N° 2 - Marzo 2003 – Tradizione Romana
Università di Sassari
Il divieto dei
sacrifici di animali nella legislazione di
Costantino. Una
interpretazione sistematica(*)
Sommario: Premessa.
Contrarietà di Costantino ai sacrifici di animali: insufficienza della spiegazione
con la sola conversione al Cristianesimo ed esigenza di considerare sistematicamente
le concezioni religiose, filosofiche e giuridiche di favore per la condizione
animale. – 1.
Il rifiuto personale dei sacrifici di animali: gli episodi. – a. Il rifiuto personale dei
sacrifici cruenti: prima della battaglia di Saxa Rubra e per la guarigione
dalla lebbra. – b.
Il rifiuto personale dei sacrifici di animali nei tre ingressi a Roma e la vexata quaestio dell’abbandono del
Campidoglio. – 2.
Il divieto legislativo dei sacrifici di animali: le norme. – a. Il divieto speciale e
parziale dei sacrifici di animali in materia di aruspicina e di magia.
– b. Il divieto generale e
totale dei sacrifici di animali. – c. Il complesso della normazione costantiniana di
carattere ‘umanitario’. – 3. Il divieto dei sacrifici di animali come aspetto e
manifestazione della concezione degli animali: nella religione, nella filosofia
e nel diritto. – a. Il consortium
naturalis initii fra gli esseri animati, nella cultura religiosa cristiana.
– b. L’unica
giustizia per tutti gli esseri animati nella cultura filosofica greca.
– c. Il ius naturale che omnia animalia
docuit, nella cultura giuridica romana. – 4. Costantino e la cultura
del suo tempo. – a. La questione della conoscenza, da parte di Costantino, delle
correnti filosofiche di favore per la condizione animale e contrarie ai
sacrifici di animali. – b. Un esempio di attestazione della conoscenza, da parte
di Costantino, delle correnti filosofiche di favore per la condizione animale e
contrarie ai sacrifici di animali: la
Oratio ad sanctorum coetum. – Conclusioni.
[p. 84]
Numerose fonti attestano il rifiuto e il
divieto da parte di Costantino dei sacrifici di animali. Nel senso di un
rifiuto, si possono considerare quelle testimonianze che, con riferimento agli
eventi in occasione dei quali l’imperatore fece ingresso in Roma, sembrano a
lui attribuire, di fronte ai sacrifici di animali, un atteggiamento che, da una
originaria e semplice forma di disagio, si trasforma, con il tempo, in un vero
e proprio rifiuto definitivo della violenza sacrificale, espresso, da un lato,
nel diniego di un personale coinvolgimento nei sacrifici di animali[1],
dall’altro, nella rinuncia a onori comportanti spargimento di sangue[2].
Nel senso di un divieto, si possono richiamare quelle costituzioni che vietano
il compimento di pratiche sacrificali legate alla aruspicina[3]
e quelle che introducono limiti ai riti cruenti in onore delle divinità romane[4].
Da più parti, si è individuato il fondamento del rifiuto dei
sacrifici di animali e della legislazione connessa nella scelta cristiana di
Costantino[5],
scelta che, a prescindere dai problemi tuttora
[p. 86]
aperti
sulla conversione dell’imperatore[6],
avrebbe caratterizzato la politica costantiniana a partire dalla battaglia di
Ponte Milvio[7].
[p. 87]
Questa spiegazione, però, non dà ragione della specificità
dell’atteggiamento di Costantino che concerne non i sacrifici in generale, ma
solo quelli cruenti. Se, da un lato, l’imperatore sembra ispirarsi alla
dottrina cristiana, per la quale il vero e unico sacrificio è solo quello di
Cristo[8],
d’altro lato, egli dispone di una
[p. 88]
visione
anche precristiana delle relazioni uomo-animale, per la quale il primo non è in
posizione di supremazia nei confronti del secondo[9],
ma è legato all’altro da un rapporto simpatetico[10].
[p. 89]
Nello sviluppo del presente studio, ci soffermeremo sulla
prospettiva di questa seconda possibile fonte di ispirazione, collocandola nel
quadro della più generale concezione religiosa, filosofica e giuridica della
condizione animale nell’antichità[11].
In
[p. 90]
tale
prospettiva, le disposizioni emanate dall’imperatore in materia di sacrifici di
animali possono essere considerate indizio di un progetto complessivo di
‘innesto’ della nuova religione cristiana nella precedente cultura romana,
progetto per il quale egli sembra privilegiare alcune specifiche correnti di tale
cultura, con conseguenze assai interessanti anche sul piano
dell’interpretazione del sistema giuridico. Il divieto dei sacrifici appare
implicare, nei confronti degli animali e della loro condizione, una attenzione,
la quale, se, da un lato, potrebbe trovare origine in un atteggiamento personale
dell’imperatore, dall’altro, potrebbe anche concorrere a chiarire i modi della
progressiva espressione di un distacco da certi aspetti cruenti della esperienza
religiosa precristiana, distacco, i cui caratteri vanno sempre più definendosi
nel tempo.
Le ragioni della ipotesi testé avanzata non potranno,
naturalmente, essere esposte prima di avere preso in esame le fonti sull’attività
di Costantino in materia di sacrifici di animali. Sin da ora, però, è possibile
compiere una osservazione preliminare alla
[p. 91]
impostazione
e allo sviluppo del discorso. È infatti opportuno osservare che, se non si
tiene conto del duplice quadro – costituito dalla insufficienza della spiegazione
del rifiuto e del divieto dei sacrifici di animali con la sola conversione al
Cristianesimo e dalla esigenza di considerare sistematicamente le concezioni
religiose, filosofiche e giuridiche di favore per la condizione animale –, non
si può percepire il senso e la portata del divieto dei sacrifici di animali.
Viceversa, tenendo adeguatamente conto di questo duplice quadro,
il rifiuto e il divieto dei sacrifici di animali potranno apparire
riconducibili ad un progetto complessivo di ampio respiro ‘culturale’ e di
grande significato giuridico. Di ampio respiro ‘culturale’, per via della
feconda sintesi, realizzata da Costantino, fra elementi propri della nuova
religione cristiana e alcune specifiche componenti della cultura precristiana
greco-romana. Di grande significato giuridico, per il sostegno, assicurato
dall’imperatore, a una impostazione dei rapporti tra uomini e animali non umani
in linea con la concezione del ius naturale e, dunque, attraverso l’influenza
di questo ius, in linea (anche) con
il ius gentium e il ius civile[12].
[p. 93]
Le
fonti che prenderemo in esame, per una interpretazione sistematica
dell’atteggiamento personale e della legislazione costantiniani in materia di
sacrifici di animali, possono per semplicità essere considerate di tre tipi: 1)
fonti in cui si parla di sacrifici cruenti; 2) fonti in cui si parla di
sacrifici tout court; 3) fonti in cui
si parla di animali senza riferimenti espliciti ai sacrifici, che rimangono
però sottintesi[13].
Per
tale ragione, si pone il problema di valutare, con particolare riguardo alla
posizione espressa da Costantino in materia di sacrifici, la relazione
esistente tra sacrificio e uccisione dell’animale.
Nelle
fonti, è appena il caso di osservare che il sacrificio non implica sempre la
uccisione dell’animale e viceversa. È opportuno,
[p. 94]
invece, rilevare, sin da ora,
che nel linguaggio delle fonti antiche, di varia provenienza, quando ci si
riferisce al sacrificio senza ulteriori specificazioni, di norma, si intende il
sacrificio cruento. A ciò può anche aggiungersi che l’affermazione può essere
rovesciata, in quanto l’uccisione dell’animale ha o quantomeno deve avere
sempre caratteri rituali[14].
Questa
relazione tra sacrificio e uccisione dell’animale sembra riproporsi, negli
stessi termini, anche nella legislazione costantiniana, in seno alla quale il rifiuto
e il divieto dei sacrifici ci appaiono diretti evidentemente a colpire i
sacrifici di animali.
Non
è possibile, per esaminare tale relazione, soffermarsi in questa sede sulla
concezione generale del sacrificio nel sistema “giuridico-religioso” romano,
tanto più che il tema è oggetto, oltre che di una ricchissima letteratura, di
una relazione di Francesco Sini, in questa stessa pubblicazione, alla quale
relazione naturalmente rinviamo anche per l’esame della letteratura. Si può
però osservare, in estrema sintesi, che, accanto al sacrificio cruento,
esistono atti differenti con i quali “hanno l’autorità di impegnare e sdebitare
una collettività, la repubblica o una gens,
i suoi capi naturali: il pater familias,
i magistrati cum imperio … L’atto
fondamentale, sia autonomo, sia parte integrante di operazioni più complesse, è
l’offerta di un bene di consumo, e in particolare di una sostanza alimentare: per
esempio, le primizie dei cereali, delle fave, dell’uva, del vino dolce, e più
spesso un animale, che è l’oggetto per eccellenza dei sacrificia”[15].
Come ha osservato Francesco Sini,
nella sua relazione, la centralità del sacrificio e specificamente del sacrificio
di esseri animati è attestata nel testo liviano (1,20,5-7) sulla istituzione
del sacerdozio pontificale da parte del re Numa Pompilio, testo nel quale le hostiae sono collocate all’inizio
dell’elenco delle materie di competenza dei pontefici, prima di dies, templa, pecunia, cetera sacra, funebria e prodigia. Se
dunque, come ha rilevato sempre tale studioso, i sacrifici “potevano consistere
in offerte incruente di prodotti della terra (libamina), oppure in sacrifici cruenti di esseri animati (hostiae, victimae)”,
[p. 95]
occorre però riconoscere
“quanto al risultato che si voleva conseguire” che “la pratica dei sacrifici
cruenti era ritenuta di gran lunga superiore alla semplice offerta di libamina, in ragione del radicato
convincimento che il sangue delle vittime sacrificali, versato nell’azione
rituale, risultasse sommamente gradito alle divinità (e ai defunti)”. In questa
ottica, la centralità del sacrificio di animali, nel sistema giuridico-religioso
romano, è attestata (anche) dalle indagini semantiche che John Scheid ha
condotto sul vocabolario delle relazioni sacrificali, le quali indagini mostrano,
fra l’altro, un nesso inscindibile tra sacrificio e spargimento di sangue animale[16].
“Data l’importanza del rito e la rarità della consumazione di carne” ha osservato
lo studioso “si potrebbe supporre senza essere imprudenti che la fase sacrificale
precedesse sempre la distribuzione … Diremo che a Roma, in epoca storica, ogni
sacrificio è seguito da una distribuzione, talvolta da un banchetto, e che, se
non direttamente collegato al sacrificio, nondimeno esso utilizza la
terminologia e le regole della spartizione sacrificale”[17].
Basterebbe
dunque riflettere sul nesso tra sacrificio e spargimento di sangue, per
ritenere che le costituzioni costantiniane in materia di sacrifici siano specificamente
volte a vietare l’uccisione di animali. Al di là di tale rilievo, per così dire,
esterno alla legislazione costantiniana, occorre anche ricordare che il nesso
tra sacrificio e spargimento di sangue e, dunque, quello tra le costituzioni
costantiniane e i sacrifici di animali, è attestato da Eusebio di Cesarea, il
quale osserva che l’imperatore, in occasione
[p. 96]
dei decennali, “celebrò pubblici
festeggiamenti e rivolse a Dio, Signore … sacrifici privi di fuoco e di fumo”[18].
E non è certo un caso, come si vedrà, che nell’arco di Costantino siano assenti
richiami al compimento di sacrifici di animali da parte dell’imperatore[19].
Una ulteriore conferma di tale nesso proviene dalla lettera di
Costantino al re persiano Sapore II, nella quale l’imperatore afferma
espressamente il proprio disgusto per i sacrifici cruenti[20]:
Eusebio,
vita Const. 4,9-10: T¾n qe…an p…stin ful£sswn toà tÁj ¢lhqe…aj fwtÕj
metalagc£nw. tù tÁj ¢lhqe…aj fwtˆ ÐdhgoÚmenoj t¾n qe…an p…stin ™piginèskw.
toig£rtoi toÚtoij, æj t¦ pr£gmata bebaio‹, t¾n ¡giwt£thn qrhske…an gnwr…zw.
did£skalon tÁj ™pignèsewj toà ¡giwt£tou qeoà taÚthn t¾n latre…an œcein Ðmologî.
toÚtou toà qeoà t¾n dÚnamin œcwn sÚmmacon, ™k tîn per£twn toà 'Wkeanoà
¢rx£menoj p©san ™fexÁj t¾n o„koumšnhn beba…oij swthr…aj ™lp…si di»geira, æj
¤panta Ósa ØpÕ tosoÚtoij tur£nnoij dedoulwmšna ta‹j kaqhmerina‹j sumfora‹j
™ndÒnta ™x…thla ™gegÒnei, taàta proslabÒnta t¾n tîn koinîn ™kdik…an ésper œk tinoj
qerape…aj ¢nazwpurhqÁnai. toàton tÕn qeÕn presbeÚw, oá tÕ shme‹on Ð tù qeù ¢nake…menÒj
mou stratÕj Øpr tîn êmwn fšrei, kaˆ ™f' ¤per ¨n Ð toà dika…ou lÒgoj parakalÍ
kateuqÚnetai· ™x aÙtîn d' ™ke…nwn perifanšsi tropa…oij aÙt…ka t¾n c£rin
¢ntilamb£nw. toàton tÕn qeÕn ¢qan£tJ mn»mV tim©n Ðmologî, toàton ¢kraifne‹ kaˆ
kaqar´ diano…v ™n to‹j ¢nwt£tw tugc£nein Øperaug£zomai· toàton
[p. 97]
™pikaloàmai gÒnu kl…naj, feÚgwn mn p©n aŒma bdeluktÕn
kaˆ Ñsm¦j ¢hde‹j kaˆ ¢potropa…ouj, p©san d geèdh lamphdÒna ™kkl…nwn, oŒj
¤pasin ¹ ¢qšmitoj kaˆ ¥rrhtoj pl£nh crainomšnh polloÝj tîn ™qnîn kaˆ Óla gšnh
katšrriye to‹j katwt£tw mšresi paradoàsa. § g¦r Ð tîn Ólwn qeÕj prono…v tîn
¢nqrèpwn di¦ filanqrwp…an o„ke…an cre…aj ›neka e„j toÙmfanj par»gage, taàta
prÕj t¾n ˜k£stou ™piqum…an ›lkesqai oÙdamîj ¢nšcetai, kaqar¦n d mÒnhn di£noian
kaˆ yuc¾n ¢khl…dwton par¦ ¢nqrèpwn ¢paite‹, t¦j tÁj ¢retÁj kaˆ eÙsebe…aj
pr£xeij ™n toÚtoij staqmèmenoj. ™pieike…aj g¦r kaˆ ¹merÒthtoj œrgoij ¢ršsketai,
pr£ouj filîn, misîn toÝj taracèdeij, ¢gapîn p…stin, ¢pist…an kol£zwn, p©san
met¦ ¢lazone…aj dunaste…an katarrhgnÚj, Ûbrin Øperhf£nwn timwre‹tai, toÝj ØpÕ
tÚfou ™pairomšnouj ™k b£qrwn ¢naire‹, tapeinÒfrosi kaˆ ¢nexik£koij t¦ prÕj
¢x…an nšmwn. oÛtw kaˆ basile…an dika…an perˆ polloà poioÚmenoj ta‹j par' ˜autoà
™pikour…aij kratÚnei, sÚnes…n te basilik¾n tù galhna…J tÁj e„r»nhj diaful£ttei.
In
tale prezioso documento è l’imperatore stesso a offrirci la chiave di lettura
della sua scelta in materia di sacrifici: lo spargimento di sangue, i suoi
olezzi e gli abomini rappresentano non solo i momenti più crudi e drammatici
del sacrificio, ma anche le ragioni della presa di distanza dell’imperatore
dalla violenza sacrificale. Si noti, inoltre, che l’accostamento tra il rifiuto
del sacrificio cruento e il rilievo, secondo il quale Dio pretende dagli uomini
solo “mente pura e anima incontaminata”, pone l’imperatore in linea con il
rifiuto, precristiano e cristiano, dei sacrifici di animali, rifiuto sul quale
ci tratterremo diffusamente nelle pagine seguenti.
[p. 98]
Una serie di eventi testimonia il rifiuto
dell’imperatore della violenza sacrificale, entro la quale si colloca, in
quanto espressione fra le più ricorrenti di questa violenza, il sacrificio di
animali.
La stessa vittoria del Ponte Milvio si era resa possibile,
secondo una consueta rappresentazione[21],
grazie all’intervento di un dio, il quale, non appartenendo alle tradizionali
divinità romane, ad esse si era esplicitamente opposto. In questo senso, Eusebio[22]
descrive idealmente lo scontro fra i due contendenti, a Saxa Rubra, come la
lotta fra due diverse concezioni del sacrificio: addirittura sanguinario quello
di Massenzio, non cruento quello di Costantino[23].
Eusebio mostra la crudeltà del ‘pagano’ Massenzio,
[p. 99]
il
quale, nello sforzo di riportare la vittoria sul suo avversario, non esita a
impartire l’ordine di sgozzare donne gravide, scrutare le viscere dei neonati,
uccidere leoni, invocare demoni[24].
Costantino, al contrario, rifiutando i sacrifici cruenti, con la preghiera
depone la sua vittoria nelle mani di Dio[25].
Nell’opera del vescovo di Cesarea, il tiranno[26],
a differenza dell’imperatore, si affida alle effigi ‘pagane’[27],
alla magia[28],
alle stragi[29].
Alla empietà del tiranno – la dussebe…a – Eusebio contrappone la eÙsšbeia
dell’imperatore[30].
In questa ottica, può essere letta anche la complessa tradizione
in merito al battesimo dell’imperatore. Una tradizione fondata in larga misura
sugli Actus Sylvestri[31],
opera agiografica databile
[p. 100]
fra
la fine del IV e i primi del V secolo[32],
racconta che Costantino, persecutore di cristiani[33],
sarebbe stato contagiato dalla lebbra. Dopo che maghi e medici non erano
riusciti a guarire l’imperatore, i pontefici del Campidoglio gli avrebbero suggerito
di far riempire una vasca con il sangue di fanciulli e di fare poi un bagno
mentre ancora era caldo il sangue. Secondo questa tradizione, quando Costantino
uscì dal palazzo, per recarsi a praticare tale cruenta ‘terapia’, le madri dei
fanciulli, con il seno nudo e i capelli sciolti in segno di lutto, si sarebbero
dirette in lacrime verso di lui. Egli, commosso dal pianto delle donne, avrebbe
allora ordinato di riconsegnare i bambini alle madri e di offrire loro dei
doni, motivando la sua rinuncia in nome della pietas e della iustitia.
La stessa notte, gli apostoli Pietro e Paolo, inviati da Cristo, sarebbero
apparsi in sogno a Costantino e gli avrebbero consigliato di richiamare
dall’esilio il vescovo Silvestro, sottrattosi, sul monte Soratte, alla
persecuzione che l’imperatore stesso aveva ordinato in precedenza. Al vescovo,
giunto al cospetto di Costantino convinto di essere ormai vicino al martirio,
l’imperatore avrebbe svelato il sogno e domandato il significato di esso. Silvestro
avrebbe allora chiarito a Costantino l’identità delle due “divinità” a lui comparse
e la funzione della piscina pietatis, immergendosi nella quale,
l’imperatore sarebbe potuto guarire dalla malattia. Costantino avrebbe allora
accettato di convertirsi e di sottoporsi al periodo di preparazione al
battesimo, trascorso il quale periodo, sarebbe stato condotto, nel palatio Lateranensi, alla vasca battesimale, ove, dopo essersi immerso,
sarebbe guarito. Tralasciando altri riferimenti, presenti nelle fonti, sulla
vicenda del battesimo di Costantino, la tradizione attesta il rifiuto
dell’imperatore per i sacrifici cruenti e la scelta cristiana del battesimo
come rito incruento e purificatore.
[p. 101]
Al di là di tali eventi, la più importante testimonianza del
rifiuto imperiale della violenza sacrificale, a ben vedere, sta proprio nel
rapporto che Costantino instaurò con la città di Roma, nelle tre circostanze in
occasioni delle quali egli vi fece ingresso. In questo senso, come vedremo
subito, non appare azzardato affermare, sin da ora, che ogni ingresso
dell’imperatore nella città abbia segnato la formazione e il rafforzamento di
un atteggiamento personale di distacco dai riti sacrificali, secondo una progressione
i cui contenuti ci sono sufficientemente chiari solo negli aspetti essenziali.
È noto che Costantino visitò Roma in tre
diverse circostanze: la prima, dopo la battaglia di Ponte Milvio, a partire dal
29 ottobre del 312; la seconda, il 18 o il 21 luglio del 315, per la
celebrazione del decimo anniversario del regno; la terza, il 18 o il 21 luglio
del 326, per la duplicazione della cerimonia dei ventennali che l’imperatore
aveva già celebrato a Nicomedia nel 325[34].
Al 326, quando l’imperatore
giunse a Roma in occasione dei vicennalia,
si fa comunemente risalire in letteratura il racconto di Zosimo sulla conversione
di Costantino[35]:
Zosimo
2,29,1-5: 1 Perist£shj d tÁj p£shj e„j mÒnon
Kwnstant‹non ¢rcÁj, oÙkšti loipÕn t¾n kat¦ fÚsin ™noàsan aÙtù kako»qeian œkrupten,
¢ll¦ ™ned…dou tù kat' ™xous…an ¤panta pr£ttein: ™crÁto d œti kaˆ to‹j patr…oij
ƒero…j, oÙ timÁj ›neka m©llon À cre…aj: Î kaˆ m£ntesin ™pe…qeto, pepeiramšnoj
æj ¢lhqÁ proe‹pon ™pˆ p©si to‹j katwrqwmšnoij aÙtù: ™peˆ d' e„j t¾n `Rèmen
¢f…keto mestÕj p£shj ¢lazone…aj, ¢f' ˜st…aj ò»qh de‹n ¥rxastai tÁj ¢sebe…aj. 2
Kr…spon g¦r pa‹da tÁj toà
[p. 102]
Ka…saroj, æj e‡rhta… moi prÒteron, ¢xiwqšnta timÁj, e„j Øpoy…an
™lqÒnta toà FaÚstV tÍ mhtrui´ sune‹nai, toà tÁj fÚsewj qesmoà mhdšna lÒgon poihs£menoj
¢ne‹len: tÁj d Kwnstant‹nou mhtrÕj `Elšnhj ™pˆ tù thlikoÚtJ p£qei duscerainoÚshj
kaˆ ¢scštwj t¾n ¢na…resin toà nšou feroÚshj, paramuqoÚmenoj ésper aÙt¾n Ð
Kwnstant‹noj kakù tÕ kakÕn „£sato me…zoni: balane‹on g¦r Øpr tÕ mštron
™kpurwqÁnai keleÚsaj kaˆ toÚtJ t¾n Faàstan ™napoqšmenoj ™x»gagen nekr¦n genomšnhn.
3 Taàta sunepist£menoj ˜autù, kaˆ prosšti ge Órkwn katafron»seij, prosÇei to‹j
ƒereàsi kaq£rsia tîn ¹marthmšnwn a„tîn: e„pÒntwn d æj oÙ paradšdotai kaqarmoà
trÒpoj dusseb»mata thlikaàta kaqÁrai dun£menoj, A„gÚptiÒj tij | ™x 'Ibhr…aj e„j
t¾n `Rèmhn ™lqën kaˆ ta‹j e„j t¦ Bas…leia gunaixˆn sun»qhj genÒmenoj, ™ntucën
tù Kwnstant‹nJ p£shj ¢mart£doj ¢nairetik¾n eŒnai t¾n tîn Cristianîn
diebebaièsato dÒxan kaˆ toàto œcein ™p£ggelma, tÕ toÝj ¢sebe‹j metalamb£nontaj aÙtÁj
p£shj ¡mart…aj œxw paracrÁma kaq…stasqai. 4 Dexamšnou d ·´sta toà Kwnstant‹nou tÕn lÒgon kaˆ ¢femšnou
mn tîn patr…wn, metascÒntoj d ïn Ð A„gÚptioj aÙtù
meted…dou, tÁj ¢sebe…aj t¾n ¢rc¾n ™poi»sato t¾n mantik¾n œcein ™n Øpoy…v:
pollîn g¦r aÙtù di¦ taÚthj prorrhqšntwn eÙtuchm£twn kaˆ ™kb£ntwn e„j œrgon,
™ded…ei m» pote kaˆ ¥lloij kat' aÙtoà ti punqanomšnoij tÕ ™sÒmenon prorrhqe…h,
kaˆ ™k taÚthj tÁj proairšsewj prÕj tÕ taàta
katalÚein ™traph. 5 TÁj d patr…ou datalaboÚshj ˜ortÁj, kaq' ¿n ¢n£gkh
tÕ stratÒpedon Ân e„j tÕ Kapitèlion ¢nišnai kaˆ t¦ nenomismšna plhroàn, dediëj toÝj
stratiètaj Ð Kwnstant‹noj ™koinènhse tÁj ˜ortÁj: ™pipšmyantoj d aÙtù f£sma toà
A„gupt…ou t¾n e„j tÕ Kapitèlion ¥nodon Ñneid…zon ¢nšdhn, tÁj ƒer©j ¡giste…aj
¢postat»saj, e„j m‹soj t¾n gerous…an kaˆ tÕn dÁmon ¢nšsthsen.
Secondo il racconto di Zosimo, Costantino, giunto a Roma dopo
l’uccisione del figlio Crispo e della moglie Fausta, si sarebbe recato dai sacerdoti
per chiedere di espiare con sacrifici le sue
[p. 103]
colpe,
ma poiché costoro gli avevano risposto che in alcun modo ciò sarebbe stato
possibile, egli, per il tramite di un Egizio[36]
che lo aveva convertito alla fede cristiana, avrebbe iniziato a diffidare della
divinazione e a rifiutarsi di compiere i riti tradizionali, accostandosi,
invece, ai riti dei cristiani. Durante una “festa patria”, la cui natura[37]
(non chiaramente identificata nel racconto di Zosimo) senz’altro comportava,
una volta avvenuta l’ascesa al Campidoglio, il compimento di sacrifici di
animali in onore di Giove, Costantino avrebbe dapprima partecipato ai festeggiamenti
per timore dei soldati, ma poi, quando l’Egizio gli avrebbe fatto apparire una
visione che condannava la sua partecipazione, si sarebbe allontanato dalla cerimonia,
così provocando l’ira del Senato e del popolo.
Il rifiuto dei sacrifici di animali dovette esprimersi, nella
occasione descritta da Zosimo, come il momento conclusivo di un atteggiamento
personale che l’imperatore andò maturando nel corso del tempo. Dovremo ora
soffermarci sulla analisi che in dottrina è stata elaborata in merito a tali ingressi,
per l’importanza che il rifiuto di Costantino della violenza sacrificale può
assumere proprio nella interpretazione della legislazione costantiniana in
materia di sacrifici di animali.
Gli aspetti dibattuti in letteratura sono numerosi, sia sotto il
profilo della eventuale celebrazione di un vero e proprio trionfo da parte del
vincitore della battaglia contro Massenzio, sia sotto il profilo della sua
ascesa al Campidoglio e del connesso compimento dei sacrifici di animali[38].
[p. 104]
Si deve a Joannes Straub[39]
l’aver messo in rilievo, sulla base del Panegirico
del 313, la “fretta”, mostrata da Costantino, nell’attraversare la città di
Roma, il 29 ottobre del 312, all’indomani della vittoria contro Massenzio[40].
Il comportamento assunto in tale occasione dal vincitore, comportamento che
aveva provocato il rammarico dei Romani (documentato nel Panegirico del 313) per non aver potuto adeguatamente ammirare il
loro imperatore, sarebbe stato un indizio del fatto che egli avrebbe rifiutato
di dirigersi verso il Campidoglio, ove avrebbe dovuto rendere omaggio con
sacrifici a Giove Ottimo Massimo. E sarebbe stato, appunto, per tale rifiuto
che l’atteggiamento di Costantino avrebbe allora destato così tanto scalpore.
D’altra parte, la circostanza che la vittoria contro Massenzio fosse stata riportata
in una guerra civile non avrebbe impedito di considerare l’ingresso del
vincitore come un effettivo trionfo, poiché le fonti, quali
[p. 105]
il Panegirico del 313[42]
e il Panegirico di Nazario[43],
non lascerebbero alcun dubbio circa la precisa qualificazione dell’avvenimento[44].
A questo proposito, invece, Andreas Alföldi, pur sostenendo che Costantino
avrebbe attribuito la sua vittoria contro Massenzio al dio dei cristiani,
riteneva che l’imperatore avrebbe davvero celebrato un trionfo[45],
con relativa ascesa al Campidoglio, per offrire il sacrificio dovuto a Giove
Ottimo Massimo[46].
Scelta che il vincitore avrebbe preso, non senza un qualche imbarazzo da parte
sua, per evitare di recare un insulto a quella città, che, con tanto
entusiasmo, lo aveva accolto.
Sulla scia di Andreas Alföldi, François Paschoud, partendo
dall’esame del celebre racconto di Zosimo sulla conversione di Costantino, ha
sostenuto che nel 312 l’imperatore, ormai cristiano, avrebbe accettato di
compiere una ascesa al Campidoglio e di fare un sacrificio a Giove, al fine di
sottrarsi al pubblico scandalo che una omissione di tale cerimonia avrebbe
comportato[47].
Nella interpretazione di tali vicende costantiniane, François
Paschoud ha avanzato l’ipotesi che l’ultima parte del racconto di Zosimo
relativa alla cerimonia sul Campidoglio[48],
debba essere, per così dire, sganciata dal resto della narrazione[49].
Tale operazione
[106]
renderebbe
possibile considerare questa parte del racconto come una esposizione di episodi
verificatisi in due diversi momenti. La prima parte del racconto – quella
relativa alla visione che l’Egizio, da identificarsi con Ossio di Cordova,
avrebbe inviato a Costantino – sarebbe da collocare, sotto il profilo
cronologico, nel periodo immediatamente successivo alla battaglia contro
Massenzio, quando l’imperatore, in occasione di un vero e proprio trionfo,
avrebbe effettivamente compiuto l’ascesa al Campidoglio per i tradizionali riti
e sacrifici di ringraziamento a Giove[50].
La seconda parte del racconto – quella relativa al distacco dai riti
tradizionali – dovrebbe, invece, essere ricondotta al 315, quando Costantino,
pur celebrando nuovamente il trionfo, si sarebbe davvero rifiutato di ascendere
al tempio di Giove per compiere il sacrificio. Di recente, l’autore ha però
parzialmente corretto la sua tesi, osservando che Costantino, in occasione di
una festa sul Campidoglio, nel 312, forse non avrebbe compiuto alcun
sacrificio, né avrebbe celebrato “veri trionfi dopo le sue vittorie in guerre
civili contro Massenzio e Licinio”[51].
Al problema della celebrazione del sacrificio è connessa la
questione relativa alla natura della festa della quale parla
Zosimo. A questo proposito, lo stesso François Paschoud ha di recente rilevato
l’ambiguità del testo di Zosimo sulla festa, in occasione della quale
Costantino avrebbe dapprima partecipato ad un rituale ‘pagano’ e poi si sarebbe
subito allontanato. Ha osservato al riguardo lo studioso: “Oggi, sarei ancora
più prudente che venti anni fa, e non parlerei più di sacrificio celebrato da
Costantino”. Il testo greco, continua l’autore, si limita a parlare di “un rito
non precisato celebrato dall’esercito, al quale assiste Costantino, ™koinènhse. È possibile,
verosimile, ma non esplicitamente precisato, che questo rito implichi un
sacrificio … Il testo di Zosimo lascia dunque aperte molte vie per chi vuol
precisare
[p. 107]
di
che tipo di festa si tratti”. E quanto alla natura della festa, ci si potrebbe
limitare “a pensare a qualsiasi occasione nella quale un imperatore presente a Roma
può trovarsi coinvolto in una celebrazione pagana sul Campidoglio, per esempio
nella sua qualità di pontefice massimo”[52].
E ancora, la ipotesi di uno slittamento del racconto di Zosimo al 312-315
sarebbe oggi “hypothèse … peut-être plus ingénieuse que convaincante”[53].
La tesi ora richiamata ha incontrato, almeno nel suo nucleo
originario, il favore di Giorgio Bonamente, secondo il quale essa avrebbe il
merito di offrire una convincente spiegazione del perché Eusebio,
nella Vita Constantini, abbia affermato che l’imperatore offrì sacrifici
incruenti solo a partire dalla celebrazione dei decennalia. D’altra parte, ritiene lo studioso, la lettura del
testo di Zosimo, offerta da François Paschoud, si fonda sull’esame del codice Vaticanus Graecus 156, esame che, colmando la lacuna della “vulgata” normalmente
impiegata, ha restituito tre linee circa di testo, dal quale risulta che
l’imperatore partecipò almeno una volta ad un trionfo con relativo sacrificio[54].
Augusto Fraschetti, nel muovere alcune osservazioni critiche nei
confronti della tesi di François Paschoud, in particolare per quanto concerne
lo slittamento, dal 326 al 312-315, dell’episodio raccontato da Zosimo, ha sostenuto,
da un lato, che la conversione
[p. 108]
di
Costantino e l’omissione delle pratiche sacrificali sarebbero scelte riconducibili
già al periodo immediatamente successivo alla battaglia di Ponte Milvio,
dall’altro, che l’ingresso dell’imperatore nella città, dopo la battaglia
contro Massenzio, non sarebbe stato caratterizzato dall’omaggio nel Campidoglio
a Giove Ottimo Massimo[55].
Sempre secondo Augusto
Fraschetti, nel valutare la natura dell’ingresso di Costantino in Roma, non ci
si dovrebbe far trarre in inganno da quelle fonti che esplicitamente parlano di
un trionfo. È vero, sostiene lo storico, che entrambi i panegirici, sia quello
del 313[56],
sia quello di Nazario[57],
impiegano espressioni che inequivocabilmente richiamano l’idea del trionfo[58].
Ed è noto che l’arco di Costantino è detto triumphis
insignem[59].
Lo stesso Eusebio, inoltre, in relazione all’ingresso di Costantino nella
città, dopo la battaglia di Ponte Milvio, impiega termini che inducono a
pensare ad una celebrazione del trionfo, pur senza descrivere una ascesa al
Campidoglio, atto che in caso di trionfo sarebbe stato necessario[60].
Tuttavia, dinanzi a tali testimonianze, Augusto Fraschetti, richiamandosi
all’autorità di Henri Stern[61],
secondo il quale l’ultimo trionfo sarebbe stato quello di Onorio, nel
[p. 109]
e
propri triumphi per un motivo spesso
trascurato ma tuttavia fondamentale. Poiché ormai agli imperatori cristiani di
fatto non è più lecito ascendere al Campidoglio per
deporre l’alloro ‘nel grembo’ di Giove, dal momento che questo atto, in passato
non solo eminentemente pubblico ma anche altamente celebrativo, corrisponderebbe
per loro a un gesto empio e inammissibile, a una manifestazione di vera e
propria idolatria. Da un simile punto di vista – e si tratta di un mutamento e
di una svolta di rilievo essenziali nella vita pubblica e cerimoniale di Roma –
in epoca tardoantica in primo luogo è appunto l’abbandono inevitabile del
Campidoglio da parte degli imperatori cristiani, la loro impossibilità di
ascendere ritualmente al tempio di Giove Ottimo Massimo, che provocano come
necessaria conseguenza l’abbandono e la scomparsa di quella che era stata,
attraverso lunghissimi secoli, la vetusta cerimonia del triumphus” [62].
Augusto Fraschetti, rifiutando la tesi di uno slittamento
proposto da François Paschoud in merito al racconto di Zosimo, ha sostenuto con
energia che l’episodio ivi descritto dovrebbe essere collocato nel terzo adventus del 326. Una conferma di ciò,
secondo Augusto Fraschetti, potrebbe venire da Libanio, il quale parla di atteggiamenti
ostili nei riguardi dell’imperatore, ponendo esplicitamente tale dissenso in
relazione alla fondazione di Costantinopoli, così come appunto fa Zosimo[63].
Quanto alla festa, della quale fa cenno sempre Zosimo, Augusto Fraschetti
ha respinto la tesi autorevole che la identifica con la transvectio equitium[64],
la cui celebrazione sarebbe stata fatta slittare
[p. 110]
dal
16 al 18 luglio, perché essa potesse coincidere con l’arrivo dell’imperatore.
Il rifiuto di tale tesi, secondo lo storico, sarebbe da attribuire alle
difficoltà di ammettere uno slittamento della cerimonia della transvectio equitium “in un sistema calendariale molto rigido e tradizionalista
come quello romano”[65].
Egli, partendo dalla considerazione che Costantino si trovava, alla fine del
settembre del 326, non lontano da Roma, e precisamente a Spoleto, ha ipotizzato
che la festa patria, di cui scrive Zosimo, potrebbe essere identificata con i ludi Romani,
i quali nel calendario di Filocalo sono registrati dal 12 al 15 di settembre[66].
Durante tale lasso di tempo, avvenivano due importanti appuntamenti: il primo,
l’epulum Iovis[67],
il 13 del mese, in “coincidenza con il ‘dies natalis’ del tempio di Giove
Ottimo Massimo sul Campidoglio”; il secondo, l’equorum probatio, la
rivista dei cavalli, il 14. Di tali appuntamenti, nel calendario di Filocalo,
non vi è però traccia. La circostanza, secondo Augusto Fraschetti, è
estremamente significativa, se si tiene conto del fatto che l’epulum Iovis presupponeva l’ascesa al tempio di Giove Ottimo Massimo sul
Campidoglio[68].
