N° 2 - Marzo 2003 – Tradizione Romana
Università di Sassari
Dai documenti
dei sacerdoti romani: dinamiche dell’universalismo nella religione e nel
diritto pubblico di Roma antica
Sommario: 1. – Urbs
auspicato inauguratoque condita (Livius 5.52.2). – 2. Una religio per la pax deorum.
– 3. Tensioni
universalistiche della religione romana. – 4. Dai documenti dei sacerdoti romani (“aperture” cultuali e
“procedure operative” dell’universalismo religioso). – 5. La
tradizione documentaria dei collegi sacerdotali come “memoria” delle
istituzioni giuridiche e politiche.
Nei libri ab urbe condita di Tito
Livio si registra di norma una convinta adesione – forse anche influenzata
dalla coeva restaurazione religiosa di Augusto – alla “teologia” della storia
propria dei collegi sacerdotali romani; i quali, fin dalle prime elaborazioni
teologiche e giuridiche rilevabili nei loro documenti, teorizzarono un rapporto
di imprescindibile causalità con la
religio[1] per la vita e l’imperium del Popolo romano[2].
Nell’opera liviana, infatti, traspare più volte la convinzione
che la storia dei Romani costituisse la prova più inconfutabile di come nelle
vicende umane «omnia prospera evenisse
sequentibus deos»[3];
unitamente ad un altro convincimento profondo: la pietas e la fides[4]
avevano costituito (e costituivano) gli elementi essenziali per la
legittimazione divina dell’imperium
dei Romani. A suo avviso, gli Dèi si sarebbero mostrati, in ogni circostanza,
assai più ben disposti verso coloro i quali avessero osservato la pietas ed onorato la fides («favere enim pietati
fideique deos, per quae populus
Romanus ad tantum fastigii venerit»)[5].
Per il tema che intendo trattare in questa comunicazione, appare
rilevante un altro passo di Tito Livio[6],
peraltro assai conosciuto, tratto dal quinto dei suoi ab urbe condita libri (Liv. 5.52.1-3). In questo testo, relativo
alla narrazione degli eventi appena successivi alla distruzione dell’Urbe ad
opera dei Celti, il grande annalista, con un discorso attribuito a Furio
Camillo, ha voluto caratterizzare la città di Roma come il luogo massimamente
votato alla religione[7]:
Titus Livius 5.52: [1] Haec culti neglectique numinis
tanta monumenta in rebus humanis cernentes ecquid sentitis, Quirites, quantum
uixdum e naufragiis prioris culpae cladisque emergentes paremus nefas? [2]
Vrbem auspicato inauguratoque conditam habemus; nullus locus in ea non
religionum deorumque est plenus; sacrificiis sollemnibus non dies magis stati
quam loca sunt in quibus fiant. [3] Hos omnes deos publicos priuatosque,
Quirites, deserturi estis?.
[Tito Livio 5.52.1-3: Vedendo
queste così grandi prove dell’importanza che ha nelle cose umane il rispetto
degli Dèi, non avvertite, o Quiriti. Quale empietà ci prepariamo a commettere,
appena scampati dal naufragio della colpa e della rovina precedente? Abbiamo
una città fondata con regolari auspici e augurii, dove non vi è luogo che non
sia pieno di cose sacre e di dèi; per i sacrifici solenni, nonché i giorni,
sono stati fissati anche i luoghi in cui devono compiersi. Volete abbandonare,
o Quiriti, tutti questi Dèi, pubblici e privati?]
La valenza religiosa di questo testo liviano era stata già colta
assai bene da Huguette Fugier nelle sue «ricerche sulle espressioni del sacro
nella lingua latina»[8];
del resto il testo di Livio è molto esplicito: con buone argomentazioni, tutte
svolte sul filo della teologia e dello ius sacrum, Camillo
sosteneva che il Popolo romano sarebbe perito qualora avesse abbandonato il
sito dell’Urbs Roma, dove peraltro «nullus locus in ea non religionum
deorumque est plenus»; cioè l’unico luogo che aveva determinato (al momento
della fondazione) e poteva assicurare (nel tempo) l’identità religiosa e
giuridica del Popolo romano, in quanto fondato da Romolo con un atto inaugurale
seguendo il volere degli Dèi.
Detto in altre parole, il pensiero di Camillo è che non si
potesse conservare la pax deorum al di fuori del solo ambito
locale (
Anzi nella parte finale del testo, si
confondono volutamente i luoghi con gli Dèi onorati in quei luoghi: Tito Livio,
infatti, fa dire a Camillo che l’abbandono del sito di Roma corrisponderebbe
all’abbandono degli Dèi romani: «Volete abbandonare, o Quiriti, tutti questi
Dèi, pubblici e privati?»
Questo imprescindibile legame tra Dèi e luoghi deputati al loro
culto, di cui
La sapientia (teologica
e giuridica) dei sacerdoti romani, mediante la definizione del ne-fas – che è bene ricordare riguardava
tempo e spazio, (sia tempora sia loca) – rivolgeva le sue prime e
maggiori cautele ai rapporti tra uomini e Dèi; con lo scopo precipuo di
preservare la pax deorum, che
riposava sulla perfetta conoscenza di tutto ciò che potesse turbarla; degli
atti che mai dovevano essere compiuti; delle parole che mai dovevano essere
pronunciate[9].
Nell'antitesi fas/nefas[10],
fondata in particolar modo sulla concezione teologica che spazio e tempo
appartenessero agli Dèi, si manifestava compiutamente la peculiarità dei
rapporti tra uomini e divinità nel sistema giuridico-religioso romano[11].
Come si è già accennato, la teologia e lo ius divinum dei sacerdoti romani rappresentavano la vita e la storia del Popolo romano in
rapporto di imprescindibile causalità con la
religio: la volontà degli Dèi aveva concorso a determinare il luogo (e il
tempo) della fondazione dell’Urbs Roma[12];
ne aveva sostenuto la prodigiosa “crescita” del numero dei cittadini (civitas augescens)[13];
infine, presiedeva all’incomparabile fortuna dell’imperium populi Romani e garantiva la sua estensione sine fine[14].
I sacerdoti romani avevano postulato, dunque, fin dalle prime
attestazioni della loro memoria storica e documentaria, il legame indissolubile
della Urbs Roma con il culto degli Dèi e della vita del Popolo romano con la sua religio («religione, id est cultu deorum»)[15];
al fine di conseguire e conservare, mediante i riti e i culti della religione
politeista, la pax deorum[16]
(«pace degli Dèi», ma da intendere nel senso di «pace con gli Dèi»)[17].
Per la vita del Popolo romano si riteneva indispensabile il
permanere di una situazione di amicizia nei rapporti tra uomini e Dèi[18],
considerati anch’essi una delle parti del sistema giuridico-religioso; certo la
più importante, in ragione dell’intrinseca potenza che si riconosceva alle
divinità[19].
Dal punto di vista umano (cioè dello ius sacrum e dello ius publicum), il «legalismo religioso»
(l’espressione è di Pasquale Voci)[20]
dei sacerdoti romani configurava la pax
deorum come un insieme di atti e comportamenti, ai quali collettività e
individui dovevano necessariamente attenersi per poter conservare il favore
degli Dèi. In questa prospettiva, può ben comprendersi la ragione per cui la
conservazione della pax deorum
costituisse il fondamento teologico dell'intero rituale romano[21].
Oggetto, quindi, dello ius del Popolo
romano (ius publicum), non a caso
tripartito in sacra, sacerdotes,
magistratus[22].
Riguardo all’universalismo della religione romana, sarà bene
partire da un dato quasi ovvio: per i popoli che non credevano all’esistenza di
un unico dio, non c’erano falsi dèi.
Le basi dell’universalismo religioso romano poggiavano proprio su
questa concezioni politeistica e multireligiosa, propugnata dalla teologia e
dallo ius sacrum dei sacerdoti romani; concezione ben sintetizzata
da Cicerone in un passo dell’orazione Pro Flacco:
Sua cuique civitati
religio, Laeli, est, nostra nobis[23].
Per quanto gli Dèi delle diverse popolazioni non fossero ritenuti
tutti egualmente potenti, tutti però erano ritenuti veri in eguale maniera. I
pontefici romani aggiornavano costantemente, per includervi nuovi Dèi, le liste
delle divinità conosciute[24],
i nomina deorum dei libri pontificum[25].
Grazie a questi scrupoli religiosi verso tutti gli Dèi, la religione politeista
romana ignorava, quasi del tutto, il proselitismo e l’intolleranza[26].
Questo spiega anche la condotta tenuta dai Romani nei confronti
delle religioni straniere nel corso della conquista dell’Impero: non
distruggevano i templi, né proscrivevano le divinità dei popoli sottomessi; la religio consigliava di onorarle in
maniera adeguata, volgendo in tal modo anche la loro potenza a favore dell’imperium populi Romani[27].
A questo punto, va detto con chiarezza che riguardo alla religione politeista romana risultano del
tutto inadeguati – e forse anche un poco fuorvianti – i concetti moderni di «libertà individuale»[28],
«isolamento» e «laicizzazione»[29].
Costituirebbe ugualmente un grave errore metodologico, assumere come parametro
categorie quali «tolleranza» o «intolleranza», per quanto l’immagine della
religione romana come religione tollerante costituisca un motivo ormai
accettato, in maniera quasi unanime, dalla dottrina più recente[30].
