Il diritto
romano nel Droit Maritime de l'Europe
di Domenico Alberto Azuni
In memoria di Gabriele Silingardi*
Sommario: 1. Premessa.
- 2.1. La libertà di
navigazione e di pesca. – 2.2. Il mare territoriale. – 2.3. I porti. – 2.4. Le ‘angarie’. – 2.5. Il diritto di ritenere o fermare
la nave amica. – 2.6. Rapporti tra libertà di navigazione e di pesca.
– 3.1. I trattati di neutralità.
– 3.2. Diritti e doveri
dei paesi neutrali. – 3.3. Commercio delle nazioni neutrali in tempo di pace.
– 3.4. Le prede belliche.
– 3.5. Diritto di visita
delle navi neutrali. – 3.6. Proprietà delle prede belliche. – 3.7. Giudice competente in tema
di controversie su prede belliche. – 3.8. Il ‘ricupero’ delle prede belliche. – 3.9. Poteri del capitano in ordine
al riacquisto di nave o merci cadute in mano al nemico. – 3.10. Diritto d’asilo.
– 3.11. Guerra di corsa e
pirateria. – 4. Conclusioni.
La figura e l'opera di D. A. Azuni
(1749-1827) è stata studiata da Luigi Berlinguer in una monografia[1],
apparsa trentacinque anni fa, che ha avuto il merito di gettare luce su un
giurista che aveva dedicato gran parte del suo lavoro allo studio del diritto
marittimo, sia nella sua componente commerciale, sia in quella pubblicistica, e
aveva partecipato, sia pure da comprimario e non da protagonista, alle vicende
della codificazione napoleonica[2].
Come giurista, Azuni era essenzialmente un pratico e non un teorico (ebbe
incarichi sia nella magistratura sabauda, sia in quella napoleonica, e in
alcuni periodi della sua vita svolse anche la professione forense: per esempio
a Modena, durante il suo esilio, e poi in Francia[3])
e forse ciò può contribuire a spiegare – oltre a una certa imprecisione nelle
citazioni e a una tendenza a qualche eccesso retorico – la sua aspirazione alla
sistematizzazione e alla semplificazione normativa, ai fini di certezza del
diritto[4]
(aspirazione del resto comune nella cultura giuridica francese a cavallo tra il
‘700 e l'‘800, in gran parte volta allo sforzo codificatorio), che costituisce
la caratteristica principale del suo lavoro più importante, il Sistema universale dei principj del diritto
marittimo dell'Europa[5].
Tale opera, forse proprio per la caratteristica indicata, oltre che, più in
particolare, per il fatto di affrontare, come è stato detto, con «tempestività
e lucidità»[6]
il tema del diritto bellico marittimo[7],
riscosse grande successo, tanto da essere tradotta in francese, in spagnolo e
in inglese (negli Stati Uniti d'America)[8].
Il dato su cui voglio soffermare
l’attenzione in questo contributo è la ricchezza di rinvii alle fonti
giuridiche romane nel Sistema di
Azuni. Anzi va detto che un'ampia parte del primo volume è dedicata a una
esposizione storica, che prende l'avvio dall'Antichità e si occupa in modo
diffuso dell'esperienza romana. Occorre però avvertire che per questa parte
storica l'Azuni venne accusato di plagio: in effetti egli riprende testualmente
in più punti il lavoro di Michele de Jorio, giurista napoletano che nel 1781
aveva pubblicato, su incarico di Ferdinando IV, in pochissime copie[9],
un Codice marittimo in quattro volumi (che non ebbe però seguito ufficiale),
con ricco apparato storico[10].
Si tratta dell'esempio forse più plateale della «disinvoltura nell'utilizzare
il frutto del lavoro altrui»[11]
dell'Azuni, che però riguarda la parte meno viva e interessante della sua opera[12].
D'altro canto l'attenzione che il giurista dedica alla storia del diritto
marittimo è solo in parte funzionale alla ricostruzione sistematica della
materia: è vero infatti che egli si trovava a operare in una situazione
precodicistica, in cui il diritto vigente era da individuarsi anche con
l'apporto essenziale di fonti storiche (non ultimo il Corpus Iuris) e consuetudinarie che si erano sedimentate nel corso
dei secoli, ma è altrettanto vero che
egli era debitore di una più generale tendenza culturale all'erudizione storica
e in genere letteraria[13],
spesso solo esornativa, che trovava espressione anche nel campo giuridico[14].
Va però detto in proposito che per Azuni i richiami storici, in particolare
romanistici, non si esaurivano nel semplice sfoggio di erudizione; egli
infatti, nell'ambito della sua forte adesione ai canoni del giusnaturalismo,
sostiene con nettezza il valore formativo ed euristico della ricerca
dell'origine[15],
in senso storico, delle norme, osservando che si deve «…esaminare colla scorta della ragione naturale (che è l'unica guida de'
Popoli) l'indole di cotesti usi e costumi rimontando alla sorgente, donde essi derivano, spiegando e
determinando la loro influenza sulla condotta delle stesse Nazioni dal motivo
ossia dalla causa, che gl'introdusse, e fin dove arrivano ad essere obbligatj»[16].
Questo secondo orientamento appare, a
mio giudizio, meglio rappresentato, più che nella parte strettamente storica,
in quella parte del primo volume dedicata alla nozione di mare territoriale (Sistema, 1, pp. 15 ss. = Droit
maritime, 1, pp. 225 ss.) e alla illustrazione degli effetti dell'impero
del mare (Sistema, 1, 72 ss. = Droit maritime, 1, pp. 273 ss.), e poi
nel secondo volume del Sistema – che
costituisce del resto il nucleo di maggiore novità e importanza dell'opera –,
in cui Azuni si occupa diritto marittimo in tempo di guerra. Anche in questo
secondo volume, Azuni, collocandosi nell'ambito di un dibattito culturale e
politico in allora assai vivo e attuale[17]
e prendendo posizione su diverse questioni aperte, ricorre non di rado ad
argomentazioni che prendono l'avvio o si basano su fonti romane o comunque
fanno a esse riferimento.
Anticipando quanto si dirà in conclusione, si può affermare che
il giurista in questi casi impiega spesso il diritto romano come componente
costitutiva del suo ragionamento e non come richiamo di mera natura esornativa
o esteriore. Ciò sembra essere per lo più conseguenza dell'idea
giusnaturalistica, condivisa dall'Azuni, dell'esistenza di «principj inalterabili della legislazione
universale»[18],
in quanto fondati sulle leggi di natura, di cui sono espressione anche taluni
princìpi del diritto romano (talora, peraltro, il fondamento è individuato, nel
corso dell'opera, genericamente anche nell'equità[19]
o nella morale[20],
con qualche incoerenza o non ben esplicitato raccordo con il principio
giusnaturalistico predicato nell'introduzione, ma ciò non desta stupore e
appare anzi scusabile in un'opera scritta da un giurista pratico, con intenti
non teorici).
Ora, in questo contributo si cercherà
di cogliere qualche aspetto del rilievo che possono aver avuto il diritto
romano e l'esperienza romanistica in genere nella prospettazione delle tesi
sviluppate da Azuni nel suo Sistema.
