vomere uti cum conderentur urbes solitos, in
Tageticis eorum sacris invenio et in Sabinis ex aere cultros quibus sacerdotes
tonderentur. Sul punto vedi P. de
Francisci, Primordia civitatis, Roma 1959, p. 104; P. Catalano, Linee del sistema
sovrannazionale romano, cit., p. 104; Id.,
Aspetti spaziali del sistema
giuridico-religioso romano, cit., p. 485.
[63] O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, II, Lipsiae 1889,
col. 59 fr. 222. Secondo la ricostruzione proposta dallo studioso tedesco, il
passo di Pomponio sarebbe da attribuire, nella divisione per materia dei libri
ad Quintum Mucium, alla rubrica dedicata all’incapacità di testare del
cittadino captus ab hostibus. Che il testo verosimilmente sia da
ricollegare alla trattazione del postliminium sostiene invece F. Bona,
“Postliminium in pace”, in Studia
et Documenta Historiae et Iuris 21, 1955, p. 262 nt. 58; seguito da R. Martini,
Le definizioni dei giuristi romani, Milano 1966, pp. 200 s. Da ultima, vedi F. Cursi, La struttura del ‘postliminium’ nella repubblica
e nel principato, Napoli 1996, pp. 136 s.
[64] Per O. Lenel, Palingenesia
iuris civilis, I, Lipsiae 1889, col. 243 fr. 428, si tratterebbe del
commento a XII tab. II.2 (status dies cum hoste); cfr.
anche F. Bona, Preda di
guerra e occupazione privata di “res hostium”, in Studia
et Documenta Historiae et Iuris 25, 1959, p. 342; R. Martini,
Le definizioni dei giuristi romani, cit., p. 245.
[65] Un utile apporto all’individuazione della vicenda semantica del
termine (da miles conductus in Plauto a homo perditus
in Cicerone) si trova nei lavori di A.
Milian, Ricerche sul “latrocinium” in Livio. I. “Latro” nelle
fonti preaugustee, in Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e
Arti 138, 1979-1980, pp. 171 ss.; Id.,
Ricerche sul “latrocinium” in Livio. II. Il “latrocinium” di Perseo,
in Sodalitas. Scritti in onore di Antonio Guarino, III, Napoli 1984, pp.
103 ss.; V. Giuffrè, “Latrones
desertoresque”, in Labeo 27, 1981, pp. 214 ss.; S. Morgese, Taglio di alberi e
“latrocinium”: D. 47.7.2, in Studia et Documenta Historiae et Iuris
49, 1983, pp. 147 ss. Più in generale,
vedi J. Burian, Latrones. Ein
Begriff in römischen literarischen und juristischen Quellen, in Eirene
21, 1984, pp. 17 ss.
[66] Cfr. D. 49.15.19.2 (Paulus libro sexto decimo ad Sabinum):
A piratis aut latronis capti liberi permanent. Il Lenel, Palingenesia
iuris civilis, II, cit., col. 927 fr. 1911, colloca il
testo ulpianeo sotto la rubrica de iure gentium; nello stesso senso, R. Martini,
Le definizioni dei giuristi romani, cit., p. 341; così anche E.
Nardi,
Istituzioni di diritto romano, A. Testi. 1, Milano 1973, pp. 175 s. Non crede, invece,
che il frammento «sia stato da Lenel collocato esattamente», G. Lombardi,
Sul concetto di “ius gentium”, Roma 1947, p. 206 e nt. 4: «perché il testo di Ulpiano non
riguarda la schiavitù, quale istituto iuris gentium o meno, ma precisa
semplicemente chi siano coloro che debbano considerarsi hostes al fine
di stabilire se, nei riguardi di colui che è stato eventualmente “catturato”,
debba o non debba applicarsi il postliminium». I due testi di Ulpiano e
Paolo sono stati riesaminati, più di recente, anche da K.-H. Ziegler,
Pirata communis hostis omnium, cit., p. 98; da ultime vedi F.
Cursi, La struttura del ‘postliminium’ nella repubblica e nel
principato, cit., pp. 137, 143; M.V.
Sanna, Nuove ricerche in tema di postliminium e redemptio
ab hostibus, Cagliari 2001, p. 42 nt. 53.
[67] Per la definizione vedi Gaius, Inst. 1.129:
Quodsi ab hostibus captus fuerit parens, quamvis servus hostium fiat, tamen
pendet ius liberorum propter ius postliminii, quo hi qui ab hostibus capti
sunt, si reversi fuerint, omnia pristina iura recipiunt; itaque reversus
habebit liberos in potestate. Si vero illic mortuus sit, erunt quidem liberi
sui iuris; sed utrum ex hoc tempore quo mortuus est apud hostes parens, an ex
illo quo ab hostibus captus est, dubitari potest. Ipse quoque filius neposve si
ab hostibus captus fuerit, similiter dicimus propter ius postliminii potestatem
quoque parentis in suspenso esse. Cfr. anche Pomponius libr. XXXVII ad
Q. Mucium = D. 49.15.5; Tryphoninus libr. IV disput. = D. 49.15.12
pr.; Paulus libr. XVI ad Sabinum = D. 49.15.19 pr. Non posso
approfondire in questa nota il dibattito dottrinale sull’istituto, né dare
conto in maniera puntuale delle diverse posizioni presenti nella dottrina
romanistica attuale; anche per i riferimenti bibliografici rinvio, dunque, ai
lavori più recenti: A. Maffi, Ricerche
sul ‘postliminium’, Milano 1992; F.
Cursi, La struttura del ‘postliminium’ nella repubblica e
nel principato, cit. in nt. 63; M.V.
Sanna, Nuove ricerche in tema di postliminium e redemptio
ab hostibus, cit. in nt. precedente.
[68] Nell’epica virgiliana risulta evidente – ed insistentemente
conclamata – la connotazione negativa della guerra. Nulla salus bello esclama un personaggio in Aen. 11.362, (espressione
che va ben oltre il contingente discorso di Drance), altrove si parla di crimina belli (Aen. 7.339: dissice
compositam pacem, sere crimina belli) mentre è severamente condannata dal
poeta la scelerata insania belli (Aen. 7.461: saevit amor ferri et scelerata insania belli; cfr. Servio, ad l.: nihil enim tam insanum, quam desiderare id per quod possis perire);
se poi osserviamo la qualificazione della guerra, il bellum può essere horridum (Aen. 6.86-87: Bella, horrida
bella / et Thybrim multo spumantem sanguine cerno; cfr. 7.41; 11.96), asperum (Aen. 1.14), crudele (Aen. 8.146; 11.535), cruentum (Aen. 11.474: bello dat signum rauca cruentum / bucina),
dirum (Aen. 11.217), triste (Ecl.
6.7; Aen. 7.325.545; 8.29). Sul piano religioso la guerra per
Virgilio appartiene alla sfera del nefas (Aen.