La prospettiva dei sacerdoti romani era
piuttosto quella di tutelare i diritti degli Dèi, mossi dalla preoccupazione di
non violare, seppure inconsapevolmente, aliquid
divini iuris: si voleva salvaguardare, insomma, soprattutto il diritto
degli Dèi di essere adorati come essi stessi avevano prescritto; da qui traeva
legittimità il diritto del singolo di adorare la divinità secondo la propria
coscienza, cioè nella forma che a lui sembrava più necessaria.
Grazie a questa peculiare concezione
della pax deorum, la religione politeista romana, nel corso di una storia
millenaria, fu sempre in grado di far coesistere nel suo ambito le esigenze
cultuali particolaristiche del Popolo romano e la tensione universalistica
della sua teologia e del suo diritto (divino e umano).
Del resto, le fonti antiche attestano in maniera non equivoca una
religione cittadina, affatto esclusivista fin dalla sua fase primordiale[31];
anzi, a ben vedere, questa apertura originaria della religione romana si ricava
dalla stessa memoria storica dei pontefici romani, i quali presentavano la
coesistenza di culti patrii e peregrini[32]
– regolamentata naturalmente dalla scienza sacerdotale –, quale dato
originario, e fra i più caratteristici, della riforma religiosa di Numa
Pompilio[33].
Altre prove di questa originaria “apertura” cultuale
dell’antichissima religione romana sono costituite sia dal carattere assai
risalente dell'influenza greca[34],
sia da quegli «italische Einflüsse», magistralmente studiati da Kurt Latte nel
suo manuale sulla religione romana[35].
Abbiamo già visto che una costante apertura religiosa verso
l’esterno era fortemente connaturata alla stessa concezione romana di pax deorum.
La religione politeista romana, nell'intero arco del suo sviluppo storico,
appare caratterizzata dalla costante esigenza (e preoccupazione) di integrare
l’ “alieno" (divino o umano): dalle divinità dei vicini fino alle divinità
dei nemici[36],
in cerchi concentrici sempre più larghi, che potenzialmente abbracciavano
l'intero spazio terrestre e, quindi, tutto il genere umano.
Dai documenti sacerdotali emergono numerose testimonianze e
frammenti delle “procedure operative” che hanno permesso ai sacerdoti di dare corpo
a questa vocazione universalistica. Per ragioni di brevità, in questa sede, mi
limiterò a segnalare solo alcuni esempi.
1.
Varro, De ling. Lat. 5.33: Ut nostri augures
pubblici dixerunt, agrorum sunt genera quinque: Romanus, Gabinus, peregrinus, hosticus,
incertus. Romanus dictus unde Roma ab Rom<ul>o; Gabinus ab oppido Gabis;
peregrinus ager pacatus, qui extra Romanum et Gabinum, quod uno modo in his
servantur auspicia; dictus peregrinus a pergendo, id est a progrediendo: eo
[quod] enim ex agro Romano primum progrediebantur. Quocirca Gabinus quoque
peregrinus, sed quod auspicia habet singularia, ab reliquo discretus; hosticus
dictus ab hostibus; incertus is, qui de his quattuor qui sit ignoratur[37].
Il questa citazione varroniana di documenti sacerdotali attiene
alla distinzione dei genera agrorum
elaborata dalla disciplina augurale[38];
distinzione che possiamo leggere in un passo del quinto libro De lingua
Latina di M. Terenzio Varrone.
La divisione dello spazio in cinque agrorum genera
rappresenta un mirabile esempio della semplicità, dell’efficacia interpretativa
e delle potenzialità universalistiche della scienza sacerdotale. Pur
salvaguardando la centralità dell’ager romanus (anche verso gli
Dèi), la classificazione dei genera agrorum mostra una fortissima
propensione teologica e giuridica ad instaurare rapporti – tanto reali quanto
potenziali – con la molteplicità degli spazi terrestri; con gli homines
che hanno relazioni a vario titolo con questi spazi; con gli innumerevoli Dèi
che quegli spazi (e quanti li abitano) presiedono e tutelano.
2
Cicero, De nat.
deor. 1.84: At primum, quot hominum linguae, tot nomina deorum; non enim ut
tu Velleius, quocumque veneris, sic idem in Italia Volcanus, idem in Africa,
idem in Hispania. Deinde nominum non magnus numerus ne in pontificiis quidem
nostris, deorum autem innumerabilis[39].
3
Servius Dan., in
Verg. Georg. 1.21: dique deaeque omnes post specialem invocationem transit ad generalitatem,
ne quod numen praetereat, more pontificum, (per) quos ritu veteri in omnibus
sacris post speciales deos, quos ad ipsum sacrum, quod fiebat, necesse erat
invocari, generaliter omnia numina invocabantur[40].
I testi 2 (Cicero, De nat.
deor. 1.84) e 3 (Servius Dan.,
in Verg. Georg. 1.21) si riferiscono, invece, al collegio dei pontefici. In De nat. deor. 1.84, Cicerone attesta la
rigorosa propensione dei pontefici romani a determinare, con la maggiore
certezza possibile, i nomina deorum; divinità di cui tuttavia sfuggiva alla
conoscenza umana il dato numerico quantitativo.
Il testo n. 3 si presenta in logica connessione col passo di
Cicerone. Servio Danielino riferisce ad un antico mos pontificum
la cautela rituale osservata nelle solenni formule di preghiera rivolte agli
Dèi: quasi ad esorcizzare l'umana impossibilità di conoscere il numero degli
Dèi, i pontefici romani prescrivevano al fedele di rivolgersi sempre ad generalitatem, ne quod numen praetereat,
una volta pronunciata l'invocazione alle divinità particolari onorate nella
cerimonia.
Non senza ragione, proprio in questo antico mos pontificum delle
preghiere può ravvisarsi la
potenzialità universalistica della religione politeista romana e la sua
propensione ad operare, fin dai primordia civitatis, «una “apertura”
illimitata» verso tutti gli Dèi»[41].
4
Festus, De verb. sign., v. Peregrina sacra, p.
Il quarto testo citato, anch’esso riferibile al collegio dei
pontefici, attiene al significato teologico e cultuale, nonché alla concreta procedura
operativa, dell'interpretatio Romana.
è stato autorevolmente dimostrato
da J.-L. Girard[43]
che fu proprio tale interpretatio a
permettere ai sacerdoti romani di conciliare l’assoluta fedeltà alla religione
nazionale, con la propensione all’apertura potenzialmente illimitata verso i
culti stranieri[44].
Proprio grazie alla concreta procedura operativa dell’interpretatio Romana, i culti stranieri potevano di norma essere
integrati nel rituale romano, come ha sottolineato Sesto Pompeo Festo nella
definizione di peregrina sacra che si legge nel De verborum significatu.
A fondamento dell’interpretatio
Romana stava un senso “cosmico” e “politico” della religione, che si
traduceva, secondo J. Bayet, nei concetti di pax deorum e religio[45].
La propensione ad allargare la sfera degli dèi, e quindi dei rapporti umani,
all'infinito fu una caratteristica congenita della religione politeista romana;
ciò determinava, necessariamente, un rapporto inscindibile tra «polythéisme et
pluralisme cultuel», come ha scritto in un suo recente saggio Robert Turcan:
«Le polythéisme est foncièrement étranger à l’esprit d’une “religion d’Etat”,
puisqu’il implique la possibilité d’un élargissement du panthéon à l’infini»[46].
5
Titus Livius 5.21.3: Te simul, Iuno regina, quae nunc Veios
colis, precor ut nos victores in nostram tuamque mox futuram urbem sequare, ubi
te dignum amplitudine tua templum accipiat[47].
6
Macrobius, Sat.
3.9.6-9: Nam repperi in libro quinto rerum reconditarum Sammonici Sereni
utrumque carmen, quod ille se in cuiusdam Furii vetustissimo libro repperisse
professus est. Est autem carmen huius modi quo di evocantur cum oppugnatione
civitas cingitur: “Si deus, si dea est, cui populus civitasque Carthaginiensis
est in tutela, teque maxime, ille qui urbis huius populique tutelam recepisti,
precor venerorque, veniamque a vobis peto ut vos populum civitatemque
Carthaginiensem deseratis, loca templa sacra urbemque eorum relinquatis, absque
his abeatis eique populo civitatique metum formidinem oblivionem iniciatis,
propitiique Romam ad me meosque veniatis, nostraque vobis loca templa sacra
urbs acceptior probatiorque sit, mihique populoque Romano militibusque meis
propitii sitis. Si <haec> ita faceritis ut sciamus intellegamusque, voveo
vobis templa ludosque facturum”. In eadem verba hostias fieri oportet,
auctoritatemque videri extorum, ut ea promittant futura[48].
Gli ultimi due frammenti proposti riguardano gli esempi più
conosciuti di evocationes degli Dèi del nemico[49]:
si tratta delle formule solenni concepite dai sacerdoti romani per l’evocatio
delle divinità che proteggevano due mortali nemici di Roma, quali la città
etrusca di Veio e la metropoli africana dell’impero dei Fenici d’Occidente,
Cartagine[50].
Non posso certo discutere, qui e ora, le implicazioni teologiche e
giuridiche della formula e del rito delle evocationes
degli Dèi del nemico; basterà al riguardo richiamare i risultati conseguiti nel
lavoro, ormai fondamentale, di V. Basanoff[51].