A questo fine è parso necessario procedere a una rassegna dei richiami
romanistici contenuti nell'opera, limitando però l'esame, per le ragioni sopra
addotte, alle sue sole parti non strettamente storiche. Inoltre, posto che la
versione definitiva del Sistema è,
come precisa lo stesso Autore[21],
quella contenuta nella seconda edizione francese, è parso opportuno fare
esclusivo riferimento a essa, ritenendola meglio rispondente alle sue
concezioni (a meno che ragioni particolari non suggeriscano il richiamo
all'edizione italiana, nel qual caso la citazione sarà alla seconda edizione).
Riassumendo: quanto al vol I, non saranno presi in considerazione nel Cap. I (De
l'empire de la mer) l'art. II (Des
Puissances anciennes qui ont prétendu à l'empire de la mer: pp. 27 ss.),
l'art. III (Des Puissances modernes qui
ont prétendu à l'empire de la mer jusqu'à la découverte du nouveau Monde:
pp. 92 ss.), l'art. IV (Des Puissances
qui ont prétendu à l'empire des mers depuis la découverte du Nouveau-Monde
jusqu'à nos jours: pp. 114 ss.), e tutto il cap. IV (De l'origine et des progrès du Droit et de
Nel volume I il primo rinvio diretto a
fonti giuridiche romane si trova nell'art. I (De la pleine Mer: pp. 1 ss.) del cap. I, in merito all'affermazione
che il mare aperto deve essere considerato comune al genere umano, come l'aria
e la luce, con la conseguenza che esso non può cadere in proprietà esclusiva di
un solo popolo[22].
Il principio, che si traduce nell'affermazione della libertà di navigazione e
di pesca, è fatto derivare al contempo dal diritto naturale, dal diritto delle
genti e dal diritto civile. Il richiamo, in nota, è fatto a quattro passi del
Digesto e a uno delle Istituzioni di Giustiniano[23]:
1)
Marc. 3 inst. D. 1.8.2.1[24]
(con citazione peraltro imprecisa, in quanto mutuata in parte da Inst. 2.1.1[25],
che riproduce, con integrazioni e modifiche il frammento marcianeo). È
interessante notare che Azuni omette la precisazione contenuta sia nel passo di
Marciano sia nelle Istituzioni, che estende il carattere di res communis omnium anche al lido del
mare; ciò sembra essere coerente con la nozione di 'mare territoriale', che
esclude per principio che il lido possa essere considerato, dal punto di vista
dei rapporti internazionali, come comune a tutti i popoli[26].
2)
Ulp. 6 opin. D. 8.4.13 pr.[27];
qui Azuni isola un principio generale - mari
quod natura omnibus patet, servitus imponi privata lege non potest - che Ulpiano
richiamava nell'ambito dell'analisi di una fattispecie contrattuale concreta;
nel caso il problema concerneva la validità di una lex venditionis imposta dal venditore di un fondo a favore di altro
fondo che rimaneva in sua proprietà, al fine di garantire a quest'ultimo fondo
che non si esercitasse in suo danno la piscatio
thynnaria; il giurista, richiamato il principio generale suddetto,
concludeva che detta lex era da
considerarsi vincolante tra le parti, stante il principio di bona fides che regge il contratto di
compravendita (ribadendo perciò implicitamente che essa potesse avere efficacia
costitutiva di un diritto reale di servitù).
3)
Cels. 39 dig. D. 43.8.3.1[28];
anche in questo caso l'Autore cita il solo principio generale che gli interessa,
e omette la parte del frammento con cui Celso precisava che le colonne erette
nel mare sono di proprietà del costruttore, a meno che ciò non renda deterior l'uso del lido o del mare.
4)
Inst. 2.1.2 e 10, senza alcuna
citazione testuale[29].
5)
Ulp. 57 ad ed. D. 47.10.13.7[30],
anche in questo caso senza alcuna citazione testuale.
Nel cap. II (De la mer
territoriale), in relazione al problema del mare territoriale, Azuni
osserva che la sicurezza stessa delle nazioni dipende dal fatto che non
sussista la libertà di avvicinarsi senza limiti ai loro possedimenti (p. 229: «qu'il
ne soit pas libre à chacun de s'approcher indéfiniment de leurs possessions»), soprattutto da parte di navi da
guerra. In proposito cita Paul. 30 ad
Plaut. D. 47.10.14[31],
riportandone il testo per esteso in nota; nel frammento Paolo riconosceva, tra
l'altro, l'impiego dell'interdictum uti
possidetis a favore di colui che vantasse un proprium ius sul mare; è interessante notare che Azuni impiega il
termine ‘possessions’ per indicare in
sostanza il territorio delle nazioni (ivi compreso il mare territoriale, di cui
è questione), il che potrebbe forse dipendere dalla suggestione del passo
paolino, che accorda, come detto, la tutela possessoria.
Sempre nell'ambito dello stesso argomento Azuni ricorda, subito
dopo (pp. 229 s.), che da sempre i sovrani del mare territoriale hanno il
diritto di vietare alle navi straniere l'accesso ai porti e alle spiagge dei
loro domini. Tra gli esempi di tale divieto, tratti dalla storia antica,
menziona anche C. 4,63,4 (a. 408 o 409), che vieta ai mercanti romani e a
quelli persiani di esercitare il commercio, al di fuori dei luoghi fissati in
un trattato tra l'impero romano e quello persiano[32],
ne alieni regni, quod non convenit, scrutentur
arcana[33].
Più avanti, affrontando il tema dell'estensione del mare
territoriale, Azuni segue l'opinione secondo cui il limite va individuato nella
gittata massima di un cannone piazzato sulla riva, osservando che ciò appare
condivisibile in quanto conforme «aux
principes du droit universel, par lesquels on considère pur territoire, tout
l'espace dans lequel les magistrats et les ministres peuvent faire exécuter les
ordres de leur gouvernement, par la terreur des forces qui leur sont confiées»
(p. 253); in proposito viene citata in nota la definizione di territorium data da Pomp. l. sing. enchir. D. 50.16.239.8,
omettendo però il definiens originale
('territorium' est universitas agrorum
intra fines cuiusque civitatis), per passare subito alla seconda parte del
passo (quod ab eo dictum quidam aiunt,
quod magistratus eius loci intra eos fines terrendi, id est summovendi ius
habent). Si tratta di un esempio non insolito della disinvoltura dell'Azuni
nel piegare i passi del Digesto alle esigenze delle proprie argomentazioni.
Nel cap. III, dedicato agli effetti
dell'impero del mare, la prima citazione di fonti romane si trova in relazione
al problema dell'uso dei porti delle baie e dei golfi. Azuni parte dalla
constatazione che, in base ai princìpi sul mare territoriale, ogni porto deve
essere considerato come appartenente allo stato in cui è situato (286); in
merito a ciò cita, in nota, Inst. 2,1,2[34]
e Marc. 3 inst. D. 1.8.4.1[35],
senza riportarne il testo. Subito dopo (pag. 287), in merito ai doveri del
comandante della nave che giunge in porto, richiama nello stesso modo C.
12.44.1 (a. 420)[36],
insieme ad alcuni capi del Consolato del mare (cap. 199, 200 e 224)[37].