Se poi si considera che, durante i ludi romani, la pompa aveva caratteristiche trionfali e che essa partiva dal
Campidoglio per raggiungere il circo Massimo, appare confermato che l’imperatore
abbia manifestato, anche in tale circostanza, un netto distacco dalle cerimonie
sacrificali, e in particolare dal rito cruento che precedeva il banchetto di
Giove, durante il quale le carni del sacrificio erano offerte ai presenti[69].
Nell’analisi di tali vicende costantiniane, un ulteriore
importante contributo è stato offerto da Attilio Mastino, nel corso di
[p. 111]
un
recente seminario di studi[70].
Lo studioso, ritenendo non convincente la tesi di una “conversione fulminante
al Cristianesimo”, né tantomeno l’ipotesi, sostenuta da Augusto Fraschetti, di
un abbandono del Campidoglio sin dal primo adventus,
ha presentato alcuni importanti nuovi elementi di riflessione[71].
Secondo Attilio Mastino, Costantino, il 29 ottobre del 312, avrebbe compiuto un
adventus nel solco delle tradizioni
cittadine. Dopo la battaglia di Ponte Milvio, infatti, l’imperatore “partecipò
regolarmente alla processione trionfale, raggiunse il colle capitolino, depose
l’alloro in grembo a Giove e celebrò i sacrifici cruenti previsti
dall’antichissimo cerimoniale tradizionale pagano”. Soltanto nel corso del
secondo ingresso a Roma, il 18 luglio del 315, Costantino avrebbe fatto in modo
di caratterizzare “maggiormente” i decennali del 315 “in senso cristiano”. Al
di là degli elementi già individuati da François Paschoud, il relatore ha
sottoposto all’attenzione degli studiosi un rilievo su una tabula marmorea inscritta da Cesare di Mauretania, che sembra
rendere innegabile l’ipotesi dello svolgimento di un vero e proprio trionfo con
relativa ascesa al Campidoglio. Sulla tavola marmorea (CIL VIII,9356) l’expeditio
Constantini al Ponte Milvio viene
“enfatizzata come un momento risolutivo nella vita di Costantino”. Nella tavola
sono raffigurati tre personaggi togati e laureati che ascendono a un colle. Il
primo di essi tiene con la destra un ramo d’ulivo. Accanto sono presenti
quattro soldati, i quali portano in processione una immagine. In essa è
riprodotto un ponte, sul quale passano soldati e carri. A fianco una navicella
ancorata. Tale tavola testimonierebbe “proprio un momento del trionfo del 312 e
l’ascesa al colle capitolino di una processione che conduceva immagines e targhe trionfali e smentisce
in modo
[p. 112]
radicale
l’ipotesi di Fraschetti”. Del resto, numerose sono le
espressioni trionfali, per descrivere l’attività di Costantino, come ad esempio
quelle relative alla riconquista di Cirta e alla rifondazione di Constantina in
Africa, con l’uso del participio presente triumphans
o dell’attributo triumphator. Un
altro caso particolarmente interessante è quello della colonia romana di Uchi
Maius, in Tunisia, dove Attilio Mastino, assieme a Mustapha Khanoussi, dirige
da alcuni anni gli scavi archeologici che hanno restituito una grande base di
una statua datata al
Come spesso accade, di fronte alla elasticità che la storia
impone nella ricostruzione degli avvenimenti, le polemiche rischiano di perdere
molto del loro concreto significato. E il quadro complessivo degli eventi ne
esce sufficientemente chiaro nella sua interezza. Tralasciando, dunque, la impostazione
eccessivamente rigida di alcune delle ricostruzioni che qui si sono richiamate,
di fronte a questi eventi e alle relative interpretazioni dottrinali,
cercheremo, di seguito, di offrire un quadro sintetico delle condizioni in cui
l’imperatore dovette esprimere il suo rifiuto dei sacrifici di animali. Sin da
ora, ci sembra di dovere richiamare l’attenzione su un aspetto che la dottrina
ha trascurato di mettere in evidenza: intendiamo riferirci alla necessità di
considerare gli eventi relativi all’abbandono del Campidoglio, da parte di Costantino,
nella prospettiva (anche) di una scelta personale, anziché (soltanto) come il
semplice risultato della adesione dell’imperatore alla religione cristiana.
In questa prospettiva, per le ragioni che prenderemo subito in
considerazione, a noi sembra verosimile l’ipotesi tradizionale – variamente condivisa
in dottrina, nonostante gli argomenti contrari di Augusto Fraschetti –, secondo
la quale ipotesi Costantino prese parte, in occasione del primo adventus, a un vero e proprio trionfo,
compiendo nella circostanza i tradizionali riti di ringraziamento a Giove con
sacrifici di animali. Sin da questo momento, però, e qui ci pare di dovere
dissentire dalla impostazione
[p. 113]
comune
della dottrina, le fonti sembrano esprimere un certo disagio di Costantino di
fronte ai sacrifici di animali, disagio, che, acuendosi sempre di più, condurrà
l’imperatore a distaccarsi, nelle occasioni successive in cui egli entrò a
Roma, dai riti della aliena superstitio. Solo tenendo adeguatamente
conto anche di questo disagio, è possibile comprendere perché le stesse costituzioni
emanate da Costantino in materia di sacrifici di animali appaiano sempre più
orientarsi, da un divieto speciale e parziale, verso un divieto generale e
totale dei sacrifici stessi[73].
Punto di partenza della nostra tesi, dopo gli studi di Joannes Straub
e di Augusto Fraschetti, può essere ancora la fretta che l’anonimo Panegirico del 313[74]
attribuisce all’imperatore nell’attraversare la città di Roma, dopo la
battaglia di Ponte Milvio. Il panegirista, nel descrivere la gioia conseguente all’arrivo
in città dell’imperatore, non fa riferimento ad una ascesa al Campidoglio,
ossia al luogo in cui il vincitore avrebbe dovuto e potuto rendere omaggio, con
il compimento di sacrifici, a Giove Ottimo Massimo[75].
Nel testimoniare l’insoddisfazione del popolo romano per la fretta con la quale
Costantino raggiunse il Palazzo, l’anonimo panegirista esprime, da un lato, la
delusione delle naturali aspettative di una folla, ancora in larga parte non
cristiana, e dall’altro, forse anche il disagio dell’imperatore di fronte
all’eventualità di un suo coinvolgimento in un rito precristiano.
L’importanza di questo ‘silenzio’, da parte del panegirista, in
merito alla ascesa al Campidoglio, è reso ancora più evidente dal fatto che
anche l’autore di un altro panegirico, Nazario, nel 321, non fa alcun
riferimento ad una ascesa al Campidoglio da parte di Costantino, né in
relazione al primo ingresso in Roma dell’imperatore, dopo la battaglia di Ponte
Milvio, né, in occasione del secondo ingresso, per i decennali del 315[76].
Sarebbe riduttivo interpretare il silenzio dei panegiristi
soltanto come una censura, alla quale essi si sarebbero
sottoposti in
[114]
merito
ad un evento imbarazzante per il nuovo corso intrapreso dalla politica imperiale,
come sembrerebbero, invece, ritenere François Paschoud[77]
e Giorgio Bonamente[78].
Al contrario, l’assenza, in tali fonti, di un riferimento al Campidoglio, se,
da un lato, ci sembra essere più in linea con l’ipotesi di una conversione precoce
di Costantino[79],
anche se probabilmente ancora in fieri all’indomani della battaglia
contro Massenzio, dall’altro, ci pare denotare più un atteggiamento
dell’imperatore di totale disapprovazione per la violenza sacrificale, che un
artificioso intervento esterno, compiuto a posteriori, per rimuovere dalla
memoria storica ogni riferimento compromettente per il nuovo corso della
politica imperiale.
Nel senso di un rifiuto personale, da parte di Costantino, dei
sacrifici di animali, potrebbe deporre l’analisi dei rilievi traianei e
aureliani presenti nell’arco di trionfo a lui dedicato e inaugurato in
occasione dei decennalia del 315[80].
L’omissione di qualsiasi riferimento all’ascesa dell’imperatore al Campidoglio
per rendere omaggio a Giove, sia nell’anonimo panegirico, del 313, sia in
quello di Nazario, del 321, è infatti ancor più significativa se si considera
l’assenza di scene sacrificali nei rilievi di epoca costantiniana dell’arco di
trionfo[81].
Un riferimento al sacrificio a Giove
[p. 115]
è
assente non solo nel bassorilievo di età costantiniana, ma anche nei rilievi
traianei e in quelli aureliani[82].
Per i primi, si è congetturato che il fregio, dal quale essi sono tratti,
comprendesse anche una scena di adventus
e di triumphus con relativo
sacrificio a Giove. Per i secondi, si è avanzata l’ipotesi che la
raffigurazione, ivi presente, di una lustratio,
potrebbe avere fatto parte di una serie comprendente altri tre rilievi con deditio, triumphus, e sacrificium,
con Marc’Aurelio che sacrifica a Giove in Campidoglio. Se così fosse, la
rinuncia di utilizzare la scena con sacrificium
potrebbe essere, anch’essa, un indizio di un preciso atteggiamento
dell’imperatore – il rifiuto dei sacrifici di animali – che nell’arco di
trionfo avrebbe trovato espressione[83].
[p. 116]
Come per il silenzio dei panegirici in merito all’ascesa al
tempio di Giove Ottimo Massimo e al relativo sacrificio, anche per l’assenza di
scene sacrificali nei pannelli costantiniani dell’arco, la costruzione del
quale fu auspicata da un senato ancora non cristiano, riteniamo inverosimile la
tesi di una semplice censura ex post, da parte di ambienti cristiani, in
merito ad un evento imbarazzante per il nuovo corso della politica
costantiniana[84].
Nonostante tale rilievo, non pare però credibile l’ipotesi,
sostenuta da Augusto Fraschetti, secondo il quale non vi sarebbe stata una
ascesa al Campidoglio sin dal primo adventus[85].
È certo suggestiva, nella prospettiva formulata da tale studioso,
l’osservazione di Lucio De Giovanni[86],
secondo il quale, già nel concilio di Elvira, si era fatto divieto ai cristiani
di recarsi ai Capitolia per
sacrificare agli idoli ‘pagani’ o anche solo per assistere alle cerimonie.
Tuttavia, la valutazione di queste fonti deve essere completata con l’esame del
codice Vaticanus Graecus 156, il quale, come
abbiamo visto[87],
ha restituito, a proposito del racconto di Zosimo sulla conversione imperiale,
una integrazione dalla quale risulta che l’imperatore celebrò un trionfo con
sacrifici di animali.
Sappiamo, inoltre, da Eusebio, che
l’imperatore, in occasione della celebrazione dei decennali del 315[88],
a Roma, compì sacrifici non cruenti in onore del dio dei cristiani[89].
L’insistenza del vescovo di Cesarea, sulla omissione, da parte di Costantino,
dei sacrifici di animali, in occasione dei decennali, si spiega, evidentemente,
in funzione dell’obbiettivo di evidenziare come l’atteggiamento dell’imperatore
fosse mutato, almeno sotto questo aspetto, dal 312 al 315. Quando anche non si
intenda prestare fede a Eusebio, il racconto di Zosimo, in merito al compimento
[p. 117]
di
sacrifici di animali, da parte di Costantino, nel corso di un trionfo, può bene
essere attribuito al primo ingresso dell’imperatore in Roma[90].
Rispetto alla ipotesi testé delineata, meno probabile ci sembra
la tesi di chi, come Lucio de Giovanni[91]
e Augusto Fraschetti[92],
reputa che Costantino, già all’indomani della vittoria contro Massenzio, sia
riuscito ad evitare di recarsi al tempio di Giove.
Ad ogni modo, se anche così si ritenesse, il quadro essenziale
delle vicende costantiniane apparirebbe sostanzialmente inalterato: si tratterebbe,
infatti, di datare al 312, anziché, come ci pare più probabile, al 315, il
rifiuto di Costantino dei sacrifici di animali[93].
Pochi anni dopo lo scontro con Massenzio, il distacco dell’imperatore dai riti sacrificali
era ormai inarrestabile. E la questione se l’imperatore, dopo la battaglia di
Ponte Milvio, abbia o no celebrato un vero e proprio trionfo risulta di
importanza relativa. Tale avvenimento, da lì a pochi anni, privato ormai,
senza ombra di dubbio, del suo valore, attraverso l’omissione del sacrificio, o
attraverso la rimozione del ricordo della violenza sacrificale, non doveva più
apparire come una vera e propria manifestazione di idolatria[94].
[p. 118]
In tale ottica, è possibile comprendere non solo il tentativo
delle fonti di celare un evento quantomeno imbarazzante per il nuovo corso
della politica imperiale, ma anche il richiamo al lessico del trionfo[95],
per descrivere le vicende costantiniane. Tale richiamo, infatti, potrebbe
riecheggiare la volontà dell’imperatore di non imporre nel cerimoniale una
soluzione troppo distante dalla tradizione, intervenendo, in questa prima fase
del suo governo, a cerimonie precristiane, ben presto, però, svuotate del loro
contenuto politico-religioso originario.
Lo svuotamento di significato delle cerimonie precristiane doveva
avvenire, con sempre maggiore evidenza, man mano che anche il rifiuto
dell’imperatore dei sacrifici di animali trovava le condizioni per rafforzarsi.
Tale circostanza è palese nelle due successive occasioni in cui Costantino fece
ingresso in Roma.
Dopo il 313, è evidente il rafforzamento dell’atteggiamento
imperiale di rifiuto del sangue sacrificale. Costantino giunse a Roma, per la
seconda volta, nel luglio del
[p. 119]
In occasione dei ventennali, Costantino giunge a Roma, per la
terza volta, nel 326, quando egli aveva ormai celebrato l’evento l’anno prima a
Nicomedia[100].
Questa volta, la celebrazione doveva, senza alcun tentennamento, avvenire in assenza
di sacrifici di animali. Con riguardo a tale avvenimento, abbiamo visto che
Zosimo pone in risalto l’importanza del rifiuto dei sacrifici[101],
osservando che l’imperatore, in occasione di una festa patria, avrebbe dapprima
partecipato ai festeggiamenti per timore dei soldati, ma poi, quando un Egizio
gli inviò una visione, si sarebbe allontanato dalla cerimonia[102].
L’omissione del sacrificio di animali, privando il trionfo della
sua espressione rituale più significativa, ne cambia la natura e determina,
come è stato osservato “la rottura della connessione indissolubile nella stessa
Roma tra esercizio del potere politico e pratica del sacerdozio: quella che era
attiva nei magistrati-sacerdoti di età repubblicana, quella che Augusto aveva
riassunto nella sua persona nel
Rispetto a precedenti tentativi di sottoporre
a forme di controllo la divinazione[104],
tentativi giustificabili come misure esclusivamente
[p. 120]
politiche[105],
Costantino compie, con l’emanazione di alcune specifiche costituzioni, in
materia di aruspicina[106],
una
[p. 121]
scelta di grande importanza, di natura non solo politica, nella
quale il divieto dei sacrifici di animali non è più solo, come in passato, un
effetto accidentale della attività normativa, ma la manifestazione di una presa
di distanza dai riti cruenti della esperienza religiosa romana, in seno alla
quale è nota la “centralità dei sacrifici di esseri animati (hostiae o victimae)”[107].
Le costituzioni, che prenderemo in esame,
sono di particolare interesse per una valutazione dell’atteggiamento
dell’imperatore nei confronti degli animali non umani: esse, infatti,
introducono limiti all’operato degli aruspici[108],
“interpreti della ‘mente e volontà’
[p. 122]
degli Dei, secondo la tecnica divinatoria etrusca”[109],
le competenze dei quali riguardavano la interpretatio
dei prodigia e l’esame delle viscere
delle vittime sacrificali.
Le tre costituzioni di Costantino, in tema di aruspicina,
riportate nel Codice Teodosiano, risalgono, tutte, al periodo compreso fra il
319 e il 321[110].
La prima, datata, nel Codice Teodosiano, 1 febbraio 319[111], è indirizzata da Costantino a
Massimo, praefectus urbi:
[p.
123]
CTh.
9,16,1 (cfr. C. 9,18,3[112]): [Imp.
Constantinus A. ad Maximum]. Nullus haruspex limen alterius
accedat nec ob alteram causam, sed huiusmodi hominum quamvis vetus amicitia repellatur,
concremando illo haruspice, qui ad domum alienam accesserit et illo, qui eum
suasionibus vel praemiis evocaverit, post ademptionem bonorum in insulam
detrudendo: superstitioni enim suae servire cupientes poterunt publice ritum
proprium exercere. Accusatorem autem huius
criminis non delatorem esse, sed dignum magis praemio arbitramur. [P(ro)p(osita) Kal. Feb. Rom(ae). Constantino A. V et
Licinio Caes. Conss.].
Con questa costituzione, si vieta agli aruspici di entrare nelle
case private per cause anche non legate all’esercizio della propria arte[113].
L’amicizia con essi è proibita. Le pene, per chi trasgredisce il divieto, assai
severe: il rogo per l’aruspice, la confisca dei beni e la deportazione in
un’isola per colui che abbia attratto il primo con promesse e doni. Coloro che
lo desiderano possono celebrare tali riti, purché in pubblico. Colui che abbia
denunciato il crimine non può essere accusato di delazione, ma deve essere
considerato degno di un premio[114].
La presente statuizione non preclude la possibilità di realizzare
le pratiche divinatorie in pubblico[115].
Tale circostanza chiarisce
[p. 124]
il
senso del divieto testé individuato: la costituzione, mentre mira ad evitare
che tali pratiche siano celebrate di nascosto, non intende proibirle in assoluto,
ma preferisce che esse si svolgano alla luce del sole. Solo in tal modo i riti
sacrificali potranno essere tenuti sotto controllo[116].
Il divieto per gli aruspici di accedere alle abitazioni private è
oggetto di un’altra costituzione – CTh. 9,16,2 – questa volta indirizzata al
popolo. Si tratta di un editto, che, si è sostenuto[117],
potrebbe essere una versione differente della costituzione riportata in CTh.
9,16,1[118]:
[p. 125]
CTh. 9,16,2: [Imp. Constantinus A. ad
Populum]. Haruspices et sacerdotes et
eos, qui huic ritui adsolent ministrare, ad privatam domum prohibemus accedere
vel sub praetextu amicitiae limen alterius ingredi, poena contra eos proposita,
si contempserint legem. Qui vero id vobis existimatis conducere, adite aras
publicas adque delubra et consuetudinis vestrae celebrate sollemnia: nec enim
prohibemus praeteritae usurpationis officia libera luce tractari. [Dat. Id.
Mai. Constantino A. V et
Licinio Conss.].
In tale costituzione, l’imperatore, nel confermare il divieto per
gli aruspici di accedere alle abitazioni private, estende espressamente il veto
ai sacerdoti e a tutti coloro che sono soliti compiere pratiche divinatorie. Il
divieto, per tale aspetto più ampio, impedisce agli aruspici e agli altri
soggetti su menzionati di varcare anche solo la soglia di una casa altrui.
Neppure l’amicizia potrà servire per giustificare la permanenza di tali persone
in una abitazione privata. È, però, ancora possibile accostarsi agli altari e
ai templi per celebrare in pubblico gli antichi riti.
È evidente, allora, soprattutto nel seguito della statuizione, la
volontà da parte di Costantino di mostrare nei riguardi della aruspicina un
forte dissenso. La circostanza che egli acconsenta allo svolgimento delle
pratiche divinatorie alla luce del sole suona, naturalmente, non come un
invito, ma come una forma di circoscrizione e di sospettoso controllo, che
prelude alla ostentazione del suo dissenso[119].
La disapprovazione dei sacrifici in tema di aruspicina è
confermata da una costituzione di Costantino, ricevuta l’8 marzo 321[120]
e indirizzata ancora al praefectus urbi Massimo:
[p. 126]
CTh. 16,10,1: [Imp. Constantinus
A. ad Maximum]. Si quid de palatio
nostro aut ceteris operibus publicis degustatum fulgore esse constiterit, retento
more veteris observantiae quid portendat, ab haruspicibus requiratur et
diligentissime scribtura collecta ad nostram scientiam referatur, ceteris etiam
usurpandae huius consuetudinis licentia tribuenda, dummodo sacrificiis
domesticis abstineant, quae specialiter prohibita sunt. 1 Eam autem denuntiationem
adque interpretationem, quae de tactu amphiteatri scribta est, de qua ad Heraclianum
tribunum et mag(istrum) officiorum scribseras, ad nos scias esse perlatam. [Dat.
XVI Kal. Ian. Serdicae; Acc(epta)
VIII Id. Mar. Crispo II et Constantino
II CC. Conss.].
In essa, Costantino permette il ricorso alla consultazione degli
aruspici, nell’ipotesi che un fulmine abbia colpito un edificio pubblico,
ordinando però che il responso, opportunamente redatto in forma scritta, sia
sottoposto al suo esame. Il ricorso a tale consultazione, lungi dall’essere una
prerogativa imperiale, è consentito, in questa ipotesi, a tutti, purché ci si
astenga dal fare sacrifici entro le pareti domestiche[121].
Nella presente costituzione sono delineati i due fondamentali
obiettivi della legislazione costantiniana in materia di aruspicina.
Il primo obiettivo della costituzione, quello che sin
dall’esordio di essa appare il più evidente, è il tradizionale controllo della
aruspicina[122],
per ragioni di ‘ordine pubblico’. Il secondo obiettivo della costituzione è il
divieto dei sacrifici di animali[123].
Nel perseguire il primo obiettivo, Costantino, pur esprimendo il
proprio dissenso per i riti connessi alla aruspicina, di fronte ad un fatto
naturale straordinario, come la caduta di un fulmine su un edificio pubblico,
non vieta la consultazione degli aruspici:
[p. 127]
egli,
infatti, stabilendo che il responso di questi ultimi debba essere redatto per iscritto,
si limita a riservarsi la possibilità di esprimere la sua disapprovazione nei
confronti di una consultazione sgradita. La potenza persuasiva degli aruspici,
i quali, tante volte, in passato, avevano fortemente influenzato l’opinione
pubblica[124],
finiva, in tal modo, per essere sottoposta al controllo dell’imperatore. Non
bisogna dimenticare che gli aruspici, come ricorda Livio[125],
avevano sempre mantenuto un ruolo importante nella conservazione delle
tradizioni religiose[126].
Sappiamo, ad esempio, che Diocleziano, al quale la tradizione attribuisce “il
ruolo di conservatore e dell’ultimo difensore del mondo classico e della
romanità”[127],
mentre, da un lato, perseguitava gli astrologi[128],
dall’altro, amava circondarsi di aruspici di sua fiducia[129].
E
[p. 128]
ancora,
è noto che Massenzio, anch’egli rispettoso nei confronti della tradizione,
prima della battaglia di Ponte Milvio, si rivolgeva agli aruspici[130].
Nella legislazione costantiniana, il controllo della aruspicina
non sembra, però, esclusivamente dettato, come era avvenuto in passato, da
ragioni di “ordine pubblico”[131].
Costantino, esprimendo nei confronti della aruspicina una ferma opposizione,
sembra proporsi di vincere una delle più tenaci espressioni della cultura
precristiana. Infatti, mentre gli imperatori precedenti si erano preoccupati di
sottoporre a specifiche restrizioni la consultazione degli aruspici, ad
esempio, vietando a questi ultimi di fornire responsi in merito alla morte di
una persona[132],
egli sembra orientarsi verso un divieto generale e totale della aruspicina in
privato[133].
Del resto, poiché gli aruspici erano stati tra i più feroci
istigatori della persecuzione contro i cristiani, è chiaro che questi ultimi
dovettero fare forti pressioni nei riguardi dell’imperatore per attuare nei
confronti della aruspicina una altrettanto forte
[p. 129]
repressione[134].
Lattanzio, nel De mortibus persecutorum, scritto in concomitanza con le costituzioni delle
quali parliamo[135],
afferma che furono gli aruspici a offrire il pretesto a Diocleziano perché egli
mettesse in atto le persecuzioni contro i cristiani: gli aruspici, infatti,
affermarono che in occasione di un sacrificio non erano riusciti ad ottenere
presagi favorevoli, poiché qualcuno dei presenti aveva fatto il segno della
croce[136].
E l’affermazione di Lattanzio è poi confermata da altre fonti cristiane[137]
e persino da fonti non cristiane[138].
Inoltre, la suggestione della aruspicina e, in genere, delle
antiche cerimonie ad essa collegate doveva colpire anche taluni cristiani, se
qualche anno prima che Costantino emanasse le sue costituzioni, il concilio di
Ancira del 314 aveva dovuto occuparsi della ars
malefica con alcune misure[139],
le quali, come è stato non
[p. 130]
a
torto osservato[140],
richiamano da vicino il contenuto delle costituzioni emanate dall’imperatore,
solo pochi anni dopo, in materia di aruspicina. Durante il concilio di Ancira,
infatti,
Di fronte a simili precedenti, l’imperatore si presenta come
colui che, nella guerra contro Massenzio, rifiuta di invocare gli dei non
cristiani per dare ascolto alla mens divina, mentre il nemico presta fede
alle menzogne della superstizione[142].
Nel VI secolo, Zosimo, a proposito della conversione di Costantino, descrive la
disciplina in materia di aruspicina e il rifiuto da parte dell’imperatore di rendere
omaggio agli dei, secondo gli antichi riti, come il momento fondamentale –
l’inizio – di una scelta, che lo stesso Zosimo definisce empia[143].
In questa ottica, il contrasto fra le costituzioni in cui
Costantino pone dei divieti nei riguardi della aruspicina e la costituzione in
cui egli, invece, ammette la possibilità di rivolgersi agli aruspici, quando un
fulmine si sia abbattuto su un edificio pubblico,
[p. 131]
appare
come una contraddizione solo apparente. In tutte le costituzioni sopra richiamate,
è evidente che l’imperatore non si propone di eliminare immediatamente dalla
prassi e dalla cultura romane ogni riferimento alla antica aruspicina. Egli, in
modo lungimirante, si prefigge l’obiettivo di relegare la aruspicina ad una
delle tante forme di superstizione. Di tale obiettivo, è senz’altro emblematica
la circostanza che l’imperatore, in CTh. 9,16,1, abbia bollato come forme di superstitio quei riti che, compiuti in
pubblico, egli stesso aveva permesso[144].
Il secondo obiettivo della costituzione, che costituisce una
ulteriore chiave di lettura della legislazione costantiniana in materia di
aruspicina, è il divieto dei sacrifici di animali[145].
Lo spargimento di sangue nelle pareti domestiche diviene il limite al di là del
quale la consultazione dell’aruspice, anche in presenza di un fenomeno
naturale, non può essere tollerata: dummodo
sacrificiis domesticis abstineant, quae specialiter
prohibita sunt. L’importanza di tale obiettivo, non a caso, è colta dai
compilatori del Codice Teodosiano attraverso l’inserimento della costituzione
nel titolo 16,10 De paganis, sacrificiis et templis.
Siffatto obiettivo fa della costituzione qualcosa di più e di
diverso da una semplice misura repressiva nei confronti della tradizione
religiosa precristiana, frutto della conversione di Costantino al
cristianesimo, e getta una luce diversa sul riconoscimento della possibilità di
consultare gli aruspici nel caso di un fenomeno naturale. Tale possibilità non
rappresenta una concessione,
[p. 132]
un
segno di debolezza verso i riti precristiani. Si direbbe che Costantino, attraverso
l’omissione del sacrificio di animali, miri a privare la aruspicina della sua
funzione politica, da un lato, snaturando il senso della consultazione, il cui
esito è sottoposto alla sua censura, dall’altro, imponendo che le pratiche
aruspicali siano svolte senza più quel carattere di segretezza, che ne aveva
naturalmente rappresentato uno dei tratti più tipici[146].
In tale progetto, Costantino aveva trovato un fertile terreno in
quegli stessi ambienti non cristiani nei quali si era sviluppata una certa
insofferenza verso i riti divinatori: così Porfirio, nella
lettera ad Anebo, un sacerdote egiziano, formula una critica contro quelle arti
divinatorie, che impongono a chi le pratica di astenersi dal mangiar carne e
dall’avere contatto con gli animali uccisi, salvo poi provocare l’intervento di
dei che si compiacciono dei fumi delle vittime sacrificali[147].
Ed anche Giamblico si mostra diffidente verso la divinazione privata, giungendo
a definirla menzognera ed osservando che gli dei non possano essere forzati da
riti e preghiere[148].
L’attacco da parte di Costantino nei confronti della aruspicina
si intende anche meglio, se lo si valuta in rapporto a quello da lui stesso
sferrato nei riguardi della magia:
CTh.
9,16,3 (cfr. C. 9,18,4): [Imp. Constantinus A. et Caes. ad Bassum P(raefectum) U(rbi)]. Eorum est scientia punienda et severissimis merito legibus
vindicanda, qui magicis adcincti artibus aut contra hominum moliti salutem aut
pudicos ad libidinem deflexisse animos detegentur. Nullis vero criminationibus
implicanda sunt remedia humanis quaesita corporibus aut in agrestibus locis, ne
maturis vindemiis metuerentur imbres
[p.
133]
aut ruentis grandinis lapidatione
quaterentur, innocenter adhibita suffragia, quibus non cuiusque salus aut
existimatio laederetur, sed quorum proficerent actus, ne divina munera et
labores hominum sternerentur. [Dat. X Kal. Iun.
Aquil(eiae) Crispo et Constantino Caess. Conss.].
La presente costituzione, databile attorno al maggio del 318[149],
mentre mostra la severità dell’imperatore nella lotta alla magia diretta a
minare la salute altrui, lascia, invece, immaginare una sorta di accondiscendenza
nei confronti di quelle attività che tendevano a invocare la fertilità dei
campi e la salute delle persone.
Rispetto alle antiche forme di persecuzione della magia[150],
la legislazione costantiniana in materia si contraddistingue, naturalmente, per
il suo orientamento cristiano: essa mira a reprimere quelle stesse condotte che
[p. 134]
una
espressione da lui particolarmente avversata della cultura precristiana, e,
quindi, delle forze ostili alla sua politica religiosa, non gli impediva, invece,
di tollerare determinate usanze, che se pur condannate dalla Chiesa, gli
risultavano più accettabili.
Costantino, attraverso la disapprovazione dei riti sacrificali
legati alla aruspicina, compie una scelta religiosa e giuridica assieme, che lo
porterà lontano dalla aristocrazia ‘pagana’[152].
Egli, però, consapevole della importanza dei riti della tradizione, evita di
assumere un atteggiamento eccessivamente rigido nei confronti degli ambienti
non cristiani, impedendo quelle condotte che più erano pericolose sul piano
politico e che, al contempo, contrastavano con la morale cristiana, come
appunto l’aruspicina ‘privata’ o la magia diretta contro la salute altrui, e
tollerando, invece, quelle forme più innocue o più facilmente neutralizzabili,
come appunto l’aruspicina ‘pubblica’[153].
La legislazione repressiva della aruspicina, in Costantino, si
ricollega, dunque, alla scelta cristiana intrapresa dall’imperatore,
attraverso, però, il filtro rappresentato dai significativi precedenti
[p. 135]
della
cultura e della legislazione precristiana. L’influenza del pensiero cristiano determina,
in maniera sempre più decisa nel corso del tempo, il distacco del potere
imperiale dalla aruspicina, e, quindi, la progressiva assimilazione di essa
alla magia[154].
A partire dalle costituzioni emanate da Costantino, l’aruspicina
è rappresentata come una pratica ambigua, volta a soddisfare curiosità, che vanno,
come bene ha osservato Denise Grodzynski, oltre “il limite fissato dal consenso
sociale”[155].
La aruspicina, con le sue essenziali pratiche cruente di sacrifici di animali,
appare, dunque, arte contro natura: in tal senso, in materia di divinazione,
sarà esplicita una costituzione di Teodosio I del 392, indirizzata a Rufino,
prefetto del pretorio, riportata in CTh. 16,10,12[156].
In essa si stabilisce che colui che abbia immolato una vittima in sacrificio e
ne abbia consultato le viscere potrà essere denunciato da tutti, anche se non
abbia attentato alla vita dell’imperatore, poiché, si legge, “sufficit enim ad criminis molem naturae ipsius leges velle rescindere, inlicita perscrutari, occulta recludere, interdicta temptare, finem quaerere salutis alienae, spem alieni interitus polliceri”.
L’uomo, che tenti di conoscere attraverso la divinazione la
propria sorte, va contro le “leggi di natura”[157].
Un tema, questo,
[p. 136]
che
ricorre anche nella costituzione di Costanzo al popolo in CTh. 9,16,5, ove coloro
che turbano la vita degli altri con la magia sono definiti peregrini naturae[158].
Si può supporre che nella legislazione costantiniana, insieme ai
sospetti e alla diffidenza nei confronti della divinazione, presenti già in
seno alla cultura greco-romana, e all’accusa verso essa di volere sovvertire le
leggi della natura, confluisca la condanna, da parte della cultura ebraica, e
quindi cristiana, della impurità[159].
In effetti, già nei testi giudaici veterotestamentari si trovano sia la critica
dei sacrifici di animali, sia la condanna della divinazione e della magia.
Così, nel Levitico, il divieto di
praticare la divinazione e la magia si accompagna all’obbligo di rispettare le
regole sacrificali:
Levitico 19,26 e 31: 26 Non comedetis cum sanguine. Non augurabimini nec
observabitis omina. 31 Non declinetis ad pythones nec ab hariolis aliquid
sciscitemini, ut polluamini per eos. Ego Dominus Deus vester.
Il divieto di esercitare la divinazione e la magia e di compiere
sacrifici cruenti ricorre ancora nel Deuteronomio:
Deuteronomio 18,9-12: 9 Quando ingressus fueris terram, quam Dominus Deus
tuus dabit tibi, cave, ne imitari velis abominationes illarum gentium. 10 Nec
inveniatur in te, qui filium suum aut filiam traducat per ignem, aut qui sortes
sciscitetur et observet nubes atque auguria, nec sit maleficus 11 nec
incantator, nec qui pythones consulat nec divinos, aut
[p. 137]
quaerat a mortuis veritatem; 12 omnia enim haec abominatur Dominus
et propter istiusmodi scelera expellet eos in introitu tuo.
Alla divinazione, si sostituisce la ‘profezia’, propria della
cultura ebraica[160]:
Deuteronomio 18,13-15: 13 Perfectus eris et absque macula cum Domino Deo tuo.
14 Gentes istae, quarum possidebis terram, augures et divinos adiunt; tu autem
a Domino Deo tuo aliter institutus es. 15 Prophetam de gente tua et de
fratribus tuis sicut me suscitabit tibi Dominus Deus tuus; ipsum audietis.
Sulla base di tali premesse, si comprende l’attacco che i Padri
della Chiesa rivolgeranno alla divinazione, accusando coloro che la praticano
di adorare Satana[161].
Costantino, partendo da quella diffidenza che sin dai tempi
antichi aveva circondato la divinazione, e che sarà espressa con maggiore
evidenza da Costanzo[162],
recupera elementi della cultura greco-romana e di quella giudaico-cristiana, introducendo,
la sanzione giuridica della aruspicina come pratica contro natura tesa verso
una conoscenza illegittima. L’imperatore, nell’intento di fare sintesi delle
due culture, rappresenta quel varcare la soglia da parte dell’aruspice come un
azzardo[163],
una manifestazione, si direbbe, della curiosità morbosa[164].
[p. 138]
Una costituzione di Costanzo[165]
– CTh. 16,10,2 –, del 341, indirizzata a Madaliano, vicario d’Italia, contiene
un espresso riferimento ad una disposizione con la quale Costantino sancì
l’abolizione dei sacrifici di animali[166]:
CTh. 16,10,2: [Imp. Constantius A. ad Madalianum agentem vicem P(raefectorum)
P(raetori)o]. Cesset superstitio, sacrificiorum aboleatur insania. Nam
quicumque contra legem divi principis parentis nostri et hanc nostrae
mansuetudinis iussionem ausus fuerit sacrificia celebrare, conpetens in eum
vindicta et praesens sententia exeratur. [Acce(pta)
Marcellino et Probino Conss.][167].
Sappiamo già che l’imperatore stabilì, con alcune disposizioni,
un divieto dei sacrifici di animali in materia di aruspicina[168].
Rispetto a tali disposizioni, che introducono un divieto speciale, per materia,
e parziale, per contenuto, la costituzione, testé richiamata, invece, appare
attestare un divieto generale e totale dei
[p. 139]
sacrifici
di animali[169].
In tal senso, potrebbe forse già deporre il tenore della espressione iniziale
della costituzione, riporta in CTh. 16,10,2: cesset superstitio,
sacrificiorum aboleatur insania, la quale espressione, per la sua
perentorietà, non lascia immaginare né limiti di materia, né deroghe al divieto.