Mi preme, invece, evidenziare ancora una volta, proprio nelle evocationes
degli Dèi del nemico, una delle prove più significative della costante apertura
religiosa verso l’esterno della religione politeista romana, fortemente
connaturata alla stessa concezione di pax
deorum elaborata dalla teologia e dal
diritto dei sacerdoti romani.
Vorrei concludere questa mia comunicazione, formulando alcune
considerazioni più generali sull'attendibilità e sulla rilevanza dei documenti
riferibili agli archivi dei grandi collegi sacerdotali romani; specialmente per
quanto attiene alla ricostruzione delle istituzioni giuridiche e politiche di
Roma arcaica.
è noto che i
materiali religiosi e giuridici degli archivi sacerdotali[52]
(e quindi il lessico e i concetti elaborati dai sacerdoti)[53]
rappresentano le evidenze più autentiche e le prime riflessioni sistematiche
dell’antica giurisprudenza romana[54].
Questi materiali costituiscono altresì il nucleo più risalente e affidabile
della storiografia romana, poiché in essi è possibile trovare gli elementi
basilari, le caratteristiche originarie e la dialettica dello sviluppo delle
istituzioni, pubbliche e private.
I documenti sacerdotali sono da considerare, dunque, strumenti
indispensabili per un riesame complessivo dell'organizzazione 'politica'
romana, a cominciare dalla ridefinizione dello ius publicum in chiave
non "statualista"[55];
il ricorso a tali documenti consente, inoltre, di superare l’inadeguatezza
delle moderne categorie giuridiche a rappresentare pienamente le
caratteristiche più significative del "sistema giuridico-religioso"
dei Romani.
Nella tradizione documentaria dei collegi sacerdotali, possono
individuarsi due linee di tendenza, in qualche misura complementari. Da una
parte, si riscontra un formalismo assai rigoroso (cioè conservazione del testo
originario, o di quello ritenuto tale) per quanto riguarda gli antichissimi carmina[56],
recitati ancora in età imperiale avanzata in una forma linguistica molto
antica, ormai mal compresi dagli stessi sacerdoti (Quintilianus, Instit. orat. 1.6.39-41)[57].
L’autorevole testimonianza di Quintiliano chiarisce le ragioni di
un simile comportamento da parte dei sacerdoti romani: illa mutari vetat religio et consecratis utendum est. A questo proposito,
mi pare da condividere la suggestiva interpretazione del tradizionalismo
rituale delle società antiche, elaborata nell’Ottocento da Numa Denis Fustel de
Coulanges[58].
D'altra parte i sacerdoti, mentre con prassi documentaristica costante
e minuziosa registravano gli atti significativi del loro operare quotidiano,
procedevano nel contempo all'aggiornamento linguistico dei testi riguardanti
regole rituali e forme di culto. Così, di generazione in generazione, si
vennero accumulando negli archivi sacerdotali numerosi documenti – per la
maggior parte costituiti da decreta e
responsa[59]
– che attraverso revisioni e sistemazioni periodiche pervennero sostanzialmente
integri ai sacerdoti-giuristi e agli antiquari degli ultimi due secoli dell'età
repubblicana[60].
(*) Pubblico senza alcuna modifica la comunicazione presentata
nel XII Seminario Internazionale di Studi Storici “Da Roma alla Terza Roma” «Città
ed Ecumene. I luoghi dell’universalismo, da Roma a Costantinopoli a Mosca»
(Roma, Campidoglio, 12-23 aprile 2002).
[1] Per significati e spettro semantico della
parola, cfr. H. Fugier, Recherches sur l'expression du sacré dans la
langue latine, Paris 1963, pp. 172 ss.; é.
Benveniste, Le vocabulaire des institutions
indo-européennes, 2. Pouvoir, droit, religion, Paris 1969, pp. 265 ss.; H. Wagenvoort, Wesenzüge altrömischer Religion, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, I.2, Berlin-New York
1972, pp. 348 ss. [ripubblicato col titolo Characteristic
Traits of Ancient Roman Religion, in Id.,
Pietas. Selected Studies in Roman
Religion, Leiden 1980, pp. 223 ss.]; G.
Lieberg, Considerazioni
sull'etimologia e sul significato di Religio, in Rivista di Filologia e di Istruzione Classica 102, 1974, pp. 34 ss.;
R. Muth, Von Wesen römischer religio, in Aufstieg
und Niedergang der römischen Welt, II.16.1, Berlin-New York 1978, pp. 290
ss.; R. Schilling, L'originalité du vocabulaire religieux latin,
in Id., Rites, cultes, diex de Rome, Paris 1979, pp. 30 ss.; E. Montanari, v. Religio, in Enciclopedia
Virgiliana, IV, Roma 1988, pp. 423 ss. Quanto invece
all'antitesi religio/superstitio,
vedi il lavoro ormai classico di W. F.
Otto, Religio und Superstitio,
in Archiv für Religionswissenschaft 14,
1911, pp. 406 ss.; e il più recente saggio di M.
Sachot, Religio/superstitio. Histoire d'une
subversion et d'un retournement, in Revue de l'Histoire des
Religions 208, 1991, pp. 355 ss.
[2] Valgano, al riguardo, le acute osservazioni di R. Orestano, Dal ius al fas. Rapporto tra diritto divino e umano in
Roma dall'età primitiva all'età classica, in Bullettino dell'Istituto di Diritto Romano 46, 1939, p. 198, per il
quale «è certo che nella storia primitiva di Roma domina il concetto che non
solo le principali vicende, ma i principi stessi dell'organizzazione sociale
fossero rispondenti alla volontà degli Dèi».
[3] Titus Livius 5.51.4-5: Equidem, si nobis cum urbe simul
positae traditaeque per manus religiones nullae essent, tamen tam evidens numen
hac tempestate rebus adfuit Romanis, ut omnem neglegentiam divini cultus
exemptam hominibus putem. Intuemini enim horum deinceps annorum vel secundas
res vel adversas; invenietis omnia prospera evenisse sequentibus deos, adversa
spernentibus. Cfr. Titus Livius 1.9.3-4: Urbes quoque, ut cetera,
ex infimo nasci; dein, quas sua virtus ac dii iuvent, magnas opes sibi magnumque
nomen facere; satis scire origini Romanae et deos
adfuisse et non defuturam virtutem. 1.21.1-2: Ad haec consultanda
procurandaque multitudine omni a vi
et armis conversa, et animi
aliquid agendo occupati erant, et deorum adsidua insidens cura, cum interesse
rebus humanis caeleste numen videretur, ea pietate omnium pectora imbuerat, ut fides ac ius
iurandum pro legum ac poenarum
metu civitatem regerent. Et cum
ipsi se homines in regis
velut unici exempli mores formarent, tum finitimi etiam populi, qui antea
castra non urbem positam in medio ad sollicitandam
omnium pacem crediderant, in eam
verecundiam adducti sunt, ut civitatem
totam in cultum versam deorum violare ducerent nefas. 1.55.3-4: Inter principia condendi huius operis movisse numen ad indicandam
tanti imperii molem traditur deos; nam cum omnium
sacellorum exaugurationes admitterent
aves, in Termini fano non
addixere; idque omen auguriumque ita acceptum est, non
motam Termini sedem unumque eum deorum non evocatum
sacratis sibi finibus firma stabiliaque cuncta portendere. 8.3.10: Hoc demum proelium Samnitium res ita infregit,
ut omnibus conciliis fremerent minime id quidem mirum esse, si impio
bello et contra foedus suscepto, infestioribus merito deis quam hominibus, nihil prospere agerent. 28.11.1: In civitate tanto discrimine belli sollicita, cum omnium secundorum adversorumque causas in deos
verterent, multa prodigia nuntiabantur.
[4] M. Merten, Fides Romana bei Livius, Diss. Frankfurt am Main 1965; W. Flurl, Deditio in fidem. Untersuchungen zu Livius und Polybios, Diss. München 1969, pp. 127 ss.; su fides e pietas vedi T. J. Moore,
Artistry and Ideology: Livy’s Vocabulary
of Virtue, Frankfurt am Main
[5] Titus Livius 44.1.9-11: Paucis post diebus consul contionem apud
milites habuit. Orsus a parricidio Persei perpetrato in fratrem, cogitato in
parentem, adiecit post scelere partum regnum veneficia, caedes, latrocinio
nefando petitum Eumenen, iniurias in populum Romanum, direptiones sociarum
urbium contra foedus. Ea omnia quam dis quoque invisa essent, sensurum in exitu
rerum suarum; favere enim pietati fideique deos, per quae populus Romanus ad
tantum fastigii venerit. Per una visione complessiva delle concezioni
religiose del sommo annalista romano, sono da consultare G. Stübler, Die Religiosität des Livius, Stuttgart-Berlin 1941; I. Kajanto, God and fate in Livy, Turku 1957; A. Pastorino, Religiosità romana dalle Storie di Titus
Livius, Torino 1961; W. Liebeschuetz,
The Religious position of Livy’s History,
in The Journal of Roman Studies 67,
1967, pp. 45 ss.; D. S. Levene, Religion in Livy, Leiden-New York-Köln
1993; per le formule di preghiera, vedi invece F. V. Hickson, Roman
prayer language: Livy and the Aeneid of Virgil, Stuttgart 1993.