Trattando dei diritti d'ancoraggio (pp. 290 s.), rinvia in nota,
senza citazione del testo, ad Alf. 7 dig.
D. 39.4.15[38]
e a Marc. l. sing. de delat. D.
39.4.16.8[39],
per sostenere rispettivamente il principio che la nave costretta a rientrare in
porto per qualche incidente, senza aver toccato alcun altro luogo, non è tenuta
a pagare di nuovo tali diritti[40],
e che la nave che in porto non sbarchi alcuna merce o non faccia alcun mercato
è tenuta al pagamento dei soli diritti di ancoraggio[41].
Anche in questo caso il richiamo alle fonti romane appare non alieno da una
qualche forzatura interpretativa, poiché i passi citati riguardano istituti
romani (e casi concreti, come per il frammento di Alfeno) solo con sforzo
paragonabili a quanto è oggetto della illustrazione di Azuni.
Nella
trattazione dell'argomento delle 'angarie' (p. 292 s.: «les prestations et les obligations qu'impose une puissance aux navires
stationnés dans ses ports et dans ses plages, de transporter pour lui, dans les
temps de quelque expédition, des soldats, des armes et d'autres munitions de guerre,
moyennant salaire») sono abbastanza numerosi i rinvii a testi del Corpus Iuris:
1)
in merito alla definizione ora citata,
si ricorda in nota che presso gli antichi greci ‘angareìa’ aveva il significato di servizio o mano d'opera che si
esigeva in modo coatto da taluno e che per i greci più moderni si intendeva
anche il passaggio o il trasporto su strada pubblica. Per Azuni i commentatori
avrebbero inteso in questo senso le espressioni angariari di Ulp. 4 de off.
proc. D. 49.18.4.1[42]
e C. 11.10.7[43]
(senza data; nell'inscriptio la
costituzione risulta attribuita a Leone e Antemio). Sembrano peraltro rinvii di
mera erudizione, senza un significativo apporto alla trattazione.
2)
Azuni ricorda (p. 294) che nessuna
nave, ancorché straniera, può invocare dignità o privilegi personali per essere
esentata dall'obbligazione di angarie, anche se fosse tenuta, entro un termine
fisso, a trasportare altrove il carico; l'unica difesa, indiretta, consiste nel
diritto di vedersi pagata un'indennità. A proposito di questo principio, il
giurista cita in nota (senza riportarne il testo): il passo ulpianeo prima
menzionato (Ulp. 4 de off. proc. D.
49.18.4.1)[44];
Arcad. Char. l. sing. de muner. civil.
D. 50.4.18.22-24[45];
C. 11.4.1 (a. 406)[46]
e 2 (= C. 1.2.10; a. 439)[47],
che costituiscono le uniche due costituzioni del tit. C. 11.4 de navibus non excusandis; C. 11.27.1[48]
(a. 364), unica costituzione del tit. C. 11.27 De nautis tiberinis.
3)
Il capitano che tenti di sfuggire a
siffatta obbligazione o ritardi con dolo («par
malice») il trasporto o che in qualsiasi modo faccia sorgere difficoltà che
ne pregiudichino il buon esito è punito con la confisca della nave, e sia lui
sia il suo equipaggio sono puniti con sanzioni proporzionali alla loro slealtà
(p. 295): a sostegno di questo principio vengono richiamate, in nota, ancora
una volta C. 11.4.1 e 2[49],
nonché C. 11.10.7[50].
4)
Il capitano che non si rechi alla
destinazione prevista e venda altrove il carico di provviste e attrezzi
bellici, è punito con grande rigore, anche con la morte, così come coloro che
hanno scientemente acquistato tale carico (p. 295): in proposito in nota Azuni
cita, senza riportarne il testo, C. 4.40.3[51]
(a. 397) e 4[52]
(a. 410 o 413), nonché C. 11.2.5[53]
(a. 409).
5)
L'ultimo riferimento (p. 296) attiene
alla regola secondo cui la potenza che ha imposto l'angaria, non è tenuta a
risarcire il danno, qualora la nave subisca un naufragio o sia catturata dal
nemico o dai pirati, in quanto si tratta di casi fortuiti: in merito Azuni
rinvia a Ulp. 29 ad Sab. D. 50.17.23[54].
Mi sembra
interessante notare come Azuni giustifichi le regole sulle angarie, ricorrendo
non di rado a testi del Codice (e non del Digesto), vale a dire a costituzioni
imperiali, per lo più emanate, tra l'altro in periodo tardoantico. Anche norme
sanzionatorie - assai gravi, tra
l'altro, in quanto prevedono la pena di morte - come quelle menzionate supra sub 4), sembrano avere il loro
fondamento solo nelle costituzioni richiamate[55].
Per quanto riguarda il diritto di
ritenere o arrestare una nave amica, per ragioni di necessità pubblica, ma non
belliche, Azuni (p. 298) rinvia ad Arc. Char. l. sing. de muner. civil. D.
50.4.18.11[56] e a C. 11.4.1[57]. Se la seconda
citazione appare calzante (e del resto era già stata avanzata in merito alle
angarie[58]),
la prima non pare ben comprensibile, visto che il passo in questione riguarda
l'obbligo di effettuare trasporti con cammelli per pubbliche necessità.
Le ultime citazioni romanistiche
contenute nel primo volume che vengono qui prese in considerazione, riguardano
il tema dei rapporti tra libertà di navigazione e pesca. Azuni sostiene (pp.
310 s.), che la libertà di pesca deve essere subordinata a quella di
navigazione (che qui egli intende essenzialmente come navigazione commerciale),
in quanto la seconda ha interesse universale, mentre la prima riguarda pochi uomini;
questa, secondo Azuni, è la motivazione che starebbe alla base della
proibizione pretoria di costruire opere in mare o sulle spiagge che possano
impedire o comunque rendere più disagevole la navigazione; in proposito sono
citati, in nota, Ulp. 68 ad ed. D.
43.12.1.17[59]
e Cels. 39 dig. D. 43.8.3[60].
L'A. sottolinea che a questo riguardo l'uso universale è assolutamente conforme
alle leggi romane; di conseguenza i pescatori sono tenuti a prevenire i disagi alla
navigazione che possono essere causati dalle reti, o in genere dalla loro
attività, e sono obbligati a risarcire gli eventuali danni; le fonti romane
citate sono: Ulp. 68 ad ed. D.
43.14.1 pr.; 3; 7[61]
e Ulp. 81 ad ed. D. 39.2.24[62].
È interessante notare come entrambi questi passi riguardino, in realtà,
problemi relativi alla navigazione e alla pesca in acque dolci. Il secondo poi,
in un contesto particolare di concessione di acque pubbliche, dà la prevalenza
alle ragioni della pesca. Forse si tratta di un caso, non raro, in cui si
preferisce richiamare a ogni costo le fonti romane, stante la loro generica
autorevolezza, anche se esse non sono pertinenti (o addirittura enunciano un
principio non del tutto concordante con quanto si vuole sostenere). Stupisce
soprattutto che qui Azuni non abbia valorizzato il passo di Ulpiano-Labeone
(Ulp. 68 ad ed. D. 43.12.1.17)[63],
che sembra molto più adatto alla sua argomentazione.