Occorre poi osservare che un divieto di una tale portata trova anche conferma
nella prima di due leggi alle quali fa riferimento Eusebio[170]:
Eusebio,
vita Const. 2,45,1: Eq' ˜xÁj dÚo kat¦ tÕ aÙtÕ ™pšmponto nÒmoi, Ð mn e‡rgwn t¦
musar¦ tÁj kat¦ pÒleij kaˆ cèraj tÕ palaiÕn sunteloumšnhj e„dwlolatr…aj, æj
m»t' ™gšrseij xo£nwn poie‹sqai tolm©n, m»te mante…aij kaˆ ta‹j ¥llaij
perierg…aij ™piceire‹n, m»te m¾n qÚein kaqÒlou mhdšna, Ð d tîn eÙkthr…wn o‡kwn
t¦j o„kodom¦j Øyoàn aÜxein te e„j pl£toj kaˆ mÁkoj t¦j ™kklhs…aj toà qeoà
diagoreÚwn, æsaneˆ mellÒntwn tù qeù scedÕn e„pe‹n ¡p£ntwn ¢nqrèpwn toà loipoà
prosoikeioàsqai tÁj poluqšou man…aj ™kpodën ºrmšnhj.
[140]
Eusebio racconta che l’imperatore, prima ancora di introdurre
questo divieto, proibì a tutti i governatori, anche a quelli non cristiani, di
offrire sacrifici di animali[171]:
Eusebio, vita Const. 2,44: Metab¦j d' ™k toÚtwn basileÝj pragm£twn ™nergîn ¼pteto. kaˆ prîta
mn to‹j kat' ™parc…aj diVrhmšnoij œqnesin gemÒnaj katšpempe, tÍ swthr…J p…stei
kaqwsiwmšnouj toÝj ple…ouj, Ósoi d' ˜llhn…zein ™dÒkoun, toÚtoij qÚein ¢pe…rhto.
Ð d' aÙtÕj Ãn nÒmoj kaˆ ™pˆ tîn Øperkeimšnwn t¦j ¹gemonik¦j ¢rc¦j ¢xiwm£twn, ™p…
te tîn ¢nwt£tw kaˆ t¾n œparcon dieilhfÒtwn ™xous…an. À g¦r Cristiano‹j oâsin
™mpršpein ™d…dou tÍ proshgor…v, À diakeimšnoij ˜tšrwj tÕ m¾ e„dwlolatre‹n
par»ggellen.
Sempre il vescovo di Cesarea descrive l’impegno di Costantino
nella lotta contro il politeismo e l’idolatria[172],
nella eliminazione di ogni riferimento ai riti precristiani dal palazzo
imperiale[173],
nella proibizione della divinazione[174],
nella distruzione dei templi[175]
e nella abolizione della prostituzione sacra[176].
Tali misure,
[p. 141]
nel
prevedere la fine di cerimonie legate alla religione precristiana, comportavano,
naturalmente, anche l’omissione dei sacrifici di animali.
È probabile che Costantino sia pervenuto a stabilire un divieto
generale e totale dei sacrifici di animali nel periodo compreso fra le
costituzioni in materia di aruspicina e il celebre rescritto
agli Ispellati. Una conferma di questa datazione potrebbe provenire dal fatto
che, soltanto pochi anni dopo le disposizioni in materia di aruspicina, nel
323, egli avvertì il bisogno di occuparsi ancora dei sacrifici e di estendere
l’ambito del divieto, rivolgendo il suo dissenso, questa volta, nei confronti
dei sacrificia lustrorum:
CTh.
16,2,5: [Imp. Constantinus A. ad Helpidium]. Quoniam conperimus quosdam ecclesiasticos
et ceteros catholicae sectae servientes a diversarum religionum hominibus ad
lustrorum sacrificia celebranda conpelli, hac sanctione sancimus, si quis ad
ritum alienae superstitionis cogendos esse crediderit eos, qui sanctissimae
legi serviunt, si condicio patiatur, publice fustibus verberetur, si vero
honoris ratio talem ab eo repellat iniuriam, condemnationem sustineat damni
gravissimi, quod rebus publicis vindicabitur. [Dat. VIII
Kal. Iun. Sirmi Severo et Rufino Conss.].
Tale costituzione, se, da un lato, attesta le resistenze che da
parte non cristiana dovettero levarsi contro l’applicazione del divieto[177],
dall’altro, chiarisce i termini concreti ed elastici in cui
[p. 142]
l’imperatore
dovette gettare le basi del suo tentativo di porre fine ai sacrifici di animali.
Costantino, infatti, manifesta il proposito di estendere il divieto dei
sacrifici al di là di un ambito ristretto, quale appunto quello della aruspicina.
Egli, però, nella estensione del divieto, appare anche consapevole della
necessità di impiegare una certa prudenza[178].
Si comprende così, più che in ragione di un mero calcolo politico, il fatto
che, ancora negli ultimi mesi del suo regno[179],
egli acconsenta a che gli abitanti della cittadina umbra di Spello costruiscano
un tempio dedicato alla gens Flavia[180],
a patto, però, che il tempio non fosse macchiato dalla contagiosa superstitio[181]:
[p. 143]
CIL XI,5265 = ILS 705: Nam
civitati Hispello aeternum vocabulum nomenq(ue) venerandum de nostra
nuncupatione concessimus, scilicet ut in posterum praedicta urbs Flavia
Constans vocetur, in cuius gremio aedem quoque Flaviae hoc est nostrae gentis,
ut desideratis, magnifico opere perfici volumus, ea observatione perscripta, ne
aedis nostro nomini
[p. 144]
dedicata cuiusquam contagios(a)e superstitionis fraudibus
polluatur …
L’imperatore, pur acconsentendo alla costruzione del tempio, pone
un limite che non è più possibile valicare. Questo limite è rappresentato appunto
dal sacrificio, inteso come momento centrale e, dunque, particolarmente
esecrabile del culto non cristiano. La sua è, quindi, una condanna, sebbene
forse i confini di essa siano ancora ambigui, poiché il termine superstitio, impiegato da Costantino nel
rivolgersi agli Ispellati, gli consentiva di oscillare tra una aperta critica
della comune superstizione popolare ed una, invece, più velata della religione
precristiana[182].
Al di là di tali osservazioni, appare tuttavia innegabile che nel
rescritto agli Ispellati, l’imperatore compia un passo ulteriore verso la
proibizione dei sacrifici di animali. Mentre, infatti, le costituzioni, in
materia di aruspicina, emanate finora da Costantino, vietavano i sacrifici
domestici[183],
ma in qualche modo tolleravano ancora quelli pubblici[184],
che al più erano considerati forme di superstizione, il provvedimento rivolto
agli abitanti di Spello proibisce senza deroga alcuna ogni manifestazione di superstitio, anche quando essa sia
esercitata in pubblico. È forse allora non del tutto azzardato immaginare che
l’imperatore, fra le costituzioni in materia di aruspicina e il rescritto
ispellate, sia pervenuto a stabilire un divieto generale e totale dei
sacrifici. E il rescritto potrebbe essere un caso specifico di applicazione del
divieto generale e totale in materia di sacrifici[185].
Costantino, non consentendo che il tempio dedicato alla gens Flavia
fosse macchiato di sangue, non poteva mostrare in modo più chiaro quanto il suo
potere fosse ormai lontano dalle antiche
[p. 145]
e
cruente cerimonie sacrificali precristiane[186].
Ciò non toglie che, dopo la sua famosa (e controversa) conversione, anche i
cristiani, i quali, fino ad allora, si erano rifiutati di adorare l’imperatore,
renderanno a lui omaggio con sacrifici e preghiere, e, dunque, con modalità che
alcuni autori non cristiani rimprovereranno loro in quanto simili a cerimonie
precristiane[187].
Il divieto dei sacrifici di animali può essere ulteriormente
inteso se accostato a quella normazione costantiniana che potremmo definire,
con una certa approssimazione, di carattere ‘umanitario’[188].
Si pensi, infatti, alle disposizioni con le quali l’imperatore introduce alcune
importanti innovazioni in tema di
[p. 146]
esecuzione
della pena: dalle misure adottate in materia di giochi gladiatori[189],
all’abolizione della condanna alla croce e della pratica di spezzare le gambe
al sottoposto al supplizio[190];
dal divieto di marchiare il viso del condannato[191],
al riconoscimento della possibilità, per colui che fosse stato in attesa di
giudizio, di godere della luce del sole ogni giorno[192].
Ricordiamo, ancora, le misure intraprese da Costantino a favore degli indigenti[193].
Su un piano diverso, ma non per questo dissimile, è la
costituzione, riportata in CTh. 8,5,2, con
la quale l’imperatore prendeva in esame la questione dei maltrattamenti
patiti dai cavalli da tiro:
CTh. 8,5,2: [Imp. Constantinus A. ad Titianum]. Quoniam plerique nodosis et validissimis fustibus inter ipsa currendi
primordia animalia publica cogunt quidquid virium habent absumere, placet, ut
omnino nullus in agitando fuste utatur, sed aut virga aut certe flagro, cuius
in cuspide infixus brevis aculeus pigrescentes artus innocuo titillo poterit
admonere, non ut exigat tantum, quantum vires valere non possunt. Qui contra hanc
fecerit sanctionem promotus, regradationis humilitate
[p.
147]
plectetur: munifex
poenam deportationis excipiat. [Dat.
Prid. Id. Mai. Sabino et Rufino Conss.].
A proposito di questa costituzione, l’affermazione di Giovanni Costa[194], secondo il quale “qualche
presidentessa d’una qualsiasi società di protezione degli animali” potrebbe
porre “anche il nome di Costantino… fra i grandi precursori del grande movimento
che le starebbe a cuore!”, tradisce un certo disinteresse per un problema –
quello della condizione animale nell’antichità – che fu, invece, avvertito con
particolare fervore dalla cultura filosofico-giuridica greca e romana[195].
La costituzione, con la quale Costantino vieta, da un lato, di
incitare con il bastone gli animali adibiti al trasporto della posta, e,
dall’altro, di sottoporli a sforzi eccessivi, probabilmente non costituisce
solo una misura di conservazione del patrimonio pubblico[196].
Essa, pur essendo diretta ad evitare gli abusi
[p. 148]
nella
utilizzazione degli animalia publica, nell’interesse della
conservazione del patrimonio pubblico, poteva anche perseguire, in modo forse
non del tutto inconsapevole, una tutela degli animali come esseri senzienti,
capaci di provare dolore. E qui, la tutela del valore economico dell’animale
doveva andare di pari passo con la tutela come essere animato.
La costituzione dapprima prende in considerazione l’inutile
crudeltà degli uomini addetti alla guida degli animali, sia attraverso un cenno
alle caratteristiche degli strumenti impiegati per incitare i quadrupedi: “nodosis et validissimus fustibus”, sia attraverso il rilievo attribuito alla dimensione
dello sforzo animale, particolarmente oneroso quanto a durata e a intensità: “inter ipsa currendi primordia animalia publica cogunt quidquid virium habent absumere”. Essa, quindi, indica gli strumenti ammessi per spronare
gli animali: “sed aut virga
aut certe flagro, cuius in cuspide infixus brevis aculeus”, i quali
strumenti, però, potranno servire per sottoporre l’animale ad una semplice
sollecitazione, per poi introdurre un criterio ulteriore, di carattere
generale, in base al quale ci sembra di potere escludere l’idea di una tutela
degli animali in chiave puramente utilitaristica: è l’inciso “non ut
exigat tantum, quantum vires valere non possunt”, che costituisce un limite al
di là del quale anche uno strumento normalmente inoffensivo diviene inutilizzabile.
La possibilità di impiegare l’animale nel rispetto delle proprie energie non
esprime, quindi, una esigenza puramente utilitaristica, poiché, su questo
piano, un divieto di tal genere avrebbe avuto una ragion d’essere al solo fine
di evitare la morte o la menomazione dell’animale. Nel nostro caso, invece, la
costituzione vieta lo sfruttamento eccessivamente oneroso dell’animale anche
nel caso in cui esso possa recuperare le forze, senza aver riportato alcuna
menomazione.
Il riferimento alle energie lavorative
dell’animale, come limite ultimo al di là del quale l’uomo deve arrestarsi, è
un richiamo al requisito della preziosità, parametro attorno al quale, in
antico, era costruito il sistema delle res
mancipi[197].
Nel caso delle res pretiosiores,
[p. 149]
il
criterio classificatorio era costituito dalla rilevanza del bene come fattore
di produzione, o in quanto forza lavoro – servi
e animalia quae collo dorsove domantur –, o in quanto capitale – fondi e servitù rustiche –. Tale
criterio classificatorio non solo non impediva, ma al contrario doveva
esprimere e persino rafforzare l’affinità fra uomini e animali[198].
[p. 150]
La scelta di Costantino di bandire i
sacrifici di animali trova certamente sostegno (seppure, come vedremo, non
esclusivamente) nella cultura religiosa cristiana, all’interno della quale non
soltanto vi è l’idea che l’unico sacrificio rituale sia quello estremo del
Figlio di Dio[199],
ma vi è anche l’idea di una affinità fra uomo e animali[200].
Per quanto riguarda la prima idea, ci limitiamo ad osservare che
il sacrificio nella religione cristiana è solo quello che si compie nella Eucaristia[201].
A differenza degli altri sacerdozi, infatti, il
[p. 151]
sacerdozio
del Cristo è eterno, poiché Egli non ha “ogni giorno bisogno, come i sommi
sacerdoti, di offrire sacrifici prima di tutto per i propri peccati e quindi
per quelli del popolo, poiché egli ha fatto ciò una volta per tutte offrendo se
stesso”[202].
Per quanto riguarda la seconda idea, ci sembra opportuno
soffermarsi su un pregiudizio tanto diffuso, secondo il quale l’affermazione
del Cristianesimo avrebbe portato a occultare la originaria idea precristiana
del rapporto simpatetico fra tutti gli esseri animati[203].
Esempio recente di questo radicato pregiudizio è quanto scrive Gino Ditadi,
nella antologia, da lui curata, di testi
[p. 152]
filosofici
dedicati agli animali: “L’avvento del Cristianesimo non fu esattamente una
benedizione per gli animali e neppure per i loro difensori filosofi o meno che
fossero”[204].
“
Poiché la questione dei rapporti uomo e animale non umano, nella
religione cristiana, non è priva di rilievo per una corretta interpretazione
della legislazione costantiniana in tema di sacrifici di animali, dobbiamo qui
fare qualche breve osservazione. L’esame della condizione animale nel pensiero
cristiano richiede competenze particolari: ci limitiamo, pertanto, a formulare
poche ed elementari considerazioni, lasciando, quindi, la questione agli specialisti[206].
La tesi, secondo la quale il Cristianesimo avrebbe, da un lato,
spezzato il rapporto simpatetico fra tutti gli esseri animati e, dall’altro,
offerto una legittimazione dello sfruttamento esasperato degli animali non
umani, è assai superficiale e deve essere respinta. Una tale rappresentazione
si fonda su una lettura approssimativa delle fonti. L’immagine di un Dio che
consegna il Creato nelle mani dell’uomo, il quale, dominatore sul resto degli
esseri animati, può usarne ed abusarne, non appartiene, per le ragioni che vedremo
subito, né al pensiero giudaico né al pensiero cristiano. Non può certamente
essere attribuita al Cristianesimo l’idea, secondo la quale “se la natura è
stata creata per l’uomo essa va sfruttata senza problemi”[207].
In materia di riti cruenti, non è possibile ignorare il
ripensamento delle relazioni fra uomo e animale introdotto dal Cristianesimo
rispetto alla prassi sacrificale veterotestamentaria[208]. Ripensamento
[p. 153]
nel
quale si può, comunque, intravedere precisamente una linea di continuità fra
Antico Testamento e Nuovo Testamento. È vero, infatti, che già nell’Antico Testamento
si delinea una via alternativa al sacrificio di animali[209]:
pensiamo a Michea 6,6-8, ove
leggiamo:
Michea 6,6-8: 6 Quid dignum offeram Domino, dum curvo genu Deo excelso?
Numquid offeram ei holocautomata et vitulos anniculos? 7 Numquid placebunt
Domino milia arietum, multa milia torrentium olei? Numquid dabo primogenitum
meum pro scelere meo, fructum ventris mei pro peccato animae meae? 8 Indicatum
est tibi, o homo, quid sit bonum, et quid Dominus quaerat a te: utique facere
iudicium et diligere caritatem et sollicitum ambulare cum Deo tuo.
La ostilità ebraica al sacrificio di animali, testimoniata da
Michea, non era peraltro un fenomeno isolato. Una più risalente critica del
sacrificio è, ad esempio, attestata in Persia, ove, secondo una opinione
largamente diffusa, avrebbe operato Zarathustra[210].
[p. 154]
Il filosofo esprime una netta condanna dei sacrifici di buoi,
astenendosi egli stesso dal mangiare carne[211].
“La migliore tra le opere buone” – si legge in Yasna 33,3 – “è nei confronti del cielo, adorare il Signore e, nei
confronti della terra, non maltrattare gli animali … fare del bene al giusto,
al fratello, al confratello,
[p. 155]
al
servitore, essere solerti nel prendersi cura di ciò che è bene per il gregge”[212].
Zarathustra richiama così le tipiche modalità di espressione della affinità fra
uomo e altri esseri animati: da un lato, il rifiuto dei sacrifici di animali,
con la connessa astensione dall’alimentazione carnea, dall’altro, la
costruzione di un sistema giuridico anche in funzione degli altri esseri animati.
In tal senso, egli identifica l’uccisione del bue aratore e il consumo di carne
con il peccato originale[213].
Al contrario, “chi semina il grano” – si legge nell’Avesta – “semina la giustizia”[214].
Il rifiuto dei sacrifici di animali, espresso chiaramente nella astensione dalla
alimentazione carnea, si traduce, dunque, in un impegno dell’uomo alla rinuncia
della violenza nei confronti degli animali. E l’atto di seminare il grano
diviene il principio di una scelta di più ampio respiro rispetto al semplice
vegetarianismo: quello della cura dell’uomo nei confronti degli altri animali.
In questa prospettiva, una biografia di Zarathustra ne attribuisce la nascita
alla volontà divina di assegnare agli animali un salvatore: “Lo creerò per
predicare al mondo la sollecitudine verso tutti gli esseri viventi”[215].
Le reazioni ai sacrifici di animali dovevano essere alquanto
diffuse nell’antichità, soprattutto nelle società dedite all’allevamento.
Tuttavia, è con il Cristianesimo che avviene il definitivo superamento del
sacrificio animale[216]:
“Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non
sacrificio”, leggiamo nel vangelo di Matteo[217].
E ancora nel vangelo di Marco[218]:
“Amarlo [il Signore Dio tuo] con tutto il cuore
[p. 156]
e
con tutta la mente e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso val
più di tutti gli olocausti e i sacrifici”.
Ma, a parte queste considerazioni generali, abbiamo la prova che
precisamente questo fosse (anche) il pensiero cristiano dell’epoca di Costantino.
Nell’Africa del III-IV secolo, infatti, l’apologeta cristiano Arnobio, il cui
settimo libro dell’Adversus nationes è dedicato ai sacrifici, si
scaglia contro l’inutilità[219]
e la crudeltà delle pratiche sacrificali del ‘paganesimo’[220]:
Arnobio, nat. 7,4: Postremo quod gaudium est innoxiorum animantium
mactatione laetari, miserabilis saepe exaudire mugitus, rivos sanguinis cernere,
animas cum cruore fugientes patefactisque secretis provolvier intestina cum
stercore et ex residuo spiritu exultantia adhuc corda tremibundisque
palpitantes in visceribus venas? Semiferi nos homines, quinimmo, apertius ut
pronuntiemus quod est verius atque aptius dictu, feri, quos infelix necessitas
et malus usus edocuit cibos ex his carpere, miseratione interdum commovemur
illorum, arguimus nos ipsi penitusque re visa atque inspecta damnamus, quod
humanitatis iure deposito naturalis initii consortia ruperimus.
È importante osservare che, secondo Arnobio, l’uomo, quando
uccide per sacrificare agli dei, spezza, il vincolo che lo lega
[p. 157]
agli
animali e, così facendo, rinuncia alla sua stessa autentica natura[221].
Arnobio, nonostante l’attacco alla religione precristiana,
riprende il contenuto essenziale delle antiche filosofie antisacrificali,
introducendo due concetti giuridici fondamentali, i quali, già in passato,
avevano rappresentato modalità espressive del rifiuto dei sacrifici di animali:
il ius humanitatis e il consortium
naturalis initii.
Il primo concetto – il ius
humanitatis – richiama l’idea del
diritto, da intendersi non come prerogativa del solo genere umano, ma come
l’elemento più proprio e specialmente qualificante della natura umana. Si
comprende, in tal modo, il richiamo iniziale alla natura fera, termine, questo, che nel linguaggio giuridico romano non
allude alla natura selvaggia, feroce, ma a quella selvatica, vale a dire alla
natura dell’animale privo di ogni rapporto con l’uomo[222].
Il secondo concetto – il consortium
naturalis initii – consente
all’apologeta di inquadrare il sacrificio di animali come atto empio, praticando
il quale gli uomini spezzano il vincolo naturale, l’affinità, potremmo dire,
fra tutti gli esseri animati. Il ricorso, ancora una volta, a un termine – consortium –, che nel linguaggio
[p. 158]
giuridico
romano identifica un preciso istituto, potrebbe non essere casuale, ma
rappresentare l’espediente lessicale attraverso il quale l’autore avrebbe
richiamato la tesi, variamente sostenuta nella filosofia greca e nel diritto
romano, della ammissibilità di un diritto comune a uomini e ad animali[223].
Ed è opportuno richiamare, al di là della questione, che qui
possiamo tralasciare, relativa al rapporto storico tra consortium e societas[224],
i testi in merito alla concezione dell’animale come socius dell’uomo[225].
Testi che, unitamente alla testimonianza di Arnobio, ora riportata, confermano
l’idea di una affinità fra tutti gli esseri animati, della quale idea il ius naturale
è, in definitiva, una delle più alte espressioni.
Sulla base di questi due concetti, Arnobio presenta il paradosso
del sacrificio, inteso come strumento di espiazione e di assoluzione del
peccato, contrapponendo alla simplicitas
naturae e alla innocentia dell’animale la ingiustizia dell’uomo, il quale,
rinunciando alla sua vera natura, rinuncia anche a praticare la giustizia[226]:
Arnobio, nat. 7,9: Non homo? Ita istud non ferum, non inmane, non saevum
est, non tibi, o Iuppiter, iniustum videtur et barbarum, me occidi, me caedi,
ut fias tu placidus et ut sclerosis contingat impunitas?
[p. 159]
Gli sviluppi successivi del pensiero cristiano, sino ai giorni
nostri, in materia di relazioni uomini-animali, confermano la posizione di
Arnobio, contro il luogo comune. Una ricca tradizione di pensiero, infatti, da
quella relativa al legame fra i Santi e gli animali[227],
attraverso i Padri della Chiesa[228],
fino al magistero pontificio[229],
si oppone ad una visione dell’uomo come dominatore
[p. 161]
incontrollato
dell’Universo. Appare evidente, dunque, quanto sia semplicistica la tesi, qui
richiamata, secondo la quale il Cristianesimo, legittimando lo sfruttamento
incondizionato degli animali e dell’ambiente naturale[230],
non abbia adeguatamente preso in considerazione il valore etico della vita animale[231].
La condanna del sacrificio di animali[232]
e dell’alimentazione carnea[233]
caratterizza diversi settori della cultura filosofica
greca. Tale condanna, che viene fatta risalire all’orfismo, era espressione di
un riconoscimento della affinità esistente fra gli uomini e
[p. 162]
gli altri esseri animati[234],
riconoscimento che si connette a un atteggiamento critico nei riguardi della organizzazione politica dominante[235].
Così ci appare il senso del racconto orfico della morte di
Dioniso. I Titani, assassini con il corpo coperto di gesso e il viso nascosto
da una maschera, dopo avere distratto Dioniso, mostrandogli dei giuochi, lo
colpiscono e lo uccidono. Essi, dopo aver diviso il corpo del dio e averne
arrostito le carni, consumano l’orrendo banchetto. Zeus, quindi, inorridito,
punisce gli assassini riducendoli in ceneri, dalle quali nasce la stirpe umana[236].
Come si diceva, la narrazione denuncia il sacrificio cruento come pratica
nefanda, alla quale fanno ricorso gli uomini, quando essi offrono una vittima
agli dei. Il rifiuto di mangiare carne, proprio dell’orfismo, implica la scelta
di porsi ai margini della organizzazione politica[237],
in quanto essa è fondata sulle ceneri dell’inganno e sulla violenza del sangue
versato. Al sacrificio cruento, Orfeo, capace di domare ogni specie animale
grazie alla musica, preferisce la purezza del miele e dei cereali, che, nella
sua filosofia, sono i soli cibi graditi agli dei[238].
A tale forma di contestazione si avvicina quella di Pitagora, il
quale nega la legittimità dei sacrifici di animali e del mangiar carne[239].
Il filosofo condanna il sapere profano e assassino dei macellai e dei
cacciatori. Il rifiuto del mangiar carne, assieme al sapere matematico, si
offre ancora una volta al filosofo come
[p. 164]
strumento
di ascesi e di estraneità alla città profana[240].
Alla empietà del sacrificio animale, che caratterizza le Bufonie ateniesi[241],
Pitagora contrappone la purezza dell’offerta di cereali, come è in uso presso
l’altare del tempio di Apollo genitore di Delos[242].
Giamblico racconta che, secondo Pitagora, l’affinità speculare
fra uomini e animali non umani si esprimeva nel rispetto delle norme della
giustizia anche nei riguardi degli altri esseri animati:
Giamblico, v. Pyth. 24: kaˆ t¦ prÕj eÙ£geian d ™nant…wj œconta kaˆ ™piqoloànta tÁj yucÁj
t£j te ¥llaj kaqarÒthtaj kaˆ t¦ ™n to‹j Ûpnoij fant£smata parVte‹to. koinîj mn
oân taàta ™nomoqšthse perˆ trofÁj, „d…v d to‹j qewrhtikwt£toij tîn filosÒfwn
kaˆ Óti m£lista ¢krot£toij kaq£pax periÇrei t¦ peritt¦ kaˆ ¥dika tîn ™desm£twn,
m»te œmyucon mhdn mhdšpote ™sq…ein e„shgoÚmenoj m»te onon Ólwj p…nein m»te
qÚein zùa qeo‹j m»te katabl£ptein mhd' Ðtioàn aÙt£, diasózein d kaˆ t¾n prÕj
aÙt¦ dikaiosÚnhn ™pimelšstata. kaˆ aÙtÕj oÛtwj œzhsen, ¢pecÒmenoj tÁj ¢pÕ tîn zówn
trofÁj kaˆ toÝj ¢naim£ktouj bwmoÝj proskunîn, kaˆ Ópwj mhd ¥lloi ¢nair»swsi t¦
ÐmofuÁ prÕj ¹m©j zùa proqumoÚmenoj, t£ te ¥gria zùa swfron…zwn m©llon kaˆ
paideÚwn di¦ lÒgwn kaˆ œrgwn, ¢ll' oÙcˆ di¦ kol£sewj katabl£ptwn. ½dh d kaˆ
tîn politikîn to‹j nomoqštaij prosštaxen ¢pšcesqai
[p. 165]
tîn ™myÚcwn· ¤te
g¦r boulomšnouj ¥krwj dikaioprage‹n œdei d»pou mhdn ¢dike‹n tîn suggenîn zówn. ™peˆ pîj ¨n œpeisan d…kaia pr£ttein toÝj ¥llouj
aÙtoˆ ¡liskÒmenoi ™n pleonex…v; suggenik¾ d' ¹ tîn zówn metoc», ¤per di¦ t¾n
tÁj zwÁj kaˆ tîn stoice…wn tîn aÙtîn koinwn…an kaˆ tÁj ¢pÕ toÚtwn sunistamšnhj
sugkr£sewj æsaneˆ ¢delfÒthti prÕj ¹m©j sunšzeuktai.
Nella filosofia pitagorica, dalla idea, generica, della tutela
degli altri esseri animati[243]
si giunge a quella, specifica, della comunanza di diritto
tra uomini e animali: la credenza nella metempsicosi e il divieto dei sacrifici
di animali e della alimentazione carnea, infatti, aprono la via alla
affermazione, fra uomo e animali, di una affinità giuridica, la quale va al di
là della semplice affermazione di rispettare la vita di tutti gli esseri
animati. In questa prospettiva, Giamblico, nel frammento del de vita
Pythagorica, testé riportato,
descrive Pitagora come colui che, sul presupposto della affinità fra tutti gli
esseri animati, riconosce la pratica della giustizia come elemento di ulteriore
coesione fra essi[244].
[p. 166]
Dopo Pitagora, il problema della legittimità dei sacrifici di
animali e della alimentazione carnea è oggetto di attenzione da parte di
Eraclito, il quale predica l’astensione dalla carne animale, sostenendo che gli
dei non hanno bisogno di vittime sacrificali. Gli uomini, invece, “si
purificano contaminandosi con altro sangue, come se uno, immersosi nel fango,
si lavasse con il fango”[245].
Empedocle, riprendendo temi di ascendenza pitagorica, rammenta
con tristezza il tempo in cui gli animali vivevano senza guerre e in pace con
l’uomo: allora, “l’altare non era bagnato dal sangue puro dei tori giacché
questo era tenuto dagli uomini massimo obbrobrio, dopo aver strappato loro la
vita, mangiarne le nobili membra”[246].
Alle divinità cruente, egli oppone Cipride, la dea della concordia, alla quale
si offrono animali dipinti e non esseri animati: “Lei con più doni essi si
propiziavano con animali dipinti e profumi dall’odore sottile con offerte di
mirra pura e di incenso odoroso e spargendo al suolo libagioni di biondo miele”[247].
[p. 167]
Ancora, molti secoli dopo, in Plutarco, la condanna dei sacrifici
di animali procede assieme alla astensione dall’alimentazione carnea[248].
La terra potrebbe offrire a tutti gli esseri animati il nutrimento di cui essi
hanno bisogno, ma l’uomo, il più violento fra tutte le specie viventi,
preferisce con la caccia accanirsi nei confronti di animali indifesi[249].
Nell’opera De esu carnium, Plutarco
rivolge il suo atto d’accusa verso quelle che egli ritiene essere il frutto di
errate abitudini alimentari, più che di un vero bisogno naturale: l’uomo,
infatti, per tollerare il sapore della carne, è costretto a impiegare spezie e
vegetali[250].
L’idea della affinità fra gli esseri
animati e del rispetto per gli animali non umani si trasmette, dalla cultura
filosofica greca alla cultura giuridica romana, secondo due vie espressive: il
rifiuto dei sacrifici di animali e la individuazione di un diritto (ius naturale) comune a uomini e ad
animali.
La prima via – il rifiuto dei sacrifici di animali – è presente
in Varrone e in Seneca. Arnobio attribuisce a Varrone l’opinione secondo cui
gli dei non desiderano, né tantomeno reclamano sacrifici di animali:
Arnobio, nat. 7,1: Quid ergo, dixerit quispiam, sacrificia censetis nulla
esse omnino facienda? Ut vobis non nostra, sed Varronis vestri sententia
respondeamus, nulla. Quid ita? quia, inquit, dii veri neque desiderant ea neque
deposcunt, ex aere
[p. 168]
autem facti, testa, gypso vel marmore multo minus haec curant: carent
enim sensu; neque ulla contrahitur, si ea non feceris, culpa, neque ulla, si feceris,
gratia.
A Seneca Lattanzio ascrive il rifiuto del sangue sacrificale:
Lattanzio, inst. 6,25,3: Quanto melius et verius Seneca vultisne vos inquit
deum cogitare magnum et placidum et maiestate leni verendum, amicum et semper in
proximo, non immolationibus nec sanguine multo colendum – quae enim ex
trucidatione immerentium voluptas est?
La seconda via – la costruzione di un diritto
comune a uomini e ad animali – è abbondantemente documentata.
Possiamo iniziare dalle testimonianze di Varrone, Columella e
Plinio, in merito alla concezione, da parte degli ‘antiqui’, del bue come socius dell’uomo e al connesso divieto di uccisione del bue aratore[251].
In queste testimonianze, troviamo non solo la affermazione di una tutela
giuridica dell’animale, ma anche il richiamo al rapporto paritario e di
cooperazione tra uomini e animali che il contratto di societas, rispettivamente, presupponeva e stabiliva fra i
contraenti:
Varrone, rust. 2,5,3: Hic socius hominum in rustico opere et Cereris minister,
ab hoc antiqui manus ita abstineri voluerunt, ut capite sanxerint, siquis
occidisset.
Columella 6 pr.: Nec dubium quin, ut ait Varro, ceteras pecudes bos honore
superare debeat, praesertim et in Italia, quae ab hoc nuncupationem traxisse
creditur, quod olim Graeci tauros italos vocabant, et in ea urbe, cuius
moenibus condendis mas et femina boves aratro terminum signaverunt, vel, ut
antiquiora repetam, quod idem Atticis Athenis Cereris et Triptolemi fertur
minister, quod inter fulgentissima sidera particeps caeli sit, quod denique
laboriosissimus adhuc hominis
[p. 169]
socius in agricultura, cuius tanta fuit apud antiquos veneratio,
ut tam capital esset bovem necuisse quam civem.
Plinio, nat. 8,45 (70): Socium enim laboris agrique culturae habemus hoc
animal, tantae apud priores curae, ut sit inter exempla damnatus a
P<opulo> R<omano> die dicta, qui concubino procaci rure omassum
edisse se negante occiderat bovem, actusque in exilium tamquam colono suo interempto.
Cicerone[252] e Seneca[253],
ma anche Lucrezio[254]
e Virgilio[255],
rifacendosi più o meno esplicitamente al pensiero filosofico greco prima esposto,
introducono direttamente l’idea di un diritto comune a uomini e ad animali.
Cicerone, nel De republica[256],
ricorda che Pitagora ed Empedocle ritenevano unica la condizione giuridica di
tutti gli esseri animati: unam omnium animantium condicionem iuris esse denuntiant, e
reputavano
[p. 170]
delittuosa
l’azione di colui che arrecasse danno alle bestie: scelus est igitur nocere bestiae[257]:
Cicerone, rep. 3,18-19: Esse enim hoc boni viri et iusti, tribuere id cuique
quod sit quoque dignum. Ecquid ergo primum mutis tribuemus beluis? Non enim
mediocres viri sed maxumi et docti, Pythagoras et Empedocles, unam omnium
animantium condicionem iuris esse denuntiant, clamantque inexpiabilis poenas
impendere iis a quibus violatum sit animal. Scelus est igitur nocere bestiae,
quod scelus qui velit …
L’impiego del termine scelus,
nel passo ciceroniano, per indicare l’azione di colui che procuri una offesa
nei riguardi di un animale non umano, non priva il passo stesso della sua
rilevanza giuridica, ma, al contrario, la rafforza, a causa del rapporto che
tale termine assume con l’idea di un’unica condicio
iuris fra tutti gli esseri animati,
scongiurando, in tal modo, il pericolo di confinare l’idea della esistenza di
un comune diritto, fra tutti gli esseri animati, in una dimensione meramente
etica. Idea, questa, che, come vedremo[258],
ricorre nella celebre concezione ulpianea del ius naturale, in D. 1,1,1,3 (Ulp. 1 inst.): ius naturale est,
quod natura
[p. 171]
omnia animalia docuit. Il ricorso al termine scelus,
inoltre, consente di superare una logica puramente oggettivistica della condizione
dell’animale, per esprimere, in modo particolarmente efficace, l’idea della
tutela degli animali non umani e, dunque, la dignità di essi come esseri
animati.
Cicerone, nel De officiis,
esprime ancora l’idea di un’unica condicio
iuris fra tutti gli esseri animati:
Cicerone, off. 1,17,53-54: Gradus autem plures sunt societatis hominum. Ut
enim ab illa infinita discedatur, proprior est eiusdem gentis, nationis, linguae
qua maxime homines coniunguntur; interius etiam est eiusdem esse civitatis: multa
enim sunt civibus inter se communia, forum, fana, porticus, viae, leges, iura,
iudicia, suffragia, consuetudines praeterea et familiaritates multisque cum
multis res rationesque contractae. Artior vero colligatio est societatis
propinquorum; ab illa enim immensa societate humani generis in exiguum angustumque
concluditur. 54 Nam cum sit hoc natura commune animantium, ut habeant libidinem
procreandi, prima societas in ipso coniugio est, proxima in liberis, deinde una
domus, communia omnia; id autem est principium urbis et quasi seminarium rei
publicae.
Egli, nel distinguere i vari gradi della società umana, dopo aver
individuato il grado più generale in quella società caratterizzata dalla
identità di gens, natio e lingua, elabora, in termini estremamente sintetici, il quadro vivo
di quella particolare ipotesi di società umana che è la civitas[259].
Tale ipotesi si caratterizza per la coesistenza e la sintesi di elementi solo
apparentemente disomogenei:
[p. 172]
essi
proprio per il loro carattere differenziato – l’essere si direbbe elementi architettonici
e giuridici: il forum, i fana, il porticus, le viae, da un
lato, e le leges, i iura e i iudicia, i suffragia e le
consuetudines, dall’altro –, appaiono
gli elementi concreti della vita giuridica e sociale della civitas stessa, la quale in quegli spazi doveva trovare, sul piano
concreto della costituzione materiale, una espressione naturale. Non a caso, il
quadro si chiude con un cenno alla sintesi degli interessi e delle relazioni
sociali fra i cives che tali spazi
architettonici e giuridici consentono e rendono vivi: familiaritates multisque cum multis res rationesque contractae.