2.217-220; 10.900-902), il che
giustifica in riferimento a bellum l’uso
degli aggettivi nefandum e infandum (Aen. 12.572; 7.583; 12.804) e spiega la ripugnanza del poeta per un
riferimento a bellum di aggettivi
tipici del lessico religioso e giuridico quali iustum, pium, felix, che, infatti, non compaiono mai
negli impieghi virgiliani di bellum.
Infine, quando Virgilio ci presenta la personificazione della guerra, abbiamo
allora il Bellum mortiferum di Aen. 6.279, annoverato significativamente tra i più terribili mali che
affliggono il genere umano: Luctus, ultrices Curae, Morbus, Letum, Labos, mala mentis Gaudia e Discordia demens (Vergilius, Aen.
6.273-281: Vestibulum ante ipsum
primisque in faucibus Orci Luctus et ultrices posuere cubilia Curae; /
pallentesque habitant Morbi tristisque Senectus / et Metus et malesuada Fames
ac turpis Egestas, / terribiles visu formae, Letunique Labosque; / tum
consanguineus Leti Sopor et mala mentis / Gaudia mortiferumque adverso in
limine Bellum / ferreique Eumenidum thalami et Discordia demens, / vipereum
crinem vittis innexa cruentis. Cfr. anche Terentius, Eun. 61; Cicero, Catil. 2.14; 3.19; De nat. deor. 1.42; Phil.
1.13; 13.1; Horatius, Carm. 1.1.24; Valerius Maximus, Facta ed dicta
4.3 pr.; Seneca, Dial. 4.35.5;
6.20.5; Nat. quaest. 2.59.3; Plinius, Nat. hist. 2.117).
[69] Le più importanti sono state puntualmente analizzate da G. Lotito, v. Bellum, in Enciclopedia Virgiliana, I, cit., pp.
478 ss.; per una rapida enumerazione dei passi virgiliani riguardanti il
termine bellum e le diverse, ma
sempre negative, qualificazioni di esso, vedi H. Merguet, Lexikon zu
Vergilius, cit., pp. 88 ss.
[70] Su tale «fatto fonetico» vedi G.
Devoto, Storia della lingua di
Roma, Bologna 1940 (rist. an. 1969), p. 107; M. Leumann, Lateinische Laut- und Formenlebre = Leumann-Hoffman-Szantir, Lateinische
Grammatik, 1 [Handbuch der Altertumswissenschaft, II.2.1], nuova ed.,
München 1977, pp. 131 s.
[71] B.A. Müller, v. Bellum, in Thesaurus Linguae Latinae, II, 1906, col. 1822; V. Rosenberger, Bella et expeditiones:
die antike Terminologie der Kriege Roms, Stuttgart 1992, pp. 128 ss.
[72] In questo caso la nostra fonte più autorevole è costituita da
Varro, De ling. Lat. 7.49: Perduelles
dicuntur hostes; ut perfecit, sic perduellis, <a per> et duellum; id
postea bellum. Ab eadem causa facta Duell[i]ona
Bellona; cfr. Cicero, Orat. 153; Quintilianus, Inst.
orat. 1.4.15. Sull’antica forma del nome della dea vedi anche C.I.L.
X.104.2; più in generale E. Aust,
v. Bellona, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, III.1, Stuttgart 1897, coll. 254 ss.; G. Wissowa, Religion und
Kultus der Römer, cit., pp. 151 ss.; G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., pp. 394 ss. [= trad. it., La religione
romana arcaica, cit., pp.
341 s.]; D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, dal calendario
festivo all’ordine cosmico, Milano 1988, pp. 192 ss.
[73] I sacerdoti, a differenza di antiquari e annalisti, rifuggivano
dall’attualizzare gli antichi documenti giuridico-religiosi nella forma
linguistica; anche col rischio di non comprendere gli antichissimi carmina che recitavano per i propri
culti. Questa ragione spiega il
perché la lingua dei documenti sacerdotali appare, di norma, più conservativa
dello stesso linguaggio giuridico; si legga in proposito quanto scrive E. Peruzzi, Aspetti culturali del Lazio primitivo, Firenze 1978, p. 173: «Vi è
una differenza essenziale fra la lingua dei carmina
sacerdotali e la lingua delle leggi. La prima è immutabile nel tempo, sì che la
formula deve recitarsi come è scritta anche se più non la si intende. Il latino
giuridico, invece, vive nella scuola e nella pratica, e muta seguendo, se pur
con ritmo più lento, la naturale evoluzione della lingua comune. Anche le più
vetuste leges regiae trascritteci da Festo presentano qualche arcaismo, ma sono
linguisticamente moderne rispetto al latino del cippo del Foro, più prossimo all’indoeuropeo
che alla lingua di Cicerone».
[74] Act. lud. saec. Aug. 94
= C.I.L. VI.32323.94 (G.B. Pighi, De ludis saecularibus populi Romani
Quiritium, Milano 1941, p. 114); Act.
lud. saec. Sept. Sev. 4.11 = C.I.L. VI.32329.11 (G.B. Pighi, Op. cit., p. 157): imperi>um
maiestatem que p. R. Q. du<elli domique auxis utique semper Latinu>s
obtemperassit.
[75] Cfr. anche Plautus, Asin. 558-559:
Edepol qui virtutes tuas non possis
conlaudare, / sicut ego possim, quae domi duellique male fecisti; Capt. 67-68: Abeo. Valete iudices iustissimi / domi, duellique duellatores optumi.
[76] Sulle «veterum de origine verbi sententiae», cfr. B.A. Müller, v. Bellum, in Thesaurus Lingua
Latinae, II, cit, col. 1822.
[78] Servius, Ad Aen. 1.22:
Et dictae sunt parcae kata ¢nt…frasin, quod nulli parcant, sicut lucus a non
lucendo, bellum a nulla re bella.
[79] Isidorus, Diff. 1.563:
Bellum est contra hostes exortum, tumultus vero domestica appellatione
concitatus. Hic et seditio nuncupatur.
[80] Servius, Ad Aen.
8.547: Qui sese in bella sequantur in expeditionem et bellicam
praeparationem: nam, ut supra diximus, ‘bellum’ est tempus omne quo vel
praeparatur aliquid pugnae necessarium, vel quo pugna geritur, 'proelium' autem
dicitur conflictus ipse bellorum: unde modo bene dixit ‘qui sese in bella
sequantur’, non ‘in proelium’; nam ad auxilia petenda vadit, non ad pugnam
(cfr. anche Servius Dan., Ad Aen. 1.456; 2.397; Nonius, p.
[82] Cfr. nello stesso senso J.-P. Brisson, Introduction, in
AA.VV., Problèmes de la guerre à Rome, Paris-La Haye 1969, p. 17: «Rome
a toujours su que la guerre avait quelque chose de sacrilège et qu’un usage
immodéré de la violence risquait de provoquer la colère des dieux, c’est-à-dire
que l’effusion de sang laisse toujours plus au moins mauvaise conscience».