[6] Già G. Scherillo, Il diritto pubblico romano in Titus Livius,
in Aa.Vv., Liviana, Milano 1943, pp. 79 ss., sottolineava, a ragione, la
notevole rilevanza dei libri ab urbe
condita del grande annalista, quale fonte privilegiata per la conoscenza
della complessa materia dello ius
publicum in età repubblicana; nello stesso senso, più di recente, C. St. Tomulescu, La
valeur juridique de l'histoire de Tite-Live, in Labeo 21, 1975, pp. 295 ss.
[7] Cfr., in tal senso, A. Ferrabino, Urbs in aeternum condita, Padova 1942; J. Vogt, Römischer Glaube und römisches Weltreich, Padova 1943. Per quanto riguarda, invece, più specificamente l’ideologia, vedi
H. Haffter, Rom und römische Ideologie bei Livius, in Gymnasium 71, 1964, pp. 236 ss. [= Id.,
Römische Politik und römische Politiker,
Heidelberg 1967, pp. 74 ss.]; M. Mazza,
Storia e ideologia in Livio. Per
un'analisi storiografica della ‘praefatio’ ai ‘libri ab urbe condita’,
Catania
[8] H.
Fugier, Recherches
sur l'expression du sacré dans la langue latine, cit., p. 207: «En fait, le
populus ne pourrait subsister s’il
perdait le milieu sacré qui le nourrit pour ainsi dire, en quittant l’urbs fondée avec l’acquiescement des
auspices et par un acte inaugural; ou pour exprimer la même idée à un niveau
religieux un peu plus moderne, il ne pourrait conserver la pax deorum, hors du cadre
seul apte à contenir les sacrifices réguliers, par lesquels cette “paix” se
maintient. Telles sont les vérités que lui rappelle Camille, pour ruiner la
folle suggestion des tribuns, d’émigrer en masse vers le site de Véies»; ma
vedi anche la riflessione di C. M.
Ternes, Tantae molis erat…
De la ‘nécessité’ de fonder Rome, vue par quelques écrivains romains du –1er
siècle, in “Condere Urbem”. Actes des
2èmes Rencontres Scientifiques de Luxembourg (janvier 1991), Luxembourg
1992, pp. 18 s.
[9] R. Orestano, I fatti di normazione nell'esperienza romana
arcaica, Torino 1967, p. 114: «In queste condizioni tutta la vita privata e
quella pubblica erano dominate dall'assillo ansioso e ininterrotto di operare
in accordo con queste "forze" o "deità", di procurarsi il
loro ausilio, di propiziarsi il loro assenso, di mettersi al riparo dalle loro
influenze ostili, di non fare nulla che potesse suscitare il loro sfavore o una
loro reazione. La paura di non soddisfare gli dèi o, peggio, che qualche atto o
comportamento potesse rompere la pax
deorum da cui dipendevano il benessere dell'individuo, della famiglia,
della comunità, rendeva il romano continuamente attento a cercare in qualunque
aspetto della natura i segni della volontà divina».
[10] F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema "diritto internazionale antico",
[Pubblicazioni del Seminario di Diritto Romano dell'Università di Sassari, 7]
Sassari 1991, pp. 83 ss.
[11] Ho utilizzato l’espressione «sistema giuridico-religioso» in
luogo di «ordinamento giuridico» sulla base delle motivazioni offerte da P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, Torino 1965, pp. 30 ss.,
in part. p. 37 n. 75; Id., Aspetti spaziali del sistema
giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, in Aufstieg
und Niedergang der römischen Welt, II.16.1, Berlin-New York 1978, pp. 445
s.; Id., Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, Torino 1990, p. 57; con il quale concorda, in parte, anche G. Lombardi, Persecuzioni, laicità, libertà religiosa. Dall'Editto di Milano alla
"Dignitatis Humanae'', Roma 1991, pp. 34 s. Contro, R. Orestano, Diritto. Incontri e scontri, Bologna 1981, pp. 395 ss.; Id., Le nozioni di ordinamento giuridico e di esperienza giuridica nella
scienza del diritto, in Rivista
trimestrale di Diritto Pubblico 4, 1985, pp. 959 ss., in part. 964 ss.; Id., Introduzione allo studio del diritto romano, Bologna 1987, pp. 348
ss.; seguito, fra gli altri, da P. Cerami,
Potere ed ordinamento nell’esperienza
costituzionale romana, 3ª ed., Torino 1996, pp. 10 ss.; e parzialmente da
A. Guarino, L’ordinamento giuridico romano, 5ª ed., Napoli 1990, pp. 56 s.
[12] Già il poeta Ennio aveva cantato, in questo modo, l’antichissima
fondazione dell’Urbe: Augusto augurio
postquam inclita condita Roma est (Svetonius, August. 7: cum, quibusdam
censentibus Romulum appellari oportere quasi et ipsum conditorem urbis,
praevaluisset, ut Augustus potius vocaretur, non solum novo sed etiam ampliore
cognomine, quod loca quoque religiosa et in quibus augurato quid consecratur
augusta dicatur, ab auctu vel ab avium gestu gustuve, sicut etiam Ennius docet
scribens: Augusto augurio postquam inclita condita Roma est.); cfr. anche
Livius 1.4.1: Sed debebatur, ut opinor,
fatis tantae origo urbis maximique secundum deorum opes imperii principium.
Le varie ‘fondazioni’, di cui Roma sarebbe stata oggetto in epoche diverse,
sono state studiate da A. Grandazzi,
La fondation de Rome. Réflexion sur
l’histoire, Paris 1991; di cui vedi, in part. p. 195, dove lo studioso francese
sostiene che i Romani ebbero piena coscienza di questo «recommencement
perpétuel» che aveva caratterizzato la storia della loro città.
[13] D. 1.2.2.7 (Pomponius libro
singulari enchiridii): Augescente
civitate quia deerant quaedam genera agendi, non post multum temporis spatium
Sextus Aelius alias actiones composuit et librum populo dedit, qui appellatur
ius Aelianum. Le implicazioni giuridiche e politiche del concetto di civitas augenscens, con particolare riguardo alla raccolta di iura ordinata dall’imperatore
Giustiniano, sono state ben delineate da P. Catalano,
Diritto e persone. Studi su origine e
attualità del sistema romano, Torino 1990, pp. xiv s. Sulla stessa linea interpretativa, vedi ora M. P. Baccari, Il concetto giuridico di civitas
augescens: origine e continuità,
in Studia et Documenta Historiae et Iuris
61, 1995 [= Studi in memoria di Gabrio
Lombardi, II, Roma 1996], pp. 759 ss.; Ead.,
Cittadini popoli e comunione nella
legislazione dei secoli IV-VI, [Pubblicazioni del Seminario di Diritto
Romano dell'Università di Sassari, 9] Torino 1996, pp. 47 ss.
[14] Vergilius, Aen.
1.275-279: Inde lupae fulvo nutricis tegmine laetus / Romulus
excipiet gentem et Mavortia condet / moenia Romanosque suo de nomine
dicet. / His ego nec
metas rerum nec tempora pono: / imperium sine fine dedi. La forte carica ideologica e la
precisa connotazione religiosa del passo non sono sfuggite a P. Boyancé, La religion de Virgile, Paris 1963, p. 54, per il quale proprio
sull’annuncio Imperium sine fine dedi
«sur l’annonce de l’Empire dans la bouche du dieu suprême repose pour ainsi
dire toute l’œuvre». Già i commentari antichi (cfr. Servius, in Verg. Aen. 1.278) avevano stabilito
un nesso ben preciso tra l’imperium sine
fine e l’eternità di Roma; lo stesso orientamento si registra nella maggior
parte della dottrina contemporanea. Tuttavia, ad un esame più attento, il verso
non sembra avere univoco senso temporale. Lo interpretano in senso
spazio/temporale sia G. Piccaluga, Terminus. I segni di confine nella religione
romana, Roma 1974, p. 209; sia R. Turcan,
Rome éternelle et les conceptions
gréco-romains de l’éternité, in Roma
Costantinopoli Mosca [Da Roma alla Terza Roma, Studi I], Napoli 1983, p.
16; mentre A. Mastino, Orbis, kosmos, oikoumene: aspetti spaziali
dell’idea dell’impero universale da Augusto a Teodosio, in Popoli e spazio romano tra diritto e
profezia, [“Da Roma alla Terza Roma”, Studi III], Napoli 1986, p. 71,
sostiene che nei due versi Aen. 1,
278-279 è attestata la propensione augustea a superare tutti i limiti di
spazio: «l’impero romano era almeno teoricamente un imperium sine fine, che non aveva frontiere». Per la bibliografia sul poema virgiliano, mi
pare utile rinviare a W. Suerbaum,
Hundert Jahre Vergil-Forschung: eine
systematische Arbeitsbibliographie mit besonderer Berücksichtigung der Aeneis,
in Aufstieg und Niedergang der römischen
Welt, II.31.1, Berlin-New York 1980, pp. 3 ss. Quanto alla divini et
humani iuris scientia di Virgilio, vedi invece F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del "diritto
internazionale antico", cit., pp. 17 ss.
[15] Questo significato di religio
è attestato da Cicerone, De nat. deor.