La vera e propria chiave di lettura della classificazione
ciceroniana dei vari gradi della società umana risiede nella individuazione del
carattere naturale delle diverse forme di società comuni agli uomini e agli
altri esseri animati. Tale chiave prospettica appare in maniera evidente nel
proseguo del passo del De officiis,
ove è proprio la naturalità del comportamento dell’uomo a unirsi in società coi
suoi simili che permette a Cicerone di individuare una prospettiva ancora più
ampia di quella dalla quale egli si era mosso, spostando l’attenzione,
attraverso un rilievo specifico qual è quello della parentela, dalla societas umana a quella evidentemente
più generale degli altri esseri animati: nam
cum sit hoc natura commune animantium ut habeant libidinem procreandi prima
societas in ipso coniugio est proxima in liberis deinde una domus communia
omnia id autem est principium urbis et quasi seminarium rei publicae. Qui
il legame fra gli esseri animati si esprime nel richiamo all’istinto alla
procreazione, considerato come il fattore di altre società: da quella del coniugium, a quella dei liberi, e quindi a quella della domus e delle altre res communes. E il
vincolo che contraddistingue tali società è talmente importante da costituire
il principium urbis e il seminarium rei
publicae. Ed è così che Cicerone può operare un salto prospettico dal piano
generale, con il quale aveva esordito, della identità di gens, natio e lingua, a quello particolare della colligatio propinquorum, nel cui ambito
familiare e quotidiano, e proprio per questo reale, si esprime quella che a lui
stesso doveva apparire l’idea inmensa,
e per questo troppo distante, della societas
umana. La prospettiva
della riflessione ciceroniana non è dunque dissimile da quella adottata da
Ulpiano nella definizione del ius
naturale come ius comune a uomini
e ad altri esseri animati, ove è
[p. 173]
evidente,
per quel riferimento alla coniunctio,
alla procreatio e alla educatio liberorum, il parallelismo con
la riflessione di Cicerone, in tema di coniugium
e di societas liberorum[260].
Anche in un brano del De
clementia di Seneca[261],
si parla di un commune ius animantium[262]
e si trae da esso argomento a difesa della stessa condizione umana:
[p.
174]
Seneca,
clem., 1,18,2: Servis ad statuam
licet confugere! Cum in servum omnia liceant,
est aliquid, quod in hominem licere commune ius animantium vetet.
La concezione filosofica pitagorica ed empedoclea è riassunta da
Cicerone e da Seneca attraverso l’uso di una terminologia, la quale non lascia
alcun dubbio sul fatto che, al problema della condizione animale, fosse attribuita
una precisa rilevanza giuridica.
L’affermazione della esistenza di un’unica condicio iuris, fra tutti
gli esseri animati, o di un commune ius animantium,
apre la strada al riconoscimento di una fra le più alte espressioni della
affinità fra uomini e animali non umani: il dovere dell’uomo di difendere
attivamente la vita animale. Idea, anche questa, che doveva essere presente, in
Roma, se è espressa in termini diversi, ma speculari, sul piano delle categorie
giuridiche impiegate, da Lucrezio e da
Virgilio.
Lucrezio, infatti, descrivendo il vincolo dell’uomo nei confronti
degli animali non umani, nei termini di una tutela,
sembra sostenere che tra uomo e animale si possano istituire relazioni, in un
certo qual modo, aventi rilevanza giuridica[263]:
Lucrezio 5,855-877:
Multaque tum interiisse animantum saecla necessest,
nec
potuisse propagando procudere prolem.
Nam quaecumque vides vesci vitalibus auris,
aut dolus aut virtus aut denique mobilitas est
ex
ineunte aevo genus id tuta<ta> reservans.
Multaque
sunt, nobis ex utilitate sua quae
[p. 175]
commendata
manent, tutelae tradita nostrae.
Principio genus acre leonum saevaque
saecla
tutatast virtus, volpes dolus et fuga cervos.
At levisomna canum fido cum pectore corda,
et genus omne quod est veterino semine partum,
lanigeraeque simul pecudes et bucera saecla,
omnia
sunt hominum tutelae tradita, Memmi.
Nam cupide fugere feras pacemque
secutae
sunt et larga suo sine pabula parta
labore,
quae damus utilitatis eorum praemia
causa.
At quis nil horum tribuit natura, nec
ipsa
sponte
sua possent ut vivere, nec dare nobis
utilitatem
aliquam quare pateremur eorum
praesidio
nostro pasci genus esseque tutum,
scilicet
haec aliis praedae lucroque iacebant,
indupedita
suis fatalibus omnia vinclis,
donec ad interitum genus id natura redegit.
Virgilio manifesta un sentimento di religioso rispetto nei confronti degli
animali, giungendo ad affermare l’obbligo dell’uomo di prendersi cura di essi[264]:
Virgilio, georg.
3,295-310:
carpere
ovis, dum mox frondosa reducitur aestas,
et
multa duram stipula filicumque maniplis
sternere
subter humum, glacies ne frigida laedat
molle
pecus, scabiemque ferat turpisque podagras.
[p. 176]
Post
hinc digressus iubeo frondentia capris
arbuta
sufficere et fluvios praebere recentis,
et
stabula a ventis hiberno opponere soli
ad
medium conversa diem, cum frigidus olim
iam
cadit extremoque inrorat Aquarius anno.
Haec
quoque non cura nobis leviore tuendae;
nec minor usus erit, quamvis Milesia magno
vellera mutentur Tyrios incocta
rubores;
densior hinc suboles, hinc largi copia
lactis.
Quam
magis exhausto spumaverit ubere mulctra,
laeta
magis pressis manabunt flumina mammis.
Virgilio, georg.
3,394-408:
At
cui lactis amor, cytisum lotosque frequentis
ipse
manu salsasque ferat praesepibus herbas.
Hinc
et amant fluvios magis et magis ubera tendunt
et
salis occultum referunt in lacte saporem.
Multi
etiam excretos prohibent a matribus haedos
primaque ferratis praefigunt ora capistris.
Quod surgente die mulsere horisque diurnis,
nocte premunt: quod iam tenebris et sole cadente,
sub lucem exportant calathis (adit oppida pastor),
aut parco sale contingunt hiemique reponunt.
Nec tibi cura canum fuerit postrema, sed una
velocis
Spartae catulos acremque Molossum
pasce
sero pingui: numquam custodibus illis
nocturnum
stabulis furem incursusque luporum
aut
impacatos a tergo horrebis Hiberos.
Il riconoscimento da parte di Virgilio dell’obbligo dell’uomo di
prendersi cura degli animali fa
emergere, in modo evidente, la linea di continuità della concezione virgiliana
con la speculazione filosofico-giuridica greca e romana sul ius naturale[265].
Sul piano specifico della concezione virgiliana del mondo
animale, la particolare attenzione di Virgilio per le api, la cui
organizzazione
[p. 177]
è
assunta a modello giuridico[266],
non può essere considerata fine a se stessa: in generale, infatti, si può
osservare che i riferimenti al mondo animale, presenti nei testi virgiliani,
quando anche assumano le forme letterarie di una similitudine, esprimono, il
più delle volte, il quadro delle relazioni tra l’uomo e gli altri esseri animati[267]:
Virgilio, georg.
4,153-157:
Solae communis natos, consortia tecta
urbis habent magnisque agitant sub legibus aevom,
et patriam solae et certos novere Penatis
venturaeque hiemis memores aestate laborem
experiuntur et in medium quaesita reponunt.
Si può osservare che Virgilio compie, attraverso il richiamo ad
alcuni dei più importanti rapporti e/o elementi in cui si esprime
l’organizzazione sociale delle api – l’avere figli, case, leggi, patria e
Penati in comune –, una rappresentazione sintetica della complessa nozione, sul
piano sociale, urbanistico e giuridico-religioso, di urbs-civitas[268].
Virgilio, inoltre, ancora sul piano giuridico-religioso,
[p. 178]
pone
l’accento sulla importanza del contributo di ogni essere animato alla pacifica
coesistenza[269],
richiamando in tal modo un concetto giuridico – quello di pax – di grande importanza per il diritto romano[270].
In quest’ultimo senso si può intendere
[p. 179]
la
chiusa finale “venturaeque hiemis memores
aestate laborem experiuntur et in medium quaesita reponunt”, nella quale
Virgilio descrive il sacrificio e il contributo comune di ognuna delle api come
gli elementi della pacifica coesistenza, destinata a durare in vita sino alla
eventuale rottura del patto sociale nel caso di morte del rex, quando, in presenza di un tale evento, le api devastano il
miele e rompono i favi:
Virgilio, georg. 4,212-214:
Rege incolumi mens
omnibus una est,
amisso rupere fidem constructaque mella
diripuere ipsae et crates solvere favorum.
Nel dipingere la relazione fra uomini e altri animali, Virgilio
insiste (anche) sul substrato naturalistico degli elementi e/o dei rapporti
sociali, nei quali si sostanzia la organizzazione delle api. È però possibile
sostenere che proprio accanto a questo substrato naturalistico sia anche
presente un riferimento dell’autore al ius:
in tal senso, deve essere inteso, anzitutto, ma non solo, il cenno alla procreazione
della prole, ciò che vale, assieme al riconoscimento della esistenza di leges all’interno dell’alveare, a
mettere in luce le analogie tra la concezione virgiliana e la concezione
ulpianea del ius naturale[271].
[p. 180]
Questo duplice riferimento ad un substrato naturalistico e al ius è ancora presente nella esaltazione
che Virgilio compie della morigeratezza delle api:
Virgilio, georg.
4,197-202:
Illum adeo placuisse apibus mirabere morem,
quod neque concubitu indulgent nec corpora segnes
in Venerem solvunt aut fetus nixibus edunt;
verum ipsae e foliis natos, e suavibus
herbis
ore legunt,
ipsae regem parvosque Quirites
sufficiunt aulasque et cerea regna refigunt.
In questo testo, però, il riferimento al substrato naturalistico,
presente nella descrizione delle api che mostrano la loro virtù evitando di
abbandonarsi ai piaceri, sembra quasi essere offuscato da un più marcato riferimento
al ius, che invece si esprime sia nel
riconoscimento di un mos che regola
il comportamento delle api, sia nell’impiego, per i piccoli delle api,
dell’epiteto, così solenne, di Quiriti,
che, costituendo il “termine più antico per indicare un membro del populus Romanus Quirites”[272],
assolve alla funzione di riconoscere un significato giuridico alla organizzazione
delle api[273].
Nella speciale considerazione da parte di Virgilio per il mondo
animale, inoltre, emerge, sia pure implicitamente, l’impiego dei criteri della aequitas[274]
e della utilitas[275] come parametri di differenziazione
[p. 182]
fra
il ius civile e il ius naturale[276].
L’impostazione di tale differenziazione, attraverso criteri, che i
giureconsulti Paolo, per quanto riguarda la aequitas,
e Ulpiano, per quanto riguarda la utilitas,
adoperano, presumibilmente per il tramite di Cicerone[277],
il primo per la definizione del ius naturale come ius semper aequum ac bonum[278],
e il secondo per la distinzione fra ius
publicum e ius
[p. 183]
privatum[279], nella opera virgiliana, risulta dalla considerazione
dell’autore per la condizione animale, in generale, e da quella per le api, in
particolare, la cui esistenza è assunta a modello proverbiale di cooperazione.
In questa prospettiva è possibile leggere tutta la descrizione virgiliana della
organizzazione dell’alveare, la quale sembra mettere particolarmente in risalto
la esistenza dell’accordo fra le api, le quali, in forza di tale accordo,
rinunciano alla loro utilitas
particolare al fine di perseguire l’utilitas
generale[280].
[p. 184]
Su un piano più generale, rispetto a quello relativo alla
attenzione di Virgilio per il mondo animale, ma sempre sulla linea del ius naturale, si colloca, inoltre, la
storicizzazione, compiuta dall’autore nella Eneide, del mito di Saturno, la
quale storicizzazione gli consente di rappresentare l’età aurea come
caratterizzata dalla assenza, oltre che della guerra, della proprietà privata,
della servitù e dei sacrifici cruenti[281].
Virgilio, nel manifestare la sua avversità per la guerra, che egli evita
accuratamente di definire come iusta,
esprime l’idea della estraneità della guerra, e, più in generale, dell’uomo
dalla natura. Come ha osservato Francesco Sini, il frammento dell’Eneide, nel
quale sono assieme presenti i termini bellum
e ius, non solo non depone a favore
di un “accostamento” fra essi, ma, al contrario, chiarisce gli elementi
concreti del rapporto fra il ius e
“la fine degli omnia bella ventura”[282],
in un quadro dal quale traspare l’idea che la pace rappresenti una condizione
essenziale di esplicazione del ius:
Virgilio, Aen. 9,641-644:
Macte nova virtute, puer: sic itur ad
astra,
dis
genite et geniture deos. Iure omnia bella
gente sub Assaraci fato ventura resident,
nec te Troia capit.
Nell’elaborare tale “schema argomentativo”, come lo ha definito
Pierangelo Catalano[283],
relativo alla riconducibilità del ius
naturale a un “inizio felice della storia degli uomini, anteriore cioè alle
lotte e divisioni prodotte dalla società”, Virgilio apre la strada ad uno
schema che verrà poi ripreso nei Digesta,
nelle Institutiones e nelle costituzioni
di Giustiniano[284].
[p. 185]
La riflessione filosofico pitagorico-empedoclea, per il tramite
di Cicerone, Seneca, Lucrezio, Virgilio, si trasmette, dunque, alla
giurisprudenza romana.
È notevole che proprio l’introduzione del passo del De republica ciceroniano (3,18-19),
sopra riportato, sulla comunione giuridica tra uomini e altri animali – esse enim
hoc boni viri et iusti,
tribuere id cuique quod sit
quoque dignum – ritorni nella notissima formula con la quale Ulpiano indicherà
i principi fondamentali del ius[285].
Il tribuere id cuique quod sit
quoque dignum del brano ciceroniano si pone, infatti, come precedente
della espressione ulpianea: D. 1,1,10,1 (Ulp. 1 reg.): iuris praecepta sunt haec: honeste vivere, alterum non laedere,
suum cuique tribuere. Ed è
anche notevole che l’idea della comunione giuridica tra uomini e altri animali,
riecheggiata ancora una volta nella opera di Cicerone – questa volta nel De officiis (1,17,53-54) – ritorni in
Ulpiano, precisamente nella sua celebre concezione del ius naturale, ove è evidente per quel riferimento alla coniunctio, alla procreatio e alla educatio
liberorum, il legame con la impostazione ciceroniana in tema di coniugium e di societas liberorum[286].
L’idea di un’unica condicio
iuris fra tutti gli esseri animati e
del commune ius animantium fonda,
quindi, la concezione ulpianea del ius
naturale:
D. 1,1,1,3 (Ulp. 1 inst.): Ius naturale est, quod natura omnia animalia docuit: nam ius
istud non humani generis proprium, sed omnium animalium, quae in terra, quae in
mari nascuntur, avium quoque commune est. hinc descendit maris atque feminae
coniunctio, quam nos matrimonium appellamus, hinc liberorum procreatio, hinc
educatio: videmus etenim cetera quoque animalia, feras etiam istius iuris
peritia censeri.
L’adozione di una terminologia differente per la designazione
degli istituti, riservati agli uomini, e per i corrispondenti istituti comuni
ad uomini e animali, se, da un lato, consente di accomunare
[p. 186]
tutti
gli esseri animati[287],
dall’altro, permette di distinguere il piano del ius naturale da quello
del ius gentium e del ius civile, in un quadro dal quale,
comunque, pare emergere l’unità del sistema giuridico[288]:
D. 1,1,1,4 (Ulp. 1 inst.): Ius gentium est, quo gentes humanae utuntur. quod a
naturali recedere facile intellegere licet, quia illud omnibus animalibus, hoc
solis hominibus inter se commune sit.
Una questione di particolare interesse, ai
fini del nostro studio, è quella relativa alla conoscenza da parte di Costantino
delle correnti filosofiche di favore per la condizione animale e contrarie ai
sacrifici di animali, e, quindi, relativa alla influenza di tali correnti
sull’imperatore.
Sin da ora, dobbiamo riconoscere che sarebbe vano, soprattutto
allo stato delle nostre ricerche e, ci sembra di poter affermare, anche alla
luce dello stato della dottrina, tentare di ricostruire una diretta e specifica
influenza di questo o di quell’altro autore su Costantino. Tuttavia, riteniamo
che, se dal piano particolare delle specifiche influenze si passa a quello
generale dell’ambiente culturale, nel quale Costantino dovette maturare le sue
scelte, sia allora possibile supporre che egli possedesse una conoscenza del
dibattito filosofico-giuridico relativo alla condizione degli animali.
[p. 187]
Per compiere tale analisi, dobbiamo considerare il fatto che
Costantino non era affatto un uomo privo di cultura, né, conseguentemente, estraneo
ai fermenti culturali dell’epoca. Sono, infatti, numerosi gli elementi che
depongono a favore di questa considerazione.
L’interesse dell’imperatore per la cultura del proprio tempo è
attestato dalle costituzioni con le quali egli stabilì alcune misure a favore
dei letterati. Si pensi, anzitutto, alla costituzione, del 1 agosto del 321,
CTh. 13,3,1, indirizzata a Volusiano, prefetto del pretorio, con la quale egli
disponeva l’esenzione dai munera per
medici, grammatici e altri professori, ordinando che ad essi fosse anche garantito
uno stipendio. E si pensi, inoltre, alla costituzione, del 27 settembre del
333, CTh. 13,3,3, indirizzata al popolo, con la quale egli confermava
l’esenzione per i professori di lettere e la estendeva anche ai familiari[289].
È stata vista una ulteriore attestazione
dell’interesse di Costantino per la cultura nella notizia, tramandata da
Giuliano, in merito alla benevolenza dimostrata dall’imperatore nei riguardi di
un centro culturale di enorme prestigio, quale era la città di Atene. Giuliano,
infatti, descrive il particolare entusiasmo dell’imperatore nell’apprendere
della sua nomina a stratego di Atene e della dedica a lui di una statua, a
seguito della quale vicenda egli aveva pensato di ricompensare gli onori
ricevuti con generose distribuzioni di grano alla città[290].
E ancora, si ricordi che le fonti attestano la preoccupazione dell’imperatore
per la educazione dei figli[291],
la cura per la redazione di componimenti di natura religiosa[292]
o l’interesse per gli studi liberali[293].
A dare sostegno alla nostra ipotesi, sono, però, soprattutto i
rapporti stretti da Costantino con alcuni letterati, specialmente
[p. 188]
filosofi,
considerati, in alcuni casi, a tal punto importanti da essere chiamati a ricoprire
cariche pubbliche di primo piano o comunque da essere tenuti in gran considerazione
presso l’imperatore[294].
Ci sembra, infatti, davvero difficile sostenere che Costantino, pur
intrattenendo rapporti così intensi, proprio con alcuni esponenti di quelle
stesse correnti filosofiche, che, direttamente o indirettamente, erano
coinvolte nel dibattito sul valore della vita animale e sui sacrifici di
animali, fosse completamente ignaro del dibattito stesso.
Tra questi rapporti, possiamo qui
richiamare quelli intrattenuti dall’imperatore con Ermogene, cultore degli
studi filosofici[295],
in particolare di quelli platonici e stoici, il quale aveva raggiunto la carica
di quaestor sacrii palatii, nel 330,
alla corte di Costantino[296].
E ancora quelli con Sopatro, il quale era succeduto a Giamblico nella direzione
della scuola neoplatonica[297],
a tal punto vicino a Costantino, da essere chiamato a sedere alla destra
dell’imperatore, in occasione dei riti di fondazione della città di Costantinopoli[298].
E, infine, quelli con Nicagora, sacerdote dei misteri eleusini[299],
filosofo neoplatonico, del quale le fonti attestano la gratitudine mostrata nei
riguardi di Costantino che gli aveva concesso di effettuare un viaggio a Tebe[300],
appartenente ad una antica famiglia di letterati ateniesi, probabilmente
discendenti da Plutarco[301].
Alla luce di questi rapporti, di natura
non solo personale ma anche politica, tra Costantino e alcuni esponenti di
quegli stessi orientamenti filosofici, nei quali la questione relativa al
valore etico della vita animale e quella sui sacrifici cruenti avevano
suscitato una vasta eco, è assai verosimile che l’imperatore, nel rifiutare
[p. 189]
di prendere parte ai sacrifici di animali e nell’emanare le
costituzioni in materia, fosse consapevole del significato che potevano
assumere le sue scelte di fronte ai cittadini.
Si può supporre che l’interesse di
Costantino per la cultura filosofica sia stato favorito dal mutamento della
religione cristiana da un generico atteggiamento di rifiuto verso la cultura
precristiana ad uno, più complesso, di apertura[302].
È rappresentativo di questa apertura il fatto che Origene, stando a Porfirio,
citato per l’occasione da Eusebio[303],
avrebbe avuto una certa conoscenza della filosofia pitagorica e di quella
stoica, in un periodo, durante il quale le relazioni tra cristiani e non
cristiani divenivano sempre più frequenti. In questo clima di apertura verso la
cultura precristiana, alcuni intellettuali cristiani potevano anche trovare il
modo di elogiare le antiche tradizioni, in quella parte, naturalmente, che si
era distaccata dai riti cruenti[304]:
così Eusebio, persino mentre confutava le idee di Platone, poteva mostrarsi
pieno di ammirazione nei confronti del filosofo greco[305].
Sono noti i rapporti di Costantino proprio
con alcuni intellettuali cristiani più aperti verso la cultura antica. Al
periodo trascorso da Costantino alla corte di Diocleziano, risaliva probabilmente
la sua amicizia con Lattanzio, giunto a Nicomedia per insegnare retorica latina[306].
Ed è senza dubbio anche in forza di tale amicizia che la concezione ulpianea
del ius naturale può avere esercitato
una influenza sull’imperatore[307].
Ed è anche probabile
[p. 190]
che, sempre a questo periodo, si debba far risalire la conoscenza
da parte di Costantino della filosofia porfiriana, allora assai diffusa in
Oriente[308],
proprio mentre Sopatro andava acquistando fama all’interno della scuola neoplatonica
di Giamblico, autore di una biografia di Pitagora, che come si ricorderà, aveva
con forza affermato il valore etico-giuridico della vita di tutti gli esseri
animati.
Al di là di queste pur significative
testimonianze, un posto importantissimo occupa
[p. 191]
l’imperatore non nasconde, nel capitolo IX del discorso, la
propria ammirazione[310].
Per quanto poi riguarda il problema della conoscenza puntuale del dibattito
relativo al valore della vita animale e alla questione dei sacrifici di
animali, è lo stesso Costantino a offrirci un indizio di tale conoscenza. Nella
Oratio ad sanctorum coetum, egli cita
Virgilio[311]
(del quale è noto il sentimento di particolare rispetto per gli animali[312])
come esempio di profezia dell’avvento del Cristianesimo.
Tale richiamo è della massima importanza
in quanto rivela, come è stato osservato[313],
“la continuità tra la nuova fede religiosa da lui appoggiata e le intuizioni
dei più grandi spiriti del mondo romano, laddove essi non avevano ceduto alla
tentazione di superstiziose credenze”.
Il rifiuto personale di Costantino dei sacrifici di animali ed il
loro divieto nella legislazione costantiniana non sono soltanto il prodotto
della adesione alla religione cristiana, ma sono piuttosto il frutto, a sua
volta fecondo, dell’incontro e della combinazione ‘mediterranei’ di culture
distinte, non opposte: la cultura filosofico-giuridica greco-romana e quella
teologica giudaico-cristiana.
L’imperatore che si propone la sintesi fra tali culture si
ispira, nel suo atteggiamento verso la condizione animale, a istanze di favore nei
confronti degli esseri animati ‘altri’ che l’uomo, già presenti nella filosofia
greca e nel diritto romano, ancora prima dell’avvento e della diffusione della
religione cristiana. Sulla linea di tale ispirazione, nel riprendere l’idea
filosofico-giuridica del
[p. 192]
valore
della vita animale, Costantino offre alla posizione espressa dal Cristianesimo,
nei confronti del sacrificio di animali, una via di realizzazione nel sistema
giuridico-religioso romano.
Il risultato della sintesi, al quale l’imperatore giunge, sul
piano specifico del rifiuto/divieto dei sacrifici animali, a sua volta, conduce
ad individuare una prospettiva più ampia, con esiti ancora più interessanti e
ricchi di sviluppi, sul piano complessivo della “interpretazione creativa” del
sistema giuridico-religioso romano, quale si perfeziona a partire da
Giustiniano. Costantino, come abbiamo visto[314],
seleziona alcuni filoni della cultura filosofico-giuridica greca e romana e
assegna ad essi un ruolo di primaria importanza, rispetto a quello che tali
filoni presentavano nel loro contesto originario, proprio a partire dalla
individuazione, nel tema della natura e della condizione animale, di una chiave
di lettura delle relazioni fra l’uomo e il mondo e di un aspetto centrale di
quel sistema.
In tale prospettiva, la scelta dell’imperatore di bandire la
violenza sacrificale è un riconoscimento, sul piano giuridico, della affinità
fra tutti gli esseri animati. Numerosi indizi, tra i quali, in particolare, il
ricordo di una sensibilità accentuata da parte di Costantino per alcune
problematiche di ‘ordine umanitario’[315],
la
[p. 193]
sua
attenzione, testimoniata dalla tradizione, per quegli speciali collaboratori
degli uomini che erano i cavalli[316],
l’emanazione di provvedimenti a tutela degli animali da lavoro, attestano il
passaggio da parte dell’imperatore dalla specifica questione sacrificale alla
generale questione della natura e della condizione animale.
Il carattere rivoluzionario, sul piano politico, religioso e
giuridico, di tale scelta, peraltro non esclusivamente ‘personale’, perché
tradotta, come si è visto, in un ‘complesso’ normativo, doveva apparire nella
rottura della precedente prassi: il rifiuto di Costantino di accettare onori
con spargimento di sangue sacrificale e lo svuotamento del valore del trionfo,
conseguente alla omissione del sacrificio, inaugurano un nuovo corso della
politica imperiale, imponendo, anche nel contesto della urbs-civitas, nuovi ‘spazi’ di riferimento giuridico alternativi al
Campidoglio. L’abbandono del tempio di Giove Ottimo Massimo da parte
dell’imperatore cristiano, al quale non è più consentito deporre l’alloro in
onore della divinità ‘pagana’, determina non solo un mutamento nel cerimoniale
pubblico, con la scomparsa del triumphus,
ma anche uno stravolgimento dei luoghi di riferimento e delle modalità di
espressione istituzionale del dibattito politico[317].
Tra i luoghi, destinati a divenire la sede privilegiata
[p. 194]
dell’incontro
fra l’imperatore e il popolo,
La scelta rivoluzionaria di Costantino si esprime, sul piano
strettamente giuridico, sia nel rifiuto traumatico di parti del sistema
giuridico-religioso, sia nella valorizzazione della continuità con il passato:
l’imperatore, infatti, nella regolamentazione giuridica del valore della vita
animale, insiste, come era già avvenuto nella cultura filosofico-giuridica greco-romana,
sulla prospettiva del sacrificio cruento come violazione del ius naturale.
Tale linea di continuità si esprime con particolare evidenza nel
richiamo da parte dell’imperatore a Virgilio, “esperto di diritto”[319],
il quale, assieme a Cicerone e a Lucrezio, costituisce,
[p. 195]
come
abbiamo visto[320],
uno dei più importanti canali attraverso i quali l’idea di una affinità tra
uomo e animali non umani dovette trovare diffusione in Roma.
Questa linea di continuità, ancora attraverso un richiamo a
Virgilio, sarà poi ripresa anche da Giustiniano, nelle Institutiones, nelle quali, a proposito del significato della
espressione ius civile, leggiamo:
I. 1,2,2: Sed quotiens non addimus, cuius
sit civitatis, nostrum ius significamus: sicuti cum poetam dicimus nec addimus
nomen, subauditur apud Graecos egregius Homerus, apud nos Vergilius.
Diverse sono le “implicazioni” di questo richiamo, che, come ha osservato
Pierangelo Catalano, non è una “semplice imitazione giurisprudenziale o
retorica né può essere assimilato all’utilizzazione di citazioni ed esempi
omerici”[321].
Quella che,
[p. 196]
fra
tali “implicazioni”, svela, in modo più evidente, la forza e il senso della
linea di continuità testé richiamata, risiede nella concezione giustinianea del
ius naturale. Attraverso questa linea
di continuità, per il tramite specifico di Ulpiano, e prima ancora, ma più in
generale, di Marciano, Giustiniano riprende e pone ormai in posizione cardinale
nel sistema l’idea del ius naturale come
ius comune a uomini e ad animali nei
due notissimi passi collocati in posizione corrispondentemente significativa
nei Digesta e nelle Institutiones:
D. 1,1,1,3 (Ulp. 1 inst.) Ius naturale est, quod natura omnia animalia docuit: nam ius
istud non humani generis proprium, sed omnium animalium, quae in terra, quae in
mari nascuntur, avium quoque commune est. Hinc descendit maris atque feminae
coniunctio, quam nos matrimonium appellamus, hinc liberorum procreatio, hinc
educatio: videmus etenim cetera quoque animalia, feras etiam istius iuris
peritia censeri.
e
I. 1,1,2 pr.: Ius naturale est, quod
natura omnia animalia docuit: nam ius istud non humani generis proprium, sed
omnium animalium, quae in caelo, quae in terra, quae in mari nascuntur. Hinc
descendit maris atque feminae coniugatio,
[p. 197]
quam nos matrimonium appellamus, hinc liberorum procreatio et educatio:
videmus etenim cetera quoque animalia istius iuris peritia censeri.
La prospettiva costantiniana del sacrificio cruento come
violazione del ius naturale nell’incontro
e nella combinazione ‘mediterranei’ della cultura filosofico-giuridica
greco-romana e di quella teologica giudaico-cristiana apre dunque la strada ad
un’altra prospettiva, quella giustinianea, il riferimento della quale al ius naturale appare essere la
maturazione dogmatico-sistematica di quello già costantiniano[322].
L’approfondimento sul tema del ius naturale, nel
muoversi lungo la linea interpretativa ora suggerita, consente alla visione
giustinianea una interpretazione “universalista” o “ecumenica” che caratterizza
lo sviluppo storico dell’intero ius
romanum, scandito nei tre ambiti concentrici del ius civile, ius gentium e
ius naturale, nella quale visione gli
animali, nell’ambito del ius naturale,
sono i destinatari del ius al pari
degli uomini[323].
[p. 198]
Rispetto a tali risultati, il contributo di Costantino, “santo” e
imperatore, appare essenziale.
(*)
Pubblicato in F. Sini-P.P. Onida
(a cura di), Poteri religiosi e istituzioni: il culto di San Costantino Imperatore
tra Oriente e Occidente, Torino 2003.
[1] V. infra pp. 98 ss.
[2] V. infra pp. 141 ss.
[3] V. infra pp. 119 ss.
[4] V. infra pp. 138 ss.
[5] In tal senso, H. Karpp,
“Konstantins Gesetze gegen die private Haruspizin aus den Jahren 319 bis
[6] Sul tema della conversione di Costantino, in generale, si
vedano: A. Alföldi, “The helmet
of Constantine with the christian monogram”, in Journal of Roman Studies, 22 (1932), pp. 9 ss.; Id.,
“‘Hoc signo victor eris’. Beiträge zur Geschichte der Bekehrung Konstantins
des Grossen”, in Pisciculi. Studien zur Religion und Kultur
des Altertums, F.J. Dölger zum 60. Geburtstage dargebracht, Münster 1939, pp. 1 ss.; J. Straub, Vom Herrscherideal in der Spätantike, Stuttgart 1939, p. 98; A. Piganiol, “L’état actuel de la
question constantinienne 1930/49”, in Historia,
1 (1950), pp. 82-90; A. Alföldi,
“The initials of Christ on the helmet of Constantine”, in Studies in Roman economic and social history in honor of A.Ch. Johnson, Princeton 1951, pp. 303 ss.; K.F. Stroheker, “Das Konstantinische
Jahrhundert im Lichte der Neuerscheinungen 1940-
[7] Sui problemi relativi alla conversione di Costantino, con
specifico riferimento alla battaglia di Ponte Milvio, si rinvia, per tutti, a A. Fraschetti, La conversione cit., pp.
9 ss., con ampio esame della letteratura precedente. Sulla datazione della
battaglia del Ponte Milvio, si vedano: P.
Bruun, “The battle of the Milvian Bridge: the date reconsidered”, in Hermes, 88 (1960), pp. 361 ss.; M.R. Alföldi-D. Kineast, “Zu P. Bruuns
Datierung der Schlacht an der Milvischen Brücke”, in Jahrbuch für Numismatik und Geldgeschichte, 11
(1961), pp. 33 ss.; P. Bruun, Studies in constantinian chronology, New York 1961, pp. 3-9; R. Andreotti, “Recenti contributi alla
cronologia costantiniana”, in Latomus,
23 (1964), pp. 537 ss.
[8] Sul carattere sacrificale della passione di Gesù, la letteratura
è immensa. Si vedano, per un primo esame: M.
Bacchiega, Il pasto sacro. Dal cannibalismo rituale all’ostia consacrata, Foggia 1982 (rist. an.
Foggia 1997), pp. 122; 245; G. Widengren,
Fenomenologia della religione, tr. it.
di G. Filoramo, Bologna 1984, pp. 442-457; M.
Cristiani, “Tempo rituale e tempo storico. Comunione cristiana e
sacrificio. Scelte antropologiche della cultura altomedievale”, in Segni e riti nella Chiesa altomedievale occidentale, 11-17 aprile 1985 (Settimane di studio sull’alto
medioevo, XXXIII), II, Spoleto 1987, pp. 439-504; G. Ashby, Sacrifice.
Its nature and purpose, London 1988; B. Forte,
[9] Sulla idea della supremazia dell’uomo sul resto degli altri
esseri viventi, per un primo esame, si vedano: M. Vegetti, Il coltello e lo stilo, 2 ed., Milano 1987, pp. 28; 95 ss.; P. Fedeli, La natura violata. Ecologia e mondo
romano, Palermo 1990, pp. 106 ss.; G. Lanata, “Antropocentrismo e
cosmocentrismo nel pensiero antico”, in Filosofi
e animali
nel mondo antico (a cura di S. Castignone-G. Lanata), Pisa 1994,
pp. 21 ss.
[10] Sulla affinità e sulla ambiguità del rapporto tra uomo e gli
altri animali, si veda J. Barreau,
“Animale”, in Enciclopedia Einaudi, I, Torino 1977, p. 576, il
quale osserva: “I rapporti tra uomo e animale sono tuttavia molteplici,
complessi e spesso ambigui: l’animale può essere risorsa, compagno familiare,
oggetto di paura, pretesto di derisione, vittima rituale, essere sacro,
simbolo sociale, selvaggina in una caccia gratuita, specchio dell’uomo … In
seno a una stessa cultura, e a seconda della specie, l’animale potrà essere
amato, cacciato, venerato, consumato, disprezzato, oggetto di proibizione,
idealizzato …”. B. Snell, La cultura
greca e le origini del pensiero europeo, tr. it. di V. Degli Alberti-A. Solmi Marietti, Torino
1963, p.
[11] Manca ancora oggi uno studio di sintesi sulla condizione
giuridica dell’animale nell’antichità. Ci sia consentito di rinviare al nostro
lavoro P.P. Onida, Studi sulla condizione degli animali non
umani nel sistema giuridico romano, Torino 2002. Per quanto concerne lo
studio della condizione animale nell’antichità, sotto il profilo filosofico,
l’opera fondamentale resta quella di U.
Dierauer, Tier und Mensch im
Denken der Antike. Studien zur Tierpsychologie, Anthropologie und Ethik,
Amsterdam 1977; si vedano, inoltre, per lo studio della condizione animale
nell’antichità: M.V. Bacigalupo, Il problema
degli animali nel pensiero antico, Torino 1965; J.M.C.
Toynbee, Animals in Roman
Life and Art, London 1973; P. Vidal-Naquet, “Bêtes, hommes et
dieux chez les grecs”, in Hommes et bêtes:
entretiens sur le racisme (sous la direction de L. Poliakov), Paris-La Haye 1975, pp.
129-142; L. Bodson, Hiera Zôia. Contribution à l’étude de la
place de l’animal dans la
religion grecque ancienne,
Bruxelles 1978; M. Vegetti, op. cit.,
pp. 15 ss.; R. Delort, L’uomo e gli animali dall’età della pietra a oggi, tr. it. di F.
Villari, Roma-Bari 1987; P. Lèvêque,
Bestie dei uomini. L’immaginario delle prime religioni, tr. it. di C. Antonetti, Roma
1991; R. Sorabji, Animal mind and human moral. The origin of Western debate, London 1993; Filosofi e animali nel mondo
antico cit., passim; Tiere und Menschen.
Geschichte und Aktualität eines prekären Verhältnisses (hrsg. von P. Münch-R. Walz), Paderborn 1997; L’animal dans l’antiquité (éd. par. B. Cassin-J.L. Labarrière) (sous la
direction de G. Romeyer Dherbey),
Paris 1997, con rinvii alla letteratura. Una
riflessione generale, sul tema del rapporto uomo e ambiente nell’antichità, è
in P. Fedeli, La natura
violata. Ecologia e mondo romano cit., pp. 17 ss.; Id., “Uomo e ambiente nel mondo
romano”, in Diritto latinoamericano e
sistema ecologico mondiale (=Ricerche
giuridiche e politiche [a cura di M.