[83] Cicero, De
nat. deor. 2.8: Nihil nos P. Clodi bello Punico primo temeritas movebit,
qui etiam per iocum deos inridens, cum cavea liberati pulli non pascerentur,
mergi eos in aquam iussit, ut biberent, quoniam esse nollent? Qui risus classe
devicta multas ipsi lacrimas, magnam populo Romano cladem attulit. Quid collega
eius L. Iunius eodem bello nonne tempestate classem amisit, cum auspiciis non
paruisset? Itaque Clodius a populo condemnatus est, Iunius necem sibi ipse
conscivit. C. Flaminium Coelius religione neglecta cecidisse apud Transumenum
scribit cum magno rei publicae vulnere. Quorum exitio intellegi potest eorum
imperiis rem publicam amplificatam qui religionibus paruissent. Et si conferre
volumus nostra cum externis, ceteris rebus aut pares aut etiam inferiores
reperiemur, religione, id est cultu deorum, multo superiores. Acute osservazioni in C. Bailey, Phases in the Religion of Ancient Rome, Berkeley 1932 [rist. Westport, Conn. 1972], pp. 274 s.; più di recente, vedi R. Turcan, Religion romaine. 2. Le culte, Leiden-New York-København-Köln 1988, pp. 5
s.: «C’est à la piété collective et institutionnelle, aux religiones de la cité que les Romains attribuaient le succès de
leur politique et leur hégémonie universelle. [...] A cet égard, les Romains
pouvaient à bon droit se targuer de l’emporter sur tous les peuples religione, id est cultu deorum»; ma anche M. Humbert,
Droit et religion dans
Anche Virgilio risultava sensibile a tale
ideologia, al punto da attribuire allo stesso Iuppiter versi quali Aen.
12.838-840: Hinc genus Ausonio mixtum
quod sanguine surget, / supra homines, supra ire deos pietate videbis, / nec
gens ulla tuos aeque celebrabit honores. Giustamente
W.W. Fowler, The Death of Turnus, Oxford 1919, pp. 145 ss., ha osservato che il
contesto del passo richiama i celebri versi 847-853 del libro VI dell’Eneide;
non è sfuggita, peraltro, all’illustre studioso l’ispirazione religiosa e
pacifica della motivazione virgiliana del predominio universale dei Romani;
ispirazione del tutto assente nel contemporaneo Tito Livio, il quale adduceva
ben altre motivazioni nella ‘profezia’ attribuita allo spirito di Romolo
(Livius 1.16.7: Abi, nuntia ‑
inquit ‑ Romanis caelestes ita velle ut mea Roma caput orbis terrarum
sit, proinde rem militarem colant sciantque, et ita posteris tradant, nullas
opes humanas armis Romanis resistere posse). Sulla diversa ispirazione di
Virgilio rispetto a Tito Livio e sulle implicazioni religiose di essa vedi,
anche I. Lana, Studi sull'idea della pace nel mondo antico,
in Memorie dell'Accademia delle Scienze
di Torino, ser. V, vol. 13, 1989, pp. 6 s. (estr.).
[84] Da condividere il pensiero di M.
Meslin, L’uomo romano, cit.,
p.
[85] Tale è il caso, ad esempio, delle formule e procedure elaborate
dai Fetiales per l’indictio belli;
(Livius 1.32.6-14). Ricostruzione metrica dei carmina contenuti nel testo liviano, in C.M. Zander, Versus Italici antiqui, Lundae 1890, p. 32; C.O. Thulin, Italiscke sakrale Poesie und Prosa. Eine metriscke
Untersuckung, Berlin 1906,
pp. 63 s.; G. Appel, De Romanorum precationibus, Gissae 1909 [rist. an. New York 1975], pp. 12 s.; G.B. Pighi,
La poesia religiosa romana, cit., pp. 38 ss.; A. Carcaterra, Dea Fides e ‘fides’: storia d’una laicizzazione, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 50,
1984, pp. 214 ss. Che l’insieme di queste formule presenti un aspetto
estremamente risalente, al di là della pur inevitabile modernizzazione
linguistica, è sostenuto senza esitazioni da R.
Bloch, Réflexions sur le plus
ancien droit romain, in Studi in onore di Giuseppe Grosso, I, Torino 1968, pp. 236 ss.; nello stesso
senso, da ultimo, A. Magdelain, Quirinus et le droit (spolia opima, ius fetiale, ius Quiritium),
in Mélanges de l’école Française de Rome 96, 1984, pp. 213 ss.; Id.,
Le ius archaïque, Ibidem 98,
1986, p. 303.
[86] J.
Bayet, Histoire politique et psychologique de la religion
romaine, 2a ed., Paris 1969, pp. 86 s. [ = Id., La religione romana. Storia politica e psicologica, trad. it.
di G. Pasquinelli, Torino 1959, pp. 93 s.].
[87] H.
Le Bonniec, Aspects religieux de la guerre à Rome,
in AA.VV., Problèmes de la guerre à Rome, cit., p. 101. Sulle feste di carattere militare di questi due mesi, vedi per
tutti W.W. Fowler, The Roman Festivals of the Period of the
Republic, rist. London 1925, pp. 33 ss., 236 ss.; ed il più recente lavoro di D. Sabbatucci,
La religione di Roma antica, cit.,
pp. 87 ss., 317 ss.
[88] è opinione
prevalente fra gli studiosi che gli antichi sacerdoti romani indicassero con il
termine nefas tutto quello «che non fosse possibile fare senza incorrere
nella reazione della natura stessa e nell’ira degli dèi» (A. Guarino, L’ordinamento giuridico romano, cit., p. 135); da ciò consegue che
il concetto di nefas rimanda a valori
che l’odierna dommatica giuridica definisce imperativi – il nefas è inteso sempre in senso
obbligatorio – connessi con le sfere del “vietato” e del “dovere” (P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale, Torino 1960, p. 326 e
nt. 10; seguito da F. Cordero, Riti e sapienza del diritto, Roma-Bari
1981, p. 272; F. Sini, Bellum
nefandum. Virgilio e il problema del “diritto internazionale” antico,
cit., pp. 95 ss.). Quanto alla
derivazione della parola, i linguisti concordano nel ritenere nefas «sorti de l’expression ne fas est où il faut entendre ne- comme une négation de phrase et non
comme préfixe» (É. Benveniste, Le vocabulaire des institutions
indo-européennes, 2. Pouvoir, droit, religion, Paris 1969, p. 136; cfr. anche A. Walde-J.B.