Passiamo ora all'esame del secondo
volume del Droit maritime, dedicato, come detto, al diritto
marittimo in tempo di guerra. La prima citazione di una fonte romana attiene al
tema dei trattati di neutralità. Azuni osserva (p. 71) che la neutralità
stipulata con una sola delle nazioni belligeranti, non obbliga le altre,
essendo un atto concluso senza il loro concorso e quindi a loro estraneo e in
proposito richiama, in nota, la regola res
inter alios acta, aliis non potest praeiudicium facere, tratta da C. 7.60.1
(a. 293)[64].
Un richiamo romanistico ritorna
nell'ambito della trattazione dei diritti e dei doveri conseguenti alla
neutralità (pp. 75 ss.). Azuni ha la preoccupazione di tutelare nel modo più
ampio possibile il commercio delle nazioni neutrali. Egli sottolinea che il
territorio di un popolo neutrale deve essere considerato inviolabile (p. 81) e
giudica una manifesta ingiustizia trascinarlo nelle calamità della guerra;
pertanto, se sussista la necessità inderogabile di impedire o fermare il
trasporto di merci al nemico da parte di nazioni neutrali, ciò dovrà comportare
l'assunzione dell'obbligazione di risarcire tutti gli eventuali danni. Sarebbe
infatti ingiusto e contrario alla morale e ai princìpi del diritto delle genti
imporre ai paesi neutrali condizioni tali da ridurli "dans la dure alternative de renoncer à tout commerce, ou d'irriter
justement l'une des nations belligerantes" (p. 82). Questa conclusione
si appoggia sul richiamo (in nota) al principio non debet alteri per alterum iniqua condicio inferri enunciato da
Pap. 1 quaest. D. 50.17.74.
Nella trattazione sul diritto
convenzionale dell'Europa relativo al commercio delle nazioni neutrali in tempo
di guerra (pp. 137 ss.), Azuni apre uno squarcio storico, che prende l'avvio da
esempi di storia antica (pp. 143 ss.). In tale contesto ricorda (pp. 145 s.) la
legislazione romana che puniva come crimine di lesa maestà fornire ai nemici
armi, cavalli e tutto ciò che poteva esser loro necessario: così, in
particolare, cita (in nota) un tratto di un passo di Scaev. 4 reg. D. 48.4.4[65]
(che sembra riportare più o meno fedelmente il testo della lex Iulia maiestatis), rinvia altresì a Paul. 5 sentent. D. 39.4.11 pr.[66],
riporta (sempre in nota) C. 4.41.1 (a. 370-375)[67]
e parte di C. 4.41.2 pr. (a.455-457)[68],
rinvia a C. 12.44.1 (a. 420)[69].
Azuni pur consapevole delle peculiarità storico-politiche dell'impero romano,
in cui questa normativa trovava applicazione, sembra ritenere – proseguendo
nell'esemplificazione storica (pp. 146 ss.) – che essa esprima un principio
generale in seguito costantemente ripreso.
Un interessante caso di contrasto con
le norme romane è dato dalla posizione di Azuni sul problema delle prede
belliche (pp. 222 ss.), cioè del preteso diritto dei belligeranti di confiscare
la merce nemica rinvenuta su nave battente bandiera di paese amico o neutrale,
o addirittura di confiscare la stessa nave[70].
Azuni sviluppa un'articolata disamina della questione - che ha lo scopo di
difendere la posizione dei paesi neutrali e il loro diritto di navigazione e
commercio[71]
-, partendo dal rilievo che la suddetta regola - per lui contraria agli
interessi delle nazioni - è stata fatta derivare dal diritto romano. Egli riconosce che «la loi romaine soumet à la peine de la confiscation les marchandises
défendues, et le vaisseau qui les porte, comme tombé en contravention» (p.
199), richiamando in proposito Paul. 5 sent.
D. 39.4.11.2[72],
ma aggiunge che si tratta di una disposizione «purement civile», obbligatoria solo per i sudditi del legislatore e
non «pour les autres nations qui ne sont
pas sous sa dépendence». Mi pare, per intanto, di un certo rilievo notare
come Azuni prenda decisa posizione contro il principio romanistico,
distinguendolo nettamente - come altrove non fa - dalla "legge di
natura"[73].
Le nazioni, relativamente ai loro
interessi rispettivi, non sono tenute che all'osservanza della legge di natura,
e tale legge consente loro di ricercare e confiscare le merci appartenenti al
nemico, solo ove possono esercitare legittimamente atti di giurisdizione e di
ostilità. Per Azuni (pp. 200 ss.) il menzionato principio del diritto romano ha
fatto sorgere, sul piano applicativo, due principali questioni: se la bandiera
neutrale copre le merci del nemico (cioè se un belligerante ha diritto di
impadronirsi delle cose del nemico che si trovano su una nave neutrale) e se il
belligerante ha diritto di ricercare e confiscare le merci appartenenti a un
paese neutrale, che si trovino su una nave nemica. A queste due questioni sono
dedicate varie pagine, in cui, tra l'altro, vengono esaminati alcuni precedenti
storici e numerosi trattati, per giungere alla conclusione (p. 222) che la
varietà delle regole riscontrate prova che il diritto convenzionale d'Europa
non fornisce alcuna massima fondamentale, uniforme e costante che possa «faire disparaître tous les sujets de
plaintes qu'occasionne dans toutes les guerres, la collision des droits
également naturels et positifs des belligérans et des neutres». A questo punto Azuni elabora le regole che
egli ritiene meglio corrispondano alla legge di natura ed enuncia in merito il
seguente principio «sacrée et inviolable»:
«lorsque le droit parfait d'un peuple heurte
celui d'un autre, la raison, la justice et l'humanité veulent que celui-là cède
le sien et y renonce, qui doit éprouver un moindre dommage» (p. 226).
Ora, il suddetto principio è elaborato con ampio richiamo, a
sostegno, di fonti romane, e precisamente:
1)
Paul. 2 sent. D. 14.2.1[74],
che in base alla lex Rhodia de iactu
consente di gettare a mare una parte del carico per salvarne l'altra, con
divisione del danno su tutti i proprietari della merce.
2)
Ulp. 71 ad ed. D. 43.24.7.4[75],
che in tema di processo interdittale prevede l'assoluzione di chi abbia
demolito la casa del vicino per impedire che un incendio si estenda alla
propria.
3)
Ulp. 80 ad ed. D. 9.2.29.3[76],
che esclude la responsabilità se si sia tagliata la fune di un'ancora di
un'altra nave per liberare la nave che vi si sia impigliata, spinta dalla forza
del vento, o, nel caso analogo della nave che si sia impigliata in reti da
pesca.
4)
Paul. 34 ad ed. D. 14.2.2.1[77];
Ulp. 80 ad ed. D. 9,2,29,2[78];
Ulp. 9 disput. D. 9.2.49.1[79]
e Ulp. 47.9.3.7[80],
in relazione alla regola in base alla quale, in porto, le navi adiacenti a
quella su cui sia scoppiato un incendio, se non hanno possibilità di fuga,
possono affondarla e così pure affondare le navi a essa vicine, per evitare che
l'incendio si estenda. Si può notare che nessuno dei passi citati (di cui
peraltro Azuni non riporta, neppure parzialmente, il testo) riguarda
esattamente tale fattispecie. La regola è infatti dedotta da enunciazioni
piuttosto generali in tema di lex Rhodia
de iactu e di lex Aquilia
contenute nei primi due passi; mentre gli ultimi due escludono la
responsabilità in caso di incendio provocato per salvare edifici (ma non navi).