Benarros-M.R. Mezzanotte]), Rendiconti VI, Sassari 1992, pp. 19-36. Sul
tema dell’ambiente nell’antichità, si vedano inoltre: O. Longo, “Ecologia antica. Il rapporto uomo/ambiente in
Grecia”, in Aufidus, 6 (1988), pp.
3-30; P. Pisani, Uomo, natura, ambiente nella letteratura latina (Urbanizzazione ed urbanesimo, tutela dell’ambiente e “problemi ecologici” a Roma dall’età
di Cesare a quella di Traiano), Genova 1990;
R. Sallares, The Ecology of the
ancient Greek world, New York
1991; M.S. Spurr, “Percezioni
della natura nel mondo romano”, in Aufidus,
22 (1994), pp. 37-54; Latina Didaxis XI. Atti
del congresso, Bogliasco, 30-31 marzo 1996. L’uomo e la natura (a cura di S. Rocca),
Genova 1996; L’uomo antico e la natura. Atti del convegno
nazionale di studi, Torino 28-29-30 aprile 1997 (a cura di R. Uglione), Torino 1998. Una preziosa raccolta delle fonti
in materia di ambiente è quella di G.
Panessa, Fonti greche e latine per la
storia dell’ambiente e del clima
nel mondo greco, I-II, Pisa
1991. Sui problemi giuridici relativi all’inquinamento, si vedano: E. Nardi, “Inquinamento e diritto
romano”, in Studi in onore
di T. Carnacini, III, Milano
1984, pp. 757-768 (=Id., Scritti minori, I, Bologna 1991, pp.
584-596); A. Di Porto, “La tutela
della salubritas fra editto e
giurisprudenza. Il ruolo di Labeone. I - acque”, in Bullettino dell’Istituto di Diritto
Romano, 91 (1988), pp. 459-570; Id., “La tutela della salubritas fra editto e giurisprudenza.
Il ruolo di Labeone. II - Cloache e salubrità dell’aria”, in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano, 92 (1989), pp. 271-309 (=Id.,
La tutela della “salubritas” fra editto e giurisprudenza, I. Il
ruolo di Labeone, Milano 1990);
Id., “La gestione dei rifiuti in
Roma fra tarda repubblica e primo impero. Linee di un ‘modello’”, in
Societas-ius. Munuscula di allievi a Feliciano Serrao, Napoli 1999, pp. 41-64; F. Sitzia, Aqua pluvia e natura agri. Dalle XII tavole al pensiero di Labeone,
Cagliari 1999, p. 98 nt. 46.
[12] Per un primo, parziale, esame della immensa bibliografia sulla
tricotomia ius civile-gentium-naturale, o, più specificatamente, sul ius naturale,
si vedano: M. Voigt, Das ius naturale aequum et bonum und ius gentium der Römer, Leipzig
1856-1875 (rist. Aalen 1966); C. Longo,
“Note critiche a proposito della tricotomia ius
naturale, gentium, civile”, in Rendiconti del Reale Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, 40
(1907), pp. 634 ss.; H. Goudy, Trichotomy in Roman Law, Aalen 1910; F. Senn, De la justice
et du droit, Paris 1927; E. Albertario, “Concetto classico e
definizioni postclassiche del ius naturale”, in Rendiconti del Reale Istituto Lombardo
di Scienze e Lettere, 57 (1924), pp. 168 ss. (=Id.,
Studi di diritto romano, V. Storia metodologia esegesi, Milano 1937, pp.
277 ss.); C.A. Maschi, La concezione
naturalistica del diritto e degli
istituti giuridici romani, Milano
1937, pp. 284 ss.; M. Lauria, “Ius gentium”,
in Festschrift P. Koschaker, I, 1939,
pp. 262 ss.; G. Lombardi, Ricerche in tema di “ius gentium”, Milano 1946; Id., Sul concetto di “ius gentium”, Roma 1947; P. Frezza, “Ius gentium”, in Revue Internationale des Droits de l’Antiquité, 2 (1949),
pp. 259 ss.; E. Levy, “Natural
Law in Roman Thought”, in Studia et Documenta
Historiae et Iuris, 15 (1949), pp.
1 ss. (=Id., Gesammelte Schriften, I,
Köln-Graz 1963, pp. 1 ss.); G. Lombardi,
“Diritto umano e ius gentium”, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 16 (1950), pp.
254 ss.; B. Biondi, Il diritto
romano cristiano, II. La giustizia-Le persone, Milano 1952,
pp. 4 ss.; J. Gaudemet, “Quelques
remarques sur le droit naturel à Rome”, in Revue
Internationale des Droits de l’Antiquité,
1 (1952), pp. 452 ss.; R. Voggensperger,
Der Begriff des “Ius naturale” im römischen Recht, Basel
1952; M. Bartosek, “Sulla
concezione ‘naturalistica’ e materialistica dei giuristi romani”, in Studi in memoria di E.
Albertario, II, Milano 1953, pp. 463
ss.; M. Villey, “Deux conceptions
du droit naturel dans l’antiquité”, in Revue
historiques de droit français et étranger, 31 (1953),
pp. 475 ss.; A. Burdese, “Il
concetto di ius naturale nel pensiero della giurisprudenza classica”, in Rivista italiana per le scienze
giuridiche, 90 (1954), pp. 407 ss.; C.A. Maschi, “Il diritto naturale come
ordinamento giuridico inferiore?”, in L’Europa
e il
diritto romano. Studi in memoria
di P. Koschaker, II, Milano
1954, pp. 425 ss.; G. Crifò,
“Diritti della personalità e diritto romano cristiano”, in Bullettino dell’Istituto di Diritto
Romano, 64 (1961), pp. 41 ss.; G. Nocera, Ius naturale nell’esperienza giuridica romana, Milano
1962; A. Burdese, “Ius naturale”,
in Novissimo Digesto Italiano, IX,
Torino 1963, pp. 383-385; G. Grosso,
Problemi generali del diritto attraverso il diritto romano, 2 ed., Torino 1967, pp. 99 ss.; D. Nörr, Rechtskritik in der römische
Antike, München 1974, pp. 21 ss.; 89
ss.; P. Stein, “The development
of the notion of naturalis ratio”, in Daube noster. Essays in
legal history for David Daube (ed. by A. Watson),
Edinburgh-London 1974, pp. 305 ss.; G.G.
Archi, “Lex e natura nelle istituzioni di Gaio”, in Festschrift für Werner Flume zum 70. Geburtstag, I, Köln 1978, pp. 3 ss (=Id.,
Scritti di diritto romano, I. metodologia e giurisprudenza.
Studi di diritto privato, 1, Milano 1981, pp. 139 ss.); F.
Camacho Evangelista, “‘Ius naturale’ en las fuentes jurídicas romanas”,
in Estudios jurídicos en homenaje al
prof. U. Alvarez Suárez, Madrid 1978, pp. 45 ss.; P. Didier, “Les diverses conception du droit naturel à
l’œuvre dans la jurisprudence romaine du IIe et IIIe siècles”, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 47 (1981), pp.
201 ss.; J. Plescia, “A view of
natural law”, in Sodalitas, VII,
Napoli 1984, pp. 3577-3591; W. Waldstein,
“Bemerkungen zum ‘ius naturale’ bei
den klassischen Juristen”, in Zeitschrift
der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte (Rom. Abt.), 105 (1988),
pp. 702 ss.; F. Sini, Bellum
nefandum. Virgilio e il
problema del “diritto internazionale antico”, Sassari 1991, pp. 216 ss.; M. Bretone, Storia del diritto
romano, Roma-Bari 1992, pp. 323 ss.; M. Kaser, Ius gentium, Köln-Weimar-Wien
1993, pp. 54 ss.; 98 ss.; M. Talamanca,
rec. a M. Kaser, Ius gentium
cit., pp. 272 ss.; L.C. Winckel,
“Einige Bemerkungen über ius naturale und ius gentium”, in Ars boni
et aequi. Festschrift für
W. Waldstein zum 65 Geburtstag
(hrsg. von M.J. Schermaier-Z. Végh),
Stuttgart 1993, pp. 443 ss.; W.
Waldstein, “Ius naturale im nachklassischen römischen
Rech und bei Juristen”, in Zeitschrift
der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte (Rom. Abt.), 111 (1994), pp. 1
ss.; S. Querzoli, Il sapere
di Fiorentino. Etica, natura e logica nelle Institutiones, Napoli 1996, pp. 75
ss.; M. Bretone, I fondamenti
del diritto romano. Le cose
e la
natura, Roma-Bari 1998, pp. 101 ss.; M. Talamanca, “Ius gentium: da Adriano
ai Severi”, in La codificazione del diritto dall'antico al moderno. Incontri di studio. Napoli, gennaio-novembre 1996 (a
cura di E. Dovere), Napoli 1998; A. Burdese, “‘Res incorporalis’” quale fondamento culturale del diritto romano”,
in Labeo, 45 (1999), pp. 108 ss.; M.P. Baccari, Concetti ulpianei per il “diritto di famiglia”, Torino 2000; F. Cancelli, Le leggi divine di Antigone e il
diritto naturale, Roma 2000; M.P.
Baccari, “Il conubium nella
legislazione di Costantino”, in questa stessa pubblicazione, in part. paragrafo
5.
[13] Sul sacrificio incruento, si vedano, per tutti: M. Vegetti, op. cit., pp. 20 ss.; G. Camassa, “Frammenti del bestiario
pitagorico nella riflessione di Porfirio”, in Filosofi e animali nel mondo antico cit., p. 90; C. Grottanelli, Il sacrificio cit., pp.
39 ss., con rinvii alla bibliografia; L.
Repici, “Aristotele, Teofrasto e il problema di una giustizia verso le
piante”, in Il dibattito etico e politico
in Grecia tra il V
e il
IV secolo (a cura di M. Migliori),
Napoli 2000, p. 554. Sul sacrificio animale, nella cultura greca e latina, la
letteratura è vastissima. Per un primo esame, tralasciando le sintesi
manualistiche di storia della religione romana, si vedano: E. Kadletz, Animal sacrifice in Greek
and Roman religion, (Diss.) Ann Arbor 1976; Le sacrifice dans l’Antiquité
(Entretiens sur l’Antiquité classique, 27), Genève 1981; W. Burkert, Homo necans. Antropologia del sacrifico cruento nella Grecia antica, tr. it. di F. Bertolini, Torino 1981; Aa.Vv., La cucina del sacrificio
in terra greca (a cura di M. Detienne-J.P. Vernant), tr. it. di
C. Casagrande-G. Sissa,
Torino 1982; G. Berthiaume, Les Rôles
du mageiros. Etude sur la
boucherie, la cuisine et le
sacrifice dans
[14] Sulla coincidenza tra uccisione dell’animale e nozione di
sacrificio v. C. Grottanelli, Il sacrificio
cit., pp. 41 ss.
[15] G. Dumézil, La religione
romana arcaica, tr. it. di F. Jesi, Milano 1977, pp. 476-477.
[16] Cfr. J. Scheid,
“La spartizione sacrificale a Roma”, in Aa.Vv.,
Sacrificio e società nel mondo
antico cit., pp. 267 ss. Si veda,
inoltre, C. Santini, “Sul lessico
del sacrificio”, ibidem, pp. 293 ss.
[17] Così J. Scheid,
“La spartizione sacrificale a Roma” cit., p. 270. Cfr., inoltre, E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, II. Potere,
diritto, religione, Torino 1976, il quale osserva come sia la nozione stessa
di sacrificio a evidenziare un esso con lo spargimento di sangue: “Inoltre, è
il rapporto stabilito tra sacer e sacrificare che ci permette di
comprendere al suo meglio il meccanismo del sacro e la relazione col
sacrificio. Questo termine di ‘sacrificio’ che ci è familiare associa una
concezione e un’operazione che sembrano non avere nulla in comune. Perché
‘sacrificare’ vuol dire di fatto ‘mettere a morte’ quando propriamente
significa ‘rendere sacro’ (cfr. sacrificium)?
Perché il sacrificio comporta necessariamente una condanna a morte?
[18] Eusebio, vita Const. 1,48 (74). Sul punto si veda A. Fraschetti, La conversione cit., pp.
23; 77, con rinvii alla letteratura.
[19] Si veda A. Fraschetti,
La conversione cit., pp. 105 ss., il quale sembra dare per certo il
nesso tra le costituzioni costantiniane e i sacrifici di animali: “Il cristiano
Costantino non può assistere a sacrifici; dunque all’evenienza, benché
nominalmente pontefice massimo, non può neppure partecipare insieme a senatori
pagani di Roma al ‘ludorum epulare sacrificium’ del 13 settembre quello che precedeva necessariamente
il banchetto vero e proprio, allestito con le carni delle vittime sacrificate”.
[20] Cfr. M.
Pérez Medina, “Sobre la prohibición de sacrificios por Constantino”
cit., p. 237.
[21] Eusebio, vita Const.
1,37; 1,38,1-5; Paneg. 9,2,4-5. Sulla
convinzione di Costantino di dovere la sua vittoria al dio dei cristiani, si
vedano: R. Farina, L’impero e l’imperatore cristiano in Eusebio di Cesarea.
La prima teologia politica del Cristianesimo, Zürich
1966, pp. 200 ss.; A. Alföldi, Costantino tra paganesimo e cristianesimo
cit., p. 54; L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., pp. 16
ss.; R. Lane Fox, op. cit.,
pp. 664 ss.; A. Fraschetti, La conversione
cit., pp. 13 ss.; 28 ss.; 250 ss., con rinvii alla letteratura. Per un quadro del
pensiero di Costantino alla luce dei panegirici, si vedano: C. Castello, “Il pensiero
politico-religioso di Costantino alla luce dei panegirici”, in Accademia romanistica costantiniana, Atti I
Convegno Internazionale (Spello-Foligno-Perugia, 18-20 settembre 1973), Napoli 1975, pp. 47 ss.; M.J. Rodríguez, Propaganda política y opinión
publica en los panegíricos latinos del bajo imperio,
Salamanca 1991, pp. 92 ss.; K. Rosen,
“Constantins Weg zum Christentum und die ‘Panegyrici
Latini’”, in Costantino il Grande. Dall’Antichità all’Umanesimo
cit., II, pp. 853 ss. L’edizione di riferimento per la numerazione dei
Panegirici è Panégyriques latins, t. II. Les Panégyriques
constantiniens (par E. Galletier), Paris 1952. Per un
quadro generale sui panegirici latini, si veda, da ultimo, D. Lassandro, “Introduzione”, in Panegirici latini (a cura di D.
Lassandro-G. Micunco),
Torino 2000, con rinvio alla letteratura.
[22] Sulla contrapposizione fra i “difetti del tiranno” e le qualità
dell’imperatore, si veda R. Farina,
L’impero e l’imperatore cristiano in Eusebio di Cesarea
cit., pp. 206-235.
[23] Eusebio, vita Const. 1,48, pone in evidenza che la
celebrazione dei decennali di
Costantino avvenne con “sacrifici privi di fuoco e di fumo”. Cfr. A. Hamman, “La prière chrétienne et la
prière païenne, formes et différences”, in Aufstieg
und Niedergang der römischen Welt, II.23.2, Berlin-New York 1980, pp. 1193 ss.; S. Bradbury, “Constantine and the problem
of anti-pagan legislation in the fourth century”, in Classical Philology, 89
(1994), pp. 129 ss.; Id.,
“Julian’s pagan revival and the decline of blood sacrifice”, in Phoenix, 49 (1995), pp. 331 ss.; A. Fraschetti, La conversione cit., pp.
23 e nt. 21 ss.
[24] Cfr. L. De Giovanni,
Costantino e il mondo pagano cit., pp. 74
ss., che richiama Eusebio, hist. eccl. 8,14,5.
[25] Eusebio, laus Const. 9,9; vita Const. 1,37; 1,39,3;
4,19; 4,29,3. Sulla “fiducia in Dio” da parte dell’imperatore, cfr. R. Farina, L’impero e l’imperatore cristiano in Eusebio di Cesarea cit., pp. 190;
200 ss.
[26] Sulla concezione del tiranno in Eusebio, si veda R. Farina, L’impero e l’imperatore cristiano in Eusebio di Cesarea cit., pp. 224
ss. Si
vedano, inoltre: J. Scheid, “La
mort du tyran. Chronique de quelques morts programmées”, in Du châtiment
dans la cité. Supplices corporels et peine de mort dans le
monde antique, Roma 1984, pp. 177 ss.; V.
Neri, “L’usurpatore come tiranno nel lessico politico della tarda
antichità”, in Usurpationen in der
Spätantike. Akten des Kolloquiums “Staatsreich und Staatlichkeit”, 6-10 März 1996
(hrsg. F. Paschoud-J. Szidat),
Stuttgart 1997, pp. 71 ss.
[27] Eusebio, vita Const. 1,13,3; 3,1,5.
[28] Eusebio, vita Const. 1,27,1; 2,4,2-3.
[29] Eusebio, hist. eccl. 8,14,5; vita Const. 1,36.
[30] Eusebio, hist. eccl. 2,25,3. Sulla ‘eusebeia’ si veda
la relazione di R. Farina, “La pietas del servo di dio Costantino
imperatore. Santità e culto di Costantino imperatore nella ‘vita di Costantino’
di Eusebio di Cesarea”, in questa stessa pubblicazione, in part. capitolo 2.
Dello stesso autore, inoltre, si veda Id.,
L’impero e l’imperatore cristiano in Eusebio di Cesarea
cit., pp. 211 ss.
[31] Sugli actus Silvestri e sul battesimo di Costantino,
per tutti, si vedano: V. Aiello,
“Costantino, la lebbra e il battesimo di Silvestro”, in Costantino il Grande. Dall’Antichità all’Umanesimo
cit., I, pp. 18 ss. e nt. 5; A.
Fraschetti, La conversione cit., pp. 109 ss., con
rinvii alla letteratura.
[32] Sulla datazione degli actus
Silvestri, si vedano le opere citate
alla nt. precedente.
[33] Sulla tradizione che vede Costantino essere un feroce
persecutore dei cristiani, si veda A.
Fraschetti, La conversione cit., p. 109, con rinvii
alla letteratura.
[34] Cfr. A. Fraschetti,
La conversione cit., pp. 5 ss.; 76; 81; 123-124, il quale, criticando
la datazione comunemente accolta in dottrina a partire da Otto Seeck, ritiene
possibile, per gli adventus di
Costantino a Roma nel 315 e nel 326, oltre al 21 luglio, anche la data del 18
dello stesso mese.
[35] Sulla datazione del racconto di Zosimo si veda, per tutti, da
ultimo A. Fraschetti, La conversione
cit., pp. 87 ss., con ampio esame della letteratura precedente.
[36] L’Egizio, al quale fa riferimento Zosimo, deve essere
identificato, con ogni probabilità, con Ossio di Cordova. Si veda, per tutti, A. Fraschetti, La conversione cit., p.
90.
[37] Sulla natura della “festa patria” del racconto di Zosimo, v. infra pp. 106 ss.
[38] Sul rifiuto di Costantino di salire al Campidoglio, si vedano: J. Straub, “Konstantins Verzicht auf
den Gang zum Kapitolol”, in Historia,
4 (1955), pp. 297-313 (=Id.,
Regeneratio imperii. Aufsätze über Roms
Kaisertum und Reich im Spiegel
der heidnischen und Christlichen Publizistik, Darmstadt 1972, pp. 100-118), che riporta l’episodio
al 313; F. Paschoud, “Zosime 2,29
et la version païenne de la conversion de Constantin”, in Historia, 20 (1971), pp. 334-353 (=Id., Cinq études sur Zosime, Paris 1975,
pp. 24-62 ss.), invece, propende per il 326; T.D.
Barnes, Constantine and Eusebius
cit., p. 44; V. Neri, Ammiano e il Cristianesimo. Religione e politica
nelle ‘Res gestae’ di Ammiano
Marcellino, Bologna 1985, p. 36 nt.
68; L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., p. 19
nt. 6; R. Lane Fox, op. cit.,
pp. 675 ss.; F. Paschoud, “Ancora
sul rifiuto di Costantino di salire al Campidoglio”, in Costantino il Grande. Dall’Antichità all’Umanesimo
cit., II, pp. 737 ss.; G. Bonamente,
“La ‘svolta costantiniana’” cit., pp. 110 ss.; A. Fraschetti, La conversione cit., pp. 107 ss.
[39] J. Straub,
“Konstantins Verzicht auf den Gang zum Kapitol” cit., pp. 297 ss.; Id., “Constantine as koinÕj ™p…skopoj.
Tradition and innovation in the representation of the first christian emperor’s
majesty”, in Dumbarton Oaks Papers,
21 (1967), pp. 41-42. Prima ancora dello Straub, aveva notato la omissione
della cerimonia P. Franchi de’ Cavalieri,
Constantiniana, Città del Vaticano 1953, p.
[40] Paneg. 9,12,1; 9,19,3.
[41] Eusebio, hist. eccl. 9,9,9; vita Const. 1,39,1.
[42] Paneg. 10,19,3.
[43] Paneg. 10,23,1.
[44] J.
Straub, “Konstantins Verzicht auf den Gang zum Kapitol”
cit., pp. 209 ss.
[45] A.
Alföldi, “Die Ausgestaltung des monarchischen Zeremoniells
am römischen Kaiserhofe”, in Mitteilungen
des Deutschen Archäologischen
Instituts (Römische Abteilung), 49
(1934), pp. 3-118; Id.,
“Insignien und Tracht der römischen Kaiser”, in Mitteilungen des Deutschen Archäologischen Instituts
(Römische Abteilung), 50 (1935), pp. 3-158; Id.,
Costantino tra paganesimo e cristianesimo
cit., p. 54.
[46] Sulla ideologia connessa al culto di Giove,
si veda J.R. Fears, “The cult of Jupiter
and Roman imperial ideology”, in Aufstieg
und Niedergang der römischen Welt, II.17.1, Berlin-New York 1981, pp. 7 ss.
[47] F.
Paschoud, “Zosime 2,29 et la version païenne de la
conversion de Constantin” cit., pp. 334 ss.
[48] Zosimo 2,29,5.
[49] Gli elementi, che giustificherebbero, secondo F. Paschoud, “Zosime 2,29 et la version
païenne de la conversion de Constantin” cit., pp. 339 ss., la separazione del V
paragrafo dal resto del racconto di Zosimo, sono diversi: in particolare i
primi contatti tra Costantino e l’Egizio, da identificarsi quasi certamente con
Ossio di Cordova, risalirebbero già al 312; inoltre, la diffidenza di
Costantino nei confronti della divinazione sarebbe presente nei provvedimenti
da lui adottati sin dal 319.
[50] F.
Paschoud, “Zosime 2,29 et la version païenne de la
conversion de Constantin” cit., pp. 339 ss.
[51] F. Paschoud,
“Ancora sul rifiuto di Costantino di salire al Campidoglio” cit., pp. 736; 748.
[52] F. Paschoud,
“Ancora sul rifiuto di Costantino di salire al Campidoglio” cit., pp. 738-739.
[53] F.
Paschoud, “Zosime et Constantine. Nouvelles controverses”, in Museum Helveticum, 54 (1997), pp. 22 ss., in risposta a G. Fowden, “The last days of
Constantine: oppositional version and their influence”, in Journal of Roman Studies, 84 (1994), pp. 146-170. Questa
lettura di François Paschoud, per la sua elasticità, ci pare ancora più
apprezzabile e ricca di suggestioni di quella alla quale egli, in passato,
aveva sottoposto il testo di Zosimo. Bisogna ammettere che il racconto di
Zosimo nulla ci dice di preciso sulla natura della festa. Se ciò lascia il
campo alle più disparate ipotesi, si deve anche riconoscere che ogni rigida ricostruzione
in materia rischia di essere non solo arbitraria, ma anche, tutto sommato,
sterile. Cfr. ora le condivisibili osservazioni di F. Paschoud, “Ancora sul rifiuto di Costantino di salire al
Campidoglio” cit., p. 740.
[54] Cfr. G. Bonamente,
“Eusebio, Storia ecclesiastica IX 9 e la versione cristiana del trionfo di
Costantino nel
[55] A. Fraschetti, La conversione
cit., pp. 5 ss.; 19 ss.; 126 ss. Si veda, però, la risposta ad Augusto
Fraschetti di F. Paschoud, “Ancora
sul rifiuto di Costantino di salire al Campidoglio” cit., pp. 737 ss.
[56] Il panegirico del 313 parla di ioci triumphales: Paneg. 9,12,1; 9,18,3.
[57] Paneg. 10,30,5: Nulli tam laeti triumphi; 10,32,1: Quis triumphus illustrior?
[58] A. Fraschetti, La conversione
cit., pp. 50 ss. Sulla concezione del trionfo nella storia costituzionale
romana, si veda A. Petrucci, Il trionfo
nella storia costituzionale romana dagli inizi della repubblica ad Augusto, Milano 1996, con ampi
riferimenti alla letteratura.
[59] CIL VI,1139=ILS 694.
[60] Cfr. A. Fraschetti,
La conversione cit., p. 51.
[61] Cfr. H.
Stern, Le calendrier du 354. Etude
sur son texte et ses
illustrations, Paris 1953, p. 162.
[62] A. Fraschetti, La conversione
cit., pp. 52-53; 62, osserva che il calendario di Filocalo al 29 ottobre, in
relazione a Costantino, registra un adventus
Divi. L’espressione “per amore della
consuetudine”, utilizzata da Augusto Fraschetti, (p. 52), è tratta da Simmaco (rel. 3,3: consuetudinis amor magnus est), che la impiega, a proposito del culto della dea Vittoria,
definito: “amicum triumphis patrocinium”.
[63] A. Fraschetti, La conversione
cit., pp. 94 ss., il quale richiama Libanio, or. 19,19; 20,24. Cfr. inoltre H.U.
Wiemer, “Libanius on Constantine”, in Classical Quarterly, 44
(1994), pp. 511 ss.; P.L. Malosse,
“Libanius on Constantine again”, in Classical
Quarterly, 47 (1997), pp. 519 ss.
[64] Si vedano: Th. Mommsen,
Römische Staatsrecht, IV, Leipzig 1887, p. 493 nt. 1; A. Piganiol, L’empire chrétien: 325-395, 2 ed., Paris 1972, pp. 39 ss.
[65] A. Fraschetti, La conversione
cit., p. 94.
[66] A. Fraschetti, La conversione
cit., p. 98 e nt. 35, il quale cita M.R.
Salzman, On roman time. The codex-calendar
of 354 and the rhythms
of urban life in late
antiquity, Berkley-Los Angeles-Oxford
1990, p. 120.
[67] Sull’epulum Iovis si vedano, con rinvii alla
letteratura: J. Scheid,
“Sacrifice et banquet à Rome”, in Mélanges
d’Archéologie et d’Histoire de l’Ecole
Française de Rome, 97 (1985); Id., “La spartizione sacrificale a
Roma”, in Aa.Vv., Sacrificio e società nel mondo
antico cit., pp. 280-281.
[68] A. Fraschetti, La conversione
cit., pp. 100 ss.
[69] A. Fraschetti, La conversione
cit., pp. 103 ss.
[70] Si tratta di un seminario, sul tema “Poteri religiosi e
Istituzioni: il culto di San Costantino Imperatore tra oriente e occidente”,
tenutosi a Sassari-Sedilo-Oristano, dal 3 al 6 luglio 1999, organizzato dal
Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Sassari, nel quadro del
progetto strategico del Consiglio Nazionale delle Ricerche su “Sistemi
giuridici del Mediterraneo”, coordinato dall’ISPROM-Istituto di Studi e
Programmi per il Mediterraneo. Attilio Mastino ha letto la sua relazione, a
Oristano, il 6 luglio 1999.
[71] Desidero ringraziare Attilio Mastino, per avermi cortesemente
consentito la lettura della sua relazione, prima ancora della sua
pubblicazione.
[72] Cfr. P. Ruggeri,
“La casa imperiale”, in Aa.Vv., Uchi Maius,
1. Scavi e ricerche epigrafiche in Tunisia (a cura di M. Khanoussi-A. Mastino), Sassari 1997,
p. 158, con rinvii alla letteratura.
[73] Sul divieto di Costantino dei sacrifici di animali, v. infra, pp. 119 ss.
[74] Paneg. 9,12,1; 9,19,3.
[75] Cfr. L. De Giovanni,
Costantino e il mondo pagano cit., p. 18
nt. 6; G. Bonamente, “La ‘svolta
costantiniana’” cit., p. 113; A.
Fraschetti, La conversione cit., pp. 10 ss.
[76] Cfr. A. Fraschetti,
La conversione cit., pp. 22 ss.
[77] F.
Paschoud, “Zosime 2,29 et la version païenne de la conversion
de Constantin” cit., pp. 351 ss.
[78] G. Bonamente,
“Eusebio, Storia ecclesiastica IX 9 e la versione cristiana del trionfo di
Costantino nel
[79] Sul carattere precoce della conversione di Costantino, insiste
ora A. Fraschetti, La conversione
cit., pp. 15 ss., con rinvii alla letteratura.
[80] Cfr. T.V.
Buttrey, “The dates of the arches of Diocletian and Constantine”, in Historia, 32 (1983), pp. 375 ss.
[81] Cfr. L. De Giovanni,
Costantino e il mondo pagano cit., p. 18;
G. Bonamente, “Eusebio, Storia
ecclesiastica IX 9 e la versione cristiana del trionfo di Costantino nel
[82] Cfr. A. Fraschetti,
La conversione cit., pp. 26 ss., con rinvii alla letteratura.
[83] Per questi rilievi, relativi all’Arco di Costantino, si veda,
per tutti, G. Bonamente,
“Eusebio, Storia ecclesiastica IX 9 e la versione cristiana del trionfo di
Costantino nel
[84] V. supra pp. 113 ss.
[85] A. Fraschetti, La conversione
cit., pp. 9 ss.
[86] L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., p. 19,
il quale cita Can. 59.
[87] V. supra p. 107.
[88] Sui decennalia
celebrati a Roma nel 315, si vedano: A.
Alföldi, Costantino tra paganesimo
e cristianesimo
cit., pp. 22 ss.; A. Fraschetti, La conversione
cit., pp. 22 ss., con rinvii alla letteratura.
[89] Eusebio, vita Const. 1,48.
[90] Cfr., in tal senso, G.
Bonamente, “Eusebio, Storia ecclesiastica IX 9 e la versione cristiana
del trionfo di Costantino nel
[91] L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., pp. 18
ss. e nt. 6.
[92] A. Fraschetti, La conversione
cit., pp. 11 ss.
[93] Cfr., in tal senso, le condivisibili osservazioni di A. Fraschetti, La conversione cit., pp.
30-31, il quale rileva che “sostenere che Costantino sia asceso al Campidoglio
nell’ottobre 312 e parallelamente essere costretti ad ammettere che già nel 313
fosse impossibile in sua presenza e nel contesto di un panegirico ogni accenno
a quella visita, è ipotesi che dilaziona il rifiuto di Costantino nei confronti
del culto che doveva essere reso a Giove Ottimo Massimo – il famoso Verzicht di Joannes Straub, tante volte
messo in discussione – solo di circa un anno … Dilazionare di circa un anno il
rifiuto costantiniano nei confronti del culto da rendersi a Giove Ottimo
Massimo sul Campidoglio evidentemente muta poco, soprattutto in prospettiva, i
termini del nuovo rapporto che, a partire dallo stesso Costantino (sicuramente
a partire dalla celebrazione dei ‘pii’ decennali del 315), tenderanno ormai a
stabilirsi tra imperatori cristiani e vita cerimoniale di Roma”.
[94] Cfr. A. Fraschetti,
“Roma: spazi del sacro e spazi del profano della politica tra IV e V secolo”,
in Storia della storiografia, 36
(1995), pp. 923 ss.; Id., La conversione
cit., p. 257.
[95] V. supra
pp. 108; 112 ss.
[96] Cfr. A.
Alföldi, Costantino tra paganesimo
e cristianesimo
cit., pp. 62 ss.; A. Chastagnol,
“Les jubilés impériaux de 260 à
[97] V. supra pp. 98; 107;
116.
[98] Eusebio, vita Const. 1,48.
[99] Cfr. A. Fraschetti,
La conversione cit., p. 22. Pochi anni dopo, nel 323, il rifiuto dei
sacrifici è ancora testimoniato dalla costituzione, riportata in CTh. 16,2,5
(sulla quale v. infra pp. 141 ss.)
indirizzata a Elpidio, vicarius urbis, volta ad impedire che “alcuni
ecclesiastici e altri che sono fedeli alla dottrina cattolica” fossero
costretti a celebrare sacrifici in occasione dei lustri.
[100] Cfr. A. Fraschetti,
La conversione cit., p. 81.
[101] Zosimo, 2,29,1-5. Cfr. H. Funke, op. cit., pp. 146 ss.; F. Lucrezi, op. cit., pp. 171 ss.; S. Montero, Política y adivinación en el Bajo Imperio
Romano: emperadores y harúspices (193 d.C.- 408
d.C.) (Collection Latomus, 211), Bruxelles
1991, pp. 63 ss.; J. Curran, “Constantine
and the ancient cults of Rome: the legal evidence”, in Greece and Rome, 43 (1996), pp. 71-72.
[102] A qualche anno prima, come vedremo (infra pp. 119 ss.), risalgono il divieto di eseguire in privato i
sacrifici legati alla aruspicina e le limitazioni per le pratiche divinatorie
compiute in pubblico.
[103] Così A. Fraschetti,
La conversione cit., p. 63.
[104] Si deve, sin da ora, avvertire che una certa oscillazione, nel
presente contributo, fra l’impiego dei termini divinatio e aruspicina, si giustifica sulla base di due
considerazioni. La prima considerazione attiene ad una oggettiva difficoltà di
distinguere a quale ‘tecnica’, le fonti, di volta in volta citate, si
riferiscano: se alla divinazione in generale, o se, specificamente, alla
aruspicina. La seconda considerazione concerne, invece, la insufficiente messa
a punto, in dottrina, della distinzione fra le diverse ipotesi di divinazione,
soprattutto con riguardo al sistema giuridico-religioso romano, con la
conseguenza che non è sempre chiaro se una certa ricostruzione scientifica
delle fonti si riferisca alla divinatio
o alla aruspicina. Da parte nostra, abbiamo utilizzato il termine divinazione
come termine generale per alludere a tutte quelle tecniche necessarie a conoscere
“la volontà della divinità, attraverso i segni che essa manda agli uomini o
attraverso la voce di uomini ispirati” (così, M.
Sordi, “Presentazione”, in Aa.Vv.,
La profezia nel mondo antico (a cura
di M. Sordi), Milano 1993, pp.
VII-VIII), delle quali tecniche la aruspicina è solo una delle tante. Anche se
la aruspicina doveva avere regole e tecniche specifiche rispetto a quelle
proprie delle altre forme di divinazione, alcune riflessioni critiche sulla
divinazione in generale dovettero influenzare la legislazione costantiniana in
materia di aruspicina. Si spiega così, nel nostro contributo, una oscillazione
terminologica, con la quale si è voluto alludere alla contaminazione culturale
fra le diverse tecniche. Per un tentativo, interessante, ma insufficiente per
una analisi giuridica, si veda, però, C.
Milani, “Note sul lessico della divinazione nel mondo antico”, ibidem, pp. 31-49. Sulla repressione
della divinazione, in generale, per un primo esame, si vedano: L. Desanti, “La repressione della
scienza divinatoria in età del Principato”, in Aa.Vv., Idee vecchie nuove sul diritto criminale romano (a cura
di A. Burdese), Padova 1988, pp.
225-240 ss.; Ead., Sileat omnibus
perpetuo divinandi curiositas cit., pp. 11 ss., con rinvii alle fonti e alla
bibliografia.
[105] Basti pensare, a tacere d’altro, alle disposizioni impartite in
materia da Augusto (Dione Cassio 56,25,5) o da Tiberio (Svetonio, Tib. 63,2). Cfr., da ultimo, con rinvii
alla bibliografia, L. De Giovanni,
Costantino e il mondo pagano cit., pp. 31
ss.; L. Desanti, Sileat omnibus
perpetuo divinandi curiositas cit., pp. 47 e ntt. 12-13; 48 nt. 17; L. De Giovanni, “Mondo tardoantico e
formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-
[106] Sulla legislazione costantiniana in tema di aruspicina, per un
primo esame, si vedano: M.A. Kugener,
“Constantin et l’art fulgural des haruspices”,
in Revue de l’instruction publique en Belgique, 56 (1913),
pp. 138 ss.; H. Karpp, op. cit.,
pp. 147 ss.; B. Biondi, Il diritto romano cristiano, I. Orientamento
religioso della legislazione cit.,
pp. 274 ss.; A.A. Barb, op. cit.,
pp. 118 ss.; T.D. Barnes, Constantine and Eusebius cit., pp.
211-212; 246-247; F. Lucrezi, op. cit.,
pp. 171 ss.; L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., pp. 23
ss.; L. Desanti, Sileat omnibus
perpetuo divinandi curiositas cit., pp. 137 ss.; K. Harl, “Sacrifice and pagan belief in fifth- and
sixth-century Byzantium”, in Past and Present,
128 (1990), pp. 7-26; L. De Giovanni,
“Mondo tardoantico e formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su
CTh. 9,16,1-
[107] Si veda il contributo di F.