Hofmann, Lateinisches
etymologisches Wörterbuch, I, dritte Aufl., Heidelberg 1938, p. 217; A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue
latine, cit., p. 217). Oltre che nella lingua dei sacerdoti, l’uso di nefas nell’arcaica forma ne fas (est) si ritrova ancora negli
antiquari di età tardo-repubblicana e imperiale, soprattutto in testi che fanno
riferimento a realtà religiose e giuridiche antichissime (Festus, De verb. sign., v. Sacer mons, p.
[89] Sulle implicazioni religiose e giuridiche di questi versi si
vedano, fra gli altri, F. Beduschi,
Osservazioni sulle nozioni originali di fas e ius, in Rivista Italiana per le Scienze Giuridiche 10
(n. s.), 1935, p. 228; R. Orestano, Dal ius al fas. Rapporto fra diritto
divino e umano in Roma dall'età primitiva all'età classica, in Bullettino dell'Istituto di Diritto Romano 46, 1939, p. 225 e nt.
70; P.
Voci, Diritto sacro romano in età
arcaica, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 19,
1953, p. 54 nt. 37 [= Id., Scritti di diritto romano, I, Padova
1985, p. 230 nt. 37]. In diversa prospettiva, vedi anche G. Dumézil, Mythe et épopée, I. L'ideologie des trois fonctions dans les
épopées des peuples indo-européens, Paris 1968, p. 401.
[90] Per i commentatori antichi non v’era il minimo dubbio che Virgilio
avesse voluto caratterizzare principalmente come sacerdote il personaggio di
Enea (cfr. Servius Dan., Ad Aen.
l.706). Servio e Macrobio trattano
dell'eroe troiano come di un pontifex (Servius,
Ad Aen. 1.373; Macrobius, Sat. 3.2.17) e si ingegnano a dimostrare che tutte le sue azioni più significative sono sempre conformi alle
prescrizioni del rituale romano: Servius, Ad
Ecl. 8.82; Ad Aen. 2.133; 3.21;
4.517; 5.745; 9.298; Macrobius, Sat. 3.5.6. Nello stesso senso, fra gli studiosi moderni, si orientava
nel secolo scorso L. Lersch, Antiquitates Vergilianae ad vitam populi
Romani descriptae, Bonnae 1843, pp. 8-9, il quale nel paragrafo intitolato De
pontificia dignitate scrive: «Tanta enim rei sacrae religio in Aenea
regnat, ut Gellius, Macrobius ac Servius eum interdum pontificem maximum
appellaverint. Neque immerito,
opinor». In tempi più recenti questa tesi è stata ripresa da H.J. Rose, Aeneas pontifex, London
1948 [= Id., Vergilian essays, 2]; ma
«dans les détails... le scholar écossais ne produit aucun argument probable»:
così G. Dumézil, Mythe et épopée, I, cit., p. 391, il
quale pensa alla funzione del rex
sacrorum («En revanche le poète a certainement voulu installer son héros
dans un rituel de l’antique royauté sacrée de Rome, dont, à l'époque
historique, le bénéfice restait attaché au rex
sacrorum ou sacrificulus, premier
prêtre de l’état républicain»). Seppure con
posizioni più sfumate, non sfugge alla maggior parte della dottrina moderna il
fatto che nella figura di Enea «Le poète veut nous montrer un prêtre»: N.D. Fustel de Coulanges, La cité antique. Étude sur le culte, le droit, les institutions de
[91] Sulla funzione purificatrice dell’acqua, cfr. Vergilius, Aen. 3.279; 6.636; 9.919; 11.190. La differenza tra abluzioni e
aspersioni, e per quali riti fossero necessarie, risulta ben spiegata in
Macrobius, Sat. 3.1.5-6; per altre
fonti, P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica,
cit., p. 55 nt. 45 [= Id., Studi di diritto romano, I, cit., p.
231 nt. 45].
[92] Cfr. Livius 5.22.5; R.G.
Austin, P. Vergili Maronis
Aeneidos liber secundus, Oxford 1964, p. 264.
[93] E. Paratore, Virgilio, Eneide, I (Libri I-II),
Milano 1978, p. 360: «il verbo, che evidentemente regge ea (sacra),
è di carattere rigorosamente sacrale: Livio, V 22,4 ce ne chiarisce la
possibilità positiva come riservata solo ai sacerdoti, sì che rispetto ad altri
esso assumeva il significato di “contaminare”».
[94] A maggior ragione era ritenuta sommamente onorevole per il
cittadino la morte in battaglia: così Vergilius, Aen. 2.314-317: Arma amens
capio; nec sat rationis in armis, / sed glomerare manum bello et concurrere in
arcem / cum sociis ardent animi; furor iraque mentem / praecipitat pulchrumque
mori succurrit in armis; nello stesso senso il commento di Servius Dan., Ad Aen. 2.317: (Pulchrumque mori) succurrit (in armis) ratio viri fortis; quid enim
aliud a bono cive et forti amissae patriae posset inpendi. Et 'succurrit' in
animum venit.
[95] Cfr. F. Beduschi, Osservazioni sulle nozioni originali di fas
e ius, cit., pp. 227 s.; per l'analisi linguistica del verbo impiare, e per le sue valenze religiose, vedi H. Fugier, Recherches
sur l'expression du sacré dans la langue latine, Paris 1963, pp. 334 ss.
[96] Paulus, Fest. ep., p.
[97] Per la definizione vedi Varro, De ling. Lat. 6.22: Armilustrium ab eo quod in Armilustrio
armati sacra faciunt, nisi locus potius dictus ab his; sed quod de his prius,
id ab lu<d>endo aut lustro, id est quod circumibant ludentes ancilibus
armati. Cfr. Paulus, Fest. ep.,
p.
[98] Cfr. per tutti G. Wissowa,
Religion und Kultus der Römer, cit.,
19, pp. 144, 557; W.W. Fowler, The Roman Festivals of the Period of the
Republic, cit., pp. 250 s.; N. Turchi, La religione di Roma antica,
Bologna 1939, p. 100; K. Latte,
Römische Religionsgeschichte, München
1960, p. 120; G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., p.
216 [= Id., La religione romana arcaica, cit., p. 190]; D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, cit., pp.
331 s.
[99] L’attività teologica e giuridica della sodalità si esplicitava,
oltre che nelle formule solenni, soprattutto in decreta e responsa, che i Feziali davano su richiesta
del senato o dei magistrati. Importanti testimonianze, con riferimenti
testuali, in Tito Livio (31.8.3:
Consultique fetiales ab consule Sulpicio, bellum, quod indiceretur regi
Philippo, utrum ipsi utique nuntiari iuberent, an satis esset, in finibus regni
quod proximum praesidium esset, eo nuntiari. Fetiales decreverunt, utrum eorum
fecisset, recte facturum. 36.3.9: Fetiales
responderunt iam ante sese, cum de Philippo consulerentur, decrevisse nihil
referre, ipsi coram an ad praesidium nuntiaretur).