5)
Ulp. 53 ad ed. D. 39.3.1.4 e 7[81],
per affermare la liceità del comportamento del contadino che, a seguito di una
piena, si serva di tavole di legno che non gli appartengono per rafforzare o
sopraelevare la diga che ripara i campi, per evitare l'inondazione dei propri
campi coltivati.
Per Azuni (pp. 229 s.) in tutti questi passi il comportamento
dannoso è giustificato dalla necessità cogente di evitare un male imminente e
irreparabile, e fa sorgere l'obbligo di risarcire il danno cagionato al
proprietario del bene sacrificato. Tale obbligo è motivato inoltre con il
rinvio a Paul. 10 ad Sab. D. 9.2.45.3[82]
e Ulp. 9 disput. D. 9.2.49.1[83],
che peraltro non sembrano pertinenti[84].
Lo schema giuridico così enucleato può trovare applicazione,
secondo Azuni (pp. 230 ss.), anche per risolvere in modo equo il conflitto
d'interessi tra nazioni belligeranti e neutrali in ordine alle prede belliche:
le prime dovrebbero perciò essere tenute a risarcire alle seconde i danni
derivanti dal ritardo provocato dal fermo della nave e a rimborsare loro il
nolo delle merci appartenenti al nemico che subiscono il sequestro. In questo
modo la lesione che le nazioni neutrali subirebbero alla loro libertà e
indipendenza naturale non sarebbe che «un
léger sacrifice qu'ils font à l'extrême nécessité de la défense» dei paesi
belligeranti.
Sul tema del diritto di visita delle
navi neutrali, in alto mare, da parte dei paesi belligeranti (pp. 257 ss.),
Azuni apre una polemica con il Galliani[85]
(pp. 266 ss.), il quale sosteneva che fosse ingiusta la confisca della nave
mercantile neutrale, che si fosse sottratta con la fuga al diritto di visita.
Per Azuni la confisca – prevista del resto, come egli ricorda, dalla pratica
consuetudinaria europea – era da considerarsi misura del tutto legittima,
qualora, essendosi applicate le norme previste per l'esercizio del diritto di
visita, la fuga non avesse ragioni plausibili. Nell'ambito di questa polemica
Azuni dedica una lunga nota (pp. 269 s. n. 1) ad alcune riflessioni sulla
responsabilità, nel caso, del capitano, ricordando come questi, nella sua
qualità di mandatario retribuito del proprietario della nave o dei proprietari
delle merci, risponda nei loro confronti anche per colpa lieve (particolarmente
nell'ipotesi in cui «par ignorance ou par
malice, il s'engage dans un combat inégal»), con la conseguenza di esser
tenuto al risarcimento di tutti i danni. L'affermazione è sorretta dal richiamo
di Ulp. 40 ad ed. D. 4.9.3.5[86];
Paul. 90 ad ed. D. 9.3.6.3[87];
Pomp. 27 ad Sab. D. 50.17.36[88];
Gai. 7 ad ed. prov. D. 50.17.132[89];
Paul. 10 ad Sab. D. 9.2.31[90].
Si tratta in realtà di passi che trattano, genericamente, il tema della culpa e non riguardano specificamente, a
eccezione di Paul. 90 ad ed. D.
9.3.6.3, la responsabilità del capitano della nave.
Vi sono alcuni rinvii romanistici anche
nella illustrazione del tema sulla legittima proprietà delle prede belliche.
Azuni ricorda in primo luogo (pag. 300 s.) il principio dell'occupazione
bellica, come modo di acquisto della proprietà; a chi oppone a tale principio
la regola in base alla quale la consegna non può trasmettere la proprietà, se
chi la effettua non egli stesso proprietario (o non ha il consenso del
proprietario), risponde menzionando il caso delle vendite forzate, in cui la
proprietà passa anche senza il consenso del debitore esecutato, con richiamo
testuale di Ulp. 65 ad ed. D. 41.1.46[91].
Azuni ribadisce che si tratta di un precetto generale della
giurisprudenza romana, che le cose prese al nemico divengano immediatamente di
proprietà dell'occupante, citando nel testo la massima quae ex hostibus capiuntur statim capientium fiant, che deriva
quasi fedelmente da Gai. 2 rer. cott.
D. 41.1.5.7[92]
(citato, insieme con Inst. 2.1.17[93],
che dal primo deriva).
L'A. riferisce poi la discussione sul momento in cui il possesso
della preda bellica realizzi effettivamente l'acquisto della proprietà (pp. 303
ss.), se cioè nel momento stesso della materiale occupazione della cosa, o se
soltanto dopo che la preda sia stata posta al sicuro dal nemico (dunque l'occupante
sarebbe solo possessore, e non proprietario, per tutto il tempo in cui si trova
in alto mare, perché suscettibile di essere a sua volta spogliato della cosa
già sottratta al nemico). Questa seconda opinione – ricorda Azuni – può essere
sostenuta, richiamando:
1)
Ulp. 79 ad ed. D. 50.16.71 pr.[94],
che pone la distinzione tra capere e accipere, dovendosi intendere capere nel senso di «prise qui a eu son effet».
2)
Pomp. 37 ad Quint. D. 49.15.5.1[95]
e Paul. 60 ad Sab. D. 49.15.19.3[96],
in tema di postliminio, da cui si può desumere che è da considerarsi
prigioniero di guerra (e, dunque, suscettibile di postliminio) colui che sia
stato condotto nel campo nemico, o comunque ubi
fines nostros excessit, rimanendo
civis, a tutti gli effetti, sino a quel momento.
Peraltro Azuni nota che la norma in concreto applicata da tutte
le nazioni considera come acquisita la proprietà della preda, allorquando il
pacifico possesso della stessa sia durato continuativamente ventiquattro ore,
senza che sia perciò necessario ripararla in luogo sicuro. A sostegno di questa
conclusione egli cita (p. 305) «les
principes du droit commun», che intendono la parola statim[97]
nel senso di «un certain intervalle de
temps», menzionando la massima quod
dixi statim cum aliquo temperamento temporis intelligendum est, tratta da
Paul. l. sing. ad legem Falc. D.
46.3.105[98]
(citato insieme a Paul. l. sing. ad legem
Falc. D. 35.2.1.8[99]).
Il tema della individuazione del
giudice competente a decidere la legittimità delle prede su navi neutrali (pp.
310 ss.) contiene un unico richiamo alle fonti romane, e precisamente (p. 310)
a C. 3.15.1[100]
(a. 196), che serve ad Azuni per sostenere che il responsabile di una
violazione delittuosa delle norme sulla neutralità deve essere giudicato dai
magistrati del luogo in cui egli si trova, ancorché il delitto e la violenza,
di cui lo si accusa, siano stati commessi altrove.