2.8: C. Flaminium Coelius religione
neglecta cecidisse apud Transumenum scribit cum magno rei publicae vulnere. Quorum
exitio intellegi potest eorum imperiis rem publicam amplificatam qui
religionibus paruissent. Et si conferre volumus nostra cum externis, ceteris
rebus aut pares aut etiam inferiores reperiemur, religione, id est cultu
deorum, multo superiores. Sul passo, vedi fra gli altri C. Bailey, Phases in the religion of ancient Rome, Berkeley 1932, rist. Westport, Conn. 1972, pp. 274 s.; R. Turcan, Religion romaine. 2. Le culte, Leiden - New York - København - Köln
1988, pp. 5 s.: «C'est à la piété collective et institutionnelle, aux religions de la cité que les Romains
attribuaient le succès de leur politique et leur hégémonie universelle. [...] A
cet égard, les Romains pouvaient à bon droit se targuer de l'emporter sur tous
peuples religione, id est cultu deorum»;
da ultimo, M. Humbert, Droit et religion dans
Nello stesso senso, anche altri testi ciceroniani: De nat. deor. 1.117 (religionem, quae deorum cultu pio continetur);
De leg. 1.60 (cum suis, omnesque natura
coniunctos suos duxerit, cultumque
deorum et puram religionem susceperit); 2.30 (Quod
sequitur vero, non solum ad religionem pertinet, sed etiam ad civitatis statum,
ut sine iis, qui sacris publice praesint, religioni privatae satis facere non
possint; continet enim rem publicam consilio et auctoritate optimatium semper
populum indigere. Discriptioque sacerdotum nullum iustae religionis genus
praetermittit. Nam sunt ad placandos deos alii constituti, qui sacris praesint
sollemnibus, ad interpretanda alii praedicta vatium neque multorum, ne esset
infinitum, neque ut ea ipsa, quae suscepta publice essent, quisquam extra
collegium nosset); De har. resp.
18 (Ego vero primum habeo auctores ac
magistros religionum colendarum maiores nostros, quorum mihi tanta fuisse
sapientia videtur ut satis superque prudentes sint qui illorum prudentiam non
dicam adsequi, sed quanta fuerit perspicere possint; qui statas sollemnisque
caerimonias pontificatu, rerum bene gerendarum auctoritates augurio, fatorum
veteres praedictiones Apollinis vatum libris, portentorum expiationes
Etruscorum disciplina contineri putaverunt).
[16] Per la definizione di pax
deorum, vedi H. Fuchs, Augustinus und der antike Friedengedanke. Untersuchungen
zum neunzehnten Buch der Civitas Dei, Berlin 1926, pp. 186 ss.; ampi
riferimenti alle fonti attestanti i comportamenti umani suscettibili di
violarla in P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 19,
1953, pp. 49 ss. [= Id., Scritti di diritto romano, I, Padova
1985, pp. 226 ss.]; ai quali sono da aggiungere: J. Bayet, La religion
romaine. Histoire politique et psychologique, (1957), 2a ed., Paris 1969 [rist. 1976],
pp. 57 ss. [= Id., La
religione romana. Storia politica e psicologica, trad. it. di G.
Pasquinelli, Torino 1959 (rist. 1992), pp. 59 ss.]; M. Sordi, Pax deorum e libertà religiosa nella storia di Roma,
in Aa.Vv., La pace nel mondo antico, Milano 1985, pp. 146 ss.; E. Montanari, Il concetto originario di pax
e pax deorum, in Le concezioni della pace. VIII Seminario
Internazionale di Studi Storici "Da Roma alla Terza Roma",
Relazioni e comunicazioni, 1, Roma 1988, pp. 49 ss.; Id., Mito e storia
nell'annalistica romana delle origini, Roma 1990, pp. 85 ss. (Appendice I:
"Tempo della città e pax deorum:
l'infissione del clavus annalis");
F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema "diritto internazionale antico",
cit., pp. 256 ss. (ivi fonti e letteratura precedente); Id., Populus et religio dans
[17] M. Humbert,
Droit et religion dans
[18] P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica,
cit., p. 49 [= Id., Scritti di diritto romano, I, cit., p.
224].
[19] J. Scheid,
Le prêtre et le magistrat. Réflexions sur
les sacerdoces et le droit public à la fin de
[20] P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica,
cit., p. 50: «Legalismo religioso è l'insieme delle regole che insegnano a
mantenere la pax deorum» [= Id., Scritti di diritto romano, cit., p.
225].
[21] C. Bailey,
Phases in the religion of Ancient
[22] D. 1.1.1.2 (Ulpianus libro primo institutionum): Huius
studii duae sunt positiones, publicum et privatum. Publicum ius est quod ad
statum rei Romanae spectat, privatum quod ad singulorum utilitatem: sunt enim
quaedam publice utilia, quaedam privatim. Publicum ius
in sacris, in sacerdotibus, in magistratibus consistit. Riguardo al frammento di Ulpiano, mi pare che possano ormai
considerarsi superate sia affermazioni contrarie alla genuinità del testo (F. Schulz, Prinzipien des römischen Rechts, München 1934; qui cit. in trad.
it.: I principii del diritto romano, trad. it. a cura di V. Arangio-Ruiz, Firenze
1949, p. 23 nt. 33; U. von Lübtow,
Das römische Volk. Sein Staat und sein Recht, Frankfurt am
Main 1955, p. 618: «Die merkwürdige Dreiteilung des ius publicum: in sacris, in sacerdotibus, in magistratibus stammt
sicherlich nicht von Ulpian»), sia dubbi e perplessità (B. Albanese, Premessa allo studio del diritto privato romano, Palermo 1978, p.
192 nt. 295). Favorevoli all'autenticità del testo, fra gli altri: F. Stella Maranca, Il diritto pubblico romano nella storia delle istituzioni e delle
dottrine politiche, in Id., Scritti vari di diritto romano, Bari
1931, pp. 102 ss.; Silvio Romano,
La distinzione fra ius publicum e ius
privatum nella giurisprudenza romana, in Scritti giuridici in onore di Santi Romano, IV, Padova 1940, pp.
157 ss.; G. Nocera, Ius publicum (D. 2, 14, 38). Contributo alla
ricostruzione storico-esegetica delle regulae iuris, Roma 1946, pp. 152 ss.:
«Ulpiano è sulla scia della più pura tradizione romana» (p. 161); Id., Il binomio pubblico-privato nella storia del
diritto, Napoli 1989, pp. 171 ss.; F. Wieacker,
Doppelexemplare der Institutionen
Florentins, Marcians und Ulpians, in Mélenges
De Visscher, II, Bruxelles 1949, p. 585, il quale sostiene che sacra, sacerdotia e magistratus è una suddivisione di inconfondibile stampo
repubblicano; A. Carcaterra, L’analisi del ius e della lex come elementi
primi. Celso, Ulpiano, Modestino, in Studia
et Documenta Historiae et Iuris 46, 1980, pp. 272 ss.; G. Aricò Anselmo, Ius publicum - ius privatum in Ulpiano, Gaio e Cicerone, in Annali del Seminario Giuridico dell'Università di Palermo 37, 1983,
pp. 447 ss., in part. 461 ss.; H. Ankum,
La noción de ius publicum en derecho romano,
in Anuario de Historia del Derecho
Español 53, 1983, pp. 524 ss.; M. Kaser,
Ius publicum und ius privatum, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für
Rechtsgeschichte (R. A.) 103, 1986, pp. 6 ss.; F. Sini, Bellum nefandum.
Virgilio e il problema del “diritto internazionale antico”, cit., p. 223
nt. 112; P. Stein, Ulpian and the Distinction between ius
publicum and ius privatum, in Collatio
iuris Romani. études dédiées à
Hans Ankum à l’occasion de son 65ème anniversaire, II, Amsterdam 1995, pp.
499 ss.; V. Marotta, Ulpiano e l’impero, I, Napoli 2000, pp.
153 ss.
[24] Arnobius, Adv. Nat.
2.73.18: Non doctorum in litteris
continetur, Apollinis nomen Pompiliana indigitamenta nescire? Sui nomina deorum che si invocavano negli indigitamenta, risulta di qualche
utilità il vecchio lavoro di J. A. Ambrosch,
Über die Religionsbücher der Römer,
Bonn 1843; ancora indispensabili, invece, sia il bel libro di A. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l’ancienne Rome. étude historique sur les institutions
religieuses de Rome, Paris 1871
[rist. an. New York 1975], pp. 24 ss.; sia il manuale di J. Marquardt, Römische Staatsverwaltung, III. Das Sacralwesen, 2ª ed. a cura di G. Wissowa,
[25] Sull’archivio dei pontefici, ma senza pretesa di completezza
bibliografica, si vedano: J.-V. Le
Clercq, Des journaux chez les
Romains, recherches précédées d’un mémoire sur les annales des pontifes, et
suivies de fragments des journaux de l’ancienne Rome, Paris
[26] G. Boissier,
La religion romaine d’Auguste aux
Antonins, I, cit., p. 228 : «Si elle se gardait bien de détruire la
religion des peuples vaincus, elle était bien plus éloignée encore de vouloir
leur imposer la sienne».