[100] Rassegna delle fonti in cui ricorre questa espressione in B.A. Müller,
v. Bellum, in Thesaurus Linguae Latinae, II,
cit., col. 1831. Sul tema,
ampiamente studiato dalla dottrina romanistica, basterà ricordare alcuni: M. Kaser, Das altrömische ius, Göttingen 1949, pp. 22 ss.; H. Drexler,
Iustum bellum, in Rheinisches Museum für Philologie 102,
1959, pp. 97 ss.; H. Hausmaninger,
‘Bellum iustum' und 'Iusta causa belli'
in älteren römischen Recht, in österreichsche Zeitschrift für öffentliches Recht, N. F.
11, 1961, pp. 335 ss.; E. Polay, Differenzierung der Gesellschaftsnormen in antiken Rom, Budapest
1964, pp. 115 ss.; P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, cit., pp. 14 ss.; K.-H. Ziegler, Das Völkerrecht der römischen Republik, in Aufstieg und
Niedergang der römischen Welt, I.2, cit., pp. 102 ss.; W.V. Harris,
War and imperialism in Republican Rome,
327-70 BC., Oxford 1979,
pp. 161 ss. (del tutto inaccettabile la posizione fortemente negativa); S. Albert,
Bellum iustum. Die Theorie des «gerechten
Krieges» und ihre praktische Bedeutung für die auswärtigen Auseinandersetzungen
Roms in republikanischer Zeit, Kallmünz 1980, pp. 12 ss.; S. Clavadtscher-Thürlemann,
‘Polemos dikaios’ und ‘bellum iustum’,
Zürich 1985, pp. 139 ss.; F. d'Ippolito,
Sulla giurisprudenza medio-repubblicana, Napoli
1988, pp. 22 ss.; D. Nörr, Aspekte des römischen Völkerrechts. Die Bronzetafel von Alcántara,
cit., pp. 118 ss.; J. Rüpke, Domi
militiae. Die religiöse Konstruktion des Krieges in Rom, cit., pp.
117 ss.; A. Watson, International
law in archaic Rome: war and religion, cit., pp. 48 ss.
[101] Legge invece «et ubi desitum» L. Spengel: M. Terenti Varronis De
Lingua Latina libri, emendavit apparatu critico instruxit praefatus est
Leonardus Spengel. Edidit et recognovit
Andreas Spengel, Berolini 1885, p. 35; sulla questione vedi J. Collart, Varron, De lingua
Latina, Livre V, Texte établi, traduit et annoté par J.C., Paris 1954, p.
56.
[102] A. Cenderelli, Varroniana. Istituti e terminologia giuridica nelle opere di M.
Terenzio Varrone, cit., pp. 33 fr. 44, 114; J. Collart, Varron, De lingua
Latina, Livre V, cit., p. 199: «Les anciens établissaient un rapport entre foedus,
fidūs et fētiālis. La parenté des deux premiers mots est
certaine, ils diffèrent seulement par le degré de la racine. Foedus, mot
figé dans la langue religieuse et juridique, a gardé sa diphtongue, mais fidus
est attesté ici et dans les Glossaires. Quant à fētiālis,
son origine demeure obscure». Più in generale, vedi F. Cavazza, Saggio su Varrone etimologo e grammatico. La
lingua latina come modello di struttura linguistica, Firenze 1981; si
occupa marginalmente del passo, ma per ribadire il rapporto foedus / fides,
a p. 49, nt. 61.
[103] D. 1.3.40 (Modestinus libro primo regularum): Ergo
autem omne ius aut consensus fecit aut necessitas constituit aut firmavit
consuetudo. Cfr. Vocabularium Iurisprudentiae Romanae,
IV, coll. 74 ss.
[104] Sull’organizzazione militare dei Sanniti, con approfondimenti
archeologici e giuridico-religiosi, vedi Chr.
Saulnier, L’armée et
la guerre chez les peuples Samnites (VIIe – IVe s.), Paris 1983.
[105] Oltre il lavoro per molti versi fondamentale di W. Capelle, Griechische Etik und römischer Imperialismus, in Klio 25,
1932, pp. 86 ss. [ristampato in AA.VV., Ideologie und Herrschaft in der Antike, hrsg. von H. Kroft, Darmstadt 1979, pp. 238 ss.], vedi anche F.W. Walbank, Political
morality and friends of Scipio,
in Journal of Roman Studies 55, 1965, pp. 1 ss.; E. Badian, Roman
imperialism in the late Republic, 2ª ed., Ithaca, New York 1968 [= Id., Römischer Imperialismus in der späten Republik, trad. tedesca di G. Wirth,
Stuttgart 1980]; P. Desideri, L’interpretazione dell’impero romano in
Posidonio, in Rendiconti dell’Istituto Lombardo 106, 1972, pp. 482 ss.; G. Garbarino, Roma e la filosofia greca dalle origini alla fine del II secolo a.C., I, Torino 1973, pp. 38 ss.; P.
Treves, La cosmopoli di Posidonio
e l’impero di Roma, in La filosofia greca e il diritto romano
(Atti del Colloquio italo-francese, Roma, 14-17 aprile 1973), I, Accademia Naz. Lincei. Quaderno 221, Roma 1976, pp. 27 ss.; E.
Gabba, Aspetti culturali
dell’imperialismo romano, in
Athenaeum 65, 1977, pp. 49 ss.; D.
Musti, Polibio e l’imperialismo
romano, Napoli 1979; A. Momigliano, Polibio, Posidonio e l’imperialismo romano, ora in Id., Sesto contributo
alla storia degli studi classici e del mondo antico, I, Roma 1980, pp. 89 ss.; P.
Jal, L’impérialisme romain:
observations sur les témoignages littéraires latines de la fin de
[106] M.
Pohlenz, Die Stoa.
Geschichte einer geistiger Bewegung,
Göttingen 1959, qui citato nella trad. it., La stoa. Storia di un movimento spirituale, I, Firenze 1967,
pp. 535 ss.; J.-L. Ferrary, Le idee politiche a Roma nell’età
repubblicana, in AA.VV., Storia delle idee politiche, economiche e
sociali (dir. da L. Firpo), I. L'antichità
classica, Torino 1982, pp.
731 ss.; M. Ducos, Les Romains et la loi. Recherches sur les rapports de la philosophie grecque et la tradition
romaine à la fin de
[107] Su L. Furio Filo, uomo politico e giurista amico di Scipione
Emiliano, console nel
[108] De re publ. 3.8; J.-L. Ferrary, Le
discours de Philus (Cicéron, De re publica, III, 8-31) et la philosophie de
Carnéade, in Revue des études
Latines 55, 1977, p. 128. Fra gli studi dedicati a Carneade e alla Nuova
Accademia vedi, in particolare: J.