Un altro argomento che contiene un solo
rinvio romanistico è quello del "ricupero"[101],
cioè del riottenimento della preda da parte del precedente proprietario (pp.
349 ss.). Una delle ipotesi prese in considerazione è quella dell'equipaggio
della nave che con la forza o con l'astuzia la sottrae a chi l'aveva catturata:
in tal caso le cose trasportate dalla nave ritornano ai precedenti e rispettivi
proprietari, con la conseguenza che «le preuneur n'aura aucun droit de réclamer la prise qu'il na pas su conserver;
seul moyen, selon les principes de la raison commune, de se maintenir dans sa
possession» (pag. 350). Quale espressione di tali princìpi della «ragione
comune» Azuni, tra l'altro, cita per esteso in nota, Gai. 2 rer. cottid. D. 41.1.3.2[102],
che attiene all'occupazione delle ferae
bestiae, un tema che in apparenza sembra lontano da quello del ricupero
delle prede belliche. L'attenzione dell'Azuni sembra in realtà rivolta agli
effetti della custodia sul diritto (di proprietà) dell'occupante: l'occupante
cessa di essere proprietario dell'animale catturato, nel momento stesso in cui
esso si sottrae alla sua custodia, così come chi ha catturato la nave, perde la
proprietà sulle merci in essa stivate, qualora l'equipaggio riesca a sottrarla
alla sua custodia.
L'argomento del riacquisto sia della nave sia delle merci, cadute
in mano al nemico, da parte del capitano (pp. 395 ss.), induce Azuni a
precisare che in tal caso il capitano non agisce in proprio, bensì quale
legittimo amministratore e procuratore dei proprietari della nave e del carico,
secondo i princìpi «de la raison commune»
(p. 396). A sostegno di ciò egli cita, in nota e non per esteso (p. 396 n. 1),
vari passi del Digesto:
1)
Cels. 23 dig. D. 41.2.18[103],
in tema di possesso nomine proprio e nomine alieno;
2)
Ulp. 4 reg. D. 41.2.42.1[104],
in tema di acquisto del possesso tramite procurator;
3)
Ner. 5 membr. D.41.1.13[105],
sempre in tema di acquisto del possesso tramite procurator;
4)
Ulp. 71 ad ed. D. 43.26.6.1[106],
relativo all'acquisto del precario tramite procurator;
5)
Ulp. 31 ad ed. D. 17.1.10.3[107],
in tema di rapporti tra mandante e procuratore e dell'obbligo di quest'ultimo
di pagare interessi al mandante, qualora gli siano state affidate delle somme
di denaro (sembra però più pertinente il paragrafo 2 del frammento[108],
che pone l'obbligo al procuratore di trasmettere al mandante anche i frutti
della cosa acquistata);
6)
Paul. 24 ad ed. D. 3.5.23(24)[109],
in tema di adempimento, tramite procuratore, all'obbligazione di pagare una
somma di denaro.
Trattando del diritto d'asilo che gli stati neutrali possono
accordare, a loro discrezione, alle navi dei belligeranti, Azuni ricorda (p.
406) che tutti soggetti che si trovino, sia di passaggio sia rifugiati, sul
territorio di un paese neutrale, ancorché sudditi di un paese belligerante,
devono mantenere un comportamento imparziale rispetto alle dispute che oppongono
i belligeranti medesimi e osservare una moderazione assoluta, pur se nel loro
intimo parteggino per una delle parti in lotta; questa loro convinzione
interiore – nota Azuni – non è perseguibile[110],
sulla base del principio, citato in nota (pag. 406 n. 1), cogitationis poenam neminem mereri (cfr. Ulp. 3 ad ed. D. 48.19.18[111]).
L'ultimo argomento affrontato da Azuni
è quello della guerra di corsa e della pireteria[112]
(pp. 442 ss.). Egli ha cura di sottolineare
la differenza tra il pirata e il corsaro, definendo il primo (p. 443) come
colui che corre i mari su una nave armata «sans
commission, ni passe-port d'aucun prince ou état souverain, mais seulement de
sa propre autorité, et dans le dessein de saisir et de s'approprier, par la
force et sans distinction, tous les vaisseaux qu'il peut rencontrer»,
essendo così assimilato a un assassino. La definizione è
avvalorata con la citazione testuale, in nota, di Pomp. 2 ad Quint. Muc. D. 50.16.118: ‘Hostes’ hi sunt, qui nobis
aut quibus nos publice bellum decrevimus: ceteri latrones aut praedones sunt[113].
La distinzione ha un'importante conseguenza
anche sulla titolarità giuridica delle prede: i pirati non hanno infatti il
diritto di acquisire e possedere le loro prede (pp. 458 s.), per cui, in base
ai princìpi del diritto comune e naturale – osserva Azuni – «en quelque temps et par qui que ce soit, que
les prises faites par un pirate aient été recouvrées, elles doivent retourner à
leurs anciens possesseurs qui n'ont rien perdu de leurs droits par cette
injuste usurpation». A questo proposito vengono citati in
nota (ma non riportati per esteso):
1)
Paul. 54 ad ed. D. 41.3.4.7[114],
sulla sottrazione di una res peculiaris;
sembra però più pertinente il par. 6 del passo[115],
che enuncia la regola della inusucabilità delle res furtivae (d'altro canto, come si sarà potuto constatare, non
sempre le citazioni di Azuni sono precise e ineccepibili, per cui non è da
escludere che effettivamente 7 stia al posto di 6[116]);
2)
Ulp. 1 inst. D. 49.15.24[117],
che riporta la definizione ulpianea di hostes;
3)
Iav. 9 post. Lab. D. 49.15.27[118],
che nega l'usucabilità di un servo rapito da latrones e poi pervenuto nel possesso di nemici (Germani).
L'ultima citazione romanistica contenuta nel Droit maritime, attiene alla discussione sulla legittimità o meno
dell'acquisto di cose già in possesso di pirati e a loro sottratte (pp. 460
ss.); riportando l'opinione favorevole alla legittimità di tale acquisto, Azuni
ricorda che essa è basata anche sul fatto che le disposizioni del diritto
comune e la pratica della maggior parte delle nazioni applicano le regole
generali anche per accertare i diritti dei proprietari sulle cose depredate dai
pirati, e cita in proposito (p. 462 n. 1), senza riportarlo, un lungo frammento
di Ulpiano (Ulp. 90 ad ed. D.
41.1.44)[119].
Egli è però contrario a questa soluzione (che riconosce esser stata accolta
nell'ordinamento inglese e spagnolo), preferendo sostenere l'illegittimità di
tale acquisto: i pirati – osserva – non acquistano mai alcun diritto sulla cosa
di cui si sono impossessati, e perciò non possono trasmettere alcun diritto
all'acquirente, in qualsivoglia modo la cosa sia passata nelle mani del terzo
(p. 463).
Possiamo ora cercare di giungere a qualche breve conclusione
generale, sulla base dell’analitica rassegna proposta.