Sini, “Aspetti giuridici e rituali della religione romana: sacrifici,
vittime e interpretazioni dei sacerdoti”, in questa stessa pubblicazione, par.
4, dal quale contributo abbiamo tratto l’espressione riportata fra virgolette
nel testo. Sulla nozione di hostia,
in generale, si vedano: J. Marquardt,
Römische Staatsverwaltung, III, 2 ed., Leipzig 1885, pp. 170 ss.; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, 2 ed., München
1912, pp. 410 ss.; C. Krause, “Hostia”, in Real-Enzyklopädie der klassischen Altertumswissenschaft, suppl. 5, Stuttgart 1931, cc. 236 ss.; K. Latte, Römische Religionsgeschichte,
München 1960, pp. 209 ss.; G. Dumézil, op. cit.,
pp. 477 ss.; I. Chirassi Colombo,
“Hostia”, in Enciclopedia Virgiliana, II, Roma 1985, p. 862; D. Sabbatucci, La religione di Roma
antica, dal calendario festivo all’ordine cosmico,
Milano 1988, p. 197. Per una analisi, specificamente giuridica, della nozione
di hostia, si veda ora F. Sini, A quibus iura civibus
praescribebantur. Ricerche sui giuristi
del III secolo a.C., Torino 1995, pp. 89 ss.
[108] La natura “straniera” e “privata” dei responsi degli aruspici
giustifica l’antica diffidenza dei Romani per l’aruspicina. Si veda, a questo
proposito, P. Catalano, “Aruspici”,
in Novissimo Digesto Italiano, I²,
Torino 1965, p. 1019, il quale ricorda il noto ‘disprezzo’ di Catone per gli
aruspici (Cicerone, div. 2,124,51).
Sulla natura straniera degli aruspici, si vedano: J. Bayet, La religione romana. Storia politica e psicologica, tr. it. di
G. Pasquinelli, Torino 1959 (rist. Torino 1992), p. 143; G. Dumézil, op. cit., pp. 516 ss.
Sulla teoria ciceroniana della divinazione, si veda F. Guillaumont, Philosophe
et augure. Recherches sur
la théorie cicéronienne de la
divination (Collection Latomus, 184),
Bruxelles 1984, con rinvii alla bibliografia. Sugli aruspici, in generale, si
vedano, inoltre, per un primo orientamento: A.
Bouché-Leclercq, Histoire de la
divination dans l’antiquité, IV,
Paris 1882; Id., “Haruspices”, in Dictionnaire des antiquités grecques et romaines, III, Paris 1899, pp. 17-33; G. Blecher, “De extispicio capita tria”, in Religionsgeschichtliche Versuche und Vorarbeiten, 2
(1903-1905), pp. 171-245; C. Thulin,
Die etruskische Disziplin,
I-III, Göteborg 1906-1909; Id., “Haruspices”, in Real-Enzyklopädie der klassischen Altertumswissenschaft, VII.2, Stuttgart 1912, cc. 2431-2468; Id., “Haruspices”, in Dizionario
epigrafico di antichità romane (a cura di E. De Ruggero), III, Roma 1922, pp. 644
ss.; P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale, I, Torino 1960, pp. 274 ss.; K. Latte, Römische Religionsgeschichte, München 1960, p.
157; R. Bloch, Les prodiges
dans l’antiquité classique,
Paris 1963, pp. 56 ss.; B. MacBain,
Prodigy and expiation: a study
in religion and politics in Republican Rome (Collection Latomus, 177),
Bruxelles 1982, pp. 43 ss.; D.
Sabbatucci, Divinazione e cosmologia,
Milano 1989, pp. 141 ss.; L. Desanti,
Sileat omnibus perpetuo divinandi curiositas cit., pp. 11 ss.
[109] Così P. Catalano, “Aruspici”
cit., p. 1019.
[110] Cfr. F. Lucrezi, op. cit.,
p. 171.
[111] La circostanza che la costituzione riportata in CTh. 9,16,1
(datata 1 febbraio 319) sia indirizzata a Massimo, praefectus urbi solo a
partire dal 1 settembre del 319, indusse Th.
Mommsen, Codex Theodosianus, I², Textus, Berlin 1905, p.
[112] Su C. 9,18,3 si veda L.
Desanti, Sileat omnibus perpetuo divinandi curiositas cit., pp. 182 ss.
[113] Con riferimento alla legislazione costantiniana in materia di
consultazioni aruspicali, rileva ora la “marginalità sociale degli esperti di
divinazione” V. Neri, I marginali
nell’occidente tardoantico. Poveri, ‘infames’ e criminali nella nascente società cristiana, Bari
1998, pp. 262 ss.
[114] Sul significato dell’inciso accusatorem
autem huius criminis non delatorem
esse, sed dignum magis praemio arbitramur, in
CTh. 9,16,1, si veda L. De Giovanni,
Costantino e il mondo pagano cit., p. 25,
che ha individuato in esso una precisazione volta a impedire che Massimo,
scoraggiando gli accusatori, potesse rendere di fatto inapplicabile la
costituzione, con la minaccia di applicare la sanzione prevista dallo stesso
Costantino per i delatori. Si vedano inoltre: T.
Spagnuolo Vigorita, Exsecranda pernicies. Delatori e fisco nell’età di Costantino, Napoli 1984, pp. 34 ss.; L. Desanti, Sileat omnibus perpetuo
divinandi curiositas cit., p. 138 e nt. 28.
[115] Inaccettabile è la tesi di B.
Biondi, Il diritto romano cristiano, I. Orientamento
religioso della legislazione cit.,
p. 274, il quale, per dimostrare come la legislazione di Costantino sulla
aruspicina sia stata, a suo avviso, sempre coerente, attribuisce all’imperatore
“un divieto generale della aruspicina”. Contra
F. Lucrezi, op. cit., p. 176.
[116] Cfr. F. Casavola, “Prefazione”
a L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., p. VI,
il quale osserva: “Le costituzioni del 319 (CTh. 9.16.1 e 2), che vietano agli aruspici
di entrare in case private sia pure di amici, obbligandoli a celebrare i loro
riti soltanto in pubblico, libera luce, tendono evidentemente ad arginare
l’esplorazione del futuro, in un’età in cui i fattori di insicurezza sociale
dovevano oscurare di ansietà le esistenze individuali”. Sulla esigenza di un
controllo politico della divinazione, si vedano, inoltre: J. Carlier, “Divinazione”, in Enciclopedia Einaudi, IV, Torino 1978, p. 1236; F. Lucrezi, op. cit., p. 189.
[117] Cfr. O. Seeck, op. cit.,
pp. 58; 169; L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., pp. 24
ss.; F. Lucrezi, op. cit.,
p. 171 nt. 3. Si vedano, però: F. Sitzia,
rec. a L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano, 82 (1979), p. 235; A.
Di Mauro Todini, op. cit., p. 110; L. De Giovanni, “Mondo tardoantico e formazione del ‘diritto
romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-
[118] Non è possibile in questa sede soffermarsi sui complessi e
discussi problemi relativi alla datazione di questa costituzione. Oltre a
quanto osservato sopra (alla nota 111), ci limitiamo qui a rilevare che con ogni
probabilità la costituzione riprodotta in CTh. 9,16,2 è anteriore a quella
riportata in CTh. 9,16,1: è stato, infatti, osservato (L. De Giovanni, Costantino
e il
mondo pagano cit., p. 25) che quest’ultima reca una precisazione che
manca alla prima – precisamente quella relativa alla non punibilità degli
accusatori – inciso, questo, che, non consentendo a Massenzio di utilizzare la
minaccia di quelle sanzioni che lo stesso Costantino aveva previsto per i
delatori, lascia intendere la volontà di vincere le resistenze mosse da parte
non cristiana nella concreta applicazione della legge.
[119] Cfr. P. Siniscalco,
Il cammino di Cristo nell’Impero romano,
Roma-Bari 1983, p. 171, il quale osserva che la legislazione costantiniana, in
materia di sacrifici connessi alla aruspicina, sarebbe stata “una concessione,
e non un avallo di ciò che era stato tràdito, fatta forse per neutralizzare i
rischi di tali pratiche, con il metterli direttamente sotto il proprio
controllo”.
[120] Cfr. M.A. Kugener,
op. cit., pp. 138 ss.; L. De
Giovanni, Costantino e il
mondo pagano cit., p. 26; F.
Lucrezi, op. cit., pp. 173 ss.; L. Desanti, Sileat omnibus perpetuo
divinandi curiositas cit., pp. 140 ss.; L.
De Giovanni, “Mondo tardoantico e formazione del ‘diritto romano
cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-
[121] Cfr. A. Piganiol, L’empereur Constantin, Paris 1932, p. 127; F.
Heim, “Le auspices publics de Constantin à Théodose”, in Ktema, 13 (1988), pp. 43 ss.; A. Fraschetti, La conversione cit., p.
70.
[122] Cfr. L. De Giovanni,
Costantino e il mondo pagano cit., pp. 31
ss.
[123] Cfr. L. Desanti,
Sileat omnibus perpetuo divinandi curiositas cit., p. 142; L. De Giovanni, “Mondo tardoantico e
formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-
[124] Cfr. L. De Giovanni,
Costantino e il mondo pagano cit., p. 28
e nt. 29; Id., “Mondo tardoantico
e formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-
[125] Livio 39,16,7: Hac vos
religione innumerabilia decreta pontificum, senatus consulta, haruspicum
denique responsa, liberant.
[126] Cfr. L. De Giovanni,
Costantino e il mondo pagano cit., pp. 28
ss.; Id., “Mondo tardoantico e
formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-
[127] Così G. Cervenca,
“La riforma di Diocleziano”, in Aa.Vv.,
Lineamenti di Storia del diritto
romano (sotto la direzione di M. Talamanca), 2 ed., Milano 1989, p.
538.
[128] Cfr. L. De Giovanni,
Costantino e il mondo pagano cit., pp. 28
ss., il quale richiama C. 9,8,7; Id., “Mondo
tardoantico e formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh.
9,16,1-
[129] Si veda Lattanzio, mort. pers. 11,7, il quale racconta che Diocleziano, prima di dare il via
alle persecuzioni contro i cristiani, avrebbe inviato un aruspice ad Apollo
Milesio. Cfr. L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., pp. 28
ss.; Id., “Mondo tardoantico e
formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-
[130] Cfr. L. De Giovanni,
Costantino e il mondo pagano cit., p. 31,
che cita Zosimo 2,16,1; Id., “Mondo tardoantico e formazione
del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-
[131] Cfr. L. De Giovanni,
“Mondo tardoantico e formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su
CTh. 9,16,1-
[132] Dione Cassio 56,25,5, riferisce di una disposizione di Augusto
che proibiva agli indovini di fornire responsi sulla morte delle persone.
Secondo Svetonio, Tib. 63, Tiberio avrebbe
confermato tale misura. Si vedano, in proposito: L. De Giovanni, Costantino
e il
mondo pagano cit., pp. 32-33; L.
Desanti, Sileat omnibus perpetuo divinandi curiositas cit., pp. 46 ss.; L. De Giovanni, “Mondo tardoantico e
formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-
[133] L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., pp. 32
ss., ha correttamente rivendicato il carattere di originalità della
legislazione costantiniana in materia di aruspicina, osservando che Costantino
mostra nei riguardi della aruspicina “un disprezzo che ne riguarda anche quelle
manifestazioni pubbliche ed ufficiali pur ritenute giuridicamente lecite”; Id., “Mondo tardoantico e formazione
del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-
[134] Cfr. L. De Giovanni,
Costantino e il mondo pagano cit., pp. 38
ss.
[135] Sulla influenza di Lattanzio sulla legislazione costantiniana,
si vedano: C. Ferrini, “Le
cognizioni giuridiche di Lattanzio, Arnobio e Minucio Felice”, in Memorie Accademia Scienze Modena, s. II,
10 (1894), pp. 195 ss. (=Id., Opere, 2, Milano 1929, pp. 467 ss.; 483
ss.); F. Amarelli, “Il De mortibus
persecutorum nei suoi rapporti con
l’ideologia coeva”, in Studia et Documenta
Historiae et Iuris, 36 (1970), pp.
234 ss.; T.D. Barnes, “Lactantius
and Constantine”, in Journal of Roman
Studies, 63 (1973), pp. 29 ss.; F. Amarelli, Vetustas-innovatio. Un’antitesi apparente nella legislazione di Costantino, Napoli
1978, pp. 47 ss.; L. De Giovanni,
Costantino e il mondo pagano cit., p. 39;
M.P. Baccari, “Il conubium nella legislazione di
Costantino” cit., in part. paragrafo 5, con ulteriori rinvii alla letteratura; L. De Giovanni, “Mondo tardoantico e
formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-
[136] Lattanzio, mort. pers. 10,1-4.
[137] Eusebio, hist. eccl. 6,41,1; vita Const. 2,50.
[138] Lampridio, Alex. 43,7.
Cfr. L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., p. 39
e nt. 65.
[139] Conc. Ancyr. can. 23: Qui auguria vel auspicia,
sive somnia vel divinationes quaslibet, secundum morem Gentilium observant, aut in
domos suas huiusmodi homines introducunt in exquirendis aliquibus arte malefica, aut ut domos suas lustrent; confessi, quinquennio poenitentiam agant, secundum regulas antiquitus constitutas. Nel IV sec., il concilio di Laodicea giunge a proibire
espressamente per i cristiani la produzione di amuleti ed ogni altro comportamento
riconducibile alla magia. Sulle accuse ai cristiani di praticare la magia, si
vedano: A.A. Barb, op. cit.,
pp. 117 ss.; F. Lucrezi, op. cit.,
p. 184 e nt. 68; L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., p. 40;
L. Desanti, Sileat omnibus
perpetuo divinandi curiositas cit., pp. 189 ss.; W.A. Meeks, I Cristiani dei primi secoli. Il mondo sociale dell’apostolo Paolo, tr.
it. di A. Pradi, Bologna 1992, p. 354 e nt. 6; L. Desanti, “Astrologi: eretici o pagani” cit., pp. 695 ss.; L. De Giovanni, “Mondo tardoantico e
formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-
[140] L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., p. 41; Id., “Mondo tardoantico e formazione
del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-
[141] Cfr. L. De Giovanni,
Costantino e il mondo pagano cit., p. 40;
L. Desanti, Sileat omnibus
perpetuo divinandi curiositas cit., pp. 194 ss.; L. De Giovanni, “Mondo tardoantico e formazione del ‘diritto romano
cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-
[142] Paneg. 9,2,4; 9,4,4.
[143] Zosimo 2,29,4. Su questo aspetto della conversione di Costantino
si vedano: F. Paschoud, “Zosime
2,29 et la version païenne de la conversion de Constantin” cit., pp. 334-353; G. Zucchelli, “La propaganda
anticostantiniana e la falsificazione storica in Zosimo”, in Aa.Vv., I canali della propaganda nel mondo antico (a cura di M. Sordi),
Milano 1976, pp. 229 ss.; L. De Giovanni,
Costantino e il mondo pagano cit., p. 42
nt. 75; A. Fraschetti, La conversione
cit., pp. 87 ss. Sul racconto di Zosimo, in merito alla conversione di
Costantino, v. supra pp. 101 ss.
[144] Quanto alla intenzione dell’imperatore di esprimere la sua
“personale estraneità, anche sul piano religioso, nei confronti di tutti gli
aspetti, privati e pubblici, attraverso cui gli aruspici solevano svolgere le
loro cerimonie”, cfr. L. De Giovanni,
Costantino e il mondo pagano cit., p. 36,
il quale osserva a ragione che anche l’uso di aggettivi e pronomi – vestra e vos – “può farci capire come Costantino voglia far comprendere ai
sudditi di essere lontano da questa superstiziosa tradizione dei padri”; Id., “Mondo tardoantico e formazione
del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-
[145] Cfr. L. Desanti,
Sileat omnibus perpetuo divinandi curiositas cit., p. 142, la quale osserva, a
proposito di CTh. 16,10,1: “In definitiva, pare di capire che Costantino,
nell’interdire l’aruspicina segreta, abbia avuto di mira proprio l’ispezione delle
viscere, anziché l’esame dei fulmini o del volo degli uccelli. I sacrifici
sembrano essere stata la principale preoccupazione di Costantino”.
[146] Sullo svuotamento di significato delle cerimonie precristiane,
v. supra pp. 117 ss.
[147] Porfirio, ad Aneb. 29. Cfr. L. De Giovanni, Costantino
e il
mondo pagano cit., pp. 54 ss.; Id.,
“Mondo tardoantico e formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su
CTh. 9,16,1-
[148] Giamblico, myst. 3,13.
Sulla insofferenza verso i riti divinatori si vedano: L. De Giovanni, Costantino
e il
mondo pagano cit., pp. 52 ss.; L.
Desanti, Sileat omnibus perpetuo divinandi curiositas cit., pp. 195 ss.
nt. 52; L. De Giovanni, “Mondo
tardoantico e formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh.
9,16,1-
[149] Cfr. L. De Giovanni,
Costantino e il mondo pagano cit., p. 65,
con rinvii alla dottrina.
[150] La letteratura sulla persecuzione della magia, nella esperienza giuridica
romana, è assai vasta. Per un primo ragguaglio bibliografico, si rinvia a: B. Santalucia, Diritto e processo penale nell’antica Roma, Milano 1989, p. 97; V. Giuffrè, La ‘repressione criminale’ nell’esperienza romana. Profili, 3 ed., Napoli 1993, pp. 92-93;
169. Sulla distinzione fra magia e religione, insiste, con particolare energia,
P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale cit., pp. 136 nt. 66, il quale
osserva la necessità di superare la tesi della “origine esclusivamente magica,
presso tutti i popoli, della divinazione” e (p. 153) “il preconcetto evoluzionistico
dell’origine magica anche degli istituti religiosi romani”. Di recente D. Sabbatucci, “Divinazione sotto
giudizio”, in Sibille e linguaggi
oracolari. Mito Storia Tradizione. Atti del convegno internazionale di studi,
Macerata-Norcia 20-24 settembre 1994 (a cura di I. Chirassi Colombo-T. Seppilli), Pisa-Roma 1998, p.
[151] Nel Concilio di Elvira, dei primi del IV secolo,
[152] Sul rapporto tra Costantino e l’aristocrazia, si veda ora M. Marcone, “Costantino e l’aristocrazia
pagana”, in Costantino il Grande.
Dall’Antichità all’Umanesimo cit., II, pp. 645 ss., con interessanti osservazioni
anche per quanto attiene al rifiuto di compiere sacrifici.
[153] Sulla distinzione fra una divinazione pubblica e una divinazione
privata, si veda D. Grodzynski,
“Per bocca dell’imperatore (Roma, IV secolo)”, in Aa.Vv., Divinazione e razionalità.
I procedimenti mentali e gli influssi della scienza divinatoria (a cura di J.P. Vernant), tr. it. di L. Zella,
Torno 1982, p. 301, la quale osserva che “nella pratica della divinazione, si
devono distinguere due elementi: l’oggetto sul quale verte la consultazione
(persona privata o imperatore, oppure, più generalmente, affare privato o
affare pubblico), e il modo in cui si consulta (in privato o in pubblico)”. J. Carlier, op. cit., p. 1236, rileva
come nel IV secolo d.C., “il potere non contesta l’efficacia soprannaturale
della divinazione, anzi la teme proprio per la sua efficacia, e conduce contro
di essa una lotta che la condannerà alla clandestinità”. Si vedano, inoltre: L. Desanti, “La repressione della
scienza divinatoria in età del Principato” cit., pp. 225-240 ss.; Ead., Sileat omnibus perpetuo divinandi
curiositas cit., pp. 11 ss., con rinvii alle fonti e alla bibliografia. Cfr.,
inoltre, L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., p. 76;
Id., “Mondo tardoantico e
formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-
[154] Cfr. F. Lucrezi, op. cit.,
pp. 185 ss.
[155] D. Grodzynski, “Per
bocca dell’imperatore” cit., pp. 312 ss.
[156] CTh.16,10,12,1: Imppp. Theod(osius), Arcad(ius) et Honor(ius)
AAA. ad Rufinum P(raefectum) P(raetorio). Quod
si quispiam immolare hostiam sacrificaturus audebit aut spirantia
exta consulere, ad exemplum maiestatis reus licita cunctis accusatione delatus excipiat sententiam conpetentem, etiamsi nihil contra salutem principum aut de
salute quaesierit. Sufficit enim ad
criminis molem naturae ipsius leges velle rescindere, inlicita perscrutari, occulta recludere, interdicta temptare, finem quaerere salutis alienae, spem alieni interitus polliceri. Dat.
VI Id. Nov. Const(antino)p(oli) Arcad(io) A. II et Rufino Conss.
[157] Cfr. D. Grodzynski,
“Per bocca dell’imperatore” cit., p. 313; G.
Lanata, Legislazione e natura
nelle novelle giustinianee,
Napoli 1984, p. 195; P. Catalano,
“Ius Romanum. Note sulla formazione del concetto”, in La nozione
di “Romano” tra cittadinanza ed universalità, (=Atti del II Seminario internazionale di studi storici “Da Roma alla
Terza Roma”, 21-23 aprile 1982, [collezione diretta da P. Catalano-P. Siniscalco]), Studi II,
Napoli 1984, pp. 531 ss. (=Id., Diritto e persone. Studi su origine e
attualità del sistema romano, Torino 1990, pp. 53 ss.); L. Desanti, Sileat omnibus perpetuo
divinandi curiositas cit., p. 156.
[158] CTh. 9,16,5: Imp. Constantius A. ad
Populum. Post
Alia. Multi magicis artibus ausi elementa
turbare vitas insontium labefactare non dubitant et manibus
accitis audent ventilare, ut quisque
suos conficiat malis artibus inimicos. Hos, quoniam naturae peregrini sunt, feralis pestis absumat. Dat. Prid. Non. Decemb. Med(iolano) Constantio A. VIIII et Iuliano Caes. II Conss.
[159] Sulle regole sacrificali nella Bibbia ebraica, v. infra p. 152 nt. 208. Sul concetto di
‘purità’, nella cultura ebraica, per un primo esame, si vedano: W. Paschen, Rein und Unrein, München 1970; I. Zatelli, Il campo lessicale degli aggettivi di purità
in ebraico biblico, Firenze 1978;
Aa.Vv., La purità e il
culto nel Levitico: interpretazioni
ebraiche e cristiane (=Annali di Storie
dell’esegesi, 13/1), Bologna 1996.
[160] Sul rapporto tra mantica e profezia ebraica, si veda P. Sacchi, “La profezia in Israele”, in
Aa.Vv., La profezia nel mondo antico cit., pp. 3-20.
[161] Cfr. Agostino, civ.
7,35; 21,6-7. Si veda anche quanto Agostino scrive, nel De civitate Dei (5,9-10), a proposito del De divinatione
di Cicerone. Sull’atteggiamento della Patristica nei confronti della
divinazione, si vedano: D. Grodzynski,
“Per bocca dell’imperatore” cit., p. 316; L.
Desanti, Sileat omnibus perpetuo divinandi curiositas cit., pp. 188 ss.
[162] Sulla legislazione di Costanzo II in tema di divinazione, si
veda L. Desanti, Sileat omnibus perpetuo
divinandi curiositas cit., pp. 146 ss.
[163] CTh. 9,16,1: Nullus haruspex limen alterius accedat nec ob alteram
causam…
[164] Insiste a ragione su questo aspetto D. Grodzynski, “Per bocca dell’imperatore” cit., pp. 313 ss.,
la quale rileva che “le leggi del Codice teodosiano, soprattutto dopo Costantino,
pongono l’accento sul carattere riprovevole della curiositas divinandi …
Tale curiositas è condannata più
ancora della divinazione in se stessa”.
[165] Sul rapporto fra religione precristiana e la politica di
Costanzo e Costante, si vedano: A.
Pastorino, Cristianesimo e impero
dopo Costantino (337-395 d.C.). Dispense
di Storia Romana per gli
Studenti della Facoltà di Magistero.
Anno accademico 1971-72,
Torino 1972, pp. 108 ss. Si vedano, inoltre: R.C.
Blockley, Ammianus Marcellinus. A study of his
historiography and political thought (Collection Latomus, 141),
Bruxelles 1975, pp. 107 ss.; G. De
Bonfils, “Alcune riflessioni sulla legislazione di Costanzo II e Costante”, in Accademia
romanistica costantiniana, Atti del V
Convegno Internazionale (Spello-Perugia-Bevagna-Sansepolcro,
14-17 ottobre 1981), Rimini
1983, p. 303; Id., Ammiano Marcellino e l’imperatore, Bari 1986, pp. 123 ss.; S. Montero, op. cit., pp. 81 ss.
[166] Sul libro XVI del Codice Teodosiano si veda L. De Giovanni, Il libro XVI del
Codice Teodosiano. Alle origini della codificazione in tema
di rapporti Chiesa-Stato,
Napoli 1985, pp. 126 ss.
[167] Sulla costituzione si veda La
legislazione di Costantino II, Costanzo
II e Costante (337-361) (a cura di P.O.
Cuneo), Milano 1997, pp. 88 ss.
[168] Sul divieto dei sacrifici di animali, nella legislazione
costantiniana in materia di aruspicina, v. supra
pp. 119 ss.
[169] Del tutto immotivati sono i dubbi sulla reale proibizione, da
parte di Costantino, dei sacrifici di animali espressi da J. Burckhardt, L’età di Costantino il Grande, tr. it. di E.
Dupré Theseider, Firenze 1957 (rist. Firenze 1990), pp. 378 ss. Cfr., in senso
analogo alla nostra opinione, L. De
Giovanni, Costantino e il
mondo pagano cit., p. 141, al quale si rinvia per l’esame delle questioni
relative alla datazione della costituzione di Costanzo. Non è altrettanto
convincente, invece, l’opinione di chi, come F.
Martroye, “Mesures prises par Constantin contre la superstition”, in Bulletin de
[170] Il divieto è anche confermato da Sozomeno, hist. eccl.1,8, sul quale si veda L.
Desanti, Sileat omnibus perpetuo divinandi curiositas cit., p. 143.
[171] Sulla descrizione in Eusebio della proibizione da parte di
Costantino dei culti precristiani, si vedano: R.
Farina, L’impero e l’imperatore
cristiano in Eusebio di Cesarea
cit., pp. 253 ss.; T.D. Barnes, Constantine and Eusebius cit., pp.
211-212; 246-247; G. Bonamente,
“La ‘svolta costantiniana’” cit., p. 114.
[172] Eusebio, laus Const. 8,1-9; vita Const. 2,45,1; 4,23;
4,75.
[173] Eusebio, laus Const. 2.
[174] Eusebio, vita Const. 4,25,1.
[175] Eusebio, laus Const. 8; vita Const. 3,54,1-7.
Sulla distruzione dei templi, per un primo esame, si vedano: L. De Giovanni, Costantino e il mondo
pagano cit., pp. 95 ss.; G. Bonamente, “Sulla confisca dei beni
mobili dei templi in epoca costantiniana”, in Costantino il Grande. Dall’Antichità all’Umanesimo
cit., II, pp. 172 ss.; Id., “La
‘svolta costantiniana’” cit., p. 112, il quale, nel ritenere che le
disposizioni di Costantino in materia di politica ‘antipagana’ non possano
essere lette come un compromesso fra ‘innovazione’ e ‘tradizione’, osserva che
l’imperatore “acconsentì alla distruzione di un numero limitatissimo di
templi”. La circostanza che l’imperatore avrebbe disposto la restituzione degli
idoli ai fedeli attesterebbe “che le cerimonie tradizionali dei templi non
erano state vietate in maniera generale e assoluta, tanto che Costantino stesso
si preoccupava di smentire le voci diffuse in tal senso”; R. Klein, “Distruzione dei templi nella
tarda antichità. Un problema politico, culturale e sociale”, in Atti dell’Accademia
romanistica costantiniana, X Convegno Internazionale in onore di Arnaldo Biscardi cit., pp. 131 ss.
[176] Eusebio, vita Const. 3,58,2.
[177] Testimonianza evidente delle resistenze non cristiane alla lotta
contro i sacrifici, è anche la costituzione di Costanzo, indirizzata a Tauro,
prefetto del pretorio per l’Italia e l’Africa: CTh. 16,10,4: Impp. Constantius
et Constans AA. ad Taurum P(raefectum) P(raetori)o. Placuit omnibus locis adque urbibus universis claudi protinus templa et accessu vetito omnibus licentiam delinquendi perditis abnegari. Volumus etiam cunctos sacrificiis abstinere. Quod si quis
aliquid forte huismodi perpetraverit, gladio ultore sternatur. Facultates etiam perempti fisco decernimus vindicari et similiter adfigi rectores provinciarum, si facinora
vindicare neglexerint. Dat. Kal. Dec. Constantio IIII et Constante III AA.
Conss. Per una analisi compiuta della
questione relativa alla datazione della costituzione, riportata in CTh.
16,10,4, si rinvia a L. De Giovanni,
Costantino e il mondo pagano cit., pp.
139 ss. Si veda, inoltre, A. Di
Berardino, “I cristiani e la città antica nell’evoluzione religiosa del
IV secolo”, in Cristianesimo e istituzioni
politiche. Da Costantino a Giustiniano
(a cura di E. dal Covolo-R. Uglione),
Roma 1997, pp. 76 ss.
[178] Troppo rigida è l’affermazione di P. Brown, Potere e cristianesimo
nella tarda antichità, tr. it.
di M. Maniaci, Roma-Bari 1995, p. 26, secondo il quale, “la condanna da parte
di Costantino dei sacrifici e la chiusura e la spoliazione di molti templi
minarono ulteriormente l’autonomia culturale delle città. I notabili locali si
videro negato il diritto a fare ricorso proprio a quei rituali religiosi che un
tempo avevano offerto ad ogni città la possibilità di dare pubblica espressione
al proprio senso di identità”. Sul rapporto fra la politica costantiniana e gli
“intellettuali” non cristiani, si veda L.
De Giovanni, Costantino e il
mondo pagano cit., pp. 151 ss.; Id.,
“Mondo tardoantico e formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su
CTh. 9,16,1-
[179] Cfr., in senso analogo, L.
De Giovanni, Costantino e il
mondo pagano cit., pp. 144-145; Id.,
“Mondo tardoantico e formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su
CTh. 9,16,1-
[180] Sul rescritto, per tutti, si vedano: I. Karannaiopulos, “Konstantin der Grosse und Kaiserkult”, in
Historia, 5 (1956), pp. 345 ss.; M.A. De Dominicis, “Il rescritto di Costantino
agli Umbri. (Nuove osservazioni)”, in Bullettino
dell’Istituto di Diritto Romano, 65 (1962), pp. 173 ss. (=Id., Scritti romanistici,
Padova 1970, pp. 25 ss.); Id.,
“Un intervento legislativo di Costantino in materia religiosa”, in Revue Internationale des Droits de l’Antiquité, 10
(1963), pp. 189 ss. (=Id., Scritti romanistici cit., pp. 89 ss.); R.
Andreotti, “Contributo alla discussione del rescritto costantiniano di Hispellum”, in Problemi di storia e archeologia dell’Umbria, Atti del I Convegno
di Studi umbri, Perugia
1964, pp. 249 ss.; J. Gascou, “Le
Rescrit d’Hispellum”, in Mélanges d’Archéologie et d’Histoire de l’École Française de Rome, 79 (1967), pp.
649 ss.; S.R.F. Price, “Between
man and God: sacrifice in the Roman imperial cult”, in Journal of Roman Studies, 70 (1980), p. 40; L.
De Giovanni, Costantino e il
mondo pagano cit., pp. 134 ss.; K.
Tabata, “The Date and Setting of the Constantinian Inscription of Hispellum (CIL XI,5265=ILS 705)”, in
Studi classici e orientali, 45 (1995), pp. 369 ss.; L. De Giovanni, “Mondo tardoantico e formazione
del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-
[181] Sulla nozione di superstitio,
si vedano: W.F. Otto, “Religio und superstitio”, in Archiv für
Religionswissenschaft, 14 (1911), pp. 406 ss.; F. Martroye, “Mesures prises par Constantin contre la
superstition” cit., pp. 280 ss.; M.A. De
Dominicis, “Il significato di ‘superstitio’
nei testi giuridici dell’età costantiniana,
in Annali Università Macerata, 7
(1931); I. Pfaff, “Superstitio”, in Real-Enzyklopädie der klassischen Altertumswissenschaft, IV.1, Stuttgart 1931, cc. 938 ss.; R.C.
Ross, “Superstitio”, in The Classical
Journal, 64 (1969), pp. 354 ss.; R. Andreotti, “Contributo alla
discussione del rescritto costantiniano di Hispellum”
cit., pp. 249 ss.; S. Calderone,
“Superstitio”, in Aufstieg und Niedergang der römischen
Welt, I.2, Berlin-New York 1972, pp.
377 ss.; D. Grodzynski, “Superstitio”, in Revue des Etudes Anciennes, 76 (1974), pp. 36 ss.; L.F.
Janssen, “Die Bedeutungsentwicklung von superstitio/supertes”, in
Mnemosyne, 28 (1975), pp. 135 ss.; W. Belardi, Superstitio, Roma 1976, pp.
27 ss.; M.R. Salzman, “Superstitio in the Codex Theodosianus and
the Persecution of Pagans”, in Vigiliae
Christianae, 41 (1987), pp. 172 ss.; L. De Giovanni, Costantino e il mondo
pagano cit., pp. 135 ss.; M. Sachot, Religio/superstitio. Histoire d’une subversion et d’un retournement, in Revue
de l’Histoire des Religions, 208 (1991), pp. 355 ss.; W.A. Meeks, op. cit., p. 354 e nt. 6;
F. Zuccotti, “Furor haereticorum”. Studi sul trattamento giuridico della follia e sulla persecuzione della eterodossia religiosa nella legislazione del tardo
impero romano, Milano 1992, pp. 272 ss.; F.
Sini, “Dai peregrina sacra alle
pravae et externae religiones dei Baccanali: alcune riflessioni su
‘alieni’ e sistema giuridico-religioso romano”, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 60 (1994), 65 ss.; M. Pérez Medina, “Superstitio en la legislación constantiniana”, in Florentia Iliberritana, 6 (1995), pp. 339-346; F. Sini, Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma antica, Torino 2001, pp. 60
ss.; L. De Giovanni, “Mondo
tardoantico e formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-
[182] Così F.
Stähelin, “Constantin d. Gr. und das Christentum”, in Zeitschrift für Schweizerische Geschichte, 17 (1937), pp. 411 ss. Si veda, però, L. De
Giovanni, Costantino e il
mondo pagano cit., pp. 137 ss.
[183] L’espressione sacrifici domestici si trova in CTh. 16,10,1,
sulla quale costituzione v. supra pp.
126
ss.
[184] V. supra pp. 123 ss.
[185] Cfr., in senso analogo, L.
De Giovanni, Costantino e il
mondo pagano cit., pp. 144 ss.; Id.,
“Mondo tardoantico e formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su
CTh. 9,16,1-
[186] Non sembra cogliere bene questo aspetto G. Forni, “Flavia Constans Hispellum. Il tempio ed il pontefice della gente Flavia
costantiniana”, in Atti dell’Accademia romanistica costantiniana,
IX Convegno Internazionale,
Napoli 1993, p. 406, il quale si limita a rilevare che il rescritto agli
ispellati dovrebbe essere ricondotto all’obiettivo di “rinsaldare la propria
dinastia, assumendo una posizione di equidistanza sia dalla paganità
occidentale, sia dalla cristianità incipiente, che mal avrebbero entrambe
tollerato un dio vivente fra gli uomini, e cercando di svuotare all’interno la
pratica rituale e il sentimento religioso a vantaggio dell’aspetto fastoso e
spettacolare”.
[187] Sul punto si veda, per tutti, L.
De Giovanni, Costantino e il
mondo pagano cit., pp. 149 ss., il quale richiama Filostorgio, hist.
eccl. 2,17, e Teodoreto, hist. eccl. 1,34.
[188] Sulla legislazione costantiniana in materia di sacrifici, può
aver assunto un peso determinante il più generale atteggiamento manifestato da
Costantino nei confronti della violenza, sebbene, bisogna ammettere che sotto
questo profilo una elasticità e una certa prudenza, nella ricostruzione dei
diversi aspetti legati alla vita dell’imperatore, sia d’obbligo più che mai.
Cfr. E. Butturini, “Dallo
stato-religione alla religione di stato. Servizio militare e obiezione di
coscienza dopo la svolta costantiniana”, in La
pace nel mondo antico. Atti del convegno nazionale di studi, Torino 9-10-11 aprile (a cura di R. Uglione), Torino 1991, pp. 282 ss.,
il quale parla di “leggi piene di umanità”, a proposito, fra l’altro, di quelle
che proibivano i giochi gladiatori o di quelle relative alle “pene deturpanti”.
Si vedano, inoltre: J.J. Van De Casteele,
“Indices d’une mentalité chrétienne dans la législation de Constantin”, in Bulletin de l’Association G. Budé,
14 (1955), pp. 86-90; E. Butturini, La croce
e lo
scettro. Dalla nonviolenza evangelica alla chiesa costantiniana, San Domenico di Fiesole
1990, pp. 36-58.
[189] CTh. 15,12,1 (cfr. C. 11,44,1). Sulla legge in materia di giochi
gladiatori e sulla crudeltà dei giochi nell’arena, si veda quanto osservano, da
un lato, Seneca, epist. 1,7,5, e,
dall’altro, Lattanzio, inst.