Croissant, La morale de Carnéade, in Revue internationale de philosopie 3, 1939, pp. 545 ss.; O. Gigon, Zur Geschichte der sogenannten Neuen Akademie (1944), ora in Id., Studien zur antiken Philosophie, Berlin 1972, pp. 412 ss.; A.
Weische, Cicero und die neue
Akademie, Münster West.
[109] Il passo tratto da Lattanzio (Inst. div. 6.9.3-4) è stato considerato non
ciceroniano nelle edizioni curate da K.
Büchner (M. T. Cicero, Von
Gemeinwesen, 3ª ed., Zürich
1973) e da P. Krarup (M. T. Ciceronis De re publica librorum sex quae
supersunt, Firenze 1967); anche E. Heck, Die Bezeugung von Ciceros Schrift De
re publica, Hildesheim
1966, pp. 90 s., ritiene il passo non riconducibile al
discorso di Furio Filo, rilevandovi contraddizioni con le tesi centrali di tale
discorso esposte da Lattanzio, Inst. div.
5.16. Una stimolante analisi del passo si ha in D. Nörr, Rechtskritik
in der römischen Antike, München 1974,
p. 70. Per il commento vedi K.
Büchner, M. Tullius Cicero.
De Republica, Kommentar, Heidelberg 1984, p.
[110] Cfr. Cicero, Div. in Caec.
62; De prov. cons. 4; Ad Att. 7.14.3; 9.19.1; Pro rege Deiot. 13; De off. 1.36; Phil. 11.37;
13.35. Nel bel lavoro di S. Albert,
Bellum iustum, cit., pp. 20 ss.,
alcune interessanti pagine sono state dedicate al «Aufkommen des Begriffs bei
Cicero»; cfr. anche W.C. Korfmacher,
Cicero and the bellum iustum, in The Classical Bulletin 48, 1972, pp. 49 ss.
[111] De re publ. 2.31. Per
maggiori ragguagli sul passo cfr. K.
Büchner, M. Tullius Cicero, De Republica, Kommentar, cit., p. 200. Anche Tito Livio
(1.24), come Cicerone, ascrive a Tullo Ostillo l'istituzionalizzazione dello ius fetiale:
non così Dionigi di Alicarnasso (2.72), che ritiene Numa Pompilio fondatore di
tale ius; né Servio (Ad Aen. 10.14), il quale indica Anco
Marzio. Nel complesso dello ius fetiale, con l'esempio anche del testo
ciceroniano, D. Nörr, Rechtskritik in der römischen Antike,
cit., p. 59, vede una delle manifestazioni della «römische
Gerechtigkeitsideologie».
[112] Isidorus, Orig. 18.1.2-3: Quattuor autem sunt genera bellorum:
id est iustum, iniustum, civile et plus quam civile. Iustum bellum est quod ex
praedicto geritur de rebus repetitis aut propulsandorum hostium caus. Iniustum
bellum est quod de furore, non de legitima ratione initur. De quo in Republica
Cicero dicit: illa – suscepta; commento in K. Büchner, M. Tullius Cicero, De Republica, Kommentar,
cit., p. 325. Sulle cause del bellum
iustum esemplificate nel testo di Cicerone vedi, fra gli altri, M. Gelzer, Römische Politik bei Fabius Pictor, in Hermes 68, 1933, pp. 165 s.; H.
Haffter, Geistige Grundlagen der
römischen Kriegsführung und Aussenpolitik (1942), ora in Id., Römische Politik und römische Politiker, Heidelberg 1967, p. 24; U. von Lübtow, Das römische Volk. Sein Staat und sein Recht, cit., p. 483; W. Dahlheim, Struktur
und Entwicklung des römischen Völkerrecht im 3. und 2. Jahrhundert v.Chr.,
cit., p. 179; E. Badian, Roman imperialism in the late Republic,
cit., p. 11 [= Id., Römischer Imperialismus in der späten
Republik, cit., p. 28]; J. Rüpke, Domi militiae. Die
religiöse Konstruktion des Krieges in Rom, cit., pp. 121.
[113] Cfr. anche De re publ. 3.34 (= Augustinus, De civ. Dei 22.6): Nullum
bellum suscipi a civitate optima nisi aut pro fide aut pro salute; su cui vedi la riflessione di A. Michel, Les lois de la guerre et les problèmes de l’impérialisme romain dans la
philosophie de Ciceron, in
AA.VV., Problèmes de la guerre à Rome, cit., p. 174: «Ainsi s'esquisse une justification de l'imperium romain, qui s'est constitué peu à peu pour répondre soit
aux exigences de la légitime défense (une défense assez offensive), soit aux
appels d'alliés que leurs propres ennemis ménageaient ou lésaient». Agli stessi valori si richiamava, prima di Cicerone, M. Porcio
Catone in un frammento delle Origines, trattando della ripresa delle
ostilità tra Roma e Cartagine nel
Quanto poi al rapporto esistente per i
Romani tra imperium e religione, vedi
H. Haffter, Geistige Grundlagen der römischen Kriegsführung und Aussenpolitik,
cit., pp. 11 ss.; A. Zwaenepoel, L’inspiration religieuse de l’impérialisme
romain, in L'Antiquité Classique 18, 1949, pp. 5
ss.; P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, cit., pp. 22 ss.; approfondiscono
il tema specificatamente in rapporto a Cicerone: J. Vogt, Ciceros Glaube
an Rom, rist. an.
dell'edizione 1935, Darmstatd 1963; K.M. Girardet, Die Ordnung der Welt: ein Beitrag zur philosophischen und politischen
Interpretation von Ciceros Schrift De legibus,
Wiesbaden 1983, pp. 156 ss.; F. Sini,
Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma
antica, cit., pp. 19 ss.
Sulle questioni più generali relative
all’«imperialismo» romano sono da vedere, invece, R. Werner, Das Problem
des Imperialismus und die römische Ostpolitik in zweiten Jahrhundert v. Chr.,
in Aufstieg und Niedergang der römischen
Welt, I.1, Berlin-New York 1972, pp. 501 ss. (ivi bibliografia
precedente); P. Veyne, Y a-t-il eu un imperialisme romain?, in Mélanges de école Française de Rome 87, 1975, pp. 793 ss.; Ed.
Frézouls, Sur l’historiographie de
l’impérialisme romain, in Ktéma 8,
1983, pp. 141 ss.; infine, W.V. Harris (a
cura di), The Imperialism of
Mid-Republican Rome, Roma 1984 (con saggi, oltre che dello stesso Harris,
di D. Musti, E.S. Gruen, E. Gabba, J. Linderski, G. Clemente).
[114] Commenti in E. Norden, P. Vergilius Maro, Aeneis, Buch VI, 8. unveränd. Aufl. (rist. 4ª ed. 1957), Stuttgart 1984, pp. 334 ss.; R.G. Austin, P. Vergili Maronis Aeneidos liber sextus, Oxford 1977, pp. 260 ss.; E.