[27] Per la nozione giuridica di “impero” risulta ormai
indispensabile il saggio di P. Catalano,
Alcuni sviluppi del concetto giuridico di
imperium populi Romani, in Popoli e
spazio romano tra diritto e profezia, [“Da Roma alla Terza Roma”, Studi
III], Napoli 1986, pp. 649 ss.
[28] Per una recente discussione sul problema de «La libertà nella
Roma arcaica e repubblicana», vedi G. Lombardi,
L'editto di Milano del 313 e la laicità
dello Stato, in Studia et Documenta
Historiae et Iuris 50, 1984, pp. 10 ss., il quale si propone di «chiarire
come la consapevolezza del fondamento dell'autonomia dell'uomo sia
sostanzialmente mutata a séguito del diffondersi del cristianesimo» (p. 11); Id., Persecuzioni, laicità, libertà religiosa. Dall'Editto di Milano alla
"Dignitatis humanae", Roma 1991.
[29] Sulla questione vedi ora, brevemente, le puntuali riflessioni di
P. Catalano-P. Siniscalco, Laicità tra diritto e religione. Documento
introduttivo del XIV Seminario “Da Roma alla Terza Roma”, pubblicato in Index 23, 1995, pp. 461 ss.; in part.
paragrafo 5 «'Laicizzazione' della giurisprudenza e cosiddetta 'Isolierung' del
diritto», p. 463: «Il sistema romano antico, sia precristiano sia cristiano,
non conosce l'isolamento del diritto rispetto alla morale o alla religione. Non
vi è isolamento del diritto nell'età repubblicana (ius civile in penetralibus pontificum repositum erat, Liv. 4.3.9),
né nell'Impero cristiano (publicum ius in
sacris, in sacerdotibus, in magistratibus consistit, D. 1.1.1.2). Quanto
alla giurisprudenza, significativa è la definizione contenuta in D. 1.1.10.2: divinarum atque humanarum rerum notitia,
iusti atque iniusti scientia. [...] E' corrente poi nella dottrina romanistica
l'uso del termine "laico" per indicare i giuristi non sacerdoti (onde
si parla di laicizzazione della giurisprudenza)».
[30] Sulla sostanziale tolleranza della religione politeista romana,
vedi fra gli altri: M. Adriani, Tolleranza e intolleranza religiosa nella
Roma antica, in Studi Romani 6,
1958, p. 507 ss.; R. Bloch, La religione romana, in H.-Ch. Puech,
Storia delle religioni, I.2 L'Oriente e
l'Europa nell'antichità, trad. it., Roma-Bari 1976, pp. 554 s., il quale
indica l'apertura e la tolleranza verso divinità straniere come «un'espressione
singolare e affascinante della religione romana»; J. A. North, Religious Toleration in Republican Rome, in Proceedings of the Cambridge Philological Association 25, n. s., 1979,
pp. 85 ss. Sottolinea, invece, le ambiguità insite nell'atteggiamento
“tollerante” dei Romani A. Momigliano,
Appunti preliminari sull'«opposizione
religiosa» all'impero romano, in Id.,
Saggi di storia della religione romana,
Brescia 1988, p. 154; ma in altro senso, Id.,
The desadvantages of monotheism for a
universal State, in Classical
Philology 81, 1986, pp. 285 ss.
[31] La stessa tradizione antica ricorda, del resto, l'introduzione a
Roma di numerosi culti "stranieri" già ad opera dei re: cfr., da ultimo,
P. M. Martin, L'idée de royauté à Rome. I.
De
[32] Titus Livius 1.20.6: Cetera quoque omnia publica privataque
sacra pontificis scitis subiecit, ut esset quo consultum plebes veniret, ne
quid divini iuris neglegendo patrios ritus peregrinosque adsciscendo
turbaretur; nec celestes modo caerimonias, sed iusta quoque funebria
placandosque manes ut idem pontifex edoceret, quaeque prodigia fulminibus
aliove quo visu missa susciperentur atque curarentur. Commento al passo in
R. M. Ogilvie, A Commentary on Livy. Books 1-5, Oxford
1965 [reprinted 1998], p. 101.
[33] Sulla riforma religiosa del primo sovrano sabino di Roma, vedi F. Ribezzo, Numa Pompilio e la riforma etrusca della religione primitiva di Roma,
in Rendiconti dell'Accademia dei Lincei,
ser. VIII, vol. 5, 1950, pp. 553 ss.; E.
M. Hooker, The Significance of
Numa's Religious Reforms, in Numen
10, 1963, pp. 87 ss.; F. Della Corte,
Numa e le streghe, in Maia 26, 1974, pp. 3 ss.; M. A. Levi, Il re Numa e i penetralia pontificum,
in Rendiconti dell'Istituto Lombardo
115, 1981 (pubbl. 1984), pp. 161
ss.; J. Martinez Pinna, La reforma de Numa y la formación de Roma,
in Gerión 3, 1985, pp. 97 ss.; J. Poucet, Les origines de Rome. Tradition et histoire, Bruxelles
[34] Sul tema, a parte i più usati manuali di storia della religione
romana, cfr. E. Norden, Aus altrömischen Priesterbüchern,
Lund-Leipzig 1939, pp. 246 ss.; J. Gagé,
Apollon romain. Essai sur le culte
d'Apollon et le développement du "ritus Graecus" à Rome des origines
à Auguste, Paris 1955; fra i lavori più recenti, G. Radke, Zur
Entwicklung der Gottesvorstellung und der Gottesverehrung in Rom, Darmstadt
1987, pp. 31 ss.; A. Bernardi,
[36] Sul complesso fenomeno dei rapporti con gli dèi dei vicini e con
gli dèi dei nemici, interpretato in termini di "estensioni" e
"mutamenti" della religione tradizionale, vedi G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., pp. 409 ss., 425 ss. [= Id., La religione romana arcaica, cit., pp. 355 ss., 369 ss.].
[37] A. Brause (Librorum de disciplina augurali ante Augusti
mortem scriptorum reliquiae, Lipsiae 1875, p. 42, fr. XXVII.
[38] In merito a questa divisione elaborata dal collegio degli auguri
e, più in generale, sul valore giuridico dell'ager, cfr. P. Catalano,
Aspetti spaziali del sistema
giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, cit., pp. 492 ss.
[39] Cfr. Gellius, Noct. Att.
13.23.1: Comprecationes deum immortalium,
quae ritu Romano fiunt, expositae sunt in libris sacerdotum populi Romani et in
plerisque antiquis orationibus; Agostinus, De civ. Dei 4.8). Per A. S.
Pease, M. Tulli Ciceronis De
natura deorum, I, Darmstadt 1968 [rist. della 1ª ed. 1955], p. 426, nel
passo ciceroniano «The word libris is
understood, as often with annales»;
cfr. anche l’edizione curata da M. van
den Bruwaene, Ciceron, De natura deorum.
Livre premier, Bruxelles 1970, p. 146: «dans nos livres
pontificaux». G. Rohde, Die Kultsatzungen der römischen Pontifices,
Berlin 1936, pp. 18-19, formula invece l’ipotesi che Cicerone abbia attinto
alle Antiquitates rerum divinarum di
Varrone: «Woher diese Vorstellung stammt, ist nicht zu sagen; doch darf nicht
vergessen werden, dass zur Zeit, als Cicero seine philosophischen Schriften
abfasste, Varros Antiquitates bereits an das Licht getreten waren, und dass
Cicero dieses Werk kannte». Infine, F. Sini, Documenti
sacerdotali di Roma antica, cit., p. 94 e 96.
[40] Su questo passo di Servio, vedi da ultimo F. Sini, Dai peregrina sacra alle pravae et
externae religiones dei baccanali: alcune
riflessioni su ‘alieni’ e sistema giuridico-religioso romano, cit., pp. 59
s.
[41] M. Adriani, Tolleranza e intolleranza religiosa nella
Roma antica, cit., p. 516: «Ora, è lecito su questa base parlare di
tolleranza? A noi interessa, come si è detto, questo sfondo, in quanto vale
pregiudizialmente a far intendere un certo tono e tipo di tolleranza vigente a
Roma. Volgersi a tutti gli dèi come nel
mos pontificius delle invocazioni si verifica, e attraverso un rinvio
dall’ambito degli dèi conosciuti e nominabili all’ambito dei molti di cui non
si sa il nome e che non possono quindi avere un culto determinato, ma dei quali
si pensa l’esistenza e cui si vuole rendere perciò un ossequio almeno indiretto
attraverso il riconoscimento di un limite che è il limite proprio, è linea
implicita alla tolleranza religiosa, perché è confessione della generalità
rispetto al particolare di partenza, e quindi ammissione dell’adventicium. E’ da questo angolo visuale
che si legittima un atteggiamento che potremmo dire positivo in quanto
ravvisabile in una “apertura” illimitata, e insieme un modo altrettanto
costante, ordinato negativamente, poiché quella illimitatezza rivela nonostante
tutto dei limiti».
[42] Quanto alla fonte del testo verriano, F. Bona, Contributo allo studio della
composizione del «de verborum significatu» di Verrio Flacco, Milano 1964, p. 16 n. 11, ipotizza che possa
essere una “glossa catoniana”: una delle glosse, cioè, «il cui lemma è
costituito da espressioni verbali o nominali tratte dal lessico di Catone
(nella quasi totalità dalle orazioni)» (p. 15); nello stesso senso Id.,
Opusculum Festinum, Ticini 1982, p. 15.