6,20,10-12; epit. 58,3-5; Agostino, conf. 6,8,13, citati da L. De Giovanni, Costantino e il mondo
pagano cit., pp. 85-86; 93.
[190] Aurelio Vittore, Caes.
41,4-5.
[191] CTh. 9,40,2. Cfr. L. De
Giovanni, Costantino e il
mondo pagano cit., p. 94.
[192] CTh. 9,3,1. Con riguardo a questa costituzione, R. Martini, “Su alcuni provvedimenti
costantiniani di carattere sociale”, in questa stessa pubblicazione, paragrafo
[193] Eusebio, vita Const. 3,58, racconta che Costantino
avrebbe fatto delle donazioni ai poveri di Eliopoli. Si veda per un
provvedimento analogo, a favore dei pupilli e delle vedove, Eusebio, vita Const.
4,28. Si ricordi ancora i provvedimenti a favore dei poveri d’Italia e d’Africa
in CTh. 11,27,1-2. Cfr. L. De Giovanni,
Costantino e il mondo pagano cit., p. 88.
[194] G. Costa, Religione
e politica
nell’Impero romano, Torino 1923, p. 259.
[195] Sull’amore dell’imperatore Costantino per gli animali, si veda,
però, il contributo di V. Poggi,
“Perché in Sardegna Costantino è santo”, in questa stessa pubblicazione, in
part. paragrafo 7.
[196] In questo senso sembrano ancora interpretare la costituzione C. Dupont, Le Droit Criminel dans les Constitutions de Constantin. Les infractions,
Lille 1953, p. 105; M. Sargenti,
“Aspetti e problemi dell’opera legislativa dell’imperatore Giuliano”, in Accademia romanistica costantiniana, Atti
III Convegno Internazionale (Perugia-Trevi-Gualdo Tadino, 28 settembre-1º ottobre 1977), Perugia 1979, pp. 47 ss. (=Id., Studi sul diritto del tardo impero cit., pp. 208 ss.). Ritiene,
invece, che la costituzione sia un esempio di misura a protezione degli animali
D. Serrigny, Droit public et administratif romain, II, 1862, p. 273, (citato da C. Dupont, op. ult. cit., p. 105); A.
Cosseddu, “Maltrattamento di animali”, in Digesto delle Discipline Penalistiche, VII, 4 ed., Torino 1993, p.
529, che cita CTh. 8,5,2 come esempio di una “tradizione peraltro, sicuramente
già radicata nell’antichità, volta ad evitare trattamenti comportanti inutili
sofferenze per gli animali”. Sul cursus
publicus, si vedano, inoltre, con
rinvii alla letteratura: F. De Martino,
Storia della costituzione romana, V, 2 ed., Napoli 1975, pp. 302;
312-313; G.B. Impallomeni, “Una
epigrafe concordiese in tema di ‘cursus
publicus’ in probabile relazione con
CTh. 8,5,12”, in Accademia romanistica
costantiniana, Atti V Convegno Internazionale cit., pp. 329-334 (=Id., Scritti di diritto romano e tradizione romanistica. Pubblicati a cura
della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Padova, Padova 1996, pp.
477-481); L. Di Paola, Viaggi, trasporti e istituzioni. Studi sul cursus
publicus, Catanzaro 1999, con ampio esame della letteratura.
[197] Sulle res mancipi, per un primo esame, si vedano: P. Bonfante, “Res mancipi e res nec
mancipi”, Roma 1888-89, pp. 1 ss. (=Id., “Forme primitive ed evoluzione
della proprietà romana. ‘Res mancipi’ e ‘res
nec mancipi’”, in Id., Scritti giuridici varii, II. Proprietà e servitù, Torino 1926, pp. 1
ss.); F. De Visscher, “‘Mancipium’” et “‘res mancipi’”, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 2 (1936), pp. 263 ss. (=Id., Nouvelles Études de droit
romain, Milano 1949, pp. 193 ss.); F. Gallo, Studi sulla distinzione tra res mancipi e res nec
mancipi, Torino 1958; G. Franciosi,
“‘Res mancipi’ e ‘res nec mancipi’”,
in Labeo, 5 (1959), pp. 370 ss.; G. Scherillo, “‘Res mancipi’ e ‘res nec
mancipi’ - cose immobili e mobili”, in Synteleia Arangio-Ruiz, Napoli 1964, pp. 83 ss.; B. Biondi, “‘Res mancipi” e “res nec mancipi’”, in Novissimo Digesto Italiano, XV, Torino 1968, pp. 568 ss.; L. Capogrossi Colognesi, La struttura
della proprietà e la formazione
dei “iura praediorum” nell’età repubblicana, I, Milano 1969, pp. 18 ss.; A. Corbino, Ricerche
sulla configurazione originaria
delle servitù, I, Milano 1981, pp. 51 ss.; M.V. Giangrieco Pessi, Ricerche
sull’actio de pauperie dalle XII Tavole ad Ulpiano, Napoli 1995, pp. 138
ss.; Ead., “L’interpretatio prudentium nell’evoluzione
dell’actio de pauperie: res mancipi e res nec mancipi”, in Nozione
formazione e interpretazione del diritto cit., pp. 285 ss.
[198] La tutela degli animali, se in origine aveva trovato le sue
naturali radici nei dettami di un sistema giuridico-religioso fortemente
intriso da elementi naturalistici – pensiamo alla tradizione relativa al riposo
sacrale degli animali (Catone, agr.
138; Columella 2,22; Dionisio d’Alicarnasso 1,33), al divieto di uccisione del bue da lavoro e alla menzione di esso come socius dell’uomo (Varrone, rust. 2,5,3-4; Columella 6 praef. 7; Plinio, nat. hist. 8,45;70) –
dovette arricchirsi di nuovi contenuti, a seguito della nascita di forme di
sfruttamento capitalistico della terra e del bestiame, divenendo funzionale
alla necessità di proteggere il valore economico dei fattori di produzione.
Tuttavia, anche in un tale ambiente, la preziosità delle res mancipi non dovette
mai assumere le sembianze di un mero criterio di classificazione economica, ma continuò
ad esprimere tutto un sistema di relazioni non solo economiche, ma anche
affettive. Sotto questo profilo, si comprende come, nella polemica tra
Sabiniani e Proculiani in merito agli animalia
quae collo dorsove domantur, gli elefanti e i cammelli, pur
potendo anch’essi coadiuvare l’uomo nel lavoro, non furono inclusi nel catalogo
dei beni mancipi, evidentemente
perché non potevano essere considerati ‘preziosi’ alla stessa maniera degli
altri animali da tiro e da soma. Sul tema del riposo sacrale degli animali, si
vedano: G. Wissowa, “Feriae”, in Real-Enzyklopädie der
klassischen Altertumswissenschaft, 6.2, 1909, cc. 2211 ss.; Id., Religion und Kultus der Römer cit., pp. 433
ss.; B. Albanese, “La successione
ereditaria in diritto romano antico”, in Annali
del Seminario Giuridico dell’Università di Palermo, 20 (1949), p.
313; F. Gallo, Studi sulla distinzione tra res mancipi e res nec mancipi cit., pp.
51 ss.; P. Braun, “Les tabous des
‘feriae’”, in L’Année Sociologique,
(1959), pp. 49 ss.; M. Andréev, “Les
notions ‘familia’ et ‘pecunia’ dans le textes des XII tables”,
in Acta antiqua Philippopolitana,
1, Studia historica et philologica,
Sofia 1963, pp. 173-176; G. Diósdi,
“‘Familia pecuniaque’. Ein Beitrag zum
altrömischen Eigentum”, in Acta
antiqua Academiae scientiarum Hungaricae, 12 (1964), pp. 87 ss.; G. Nicosia, “Animalia quae collo dorsove domantur”, in Iura, 18 (1967), pp. 62 e nt. 54 ss.; P. Voci, Diritto ereditario romano, I, 2 ed., Milano 1967, p. 31 e
nt. 73. Per i problemi legati alla polemica tra Sabiniani e Proculiani, in
merito agli animalia quae collo
dorsove domantur, rinviamo alla lettura anzitutto di G. Nicosia, “Animalia quae collo dorsove domantur” cit.,
pp. 45 ss.; Id., “Il testo di
Gai. 2.15 e la sua integrazione”, in Labeo,
14 (1968), pp. 167 ss. Si vedano, inoltre: A.
Guarino, rec. a G. Nicosia,
“Animalia quae collo dorsove domantur” cit., in Labeo,
14 (1968), pp. 227 ss. (=Id., “Collo dorsove domantur”, in Id., Pagine di diritto romano, VI, Napoli 1995, pp. 528 ss.); Id., “Ineptiae iuris romani”, in Daube noster. Essays in Legal history for D. Daube cit., pp. 119 ss. (=Id., “Elefanti
che imbarazzano”, in Id., Pagine di diritto romano, II, Napoli
1993, pp. 313 ss.); G. Falchi, Le controversie
tra Sabiniani e Proculeiani, Milano 1981, pp. 99 ss.
[199] Su questo tema, ci limitiamo a citare il recente contributo di C. Grottanelli, Il sacrificio cit., pp.
72 ss.
[200] Insiste, ora, “sulla comunione esistente tra uomini e animali”,
nella “tradizione Cristiana”, A. Linzey,
Teologia animale. I diritti animali nella
prospettiva teologica, tr. it. di A. Arrigoni, Torino 1998, pp. 31 ss., con
rinvii alla letteratura.
[201] Cfr. A. Gerken, Teologia dell’eucaristia, tr. it. di B. Mabritto-A. Bressan, Alba 1977, pp.
52 ss.; A. Donghi, “Eucaristia”,
in Dizionario di mistica (a cura di L. Borriello-E. Caruana-M.R. Del
Genio-N.Suffi), Città del Vaticano 1998, pp. 483 ss., con rinvii alla
letteratura.
[202] San Paolo, Lettera agli Ebrei
7,27. La traduzione è di S. Cipriani, in Le
lettere di S. Paolo (a cura di S. Cipriani), Assisi 1962, p. 780.
[203] Per una serrata critica di questo pregiudizio si vedano ora: J. Barr, “Uomo e natura. La
controversia teologica e l’Antico Testamento”, in Aa.Vv., Etiche della terra. Antologia di filosofia
dell’ambiente (a cura di M. Tallacchini), tr. it. di A.
Maccarini, Milano 1998, pp. 73 ss., il quale, a proposito della tesi secondo
cui l’idea del predominio dell’uomo sulla natura risulterebbe dalla Genesi, rileva che “l’enfasi della Genesi non sembra riguardare il potere
dell’uomo o le sue attività di sfruttamento … vi sono fattori che indicano che
non si tratta semplicemente di una questione di potere o sfruttamento. Un punto
strutturalmente importante, in linea generale, è il fatto che la più ovvia di
tutte le relazioni tra uomo e animale, ossia l’uso di carne animale per
nutrirsi, qui non viene presa in considerazione. In Genesi 1 si afferma esplicitamente che in principio l’uomo era
vegetariano, come lo erano anche gli animali … l’autorità di mangiar carne animale
viene espressamente conferita solo dopo il Diluvio: si veda Genesi 9,2-3 … Dunque il ‘dominio’ umano
previsto da Genesi 1 non comprendeva
l’idea di cibarsi degli animali, né implicava alcuna conseguenza terrorizzante
per il mondo animale. Lo sfruttamento umano della vita degli animali non viene
considerato come parte inevitabile dell’esistenza umana, come qualcosa di dato
e anzi incoraggiato nelle condizioni ideali delle origini della creazione;
tutt’al più, è qualcosa che viene dopo, dopo un deterioramento nella condizione
umana, come una sorta di condizione sub-ottimale”; si vedano, inoltre: R. Attfield, “Gli atteggiamenti
cristiani verso la natura”, ibidem,
pp. 103 ss.; I.G. Barbour,
“Ambiente e uomo”, ibidem, pp. 85 ss.
Una critica nei confronti di questo pregiudizio si trova anche in A. Linzey, op. cit., pp. 66 ss., al
quale si rinvia per l’analisi della letteratura; e nel recente volume, relativo
al rapporto tra ecologia e ebraismo, Aa.Vv.,
Ecologia & ebraismo. Dove la
natura e il sacro si incontrano (a cura di E. Bernstein), tr. it. di M. Freddi,
Firenze 2000.
[204] G. Ditadi, I Filosofi
e gli
animali, Este 1994, p. 75.
[205] G. Ditadi, I Filosofi
e gli
animali cit., p. 3.
[206] Da ultimo, per l’atteggiamento dei cristiani fra II e III secolo
nei confronti dell’ambiente naturale, si vedano i contributi di: E. Gallicet, “I cristiani del II e III
secolo di fronte alla natura”, in L’uomo
antico e la natura cit., pp. 305-322; A.
Nazzaro, “La natura in Ambrogio di Milano”, ibidem, pp. 323-355; C.
Moreschini, “Cosmo, natura e uomo nel mondo tardoantico”, ibidem, pp. 357-375.
[207] G. Ditadi, I Filosofi
e gli
animali cit., pp. 76 ss.
[208] Nella Bibbia, le regole relative al sacrificio e alla
spartizione alimentare sono contenute in particolare nel Levitico, nel Deuteronomio
e in alcuni passi tratti dai libri dei Numeri
e dell’Esodo. In particolare modo,
nel Levitico (1-7) sono distinte le
varie specie di sacrifici animali: l’olocausto, il sacrificio di comunione, il
sacrificio espiatorio,
[209] La tesi di un rifiuto del sacrificio, in senso alla cultura
ebraica, è oggetto di critica da parte di H.
Ringgren, Israele. I padri,
l’epoca dei re, il giudaismo,
tr. it. di M.R. Limiroli, Milano 1987, pp. 200 ss., il quale cita il Salmo 50
come esempio di un rifiuto solo apparente del sacrificio.
[210] L’ambiente nel quale operò Zarathustra è con una certa
probabilità quello orientale dell’altopiano iranico, nell’area sud-orientale.
Quanto al periodo, in cui egli avrebbe operato, si propende in letteratura per
una cronologia alta, sulla fine del II millennio a.C. Sul punto, si veda G. Gnoli, “Zarathustra”, in Lessico universale italiano di lingua,
lettere, arti, scienze e tecnica,
XXIV, Roma 1981, p. 684.
[211] Cfr. G. Gnoli, op. cit.,
p. 684, il quale osserva: “Pur essendo innegabile un valore simbolico e
metaforico del linguaggio naturalistico delle Gatha e dell’Avesta più antico
(G.G. Cameron, G.G. Gnoli, H.-P. Schmidt, S. Insler, M. Eliade), benché vi si
sia opposti da varî punti di vista (J. Duchesne-Guillemin, V.I. Abaev), non si
può negare neppure il valore sociale del messaggio zoroastriano che, anche per
quanto riguarda il culto e il rito sacrificale sembra ergersi a difesa delle
comunità di allevatori continuamente minacciate dalla furia guerresca delle
‘società di uomini’ espressione dell’aristocrazia guerriera. Non senza fondamento
si è vista nella dottrina di Z(arathustra) la religione di uomini dediti
all’agricoltura e alla pastorizia in un mondo ancora tutto dominato da capi
militari che vivono di conquista e di guerra, un movimento di poveri sorto
presso strati sociali diversi da quelli dominanti nella religione indiana dei
Veda (A. Meillet). Da questo punto di vista, anche se vi è divergenza di
opinioni sulla presunta condanna che Z(arathustra) avrebbe lanciato contro il
sacrificio cruento del bestiame, specie bovino, e il rito di hama, analogo a quello indiano del soma (si sono dichiarati contro la tesi
di una siffatta condanna, con diversi argomenti, M. Molé, M. Boyce), non c’è
dubbio che la testimonianza di Z(arathustra) si inserisca nella più vasta dinamica
dei fenomeni di reazione antisacrificale che si producono nelle società dedite
all’allevamento (A.M. Di Nola)”. Di recente B.
Schlerath, “Cibo degli dei e cibo degli uomini nella tradizione vedica”,
in Homo edens. Regimi miti e
pratiche dell’alimentazione nella civiltà del mediterraneo (a cura
di O. Longo-P. Scarpi), Milano
1989, pp. 120 ss., pur riconoscendo che Zarathustra avrebbe espresso un
“appassionato rifiuto … del sacrificio sanguinoso e crudele dei bovini”, ha
però sostenuto senza particolari argomenti: “È assai probabile che Zarathustra
non abbia rifiutato del tutto il sacrificio dei bovini, ma che abbia sostenuto
solo un altro tipo di uccisione, verosimilmente senza versamento di sangue,
così come si sacrifica in India”. Sul tema del vegetarianesimo di Zarathustra,
si veda ora G. Ditadi, I Filosofi
e gli
animali cit., pp. 8 ss.; Id.,
“Premessa”, in Plutarco, L’intelligenza
degli animali e la giustizia
loro dovuta (a cura di G. Didati),
Este 2000, pp. 52 ss.
[212] Traiamo la citazione da G.
Ditadi, I Filosofi e gli animali
cit., p. 8.
[213] Cfr. G. Ditadi, I Filosofi
e gli
animali cit., p. 9; Id.,
“Premessa” cit., p. 53.
[214] Traiamo la citazione da G.
Ditadi, I Filosofi e gli animali
cit., p. 9.
[215] Bundahishn, 4. Cfr. G. Ditadi, I Filosofi e gli
animali cit., p. 7; Id.,
“Premessa” cit., pp. 47 ss.
[216] Si veda, però, C.
Grottanelli, Il sacrificio cit., pp. 83 ss., il quale,
richiama l’attenzione sulla permanenza, in seno alla religione cristiana, di
sacrifici di animali.
[217] Matteo 9,13. Per il testo (e la relativa traduzione), si veda La bibbia di Gerusalemme cit., p. 2105.
[218] Marco 12,30. Per il testo (e la relativa traduzione), si veda La bibbia di Gerusalemme cit., p. 2181.
[219] Arnobio si sofferma in vari luoghi della sua opera sulla
inutilità del sacrificio di animali: si veda, ad es., Arnobio, nat. 7,3-4; 7,27-29. Sul tema, si
vedano: O. Gigon, “Arnobio:
cristianesimo e mondo romano”, in Aa.Vv.,
Mondo classico e Cristianesimo, Roma 1982, pp. 94 ss.; F. Mora, Arnobio e i culti
di mistero. Analisi storico-religiosa del V libro dell’Adversus Nationes, Roma 1994, pp. 19 ss.; G.M. Pintus, “Sacrifici animali e dèi
di coccio (Arn., adv. nat. VII)”, in L’Africa romana. Atti dell’XI
convegno di studio. Cartagine, 15-18 dicembre 1994 (a cura di M. Khanoussi-P. Ruggeri-C. Vismara), Ozieri 1996, pp.
1629-1636.
[220] Cfr. G.M. Pintus, op. cit.,
p. 1630, la quale osserva che, in Arnobio, “il virulento attacco contro il
sacrificio delle religioni politeiste si basa su due punti principali: la menzogna della divinità e l’inutilità dell’offerta. Gli dei pagani
sono, infatti, ‘dei di bronzo, dei di
coccio, di gesso, di marmo’, e la
conseguenza immediata è la stoltezza dell’uomo”.
[221] Cfr. G.M.
Pintus, op. cit., p. 1632.
[222] Cfr. S. Perozzi, Istituzioni
di diritto romano, 2 ed., Bologna 1928, p. 585 nt. 1, il quale
osserva che “fera bestia non vuol dire bestia feroce”, potendo essere considerato tale anche
un canarino. Le ferae bestiae sono gli animali selvatici, la cui specie l’uomo non ha ancora
assoggettata, senza che sia rilevante
la circostanza che singoli capi siano mansueti. Sulla classificazione delle ferae bestiae, si vedano,
inoltre: L. Landucci, “Il diritto di proprietà e il diritto
di caccia presso i romani”, in Archivio Giuridico ‘Filippo Serafini’, 29 (1882), pp. 307 ss.; Id., “Caccia”, in Enciclopedia Giuridica, parte I, sez. I, Milano 1898, p. 15; F. Glück, Commentario
alle Pandette, tr. it. di S. Perozzi, 41, Milano 1905, p. 52; M.J. Garcia Garrido, “Derecho a la caza
y ‘ius prohibendi’”, in Anuario de historia
del derecho español, 26
(1956), p. 278; P. Bonfante, Corso di diritto romano, II. La proprietà, parte II,
Milano 1968, p. 75; G. Polara, Le “venationes”. Fenomeno economico
e costruzione
giuridica, Milano 1983, pp. 7 ss.; A. Ortega y Carrillo de Albornoz, “Las
‘ferae bestiae’ en el derecho romano, en el Código civil y en la ley de
caza de
[223] Cfr. infra pp. 165 ss.
e nt. 244; 168 ss.
[224] Sul consortium ercto non cito e i rapporti
storici con la societas, si vedano,
con ulteriore bibliografia: V.
Arangio-Ruiz, La società in diritto romano, Napoli 1950, pp. 3 ss.; M. Bretone, “‘Consortium’ e ‘communio’”,
in Labeo, 6 (1960), pp. 163 ss.; A. Torrent, “Consortium ercto non cito”,
in Anuario de historia del derecho
español, 34 (1964), pp. 479 ss.; M.G.
Bianchini, Studi sulla societas,
Milano 1967; M. Kaser, “Neue
Literatur zur ‘societas’”, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 41 (1975), pp. 278 ss.; Tondo, “Il consorzio domestico nella
Roma antica”, in Atti e memorie
dell’Accademia toscana di scienze e lettere “
[225] V. supra p. 149
nt.198; infra p. 168.
[226] Cfr. G.M. Pintus, op. cit.,
p. 1633.
[227] Come non prendere in considerazione la ricca tradizione relativa
all’operato dei Santi? Pensiamo a San Rocco e al suo cane; a San Francesco
d’Assisi; a Sant’Antonio Abate, l’amico dei leoni, o ancora a Sant’Antonio da
Padova che predicava ai pesci. Sul legame tra i Santi e gli animali, si veda F. Rossetti, Gli animali che vissero
con i Santi, Assisi 1995. Si
vedano, inoltre: P. Dronke, “La
creazione degli animali”, in L’uomo di fronte
al mondo animale nell’alto medioevo, 7-13 aprile 1983 (Settimane di studio sull’alto medioevo, XXXI), Spoleto 1985,
pp. 809-848; P. Boglioni, “Il
santo e gli animali nell’alto medioevo”, ibidem,
pp. 935-993. Sulla concezione del mondo animale in San Francesco, si veda A. Marini, Sorores alaudae. Francesco d’Assisi, il Creato, gli animali, Assisi 1989.
[228] Sulla visione del mondo animale nei Padri della Chiesa, si veda Uomini e animali visti dai padri della chiesa (a cura di E. Bianchi),
Magnano 1997.
[229] Quanto al magistero pontificio, si deve a Pio XII
l’affermazione, secondo la quale “il mondo animale merita il rispetto e la
considerazione dell’uomo, ed ogni atto di crudeltà verso di esso va senza altro
condannato ed inoltre rende brutale l’uomo” (citato in E. Fusaro, Meraviglie
di natura e di animali,
Venezia 1976, p. 152). La sua voce non fu isolata, se anche Paolo VI,
nell’ottobre del 1969, rivolgendosi al Consiglio direttivo del Fondo Mondiale
per la natura, osservò: “Sebbene l’uomo sia il padrone della natura, egli non
deve distruggerla. Egli deve ammirarla, esplorarla e conoscerla. Egli coltiva
la terra ed alleva animali. Quante volte
[230] Sulla concezione cristiana dell’ambiente, si veda Aa.Vv., Ambiente e tradizione cristiana, Brescia 1990, ove sono raccolte le relazioni presentate
al Convegno di studi nazionale delle ACLI su: “Ambiente e tradizione
cristiana”, tenutosi a Milano, il 19 novembre 1988; e gli interventi tenuti al
forum su: “La questione ambientale e la tradizione cristiana”, organizzato
dalle ACLI e dalla Associazione Anni Verdi, il 22 giugno
[231] Nel libro di E. Fusaro,
op. cit., p. 141, leggo: “Il S. Ufficio richiesto se sia peccaminoso
torturare i muti animali, rispose: ‘Sì’. E richiesto ancora se tali peccati
siano degradanti per l’anima umana rispose ‘Sì’. E richiesto ancora se gli
animali hanno diritti di qualche tipo (Ratione
Creatoris et ratione ordinis naturae) nei confronti dei loro padroni, rispose: ‘Sì’…”.
[232] Sul rifiuto del sacrificio cruento, si vedano: E. Tagliaferro, “Anaimaktos thusia-logike thusia. A proposito della critica al
sacrificio cruento”, in Sangue e antropologia
nella liturgia, Atti della 4 settimana, Roma 21-26
novembre 1983 (a cura di F.
Vattioni), III, Roma 1983, pp. 1573-1595; C. Grottanelli, “Appunti sulla fine dei sacrifici”, in Egitto e Vicino Oriente, 12 (1989), pp. 175-192; Id., Il sacrificio cit., 70
ss.
[233] Sul vegetarianismo esiste una vasta bibliografia. Per una
visione complessiva relativa all’antichità, l’opera classica è ancora quella di
J. Haussleiter, Der Vegetarismus
in der Antike, Berlin 1935.
Si vedano, inoltre: M.V. Bacigalupo,
op. cit., pp. 11 ss.; M. Detienne,
“La cuisine de Pythagore”, in Archives
de sociologie des religions, 29 (1970), pp. 141-162; D.A. Dombrowski, The Philosophy of Vegetarianism,
Toronto 1984; F. Della Corte, “Il
vegetarismo di Ovidio”, in Opuscola,
10, Genova 1987, pp. 167-176; D.A. Dombrowski,
“Porphiry and vegetarianism: a contemporary philosophical approach”, in Aufstieg und Niedergang der römischen
Welt, II.36.2, Berlin-New York 1987,
pp. 774-791; F.J. Simoons, Non mangerai
di questa carne, tr. it. di
A. Buzzi, Milano 1991; G. Camassa,
op. cit., pp. 90 ss.; C.
Grottanelli, Il sacrificio cit., pp. 70 ss., con rinvii
alla letteratura.
[234] Nella filosofia greca, l’idea della affinità tra gli uomini e
gli altri esseri animati era stata affermata sul presupposto del possesso della
ragione da parte degli animali non umani. Sul tema, si veda, anzitutto, M. Detienne, Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, tr.
it. di A. Giardina, Roma-Bari 1978, pp. 3 ss., il quale rileva che, nella
cultura greca, dèi, uomini e animali sono uniti dal possesso della metis, una sorta di intelligenza propria
del polipo e della volpe, come del politico e del sofista; sul tema della
ragione animale, si vedano, inoltre: H.E.
Ziegler, Der Begriff des Instinktes einst und jetzt. Eine Studie über die
Geschichte und die Grundlagen der Tierpsychologie, Jena
1920; M. Pohlenz, “Tierische und
menschliche Intelligenz bei Poseidonios”,
in Hermes, 76 (1941), pp. 1-13; M. Thomas, “Les anciens philosophes et
le problème de l’instinct”, in Scientia.
Rivista internazionale di sintesi scientifica, 81 (1947), pp. 21-32; M.V. Bacigalupo, op.
cit., pp. 35-50; L. Bodson,
“Attitudes toward animals in Greco-Roman antiquity”, in International Journal for the
study of animal problems, 4 (1983), pp. 312-320; J.L. Labarrière, “Imagination humain et imagination
animale chez Aristote”, in Phronesis, 29 (1984) pp. 17-49; M. Vegetti, op. cit., pp. 19 ss.; G. Lanata, “Antropocentrismo e
cosmocentrismo nel pensiero antico” cit., pp. 25 ss.; U. Dierauer, “Raison ou instinct? le développement de la
zoopsychologie antique”, in L’animal dans l’antiquité
cit., pp. 3-28.
[235] Su questo significato dell’astensione dai sacrifici cruenti, si
veda M. Detienne, “Pratiche
culinarie e spirito di sacrificio”, in Aa.Vv.,
La cucina del sacrificio in terra greca cit., pp. 12 ss., il quale, dopo
avere osservato che la centralità del sacrificio di animali nel pensiero
sociale e religioso dei Greci si giustifica in virtù della ‘coincidenza’ tra
alimentazione carnea e pratica sacrificale, pone in rilievo la relazione fra il
sacrificio e “la pratica dei rapporti sociali, a tutti i livelli del
‘politico’, all’interno del sistema che i greci chiamano polis”. In particolare, per i pitagorici, l’astensione dalla carne
“non è semplicemente un comportamento anomalo: è un rifiuto intenzionale di
compiere l’atto centrale della religione politica. Questo vegetarianismo
dichiarato è un modo particolarmente efficace di ‘rinunciare al mondo’”. E
ancora: “L’orfismo non conosce la tensione tra rinuncia al mondo e salvezza
della città che contraddistingue la posizione dei pitagorici. Chi sceglie il
genere di vita orfico è un marginale, un individuo votato al vagabondaggio ed
escluso dalla città, da quando la voce di Orfeo, convertita in scrittura, ha
rivelato agli uomini che chiunque uccide un animale, chiunque distrugge un
essere vivente compie un omicidio (phonos).
La città degli uomini è dunque fondata sull’omicidio, vive del sangue versato:
il crimine è un’istituzione, gli esseri viventi si mangiano tra loro, è il
regno dell’antropofagia legale … Il radicalismo dell’atteggiamento orfico si accompagna
a una critica sistematica della teologia ufficiale e del discorso ‘ortodosso’
della città su se stessa, nei suoi rapporti con gli dèi e con il mondo animale,
tra la sfera naturale e quella soprannaturale”. Sul valore ‘politico’ dell’astensione
dalle carni, si vedano, inoltre: M.
Vegetti, op. cit., pp. 20 ss.; G. Camassa, op. cit., pp. 90 ss.
[236] Per le fonti v. O. Kern,
Orphicorum Fragmenta, Berlin 1922, 60-235; con riferimento alla antropogonia v.
Olimpiodoro, in Phd. p. 2,21 (ed. W. Norvin=Orphicorum
Fragmenta 220); v. anche Hymn. Apoll. 336; Platone, Leg.
701 c. Sul racconto orfico della morte di Dioniso, si veda M. Detienne, “Pratiche culinari e
spirito di sacrificio” cit., pp. 7 ss.; si veda, inoltre, R. Girard, La violenza e il
sacro, tr. it. di O. Fatica-E.
Czerkl, 3 ed., Milano 1992, pp. 170 ss.; W.
Burkert, I Greci cit., p. 429 nt. 15.
[237] V. supra p. 162 nt.
235.
[238] Cfr. M. Detienne,
“Pratiche culinari e spirito di sacrificio” cit., p. 13.
[239] Cfr. W. Burkert, Lore and
science in ancient Pythagoreanism, Cambridge 1972, pp. 178
ss.; M. Detienne, I giardini
di Adone, tr. it. di L. Berrini Pajetta, Torino 1975, pp. 164-172; Id., Dionysos mis a mort,
Paris 1977, pp. 145 ss.; M. Vegetti,
op. cit., p. 20; G. Camassa,
op. cit., pp. 91 ss.
[240] L’espressione città profana, per alludere all’atteggiamento
empio di coloro che, a vario titolo, si rendono colpevoli, agli occhi dei
pitagorici e degli orfici, delle stragi di animali è parafrasata da M. Vegetti, op. cit., p. 21: “Il
doppio disegno dei pitagorici – l’ascesa ad una condizione sovrumana da un
lato, il dominio sulla città dall’altro – passa dunque per la via di una doppia
purezza: quella della costruzione del sapere teorico sui numeri, e quella del
rispetto magico verso il corpo dell’animale vivo. Al polo opposto, sta
l’atteggiamento profano di quegli uomini della città, che i pitagorici
condannano come impuri ed assassini: i cacciatori, i pescatori, gli allevatori,
che uccidono l’animale per farne una merce, i macellai che ne spartiscono il
cadavere, i cuochi che lo preparano al pasto, infine i medici laici …”.
[241] Cfr. M. Detienne, I giardini
di Adone cit., pp. 47 ss.; W.
Burkert, Homo necans cit., pp. 110 ss.
[242] Cfr. M. Vegetti, op. cit.,
p. 20.
[243] Nella poesia omerica, la presenza di precise e complesse regole,
in tema di sacrificio a scopo alimentare o di culto, sembrerebbe attestare
l’esistenza di una tutela giuridico-religiosa degli animali. In tale direzione,
si può interpretare il celebre episodio della Odissea (9,395) sulla uccisione delle vacche care al Sole.
[244] L’idea pitagorica della partecipazione
degli animali al diritto era però assai controversa nella filosofia greca. Come
Pitagora ed Empedocle, anche i sofisti, contrapponendo il nÒmoj alla fÚsij,
sostenevano la “comune soggezione alla legge naturale” (così R. Mondolfo, Problemi del pensiero antico, Bologna 1936, p. 80) dell’uomo e degli altri animali. Al contrario,
Aristotele (de an. 414 a32-b19), gli stoici (si veda Plutarco, sol. an. 964b, dal quale apprendiamo che
la giustificazione che davano gli stoici dell’esclusione di rapporti giuridici
tra uomo e animale era che, non avendo gli animali la ragione, essi non erano
neppure in condizione di rendere giustizia agli uomini, né quindi era pensabile
il contrario) e, forse anche, gli epicurei (Porfirio, abst. 1,12,5-6; Epicuro, sent.
32), negano l’esistenza di un diritto comune a uomini e ad animali. Sulla
contrapposizione fra nÒmoj e fÚsij, (oltre ai riferimenti alla nt. 12), si vedano: A.
Biscardi, Diritto greco antico, Milano 1982, pp. 343 ss.; J.
Triantaphyllopoulos, “Contra naturam”, in Sodalitas, III, Napoli 1984, pp. 1415 ss.; S. Querzoli, op. cit., p. 77 nt. 4, con ampio esame della
letteratura; L.M. Napolitano Valditara, “Il contrasto fra nÒmoj e
fÚsij. Posizioni diverse e diverse indicazioni di condotta”, in Il dibattito
etico e politico in Grecia
tra il V e il IV secolo cit., pp. 11
ss.; F. Cancelli, Le leggi
divine di Antigone e il
diritto naturale cit., pp. 29 ss. Per quanto riguarda la posizione di
Epicuro, secondo V. Goldschmidt, La doctrine
d’Epicure et le droit, Paris 1977, pp. 50 ss., anche
tale filosofo avrebbe riconosciuto la partecipazione degli animali al diritto. Sulla concezione epicurea, si veda A. Alberti, “The Epicurean theory of law and justice”, in Justice and
generosity. Studies in Hellenistic social and political philosophy. Proceedings of the
Sixth Symposium Hellenisticum (ed. by A.
Laks-M. Schofield), Cambridge 1995.
[245] Aristocrate, theos. 68. La traduzione è di G. Giannantoni, in I Presocratici. Testimonianze e frammenti (a cura di G. Giannantoni), I, Roma-Bari 1969, p.
196. Si veda, inoltre, G. Ditadi,
I Filosofi
e gli
animali cit., pp. 20; 267 ss.
[246] Porfirio, abst. 2,21.
La traduzione è di G. Giannantoni,
op. cit., p. 414. Sul rifiuto dei sacrifici in Empedocle, si veda J.-F. Balaudé, “Parenté du vivant et
végétarisme radical. Le ‘Défi’ d’Empédocle”, in L’animal dans l’antiquité cit., pp. 31-53.
[247] Porfirio, abst. 2,21.
Cfr. E. Bignone, Empedocle, studio critico, traduzione e
commento delle testimonianze e dei frammenti, Torino 1916, p. 501; M.V. Bacigalupo, op. cit., p. 13.
[248] Cfr. G. Santese,
“Animali e razionalità in Plutarco”, in Filosofi
e animali
nel mondo antico cit., pp.
145-149; G. Didati, “Premessa”
cit., pp. 171 ss.
[249] Si veda in particolare la presa di posizione di Plutarco contro
la caccia nel De sollertia animalium 959c
ss. Su questo aspetto della opera di Plutarco si veda ora G. Didati, “Premessa” cit., pp. 207 ss.
[250] Plutarco, nell’opera De
esu carnium 994e-995b, 997b, in contrasto con gli Stoici, ritiene la
sarcofagia una pratica contro natura, dal momento che gli uomini non possiedono
né i mezzi per uccidere la preda, né quelli per digerire la carne. Cfr. O. Longo, “Introduzione”, in Plutarco, Le virtù
degli animali (a cura di A. Zinato),
Venezia 1995, pp. 23 ss.; G. Didati, “Premessa”
cit., pp. 180 ss.
[251] V. supra
p. 149 nt. 198.
[252] V. infra p. 169.
[253] V. infra p. 173.
[254] V. infra p. 174.
[255] V. infra pp. 175 ss. e
nt. 264.
[256] Un quadro generale dell’opera si trova in Marco Tullio Cicerone,
Lo Stato (a cura di F. Cancelli),
Milano 1979. Sulla definizione ciceroniana di res publica si veda G. Lobrano, Res publica res populi. La legge
e la
limitazione del potere, Torino 1996,
pp. 114 ss. Su Cicerone “giurista”, per un primo esame, si vedano: A. Gasquy, Cicéron jurisconsulte, Paris 1887; B. Brugi, “Cicerone giureconsulto”, in Rendiconti della R. Accademia dei Lincei, 29 (1920), pp. 117-124; E. Costa, Cicerone giureconsulto, Bologna 1927; U. Brasiello, “Cicerone avvocato”, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 13 (1959), pp.