Paratore, Virgilio, Eneide, III
(Libri V‑VI), Milano 1979,
pp. 358 s.; cfr. anche K. Büchner, Virgilio, 2ª ed., Brescia 1986, p. 482. Per
un inquadramento più generale, vedi, fra gli altri: F. Christ, Die römische
Weltherrschaft in der antiken Dichtung, Stuttgart 1938, pp. 145 ss.; E.
Beckemann, Der Friede des Augustus, 2ª ed., Münster im Westf. 1954, pp. 37
s.; W.P. Basson, Virgil,
Roman history and the Romans' destiny. Notes on Aen. VI 836-
[116] Cfr., in tal senso, F. Klingner, Virgil und
die römische Idee des Friedens, in
Id., Römische Geisteswelt, 4ª ed., München 1961, p. 601: «Die
römische pax, dem Gedanken nach ein Rechtsverhältnis zwischen zwei Partnern,
ist in Wirklichkeit eine Herrschaftsordnung, Rom ist der Partner, der von sich
aus das Verhältnis ordnet, die Bedingungen festsetzt: pacis leges dicit oder imponit
lauten die Ausdrücke. Am Anfang steht ein Sieg Roms oder die freiwillige
Unterwerfung eines Gegners». Più in generale, sull'uso del verbo imponere vedi J.B. H(offmann), v. Impono, in Thesaurus Linguae Latinae,
VII.1, Lipsiae 1934-1964 [ma
1938], coll. 650 ss.; l’insigne studioso tedesco colloca il passo virgiliano
fra i testi enumerati al paragrafo «imponere leges, ius sim.» (col. 657). Sul
verbo vedi anche, brevemente, A. Ernout-A.
Meillet, Dictionnaire étymologique
de la langue latine, cit., p. 521.
[117] Sulle implicazioni del testo virgiliano, vedi F. Eggerding, Parcere subiectis. Ein Beitrag zur Vergilinterpretation, in Gymnasium 59, 1952, pp. 31 s. Da considerare che il
dovere di parcere i nemici sottomessi, motivo ricorrente nella riflessione politica
e giuridica dell’età repubblicana (Cicero, De off. 1.35: Quare suscipienda
quidem bella sunt ob eam causam, ut sine iniuria in pace vivatur, parta autem
victoria conservandi ii, qui non crudeles in bello, non inmanes fuerunt, ut
maiores nostri Tusculanos, Aequos, Volscos, Sabinos, Hernicos in civitatem
etiam acceperunt; Livius
30.42.16-17: Populum Romanum eo
invictum esse, quod in secundis rebus sapere et consulere meminerit; et hercule
mirandum fuisse, si aliter faceret; ex insolentia, quibus nova bona fortuna
sit, impotentis laetitiae insanire; populo Romano usitata ac propre tam
obsoleta ex victoria gaudia esse, ac plus paene parcendo victis quam vincendo
imperium auxisse), diventa poi
nell'ideologia augustea uno dei cardini dell'azione del princeps (Res Gestae 1.3.15-16: Externas gentes, quibus tuto ignosci potuit, conservare quam excidere
malui).
[118] Penetranti considerazioni di I.
Lana, La concezione della pace a
Roma. Lezioni, Torino 1987, p. 84: «Le parole chiave sono: regere,
imperium, populi, pax, subicere, debellare. Tutte parole cariche di senso e
di valore, tra le quali la pace si presenta, al centro, come lo strumento per
governare tutto il mondo con un potere che va al di là del puro esercizio del
potere, manifestandosi come lo strumento in grado di ristabilire la giustizia,
nel senso che esso esige la sottomissione di tutti i popoli al volere del fato:
chi non lo accetta, si macchia della colpa della superbia, per la quale non v'è
né perdono né clemenza». Da vedere anche H. Haffter, Politischen Denken im alten Rom, in Id.,
Römische Politik und römische
Politiker, cit., pp. 52 ss., in
particolare p. 53: «Der Kampf gilt Gegnern, deren Wesen und Gebaren eine
Herausforderung darstellt. Wer die durch das imperium Romanum verkörperte politische, rechtliche, sittliche und
kulturelle Ordnung nicht anerkennt, ist ein Feind aller, ist ein Verächter
dessen, was der Völkergemeinschaft frommt, ist ein superbus»; A. Traina, v. Superbia, in Enciclopedia Virgiliana,
IV, Roma 1988, pp. 1072 ss., in partic. p. 1074, il quale sottolinea
come il verso parcere subiectis et
debellare superbos costituisca «la giustificazione etico‑politica
dell'imperialismo romano almeno sin dai tempi di Plauto e di Catone». Più in
generale, sulla superbia come
categoria della lotta politica, J.
Helleguarc'h, Le vocabulaire latin
des relations et des partis politiques sous
[119] Cfr., da ultimo, F. Sini, Impero Romano e religioni
straniere: riflessioni su universalismo e tolleranza nella religione politeista
romana, in Sandalion 21-22,
1998-1999 [ma 2001], pp. 57 ss.; Id.,
Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma antica,
cit., pp. 1 ss.
[120] W.S.
Teuffel, Geschichte
der römischen Literatur, II, 7ª
Auffl., Leipzig 1920 [rist. an. Aalen 1965], pp. 137 s.; M.
Schanz-C. Hosius, Geschichte der römischen Literatur, II, cit., p. 380; i frammenti sono stati raccolti da H. Funaioli, Grammaticae Romanae fragmenta,
Lipsiae 1907 [rist. Roma 1964], pp. 457 ss.
[121] H. Funaioli, Grammaticae Romanae, cit., p. 461 fragm. 10; F. Bona, Contributo allo studio della composizione del “de verborum significatu”
di Verrio Flacco, Milano 1964, pp. 66 s. Cfr., sempre di Festus, De
verb. sign., p.
[122] Cfr. anche Isidorus, Orig.
5.24.18: Pactum dicitur inter partes
ex pace conveniens scriptura, legibus ac moribus comprovata; et dictum pactum
quasi ex pace factum, ab eo quod est paco, unde et pepegit. Sul frammento ulpianeo vedi L. Ceci, Le etimologie dei giureconsulti romani, Torino 1892, p. 165; F.
De Visscher, Pactes et religio,
ora in Id., études
de droit romain public et privé,
trois. ser., Milano 1966, p. 410; A.
Carcaterra, Le definizioni dei
giuristi romani. Metodi, mezzi, fini,
Napoli 1966, p. 199, il quale considera il contenuto del frammento un
«esempio di definizione (etimologica) persuasiva».
[123] Per tutti A.
Walde-J.B. Hofmann, Lateinisches
etymologisches Wörterbuch, II, Heidelberg
1954, pp. 231 s.; A. Ernout-A. Meillet,
Dictionnaire étymologique de la langue
latine, cit., p. 473.