Mi pare che da essa in primo luogo emerga la conferma che i
richiami al Corpus Iuris non svolgano
solo una funzione di abbellimento erudito. In molti casi si nota infatti che la
fonte antica citata o, più genericamente, il principio romanistico addotto,
fanno parte integrante del ragionamento dell’A. e contribuiscono a dare
fondatezza giuridica alle sue argomentazioni. Sembra che l’Azuni consideri (e
utilizzi) spesso le fonti romane come pienamente idonee a ricostruire il
precetto giuridico da considerarsi vigente, sullo stesso piano di normative più
recenti, sia di tipo consuetudinario, sia di tipo legislativo in senso stretto
o convenzionale (per esempio i trattati tra nazioni). Vi è in questo impiego
dei testi antichi un certo qual grado di sovrapposizione o, se si vuole, di
ambiguità e di confusione – lo si è già rilevato – rispetto al concetto di
diritto naturale, cui pure largamente Azuni fa riferimento: talora infatti le
fonti romane sono identificate con esso, come la migliore espressione di una
ineludibile e cogente ragione naturale[120]
(ma vi è almeno un caso in cui egli sottolinea la divergenza tra il precetto
romanistico e quella che ritiene essere la ‘legge di natura’[121]).
In un contesto culturale precodicistico non pare che questo
atteggiamento possa stupire più di tanto. Il Droit marittime di Azuni partecipa del clima culturale
giusnaturalistico che caratterizza gran parte della scienza giuridica
settecentesca. Si aggiunga che la stessa emanazione della codificazione
napoleonica (cui la seconda edizione francese del Droit marittime è successiva), non incise in maniera significativa
sulle materie trattate da Azuni, che si occupava principalmente di diritto
pubblico marittimo internazionale, in particolare nei suoi aspetti bellici.
Piuttosto può aver avuto una certa influenza nell’attenzione
mostrata alle fonti romane, il fatto che il diritto romano era considerato
vigente "en cas de besoin"
in tale materia proprio nel regno di Sardegna, – come non manca di ricordare
espressamente lo stesso Azuni[122]
-, la nazione in cui il nostro si era culturalmente formato e aveva
inizialmente esercitato l’attività giurisdizionale in campo marittimistico.
È difficile dire inoltre quanto vi fosse di originale nell'
impostazione di Azuni, e quanto invece egli dipendesse dalla tradizione
precedente[123].
Non è qui il luogo per approfondire l’argomento confrontando il Droit marittime, con la letteratura anteriore,
pur spesso richiamata e discussa dall’A. Segnalo solo che meriterebbe, per
esempio, un’indagine apposita il rapporto che per taluni aspetti sembra
intercorre tra l’opera del giurista sardo e il De iure belli ac pacis di Grozio, citato nel Droit maritime[124].
D’altro canto, più in generale, non mi sembra abbia finora attratto
l’attenzione degli studiosi l’analisi dell’impiego delle fonti romane nelle
opere dei giuristi dell’età della codificazione napoleonica (che è operazione
diversa dallo studio dell’influenza del diritto romano sul pensiero giuridico
di tale epoca) e perciò la presente ricerca si muove, in qualche misura, su un
terreno in parte non ben noto.
Ciò precisato, vorrei ora tentare di porre rapidamente in luce
qualche aspetto peculiare dei rinvii romanistici del Droit marittime.
In primo luogo mi sembra rilevante che, non di rado, Azuni
utilizzi fonti romane relative a istituti di diritto pubblico. A tale riguardo
sono abbastanza numerosi i richiami a testi del Codice giustinianeo (esemplare
in proposito è il tema delle ‘angarie’, in relazione al quale è frequente il
ricorso a testi del Codice[125]).
Alcuni principi normativi del diritto internazionale marittimo vengono perciò
fatti derivare da fonti giuspubblicistiche romane, spesso emanate in età
tardoantica, sia pure attraverso un’operazione ermeneutica che piega queste
ultime alle esigenze dell’interprete moderno. Azuni, in ciò, non mostra alcuna
preoccupazione, per così dire, storicistica, né si cura più di tanto della
ricostruzione del significato originale delle fonti; anzi talora ne forza
palesemente il senso, pur di giustificare le proprie asserzioni[126].
Altra peculiarità di un certo interesse, è l’impiego di testi
romani, soprattutto giurisprudenziali, relativi a istituti di diritto privato
per l’enucleazione di regole di diritto pubblico. I principi privatistici
enunciati in tali testi sono usati da Azuni come schemi giuridici generali,
idonei a chiarire e giustificare, per esempio, norme giuspubblicistiche di
diritto bellico[127],
o anche sono sfruttati come una sorta di materiale normativo con cui costruire
le regole di condotta da rispettare nell’ambito dei rapporti internazionali
marittimi (per esempio quando l’A. si limita a citare, per lo più in nota, il
luogo del Corpus Iuris rilevante in
materia, senza neppure riportarlo per esteso, e senza commentarlo: sembra quasi
di trovarsi di fronte a un rinvio, per così dire, legislativo, così com’è
usuale trovarne oggi negli atti della pratica, ma non solo). Oltre al palese
disinteresse nei confronti del senso storico dei passi, vi è qui il loro
consapevole utilizzo come materiale di una costruzione giuridica, talora
innovativa, allo scopo di giungere a una auspicata uniformità di regole
internazionali del diritto marittimo. In questi casi vi è, talora, nel pensiero
di Azuni, una sostanziale identità tra il diritto romano, così come egli lo
ricostruisce, e il diritto naturale: principi romanistici, in origine spesso
relativi a contesti privatistici che poco o nulla hanno a che fare con la
materia marittimistica trattata da Azuni, vengono perciò decontestualizzati,
intesi come espressione di una generale e astratta ragione naturale, e come
tali posti alla base di una regola di diritto pubblico marittimo: esempio
tipico può essere ritenuto il principio della libertà di navigazione e di pesca
in alto mare[128],
che viene fondato su alcune fonti romane, da cui si trae la regola generale
senza tener conto del contesto casistico entro cui essa è stata cursoriamente
enunciata dal giurista antico (addirittura, in un caso, si rinvia a un passo
delle Istituzioni – I.2.1.2 – relativo non al mare ma ai fiumi pubblici).
Si può concludere osservando che la fitta trama di citazioni
romanistiche, lungi dall’essere soltanto mero sfoggio di erudizione,
costituisce un consapevole e fecondo strumento argomentativo, che consente ad
Azuni di proporre una lettura unitaria – il ‘Sistema’ annunciato dal
titolo fin dalla prima edizione italiana, ma poi omesso nell’edizione francese
–, talora innovativa, dei principali problemi posti dal diritto internazionale
marittimo della sua epoca. Il diritto romano dunque, lungi dall’essere uno
strumento di confusione e incertezza (come proclamato da una certa tradizione a
esso sfavorevole), si presenta nelle mani di un giurista pratico qual era Azuni
– sia pure a scapito della sua dimensione più propriamente storica –, come un
fattore di migliore comprensione di una realtà complessa e articolata come
quella del diritto marittimo, e anche come stimolo verso soluzioni nuove,
idonee soprattutto a garantire la libertà di navigazione e di pesca, e una più
equa conduzione delle operazioni di guerra sul mare.
* Domenico Alberto Azuni era nato a Sassari e aveva
studiato diritto nell'Università di quella città. Dopo l'occupazione di Nizza,
dove svolgeva funzioni di magistrato, si rifugiò per un certo tempo in esilio a
Modena. Modena e Sassari: le due città a cui è stata legata la vita personale e
accademica di Gabriele Silingardi e che sono anche a me, molto care. Un filo di
coincidenze che mi ha suggerito di dedicare questo scritto alla memoria di
Gabriele.