[43] J.-L. Girard,
Interpretatio Romana. Questions historiques et
problèmes de méthode, in Revue d'Histoire et Philosophie Religieuses 60,
1980, pp. 21 ss.; scopo dichiarato dello studioso è quello di comprendere
pienamente la ragione del «fait, solidement attesté, mais devenu un peu
surprenant, que les grandes divinités étrangères, et notamment grecques, aient,
pour la plupart sans difficulté aucune, trouvé des homologues à Rome». A suo
avviso, inoltre, sarebbe un grave errore valutare negativamente il procedimento
teologico che stava alla base dell’interpretatio
sacerdotale: non si tratta, infatti, né di «un confusionnisme dissolvant
l’héritage primitif de la religion romaine», né di «un irénisme basé en
dernière analyse sur le scepticisme à l’égard de toutes les formes d’esprit
religieux»; al contrario, conclude lo studioso francese: «elle permet d’éviter
à la fois les conflits ouverts avec les religions étrangères et la conversion
de certains éléments de la population à des cultes nouveaux, et témoigne de la
sagesse d’un peuple qui ne crut jamais que sa recherche de l’universalité dût
passer par une autre voie que par l’approfondissement de ses traditions
particulières» (pp. 26 s.).
Qualche anno prima, al complesso fenomeno dell'interpretatio aveva dedicato un
approfondito studio anche R. Bloch,
Interpretatio, in Id., Recherches sur les religions de l'Italie
antique, Genève 1976, pp. 1 ss. Pur senza soffermarsi specificamente sugli aspetti generali della complessa
problematica, l'illustre studioso non trascurava comunque di evidenziare due
questioni: «Tout au long de leur histoire, le jeu de l'interpretatio a permis aux Romains de rapprocher de leurs propres
divinités et de leur unir des dieux lointains par les lieux de culte et même,
parfois, par leur nature. Certes, un tel processus n'est pas le seul fait de
Rome. On retrouve, dans bien des secteurs du paganisme ancien, le sentiment
plus ou moins clair que, sous des noms différents, les divers peuples ne
pouvaient pas ne pas honorer les mêmes dieux. D'où résulta un mécanisme
complexe et réciproque par lequel les divers panthéons antiques se
rapprochèrent les uns des autres malgré les différences profondes qui, le plus
souvent, les séparaient. Sans doute, cependant, la relative pauvreté de
l'imagination religieuse romaine et le caractère essentiellement fonctionnel
des dieux de Rome ont-ils permis, plus qu'ailleurs, un très large développement
d'interpretationes de toutes sortes.
La tolérance religieuse, presque constamment attestée, des Romains y trouvait
son compte».
[44] In questa prospettiva, risultano
chiaramente invecchiate alcune esposizioni manualistiche della materia: cfr.,
ad esempio, K. Latte, Römische Religionsgeschichte, cit., pp. 264
s., per il quale il fenomeno è da intendersi nel senso di “Hellenisierung der
Götter”: «Die rationalistische Kritik an den überlieferten Vorstellungen, die
diese Epoche in Griechenland bewegt hatte, erklang nun, in eindrucksvollen
Schlagworten zusammengefasst, vor den Ohren des römischen Publikums. Es konnte seine Wirkung um so
weniger verfehlen, als man jetzt zwischen griechischen und römischen Göttern
keinen Unterschied mehr zu machen gewohnt war».
[45] «Qu’il ne s’agisse point là d’un phénomène
second, mais d’un primat psychologique, c’est ce que prouvent deux expressions
spécifiquement latines: pax deorum; religio. Les Romains désirent, à chaque
instant de leur vie publique la “paix des dieux”, c’est-à-dire l’assurance
qu’au delà de leur nature et de leur activité humaines ils ne rencontrent pas,
s’opposant à leur vouloir, la réaction hostile des dieux - y compris (ceci est
important) ceux de l’adversaire ou ceux dont le camp est douteux»: queste
parole si leggono in un breve, ma denso, paragrafo significativamente
intitolato «Il cosmico e il politico: pax
deorum e religio»: J. Bayet, La religion romaine, cit., p. 58 [= Id., La religione
romana, cit., pp. 61 s.].
[46] Cfr. in tal senso R.
Turcan, Lois romaines, dieux
étrangers et «religion d’Etat», in Diritto
e religione da Roma a Costantinopoli a Mosca [Da Roma alla Terza Roma,
Rendiconti dell’XI Seminario], a cura di M. P. Baccari, Roma 1994, pp. 23 ss.:
la citazione è a p. 31.
[47] L'evocatio di Giunone
Regina è stata studiata, fra gli altri, da V.
Basanoff, Evocatio. Étude d'un rituel militaire romain,
cit., pp. 42 ss.; S. Ferri,
[48] Sul frammento e sul giurista sono da vedere
P. Preibisch, Fragmenta
librorum pontificiorum, cit., p. 11 fr. 52; F. P. Bremer, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt,
I, cit., p. 29 fr. 1; C. Thulin, Italische sakrale Poesie und Prosa. Eine metrische
Untersuchung, Berlin 1906, pp. 59 ss.; Ph.
E. Huschke - E. Seckel - B. Kübler, Iurisprudentiae anteiustinianae reliquias, I,
cit., p. 15 fr. 1.
[49] Plinius, Nat. hist. 28.18: Verrius Flaccus
auctores ponit, quibus credat in obpugnationibus ante omnia solitum a Romanis
sacerdotibus evocari deum, cuius in tutela id oppidum esset, promittique illi
eundem aut ampliorem apud Romanos cultum. Et durat in pontificum disciplina id
sacrum, constatque ideo occultatum, in cuius dei tutela Roma esset, ne qui
hostium simili modo agerent; Servius Dan., in Verg. Aen. 2.351: excessere quia ante expugnationem
evocabantur ab hostibus numina propter vitanda sacrilegia. Inde est, quod Romani celatum esse voluerunt, in cuius dei tutela
urbs Roma sit. Et iure pontificum cautum est, ne suis nominibus dii Romani
appellarentur, ne exaugurari possint; Macrobius, Sat.
3.9.2-5: Constat enim omnes urbes in alicuius dei esse tutela, moremque
Romanorum arcanum et multis ignotum fuisse ut, cum obsiderent urbem hostium
eamque iam capi posse confiderent, certo carmine evocarent tutelares deos; quod
aut aliter urbem capi posse non crederent, aut etiam si posset, nefas
aestimarent deos habere captivos. Nam propterea ipsi Romani et deum in cuius
tutela urbs Roma est et ipsius urbis Latinum nomen ignotum esse voluerunt. Sed
dei quidem nomen non nullis antiquorum, licet inter se dissidentium, libris
insitum et ideo vetusta persequentibus quicquid de hoc putatur innotuit. Alii enim
Iovem crediderunt, alii Lunam, sunt qui Angeronam, quae digito ad os admoto
silentium denuntiat; alii autem, quorum fides mihi videtur firmior, Opem
Consiviam esse dixerunt. Ipsius vero urbis nomen etiam doctissimis ignoratum
est, caventibus Romanis ne quod saepe adversus urbes hostium fecisse se
noverant, idem ipsi quoque hostili evocatione paterentur, si tutelae suae nomen
divulgaretur.
[50] Per il contesto storico dell’evocatio,
cfr. V. Basanoff, Evocatio. Étude d'un rituel militaire romain, cit., pp. 37 ss.; R. Bloch, Interpretatio, cit., pp. 17 s.; N. Berti, Scipione Emiliano, Caio Gracco e l'evocatio di Giunone da Cartagine", in Aevum 64, 1990, pp. 69 ss.
[51] Per un esame completo della documentazione antica e della dottrina
moderna sulla formula e sul rito, rinvio all'ampio studio di V. Basanoff, Evocatio. Étude d'un
rituel militaire romain, cit.; ma vedi anche K. Latte, Römische
Religionsgeschichte, cit., p. 125; G.
Dumézil, La religion romaine
archaïque, cit., pp. 425 s. [= Id.,
La religione romana arcaica, cit.,
pp. 369 s.]; J. Alvar, La fórmula de la evocatio y su presencia en contextos
desacralizadores, in Archivo Español
de Arqueología 57, 1984, pp. 143 ss.; Id.,
Matériaux pour l’étude de la
formule sive deus, sive dea, in Numen 32, 1985,
pp. 236 ss.; J. Rüpke, Domi
militiae. Die religiöse Konstruktion des Kriges in Rom, Stuttgart 1990, pp. 162 ss.; A. Blomart,
Die evocatio und der Transfer fremder Götter von der Peripherie nach Rom, in H. Cancik-J. Rüpke (a cura di), Römische Reichsreligion und
Provinzialreligion, cit., pp. 99 ss.
[52] Le basi per la ricostruzione critica del
materiale contenuto negli archivi sacerdotali erano già state poste, nella
prima metà dell’Ottocento, dalle opere di I.
A. Ambrosch: Studien und
Andeutungen im Gebiet des altrömischen Bodens und Cultus, Breslau
[53] F. Sini, Documenti sacerdotali e lessico
politico-religioso di Roma arcaica, in Atti
del Convegno sulla lessicografia politica e giuridica nel campo delle scienze
dell'antichità (Torino, 28-29 aprile 1978), a cura di I. Lana e N.