[124] Il verbo pacere compare in due frammenti del codice decemvirale. Il primo è Tab. I.6-7: Rem ubi pacunt,
orato. Ni pacunt in
comitio aut in foro ante meridiem caussam coiciunto (Fontes Iuris Romani
Anteiustiniani, I, cit., p. 28); per
la discussione di questo testo vedi, pur nella diversità di interpretazioni: C. Gioffredi,
Diritto e processo nelle antiche forme
giuridiche romane, Roma 1955, p.
151; Id., Rem ubi pacunt
orato: XII Tab. 1, 6-9 (Per la critica del testo decemvirale), in Bullettino dell'Istituto di Diritto Romano 76, 1973, pp. 271 ss.; H. Lévy-Bruhl, Recherches sur les actions de la loi, Paris 1960, pp. 206
s.; G. Pugliese, Il
processo civile romano, I. Le legis actiones, Roma 1962, pp. 402 s.; M. Kaser, Das römische
Zivilprozess, München 1966, pp. 83
s., O. Behrends, Der Zwölftafelprozess. Zur Geschichte der römischen
Obligationenrecht, Göttingen 1974, pp. 77 ss.; G.G. Archi, Ait
praetor: «pacta conventa servabo». (Studio sulla genesi e sulla funzione della clausola
nell’"Edictum Perpetuum"), in Id.,
Scritti di diritto romano, I, Milano 1981, p. 493 nt. 28; G. Nicosia, Il processo privato romano,
II, cit., pp. 68 ss.; A. Manfredini,
Rem ubi pacunt, orato, in Atti del Seminario sulla problematica contrattuale in diritto romano, Milano 1988, pp. 73 ss.
Il secondo frammento è
Tab. VIII.2: Si membrum rupsit, ni cum eo pacit, talio
esto (Fontes, cit., p.
53); su questa norma vedi J.M. Alburquerque, Historia
del «pactum» antes del «edictum»: «pactum» como acto de paz en las XII Tablas, in Estudios en omenaje al profesor Juan Iglesias, III, Madrid 1988, pp. 1110 ss.; e
la rapida sintesi di B. Santalucia, Diritto e
processo penale nell’antica Roma,
Milano 1989, p. 40.
[125] A. Ernout-A. Meillet,
Dictionnaire étimologique de la langue
latine, cit., p. 473; nello stesso senso, vedi C. Milani, Note sulla terminologia della pace nel mondo
antico, in La pace nel mondo antico, Contributi dell'Istituto di storia
antica XI, a cura di M. Sordi, Milano 1985,
p. 25.
[126] I. Lana, La pace nel mondo antico, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 33, 1967, p. 9; nello stesso senso, vedi ora Id., Studi sull'idea della pace nel mondo antico, cit., p. 21 (estratto).
[127] M.
Sordi, 'Pax deorum' e libertà
religiosa nella storia di Roma, in La pace nel mondo antico, cit., pp. 146 ss.
[128] Livius 7.3.3-6: Itaque Cn. Genucio L. Aemilio Mamerco iterum
consulibus, cum piaculorum magis conquisitio animos quam corpora morbi
adlicerent, repetitum ex seniorum memoria dicitur pestilentiam quondam clavo a
dictatore fixo sedatam. Ea religione adductus senatus dictatorem clavi figendi
causa dici iussit. Dictus L. Manlius Imperiosus L. Pinarium magistrum equitum
dixit. Lex vetusta est, priscis litteris verbisque scripta, ut, qui praetor
maximus sit, idibus Septembribus clavum pangat; fixa luit dextro lateri aedis
Iovis optimi maximi, ex qua parte Minervae templum est. Eum clavum, quia rarae
per ea tempora litterae erant, notam numeri annorum fuisse ferunt eoque
Minervae templo dicatam legem, quia numerus Minervae inventum sit. Cfr. 8.18.11-12. Sulla lex vetusta e sulle implicazioni
giuridiche e religiose connesse al rito della clavifixio, si vedano, fra gli altri: J. Heurgon, L. Cincius et la loi du “clavus annalis”, in Athenaeum 42,
1964, pp. 432 ss.; Id., Magistratures romaines et magistratures
étrusques, in Les origines de
[129] M. Viano, Contributo alla storia semantica della
famiglia latina di “pax”, in Atti dell’Accademia delle Scienze di Torino
88, 1953-1954, p. 12 (estratto).
[130] Sul concetto di pax deorum,
vedi H. Fuchs, Augustinus und der antike Friedengedanke.
Untersuchungen zum neunzehnten Buch der Civitas Dei, Berlin 1926, pp. 186 ss.; P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, cit., pp. 49 ss. [= Id., Scritti di diritto romano, I, cit., pp. 226 ss.]; E. Montanari, Mito e storia nell’annalistica romana delle origini, Roma 1990, pp.
85 ss. (Appendice I: “Tempo della città e pax
deorum: l’infissione del clavus
annalis”); F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto internazionale antico”, cit.,
pp. 256 ss. (ivi fonti e letteratura precedente); Id., Populus et religio dans
[131] Cfr. Res Gestae 2.13.43: cum per totum imperium populi Romani terra marique esset parta
victoriis pax. Tale situazione è ben colta da I. Lana, La pace nel
mondo antico, cit., p. 9:
«Perciò i Romani, quando sono in guerra e dichiarano che il loro scopo è quello
di pacem dare, leges pacis imponere, ovvero, come si esprime Virgilio
nel famoso passo del libro VI dell’Eneide, paci imponere morem, intendono dire che con la guerra
mirano a realizzare una situazione di superiorità
che consenta loro di dettare
all’avversario le condizioni per l’instaurazione di un certo rapporto fra Roma
e il nemico vinto. In questo senso preciso essi pacem dant ai vinti». Cfr. Id.,
Studi sull’idea della pace nel
mondo antico, cit., p. 21
dell'estratto.
[132] Non vi è in ciò, per l’ideologia romana, alcuna contraddizione,
come coglie assai acutamente D.
Sabbatucci, La religione di Roma antica, cit., p. 293: «Niente di sinistro
dunque comportava l’apertura del mundus, e niente di negativo, a meno di
voler vedere la pace come la negazione della guerra. In tal senso, però, non
dovremmo lasciarci guidare da un’etica irenista, ma dovremmo intendere il tutto
nei termini della dialettica, più volte rilevata, tra il divenire (espresso
soprattutto dalla guerra) e l’essere. La pax
romana era sostanzialmente un “patto” con gli dèi (pax deorum), tra popoli, tra cittadini; ma un
“patto” da conseguire, e se per conseguirlo con gli dèi bisognava operare
ritualmente, per conseguirlo con i popoli bisognava operare bellicosamente,
come pure si doveva lottare all’interno della città per ottenere il patto
civile tra le sue componenti».