561-575; V. Arangio-Ruiz,
“Cicerone giurista”, in Marco Tullio
Cicerone. Scritti commemorativi pubblicati nel bimillenario della morte,
Roma 1961, pp. 1-19 (=Id., Scritti di diritto romano, IV, Napoli
1977, pp. 259-279); G. Pugliese, “Cicerone
tra diritto e retorica”, in Scritti in
onore di A.C. Jemolo, IV, Milano 1963, pp. 563-581 (=Id., Scritti giuridici scelti, III, Diritto
romano, Napoli 1985, pp. 71-97); P.
De Francisci, “Cicerone e il diritto”, in Scritti in memoria di A. Giuffrè, I, Milano 1967, pp. 273-280; F. Serrao, “Cicerone e la ‘lex publica’”, in Aa.Vv., Legge e società nella repubblica romana (a cura di F. Serrao), Napoli 1981, pp. 401-438; G. Ciulei, “War Cicero Jurist”, in Helikon, 29-30 (1989-1990), pp. 387-394;
F. Cancelli, “La giustizia tra i
popoli nell’opera e nel pensiero di Cicerone”, in Atti del convegno. La giustizia tra i popoli nell’opera e nel pensiero
di Cicerone, Roma 1993, pp. 25-51.
[257] L’importanza di Cicerone, nella diffusione delle concezioni di favore
per la condizione animale, elaborate da Pitagora ed Empedocle, non può
naturalmente essere messa in discussione, osservando che proprio tali
concezioni erano avversate dall’autore. Si veda, a questo proposito, E. Costa, Cicerone giureconsulto,
Roma 1964 (ed. an.), il quale, pur osservando che la “dottrina propugnata da
Pitagora e proseguita da Empedocle, che dalla ricognizione di una comune
condizione di natura fra tutti gli esseri viventi desumeva una pur comune
partecipazione di tutti questi ad un diritto precostituito dalla natura stessa,
è respinta e combattuta decisamente dal Nostro …”, riconosce: “Proseguita
tuttavia in Roma, già al tempo del Nostro e nel secolo successivo, dai
pitagorici, cotal dottrina s’infiltra pure nel pensiero di taluno fra i
giuristi classici, fino a dar vita a quel concetto del ius naturale, accolto da
Ulpiano, non humani generis proprium, sed omnium animalium quae in terra, quae in mari nascuntur”.
Si vedano: L. Bodson, “L’animale
nella morale collettiva e individuale dell’antichità greco-romana”, in Filosofi e animali nel mondo
antico cit., p. 74; M. Kaser, Ius gentium cit., p.
[258] V. infra p. 185.
[259] Sulla nozione di civitas
in Cicerone si vedano: P. Rodríguez,
“El significado de civitas en
Cicerón”, in Veleia, 7 (1990), pp.
233 ss.; P. Catalano, “Una civitas
communis deorum atque hominum: Cicerone tra temperatio reipublicae e rivoluzioni”, in Studia
et Documenta Historiae et Iuris,
61 (1995) (=Studi in memoria
di Gabrio Lombardi, II, Roma
1996), pp. 723 ss.; R. Stark,
“Ciceros Staatsdefinition”, in Das Staatsdenken der Römer (hrsg. von R. Klein), Darmstadt 1966, pp. 332 ss.;
G. Lobrano, Res publica res
populi. La legge e la limitazione
del potere, Torino 1996, pp. 113 ss.; F.
Sini, “Aspetti giuridici e rituali della religione romana” cit., par. 5.
[260] V. infra p.
[261] Su Seneca “giureconsulto” si vedano: F. Stella Maranca, Seneca
giureconsulto, Lanciano 1926 (rist. an. Roma 1966); J. Santa Cruz Teijero, “Séneca y la esclavitud”, in Anuario de historia del derecho
español, 14 (1942-1943), pp. 612 ss.;
J.M. Stampa Braun, “Las ideas
penales y criminológicas de L.A. Séneca”, Valladolid 1950; A. D’Ors, “Séneca ante el tribunal de
la jurisprudencia”, in Octava Semana
Española de Filosofía (=Estudios
sobre Séneca – Ponencias y comunicaciones), Madrid 1966, pp. 105 ss.; J. Murillo Rubiera, “Las ideas juridicas
de Séneca”, in Revista general de
legislación y jurisprudencia, 115 (1967), pp. 32 ss.; F. Hernandez-Tejero, “El pensamiento
iuridico en Seneca ‘de beneficiis’”,
in Revista de
[262] Cfr. A. Mantello,
“Il sogno, la parola, il diritto. Appunti sulle concezioni giuridiche di
Paolo”, in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano, 33 (1991), p. 401.
[263] Cfr. V. Goldschmidt,
op. cit., pp. 51 ss.; C.F. Saylor,
“Man, animal and the bestial in Lucretius”, in Classical Journal, 67
(1972), pp. 306 ss.; G. Lanata,
“Antropocentrismo e cosmocentrismo nel pensiero antico” cit., p. 35.
[264] Cfr. S. Rocca,
“Animali”, in Enciclopedia Virgiliana, I, Roma 1984, pp. 173 ss.,
la quale osserva che “mentre il realismo teocriteo prevedeva che il bifolco
ricorresse alla maniera forte per farsi obbedire e facesse uso del bastone (4.
49), V(irgilio) evita di seguire il suo modello per questa via; anzi arriva a
non nominare mai la pelle o il vello della pecora che presuppone l’uccisione
dell’animale”. E ancora: “le istruzioni di V(irgilio) circa il rapporto con gli
animali da cortile chiarisce ciò che egli intende con tueri (G 3,295 ss., 394 ss.), lo sforzo cioè di creare uno spazio
sicuro e concedere loro ciò che più giova e li rende felici”. Si vedano,
inoltre, con rinvii alla letteratura: S.
Rocca, Etologia virgiliana, Genova 1983; F. Sini, Bellum nefandum cit., pp. 159
ss.; 216 ss.
[265] Cfr. F. Sini,
Bellum nefandum cit., pp. 218-219 e nt. 106.
[266] Virgilio, georg. 4,153
ss. Sulle api, come modello di organizzazione giuridica in Virgilio, v. R. Joudoux, “La philosophie politique
des Géorgiques d’après le livre IV, vers 149 à
[267] Sulla similitudine, in generale, come espressione del rapporto
simpatetico esistente tra uomo e animali, si vedano: B. Snell, op. cit., pp. 269 ss.; M. Vegetti, op. cit., p. 16 ss.; e
con specifico riferimento alle similitudini in Virgilio, si veda F. Della Corte, “Ape” cit., p. 212.
[268] Cfr. C. Ampolo,
“La nascita della città”, in Aa.Vv.,
Storia di Roma, I. Roma
in Italia (sotto la direzione di A.
Momigliano-A. Schiavone), Torino 1988, pp. 155 ss., il quale rileva: “La
città antica va cioè vista come stretta unità di elementi politici e istituzionali,
religiosi (gli dèi sono i veri re della città) e sociali, basati sul nesso
giuridico-economico tra cittadino e proprietà della terra”. Sulla nozione di urbs-civitas,
si vedano inoltre: G. Lombardi,
“Su alcuni concetti del diritto pubblico romano; civitas, populus, res publica, status rei publicae”, in Archivio
Giuridico ‘Filippo Serafini’, 126
(1941), pp. 192 ss.; F. Casavola,
“Il concetto di ‘Urbs Roma’: giuristi e imperatori romani”, in
Idea giuridica e politica di Roma e
personalità storiche, I (=Rendiconti
del X Seminario “Da Roma alla Terza
Roma”, Campidoglio 21 aprile 1990, [a cura di P. Catalano-P. Siniscalco]), Roma 1991, pp. 39-55, (poi in Labeo, 38 (1992), pp. 20-29) (=Id., Sententia legum tra mondo antico e moderno, I, Diritto
romano, Napoli 2000, pp. 353-364), con rinvii alla letteratura; M.P. Baccari, “Il concetto giuridico di
civitas augescens: origine e continuità”, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 61 (1995) (=Studi in memoria di Gabrio Lombardi, II, Roma 1996), pp. 759 ss.; Ead., Cittadini popoli e comunione nella legislazione dei secoli IV-VI, Torino
1996, pp. 66 ss.
È interessante osservare
come questo quadro sia presente nel grammatico Carisio, il quale per definire
il nomen contrappone, come esempio di
nome comune, una sequenza di due soli elementi – Roma, Tevere – ad una sequenza
costituita invece da tre elementi – urbs
civitas flumen –, come esempio di nome comune: Carisio, gramm. 152-3 K.=193-4 B.: Nomen est pars orationis cum casu sine tempore
significans rem corporalem aut incorporalem
proprie communiterve, proprie, ut Roma
Tiberis, communiter, ut urbs civitas
flumen. Nomina aut propria sunt aut appellativa. … Appellativa autem quae generaliter communiterque dicuntur quaeque in duas
species dividuntur, quarum altera significat res corporales, quae videri tangique possunt, ut est homo
terra mare, altera incorporales, ut est pietas iustitia dignitas, quae intellectu
tantum modo percipiuntur, verum neque videri nec tangi
possunt. Poiché, naturalmente, il
rapporto tra gli elementi della sequenza è tra Roma e urbs civitas, da un lato,
e Tevere e flumen, dall’altro,
sembrerebbe che il grammatico abbia inteso porre in evidenza il carattere
unitario, ancorché complesso, della nozione “urbs civitas”. Si può
ritenere che la distinzione e combinazione di elementi corporali (urbs) e incorporali (civitas), presentata da Carisio, non era
sconosciuta alla giurisprudenza romana, quando si consideri la suggestiva
ipotesi, da ultimo ricordata, sia pure con una certa cautela, da Mario Bretone,
che la distinzione gaiana, tra res corporales e res incorporales,
“dipendeva dalla tradizione grammaticale raccolta da Carisio e risalente sino a
Dionisio Trace”. Cfr. M. Bretone,
Diritto e tempo nella tradizione europea,
Roma-Bari 1994, il quale parla di “consonanza” tra Gai. 2,12-14 e il frammento
di Carisio testé riportato.
[269] Cfr. F. Della Corte,
“Ape” cit., p. 212, il quale rileva che Virgilio “non rinunciava cioè a tutta
l’attrattiva che esercitava su di lui questa perfetta res publica …, comunità
di esseri dotati non di intelletto, ma d’istinto tale che faceva convogliare
tutti gli sforzi sulla propagazione della specie, sulla sua conservazione e
persino sui bisogni dell’uomo”. L’espressione res publica è di R. Joudoux, op. cit., pp. 67 ss.
[270] Sul concetto di pax deorum, si vedano: P. Voci, “Diritto sacro romano in età arcaica”,
in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 19 (1953), pp.
49 ss. (=Id., Scritti di diritto romano, I, Padova 1985, pp. 226 ss.); M. Sordi, “Pax deorum e libertà
religiosa nella storia di Roma”, in Aa.Vv.,
La pace nel mondo antico (a cura di M. Sordi),
Milano 1985, pp. 146 ss.; E. Montanari,
“Il concetto originario di pax e pax deorum”,
in Le concezioni della pace. VIII Seminario Internazionale di Studi Storici “Da Roma alla Terza
Roma”, Relazioni e comunicazioni, 1,
Roma 1988, pp. 49 ss. (=Id.,
“Tempo della città e pax deorum: l’infissione del clavus annalis”, Appendice I, in
Mito e storia nell’annalistica romana delle origini, Roma 1990,
pp. 85 ss.); F. Sini, Bellum
nefandum cit., pp. 256 ss., con ampio esame della letteratura; M. Humbert, “Droit et religion dans
[271] Cfr. F. Sini,
Bellum nefandum cit., pp. 218-219 nt. 106.
[272] Così P.
Catalano, Populus Romanus Quirites, Torino 1974, pp. 101 ss. Sulla
nozione di ius Quiritium e di Quirites
si vedano, inoltre: F. Bozza, “Ius Quiritium”,
in Studi Senesi, 64 (1952), pp. 1 ss.; F.
De Visscher, “Ex iure Quiritium”,
in Droits de l’antiquité et sociologie
juridique. Mélanges H. Lévy-Bruhl, Paris 1959, pp. 317 ss.; G. Galeno, “Ius Quiritium”, in Novissimo Digesto Italiano, IX,
Torino 1963, pp. 388-389; P. Catalano,
Linee del sistema sovrannazionale romano, I, Torino 1965, pp. 89-95; L. Labruna, “Quirites”,
in Novissimo Digesto Italiano, XIV,
Torino 1967, pp. 708-712.
[273] Cfr. L. Canali,
“Introduzione e traduzione”, in Virgilio, Bucoliche.
Georgiche. L’amore profondo per la
terra, per gli animali, per i cicli della natura, Milano
1992, p. 236 nt. 25, il quale parla di un “significato religioso e
provvidenziale all’organizzazione ‘civile’ degli alveari”.
[274] Sul significato del termine aequus
e sulla nozione di aequitas, per un
primo esame, segnaliamo: A. Guarino,
“Equità”, in Novissimo Digesto Italiano, VI, Torino 1963, pp. 619-624; A. Biscardi, “Riflessioni minime sul concetto di ‘aequitas’”, in Studi in memoria di G. Donatuti,
I, Milano 1973, pp. 137-142; O.
Robleda, “L’equità in Diritto romano”, in Apollinaris, 51 (1978), pp. 404-414 ss.; L. Vacca, “Considerazioni sull’aequitas come elemento del metodo della giurisprudenza romana”, in Studi in memoria di G.
D’Amelio, I, Milano 1978, pp. 397
ss.; P. Silli, Mito e realtà dell’aequitas christiana. Contributo alla determinazione del
concetto di aequitas negli atti degli
scrinia costantiniani, Milano
1980; Id., “‘Aequitas’ e ‘epieikeia’
nella legislazione giustinianea”, in Studia
et Documenta Historiae et Iuris,
50 (1984), pp. 281-340; P. Cerami,
“La concezione celsina del ‘ius’. Presupposti culturali e implicazioni
metodologiche. I. L’interpretazione degli atti autoritativi”, in Annali del Seminario Giuridico dell’Università di Palermo, 38 (1985), pp. 1 ss.; F. Gallo, “Sulla definizione celsina
del ius”, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 53 (1987), pp. 7-52 (=Id., L’officium del pretore nella
produzione e applicazione del diritto. Corso di diritto romano, Torino
1997, pp. 221-266) (=Id.,
Opuscula selecta [a cura di F. Bona-M.
Miglietta], Padova 1999, pp. 553-604); Id.,
“Diritto e giustizia nel titolo primo del Digesto”, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 54 (1988), pp. 1-36 (=Id., Opuscula selecta cit., pp.
605-648); P. Silli, “Equità
(storia del diritto)”, in Digesto delle Discipline Privatistiche.
Sezione Civile, VII,
Torino 1991, pp. 477 ss.; W. Waldstein,
“Aequitas und summum ius”, in Tradition und
Fortentwicklung im Recht. Festschrift zum 90. Geburtstag von Ulrich von Lübtow
am 21. August 1990 (hrsg. von K. Slapnicar),
Berlin 1991, pp. 23 ss.; M. Talamanca,
“‘L’aequitas naturalis’ e Celso in
Ulp. 26 ad ed. D. 12,4,3,7”, in Bullettino
dell’Istituto di Diritto Romano, 96-97 (1993-1994), pp. 1 ss.; A. Biscardi, “Aequitas ed epieikeia”,
in Rendiconti dell’Accademia dei Lincei, 5 (1994), pp. 389-397; Aa.Vv., Aequitas and Equity. Equity in Civil Law and mixed Jurisdictions (ed. by A.M. Rabello), Jerusalem 1997; R. Quadrato, “Favor rei ed aequitas: la
regula di D. 50,17,125”, in Nozione formazione e interpretazione del
diritto cit., pp. 171-234; P. Voci,
“‘Ars boni et aequi’”, in Index, 27
(1999) (=In memoria di Giambattista
Impallomeni), pp. 1-22.
[275] Sul concetto di utilitas, si vedano: F.B.
Cicala, Il concetto di utile e sue
applicazioni in diritto romano, Milano-Torino-Roma 1910; A. Steinwenter, “Utilitas publica-utilitas singulorum”, in Festschrift
für P. Koschaker, I, Weimar
1939, pp. 84 ss.; J. Gaudemet, “Utilitas publica”, in Revue historique de droit français et étranger, 19 (1951),
pp. 465 ss.; H. Hankum, “Utilitatis causa receptum. Sur la méthode pragmatique des juristes
romains classiques”, in Revue Internationale des Droits de l’Antiquité,
15 (1968), pp. 259 ss.; G. Longo,
“Utilitas publica”, in Labeo, 19
(1972), pp. 7 ss.; M. Navarra, “Utilitas Publica-utilitas singulorum tra
IV e V sec. d.C. Alcune osservazioni”, in Studia
et Documenta Historiae et Iuris,
63 (1997), pp. 269-291.
[276] Cfr. F. Sini,
Bellum nefandum cit., pp. 211 ss.
[277] Sulla concezione del ius
publicum in Cicerone si vedano: G. Lombardi, “Il concetto di ius publicum
negli scritti di Cicerone”, in Rendiconti
del Reale Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, 72 (1939), pp. 465 ss.; G. Aricò Anselmo, “Ius
publicum-ius privatum in Ulpiano, Gaio e Cicerone”, in Annali del Seminario Giuridico dell’Università
di Palermo, 37 (1983), pp. 447 ss. Sulla aequitas in Cicerone, si vedano: O.
Robleda, “La aequitas en Ciceron”,
in Humanidades, 1 (1950), pp. 31-57; B. Riposati, “Una singolare nozione di aequitas in Cicerone”, in Studi in onore di B. Biondi, II, Milano 1965, pp. 445-465; A. Zamboni, “L’aequitas in Cicerone”, in Archivio
Giuridico ‘Filippo Serafini’, 170
(1966), pp. 167-203; P. Pinna Parpaglia,
Aequitas in libera repubblica, Milano 1973, pp. 90 ss., con ampio esame della
letteratura precedente. Sulla utilitas
in Cicerone, si veda T. Jossa, “L’utilitas
rei publicae nel pensiero di Cicerone”, in Studi Romani, 12 (1964),
pp. 269-288.
[278] D. 1,1,11 (Paul. 14 ad
Sab.): Ius pluribus modis dicitur: uno modo, cum id quod semper
aequum ac bonum est ius
dicitur, ut est ius naturale.
Altero modo, quod omnibus
aut pluribus in quaque civitate utile est, ut
est ius civile. Nec minus ius recte
appellatur in civitate nostra ius honorarium.
La
letteratura sul presente frammento è vastissima, anche, ma non solo, in
relazione al problema della genuinità di esso. Sembrano porre in dubbio, pur
nella diversità di posizioni, la genuinità del frammento: G. Lombardi, Sul concetto di ius gentium cit., pp. 224 ss.; A. Burdese, “Il concetto di ius naturale
nel pensiero della giurisprudenza classica” cit., p. 418; G. Nocera, Ius naturale nella esperienza giuridica romana cit, p. 28.; F. Gallo, “Sulla definizione celsina
del ius” cit., p. 585 nt. 108.
Mostrano, invece, di propendere per una sostanziale genuinità del frammento: C.A. Maschi, La concezione naturalistica del diritto cit., pp. 178
ss.; M. Bartosek, op. cit.,
pp. 492 ss.; C.A. Maschi, “Il
diritto naturale come ordinamento giuridico inferiore?” cit., pp. 425 ss.; R. Martini, Le definizioni dei giuristi
romani, Milano 1966, pp. 277 ss.; G. Grosso, op. cit., pp. 99 ss.; W.
Waldstein, “Entscheidungsgrundlagen der klassischen römischen Juristen”,
in Aufstieg und Niedergang der römischen
Welt, II.15, Berlin-New York 1976,
pp. 82 ss.; F. Sini, Bellum
nefandum cit., p. 222 e nt. 110.
[279] D. 1,1,1,2 (Ulp. 1 inst.): Huius studii duae sunt positiones, publicum et privatum. Publicum ius est quod
ad statum rei Romanae spectat, privatum quod ad
singulorum utilitatem: sunt enim quaedam
publice utilia, quaedam privatim.
Non è
certamente possibile prendere qui in esame la letteratura sulla distinzione fra
ius publicum e ius privatum. Per un primo esame, si vedano:
F. Stella Maranca, “Il diritto
pubblico romano nella storia delle istituzioni e delle dottrine politiche”, in Id., Scritti vari di diritto
romano, Bari 1931, pp. 102 ss.; S. Romano, “La distinzione fra ius publicum
e ius privatum nella giurisprudenza romana”, in Scritti giuridici in onore
di Santi Romano, IV, Padova
1940, pp. 157 ss.; G. Nocera, Ius
publicum (D. 2,14,38). contributo alla ricostruzione
storico-esegetica delle regulae iuris, Roma 1946; M. Kaser, “Ius publicum-ius privatum”, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 17 (1951), pp. 267 ss.; G. Lombardi, “Diritto pubblico”, in Novissimo Digesto Italiano, V,
Torino 1963; P. Catalano, “La divisione
del potere in Roma (a
proposito di Polibio e di
Catone)”, in Studi in onore di Giuseppe Grosso, VI, Torino 1974, p. 676; H. Ankum, “La noción de ‘ius publicum’
en derecho romano”, in Anuario de historia
del derecho español, 53
(1983), pp. 524 ss.; F. Sini, Documenti sacerdotali in Roma antica,
I. Libri e commentarii, Sassari 1983, pp. 213 ss.; G. Aricò Anselmo, op. cit., pp. 447 ss.; M. Kaser, “‘Ius publicum’ und ‘ius privatum’”,
in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte
(Rom. Abt.), 103 (1986), pp. 1 ss.; G.
Nocera, “Privato e pubblico (Diritto romano)”, in Enciclopedia del diritto, XXXV, Milano 1986, pp. 615 ss.;
Id., Il binomio pubblico e privato nella storia del diritto, Napoli 1989; P. Stein, “Ulpian and the distinction
between ius publicum and ius privatum”, in Collatio iuris Romani. Etudes dédiées à Hans Ankum
à l’occasion
de son 65ème anniversaire, II, Amsterdam 1995, pp.
499 ss.; V. Marotta, Ulpiano e l’impero, I, Napoli 2000, pp.
153 ss. Per una riflessione generale sul diritto pubblico romano, in
particolare attraverso l’analisi dei rapporti tra “categorie contemporanee ed
istituzioni antiche”, si veda ora G.
Lobrano, Il potere dei tribuni della plebe, Milano 1983, pp. 6 ss.; Id.,
Diritto pubblico romano e costituzionalismi
moderni, Sassari 1989, passim; Id., Res publica res populi cit., pp. 42 ss.; 205 ss.
[280] Virgilio, georg.
4,156-157; 184; 212-218. Si veda anche supra
pp. 177; 179; 181 nt. 275.
[281] Cfr. P. Catalano, “Giustiniano”,
in Enciclopedia Virgiliana, II, Roma 1985, p. 763.
[282] Così F. Sini,
Bellum nefandum cit., pp. 216 ss.
[283] Cfr. P. Catalano,
“Giustiniano” cit., p. 762.
[284] Cfr. C. Castello,
“Il pensiero giustinianeo sull’origine degli status hominum”, in Studi in memoria di E.
Albertario, II, Milano 1953, pp. 197
ss.; F. Goria, “Schiavi, sistematica
delle persone e condizioni economico-sociali nel Principato”, in Aa.Vv., Prospettive sistematiche nel diritto
romano, Torino 1976, pp. 372 ss.; L. Lantella, “Il lavoro sistematico nel
discorso giuridico romano”, ibidem,
p. 219; P. Catalano,
“Giustiniano” cit., p. 762; F. Sini,
Bellum nefandum cit., p. 225 nt. 114.
[285] Si veda supra p. 170.
[286] V. supra p. 172.
[287] Cfr. F. Sini, “Aspetti
giuridici e rituali della religione romana” cit., il quale osserva finemente
che, nella religione politeista romana, una “coerente traduzione nella sfera
religiosa” della concezione secondo cui “il sistema giuridico-religioso romano
fosse caratterizzato da una comunanza di diritti tra (dèi) uomini e animali”
consentiva di “considerare quali possibili vittime sacrificali anche gli stessi
esseri umani”.
[288] Cfr. G. Grosso, op. cit., p. 101. Si veda, inoltre, C.A.
Maschi, La concezione naturalistica del diritto cit., p. 163.
[289] Sulle relazioni tra Costantino e gli ‘intellettuali’, si veda L. De Giovanni, Costantino e il mondo
pagano cit., pp. 151 ss.; Id., “Mondo tardoantico e formazione
del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-
[290] Giuliano, or. 1,6,8
c-d, sul quale si veda L. De Giovanni,
Costantino e il mondo pagano cit., p.
152.
[291] Eusebio, vita Const.
4,51,2; 4,52,1. Cfr. R. Farina, L’impero e l’imperatore cristiano in Eusebio di Cesarea
cit., p. 172.
[292] Eusebio, vita Const.
4,32.
[293] Eutropio, 10,7,2.
[294] Cfr. L. De Giovanni,
Costantino e il mondo pagano cit., pp.
151 ss.; Id., “Mondo tardoantico
e formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-
[295] Ammiano, 19,12,6; Libanio, or.
1,115; Imerio, or. 14,20 ss.
[296] Imerio, or. 14,20-27.
[297] Sozomeno, hist. eccl.
1,5.
[298] Eunapio, vit. soph. 6,2,2-3; Giovanni Lido, mens. 4,2.
[299] Origene, Cels. 3,59.
[300] OGIS 721.
[301] Per tutte queste notizie si veda L. De Giovanni, Costantino
e il
mondo pagano cit., p. 161.
[302] Cfr. L. De Giovanni,
Costantino e il mondo pagano cit., p.
161.
[303] Eusebio, hist. eccl. 6,19,7.
[304] Cfr. R.P.C. Hanson,
“The christian attitude to pagans religion up to the time of Constantine the
Great”, in Aufstieg und Niedergang
der römischen Welt, II.23.2,
Berlin-New York 1980, pp. 910-973; L. De
Giovanni, Costantino e il
mondo pagano cit., p. 168; M. Pérez
Medina, “Sobre la prohibición de sacrificios por Constantino” cit., p.
237.
[305] Eusebio, praep. evang.
13,18,17.
[306] Cfr. L. De Giovanni,
Costantino e il mondo pagano cit., p.
172.
[307] Sul legame tra l’opera di Lattanzio e le Institutiones di Ulpiano si vedano: C. Ferrini, op. cit., pp. 467 ss.; J. Gaudemet, “Lactance et le droit
romain”, in Accademia Romanistica
Costantiniana, Atti II Convegno
Internazionale, Spello-Isola Polvese
sul Trasimeno-Montefalco (18-20 settembre 1975), Perugia 1976, pp. 81 ss.; F. Amarelli, Vetustas-innovatio cit., p. 140; Id.,
“Due recenti studi su Lattanzio”, in Studia
et Documenta Historiae et Iuris, 50 (1984), pp. 474 ss.; M.P. Baccari, “Il conubium nella legislazione di Costantino” cit., in part. paragrafo
5.
[308] Cfr. L. De Giovanni,
Costantino e il mondo pagano cit., p.
172.
[309] Sulla Oratio ad sanctorum
coetum, la cui autenticità fu con decisione negata da I.A. Heikel, Eusebius Werke, GCS, Leipzig 1902, si vedano ora, per
l’autenticità: R. Farina, L’impero e l’imperatore cristiano in Eusebio di Cesarea
cit., pp. 15-16 ss.; S. Mazzarino,
Antico, tardoantico ed èra costantiniana,
I, Bari 1974, pp. 99 ss., il quale data il discorso al 325, dopo la vittoria su
Licinio; C. Monteleone,
“Costantino”, in Enciclopedia Virgiliana, I, Roma 1984, pp. 913 ss.; L. De Giovanni, Costantino e il mondo
pagano cit., pp. 174 ss.; U. Pizzani, “Costantino e l’‘Oratio ad sanctorum coetum’”, in Costantino
il Grande. Dall’Antichità all’Umanesimo cit., II, pp. 791 ss., il
quale, invece, riporta il discorso alla sconfitta contro Massenzio; contra A.
Fraschetti, La conversione cit., p. 78 nt. 3; L. De Giovanni, “Mondo tardoantico e
formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-
[310] Or. ad
sanct. coet. 9.
[311] Or. ad
sanct. coet. 20. La conoscenza di
Virgilio da parte di Costantino doveva essere notevole, se, come è stato
osservato (L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., p.
178), l’imperatore, nella Oratio ad
sanctorum coetum, interpreta la quarta ecloga “minuziosamente … quasi verso
per verso”.
[312] V. supra
pp. 175 ss. e nt. 264.
[313] Cfr. L. De Giovanni,
Costantino e il mondo pagano cit., p.
178; Id., “Mondo tardoantico e
formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-
[314] V. supra
pp. 161 ss.
[315] Sulla humanitas di
Costantino e il rapporto di essa con la nozione di ius naturale si veda la
relazione di M.P. Baccari, “Il conubium nella legislazione di
Costantino”, in questa stessa pubblicazione. In generale sulla humanitas, si vedano: C.A.
Maschi, “‘Humanitas’ come motivo giuridico con un
esempio nel diritto dotale romano”, in Annali
Triestini, 18 (1948) (=Scritti in
memoria di L. Cosattini, Trieste 1948), pp. 263-362; Id., “Humanitas romana e caritas
cristiana come motivi giuridici”, in Jus,
1 (1950), pp. 266-274; O. Robleda,
“
[316] Con riferimento alla tradizione, che attesta la attenzione di
Costantino per i cavalli, i riferimenti più immediati sono alla statua equestre
di Marco Aurelio, per secoli ritenuta dell’imperatore Costantino, e alla Ardia, la corsa equestre, con la quale
il popolo sardo rievoca la vittoria riportata dall’imperatore su Massenzio. L’Ardia si tiene ogni anno, il 6 luglio,
in Sardegna, a Sedilo (in provincia di Oristano), ove si trova una chiesa, meta
di devozione e di pellegrinaggi da tutta l’Isola, dedicata a Santu Antine (San
Costantino).
[317] Cfr. A. Fraschetti,
La conversione cit., pp. 107 ss.; 239 ss., il quale osserva che i
“rapporti tra Costantino e una città come Roma si rivelano dunque in
prospettiva notevolmente più complessa dei rapporti tra lo stesso Costantino e
l’aristocrazia romana … questi rapporti investono … lo stesso paesaggio urbano,
a partire da quel polo assolutamente centrale rappresentato tradizionalmente
dal tempio di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio”. E ancora: “Nella città
antica, dunque anche a Roma, lo spazio urbano è un complesso strutturato, non
solo entourage matériel, ma anche ambito
nel cui contesto i cittadini manifestano la loro presenza, consci che quello
spazio gli appartiene in quanto tradizionalmente e unanimemente condiviso … La
nuova vita cerimoniale, che si sviluppa a partire dall’età di Costantino, una
volta eliminata l’ascesa al Campidoglio (più in particolare al tempio di Giove
Ottimo Massimo) da parte dell’Augusto al momento del suo arrivo, tende a
privilegiare altri luoghi come momento dell’incontro dello stesso Augusto con
la ‘sua’ città: la visita nella curia, là dove si raccolgono i senatori; nelle
immediate vicinanze della curia la zona degli antichi rostra, la tribuna degli oratori, intorno alla quale affluisce il
popolo composto e festante in attesa dell’adlocutio
imperiale; il circo, dove quello stesso popolo può esprimersi all’evenienza
più liberamente, anche con manifestazioni di dissenso politico soprattutto in
materia religiosa”.
[318] Sulla centralità di questi riferimenti allo spazio urbano, con
particolare riguardo alla Basilica di Pietro, si veda G.
[319] Numerosi sono gli esempi che depongono a favore di Virgilio come
“esperto di diritto”: cfr. P. Catalano,
“Ius/iustitia/Iustitia” in Enciclopedia Virgiliana, III, Roma 1987, pp. 66 ss., con rinvii alla letteratura
anche meno recente. Non è possibile soffermarsi su questi aspetti peraltro già
sufficientemente noti. Qui è necessario, invece, tenere presente, la linea di
continuità fra Virgilio, Marciano, Ulpiano e Giustiniano. Si veda, per tutti, P. Catalano, “Giustiniano” cit., pp.
761-762, il quale dopo aver posto l’accento sulla “linea che univa Virgilio a
Marciano” in merito al “concetto di res
communes omnium secondo lo ius naturale”, osserva: “La dottrina
marcianea delle res communes omnium contribuisce a precisare e consolidare la sfera dello ius naturale,
riguardo al quale tutti gli uomini sono eguali … Certo Marciano è il primo
giurista presso cui troviamo una classificazione delle fonti della schiavitù; e
tale classificazione sottolinea che l’istituto, proprio dello ius gentium,
è contrario allo ius naturale … E si può supporre che, nella
parte del 1º delle Institutiones
precedente il frammento conservato in D. 1,5,5, Marciano precisasse che alle
origini della storia degli uomini la divisione fra liberi e servi non
esisteva (non differenziandosi egli, in ciò, da Fiorentino, Trifonino,
Ulpiano). Si vedano al riguardo: F.
Goria, op. cit., pp. 363-364; 375; L. Lantella, op. cit., p. 219. Non è
qui possibile soffermarsi sul fondamento naturalistico della concezione gaiana
in tema di distinzione fra liberi e servi o in tema di relazioni familiari,
sulla quale distinzione si vedano, però: R.
Quadrato, “La persona in Gaio. Il problema dello schiavo”, in Iura, 37 (1986), pp. 1 ss.; Id., “‘Hominis appellatio’ e
gerarchia dei sessi D. 50,16,152 (Gai. 10 ad
l. Iul. et Pap.)”, in Bullettino dell’Istituto di Diritto
Romano, 91 (1988), pp. 332 ss.
[320] V. supra
pp. 175 ss. e nt. 264.
[321] Cfr. P. Catalano,
“Giustiniano” cit., p. 759, il quale rileva: “Per comprendere le implicazioni
del richiamo di G(iustiniano) a V(irgilio) si deve tener conto, oltre che di
altri passi delle Institutiones e dei
Digesta (… specialmente per quanto
attiene al ius naturale), di due
costituzioni, rispettivamente del 535 e del 537: Nov. 25 e 47 … La teoria virgiliana della continuità del potere da
Enea a Romolo ad Augusto … viene tradotta in termini giustinianei nella praefatio della Nov. 47 (del 31 agosto 537) riguardante la datazione dei documenti
… Più complesse (e meno chiaramente virgiliane) sono le implicazioni
ideologiche del riferimento ai ‘tempi di Enea e di Romolo’ contenuto nel
proemio della Nov. 25, dell’anno 535
… La leggenda di Enea aveva consentito a V(irgilio) di sviluppare il
sincretismo romuleo inserendo anche elementi greci … e, secondo la stessa
linea, era stato dato rilievo agli Arcadi nella preistoria romana; tutto questo
conviene perfettamente a un imperatore che risiede nella Nuova Roma … Il regno
degli Arcadi svolge perciò nella concezione di G(iustiniano) anche la funzione
di collegamento con un’età originaria, comune a tutta l’umanità, che viene
codificata dalla legislazione. Nella concezione giustinianea del diritto,
espressa specialmente nelle Institutiones
e nei Digesta … è compresa
l’esistenza di un’età originaria senza guerre, senza schiavitù (cf. anche Nov. 74, 78 e 89), senza proprietà
privata”.
[322] Ha osservato a questo proposito P. Catalano, “Giustiniano” cit., p. 762, che il
“giusnaturalismo di G(iustiniano) ha radice, anche per il suo aspetto
religioso, nella tradizione giurisprudenziale e filosofica precristiana … Le
leggi di natura, considerate immutabili (è spontaneo confrontare con Paolo D. 1,1,11 e con I. 1,2,11), riguardano anche gli animali diversi dagli uomini (cf.
Ulp. D. 1,1,1,3-4; I. 1,2 pr.) e sono di origine divina
(cf. Marcian. D. 1,3,2; I. 1,2,11). Nell’Eneide il mito di Saturno viene storicizzato con precise
localizzazioni degli aurea saecula: il regno nel Lazio (6,793-94;
7,49,180, 202 ss.; 8,319 ss. …) e l’arce Saturnia
in Campidoglio (8,357-58 …). L’età dell’oro è caratterizzata, anche secondo
V(irgilio), dalla mancanza di proprietà privata … e di schiavitù … Durante il
regno dell’aureus Saturnus non esisteva la impia gens che per prima, nell’età del bronzo, banchettò con gli animali
uccisi (G 2,537 …)”.
[323] Si veda, a proposito della linea di continuità fra Virgilio,
Marciano e Giustiniano, sia pure sul piano specifico delle res communes omnium, P. Catalano, “Giustiniano” cit., p. 762, il quale osserva che
“la decisione giustinianea di continuare questa linea sboccava necessariamente
in una interpretazione universalista (o ecumenica) anche delle parole di Celso
(II sec. d.C.) riportate in D. 43,8,3 pr. Litora,
in quae populus Romanus imperium habet, populi Romani esse arbitror; l’affermazione dell’imperium populi Romani consentiva
così, peraltro, ai compilatori di far fronte al problema del deterioramento
nell’uso di lido e mare”.