Marinone, [Suppl. al vol. 113, Atti
dell'Accademia delle Scienze di Torino, II. Classe di Scienze
Morali, Storiche e Filologiche], Torino 1980, pp. 127 ss.; più in generale vedi C. Nicolet, Lexicographie politique et histoire romaine: problèmes de méthode et
directions de recherches, ibid.,
pp. 19 ss.
[54] Cfr., in tal senso, le «Remarques
préliminaires sur la dignité et l’antiquité de la pensée romaine» di G. Dumézil, Idées romaines, Paris 1969, pp. 9 ss.; in quelle pagine l’illustre
studioso francese ha dimostrato, in maniera peraltro assai convincente, che
«des techniques aussi complexes que l’augurale
ius et le ius civile étaient
constituées dès la fin des temps royaux, avec la réglementation rigoureuse que
nous leur connaissons au seuil de l’Empire» (25).
Già negli studi sulla giurisprudenza romana di P. Jörs, Römische Rechtswissenschaft zur Zeit der Republik, I. Bis auf die
Catonen, Berlin 1888, pp. 15 ss., si dedicava
ampio spazio all’analisi della «pontificale Jurisprudenz» e al ruolo
insostituibile dei suoi «Ritualvorschriften», intesi non senza ragione come
modelli della successiva elaborazione giurisprudenziale. Nello stesso senso, G. Nocera, Iurisprudentia. Per una storia del pensiero giuridico romano Roma
1973, pp. 11 ss.; ma soprattutto F.
Wieacker, Altrömische
Priesterjurisprudenz, in Iuris
professio. Festgabe für Max Kaser zum 80. Geburtstag, Wien-Graz-Köln 1986, pp. 347 ss.; Id., Römische Rechtsgeschichte. Quellenkunde, Rechtsbildung, Jurisprudenz und
Rechtsliteratur, I, München 1988, pp. 310 ss.; cfr. anche M. Bretone, Storia del diritto romano, Roma-Bari 1987, pp. 107 ss.; A. Schiavone, Linee di storia del pensiero giuridico romano, Torino 1994, pp. 4
s.; e C.A. Cannata, Per una storia della scienza giuridica
europea, I. Dalle origini a Labeone, Torino 1997, pp. 33 ss.
[55] Per la critica all'interpretazione "statualista'' del
sistema giuridico-religioso romano, rinvio ad alcuni studi di P. Catalano: Populus Romanus Quirites, Torino 1974, pp. 41 ss. (con ampia
analisi [pp. 52 ss.] dei motivi di opposizione nei confronti della
«Staatslehre» mommseniana, presenti nella cultura giuspubblicistica italiana
dell’Ottocento); La divisione del potere
in Roma repubblicana, in P. Catalano
- G. Lobrano, Il problema del potere in Roma repubblicana
[Pubblicazioni del Seminario di Diritto Romano dell’Università di Sassari, 1],
Sassari 1974, pp. 9 ss. = Id., La divisione del potere in Roma (a proposito
di Polibio e di Catone), in Studi in
onore di Giuseppe Grosso, VI, Torino 1974, p. 673 ss. Da vedere anche J. Bleicken, Lex publica.
Gesetze und Recht in der römischen Republik, Berlin-New York 1975, pp. 16
ss. («Kritik der Staatsrechtslehre von Th. Mommsen»). Più di
recente, tutta questa problematica è stata riaffrontata, con importanti
contributi critici e metodologici, da G. Lobrano,
Note su «diritto romano» e «scienze di
diritto pubblico» nel XIX secolo, in Index
7, 1977 [ma 1979], p. 66; Il potere dei
tribuni della plebe, Milano 1982, pp. 6 ss.; Diritto pubblico romano e costituzionalismi moderni [Pubblicazioni
del Seminario di Diritto Romano dell’Università di Sassari, 5], Sassari 1990,
pp. 81 ss.; Res publica res populi. La
legge e le limitazioni del potere [Pubblicazioni del Seminario di Diritto
Romano dell’Università di Sassari, 10], Torino (1994) 1996, pp. 42 ss.
[56] Per il significato e l'antichità del termine vedi A. Rostagni, Storia della letteratura latina, 3ª ed., I, Torino 1964, p. 41. Derivano
certamente dagli archivi dei sacerdoti sia il carmen saliare (frammenti in: C.
M. Zander, Carminis saliaris
reliquiae, Lundae 1888; B.
Maurenbrecher, Carminum Saliarium
reliquiae, in Jahrbücher für
classische Philologie, Suppl. XXI, 1894, pp. 315 ss.; W. Morel, Fragmenta poetarum latinorum epicorum et liricorum praeter Ennium et
Lucilium, 2ª ed. (1927), rist. Stutgardiae 1963, pp. 1 ss.) sia il carmen Arvale (sul quale vedi: M. Nacinovich, Carmen Arvale, 2 voll., Roma 1933-1934; E. Norden, Aus altrömischen
Priesterbüchern, cit., pp. 99 ss.; G.
Radke, Archaisches Latein,
Darmstadt 1981, pp. 100 ss.; I. Paladino,
Fratres Arvales. Storia di un collegio sacerdotale romano,
Roma 1988, pp. 195 ss.); ma anche le solenni formule giuridico-religiose di cui
le fonti ci hanno conservato i testi: Inauguratio,
in Titus Livius 1.18.6 ss.; foedus,
in Titus Livius 1.24.3 ss.; indictio
belli, in Titus Livius 1.32.11-13; deditio,
in Titus Livius 1.38.2; devotio, in
Titus Livius 8.9.16; evocatio, in
Macrobio, Sat. 3.9.7. Cfr. C.
M. Zander, Versus Italici antiqui,
Lundae 1890; C. Thulin, Italische sakrale Poësia und Prosa. Eine
metrische Untersuchung, Berlin 1906; G.
Appel, De Romanorum precationibus,
[Religionsgeschichte Versuche und Vorarbeiten, 7.1] (Gissae 1909) rist. an. New York 1975; G. B. Pighi,
La poesia religiosa romana, Bologna
1958.
[57] Quintilianus, Instit.
orat. 1.6.39-41: Verba a vetustate repetita non solum magnos adsertores
habent, sed etiam adferunt orationi maiestatem aliquam non sine delectatione:
nam et auctoritatem antiquitatis habent, et, quia intermissa sunt, gratiam
novitati similem parant. Sed opus est modo, ut neque crebra sint haec nec
manifesta, quia nihil est odiosius adfectatione; nec utique ab ultimis et iam
oblitteratis repetita temporibus, qualia sunt «topper» et «antegerio» et
«exanclare» et «prosapia» et Saliorum carmina vix sacerdotibus suis satis
intellecta. Sed illa mutari vetat religio et consecratis utendum est. Cfr. E. Peruzzi, Aspetti culturali del Lazio primitivo, Firenze 1978, p. 166.
[58] N.
D. Fustel de Coulanges, La cité antique. Étude sur le culte, le droit, les institutions de
[59] La distinzione tra i decreta e i responsa
sacerdotali non risulta del tutto chiara in dottrina: per tutti, P. Jörs,
Römische Rechtswissenschaft zur
Zeit der Republik, cit., pp. 29 ss.;
E. De Ruggiero, v. Decretum, in Dizionario Epigrafico di Antichità Romane, II.2, Roma 1910, pp.
1497 ss.; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, 2ª ed.,
München 1912, pp. 541 s., 527 ss., 551; F.
Schulz, History of Roman Legal
Science, 2ª ed., Oxford 1953, pp. 15 ss. [= Id., Storia della giurisprudenza romana, trad. it. a cura di G. Nocera,
Firenze 1968, pp. 37 ss.]. Nell’ambito di uno studio più ampio sulla normativa decretale
in Roma repubblicana, si occupa dei decreta
pontificum G. Mancuso, Studi sul decretum nell’esperienza giuridica romana, in Annali del Seminario Giuridico dell’Università di Palermo 40, 1988,
pp. 78 ss.; infine da menzionare (ma non ho potuto vedere) L. L. Cohee, Responsa and decreta of Roman priesthoods during the Republic, Dissertation University
of Colorado at Boulder 1994. Per quanto riguarda i responsa, non è neppure certo se, e in che misura, essi
vincolassero il magistrato, il senato o il privato che li avevano richiesti;
tuttavia il prestigio dei sacerdoti era tale da far sì che raramente venissero
disattesi. Cfr. Cicero, De harusp. resp.
6.12: Quae tanta religio est qua non in
nostris dubitationibus atque in maximis superstitionibus unius P. Servili ac M.
Luculli responso ac verbo liberemur? De sacris publicis, de ludis maximis, de
deorum penatium Vestaeque matris caerimoniis, de illo ipso sacrificio quod fit
pro salute populi Romani, quod post Romam conditam huius unius casti tutoris
religionum scelere violatum est quod tres pontifices statuissent, id semper
populo Romano, semper senatui, semper ipsis dis immortalibus satis sanctum,
satis augustum, satis religiosum esse visum est.
[60] Mi permetto di rinviare a quanto ho già trattato in un mio
precedente lavoro (F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica,
cit., pp. 163 ss.), dove credo di aver dimostrato la sostanziale continuità
della tradizione documentaria sacerdotale, individuando, anche, alcune
probabili revisioni o sistemazioni dei materiali degli archivi nel corso della
storia di Roma.