[1] L. Berlinguer, Domenico Alberto Azuni, giurista e politico
(1749-1827). Un contributo bio-bibliografico, Milano 1966.
[2] L'Azuni collaborò alla stesura del progetto del Code de Commerce, come consulente
esterno della Commissione: vedi Berlinguer,
op. cit., pp.184 ss., con rinvio alla documentazione coeva; partecipò
inoltre, come stretto collaboratore del ministro della giustizia del Regno
d'Italia, Luosi, alla redazione del Progetto
di codice di commercio pel Regno d'Italia (mai entrato in vigore, poiché –
com'è noto – si preferì estendere al Regno d'Italia il Code de Commmerce): vedi Id.,
pp. 219 ss. Non va infine dimenticato che nel 1789, Azuni – allora giudice del
Consolato di Nizza – propose alla Corte di Torino di redigere un Codice del
commercio marittimo; la proposta dovette trovare favorevole accoglimento, tanto
che egli intraprese un viaggio di studio in alcune città italiane, con il
probabile appoggio ufficiale del governo sardo; nel settembre del 1791 consegnò
un Progetto d'un nuovo Codice delle Leggi
di S.M. il Re di Sardegna per la marina e la navigazione mercantile, che non ebbe però seguito; su tutte
queste vicende vedi Id., op. cit., pp. 86 ss.; 98 ss; cfr., ora, G.S. Pene Vidari, Cenni sulla
codificazione commerciale sabauda, in Studi
in memoria di Mario Abrate, Torino,
1986, pp. 693 ss.
[3] Nel 1782 fu nominato giudice del Magistrato del Consolato di
Nizza (che aveva competenze di tipo commerciale sia terrestri che marittime -
in quest'ultima materia, in particolare, per le cause di prede e di corsa): Berlinguer, op. cit., p. 64; sulla sua nomina a giudice della Corte d'Appello
di Genova in periodo napoleonico Id.,
op. cit., pp. 210 ss.; sull'esilio a Modena e l'esercizio della
professione Id., op. cit., pp. 118 ss.; sulla sua attività professionale in Francia
soprattutto innanzi al Conseil des
Prises, Id., op. cit., pp. 180 ss.;
[4] Vedi, per esempio, l'affermazione contenuta nel Discorso preliminare della seconda edizione
del Sistema universale dei principj del
diritto marittimo dell'Europa, 1,
Trieste 1796, 3, (= Droit maritime de
l'Europe, 1, Paris 1805 [= trad anast., Torino, 1972], pp. VI s., secondo
cui «L'impero del mare, l'estensione
della potestà legislativa su i mari soggiacenti alle sponde territoriali, la
legislazione delle nazioni commercianti antiche e moderne, i diritti di un
popolo belligerante, quelli di un neutrale in tempo di guerra, le prede
marittime, la loro aggiudicazione ec. sono gli oggetti parzialmente trattati
finora dai pubblicisti, senza esaminarsi in totalità coll'unione e rapporto
intimo, che hanno tra essi, affine di sistemarli nei loro principj, riunir
questi in un punto, e fissare per sempre una regola certa ed invariabile, alla
quale possa ricorrersi secondo la diversità delle circostanze»;
quest'ultimo era appunto lo scopo che Azuni perseguiva con la sua opera.
[5] La prima edizione venne stampata a Firenze nel 1795 (I vol.) - 1796
(II vol.), a essa seguì subito una seconda edizione «riveduta e aumentata
dall'Autore», stampata a Trieste nel 1796 (I vol.) -1797 (II vol), alla quale
faremo riferimento in questo lavoro.
[7] Ritorneremo fra breve su questo aspetto, che rappresenta la
peculiarità più significativa del lavoro di Azuni.
[8] Nel 1798 apparve una prima traduzione francese (in due volumi)
dal titolo Système Universel de Principes
du Droit Maritime de l'Europe (che lo stesso Autore giudicò piena di
errori), cui seguì nel 1805 una seconda edizione corretta e aumentata (anche
rispetto all'edizione triestina), sempre in due volumi, dal titolo Droit Maritime de l'Europe (rist. anast.
Torino 1972). La traduzione spagnola, condotta sulla prima edizione francese,
dal titolo Sistema Universal de los
Principios del Derecho Maritimo de
[9] Venticinque esemplari secondo Pardessus, Collection de lois maritimes antérieures au XVIIIe siècle, 1, Paris 1828 (rist. anast. Torino 1960), p. 8 n. 2.
[10] Il Codice in questione è ora ripubblicato da C.M. Moschetti, Il Codice marittimo del 1781 di Michele de Jorio per il regno di
Napoli. Introduzione e testo annotato, Napoli 1979. Sull'accusa di plagio nel
dibattito coevo vedi Berlinguer, op. cit., pp. 149 ss.; Moschetti,
op. cit., 1, LXXXI. Cfr.
anche Pardessus, op. cit., pp. 9 s.
[12] Così anche Berlinguer,
op. cit., p. 151, che cita in proposito l'opinione di Sciolla, Mossa ed
Era (per i riferimenti bibliografici, ivi, n. 110); cfr., nello stesso senso,
Moschetti, op. cit., 1, LXXXIV. Si può notare, tra l'altro, che
le accuse di plagio non impedirono all'Azuni di pubblicare nel 1810, come opera
a sé stante, proprio la parte storica incriminata, traendola dalla seconda
edizione francese: Origine et Progrès du
Droit et de
[13] Ne sono un significativo esempio le non rare citazioni di fonti
poetiche antiche (Omero, Virgilio e così via).
[15] Può essere significativo notare che Azuni dà il seguente titolo
al capitolo dedicato alla ricostruzione storica del diritto marittimo: «Dell'Origine e Progressi del Diritto e
Legislazione marittima» (Sistema, 1,
105 ss.), che nell'ediz. francese diventa «De
l'origine et des progrès du Droit et de
[18] Sistema, 1, p. 12; in proposito il pensiero
dell'A. appare meglio esplicitato e chiarito nella traduzione francese: vedi,
specialmente, Droit maritime, 1, pp. XIV s. (che riprende, con modifiche, Sistema, 1, pp. 9 s.): «En effet,
le nations considérées en elles-même sont des personnes morales qui vivent dans
leur indépendance et leur liberté naturelle; elles ne peuvent donc reconnaître
d'autres droits que ceux de la nature, lorsqu'il s'agit de décider leurs
contestations et leurs querelles. Ce droit de la nature, considéré relativement
aux intérêts des nations, est appelé par cette raison Droit des gens
universel. Sa force obligatoire s'étend
sur tous les peuples de la terre. Il est immuable, précisément parce q'il est
fondé sur les lois de la nature, que rien ne peut changer. C'est enfin un droit
commun et nécessaire à toutes les nations de l'univers; il n'est d'aucune
nation en particulier, il est de toutes en général»; cfr. anche ivi, 2, p. 28: «Je prendrai
donc pour base les principes fondamentaux de l'immuable droit de la nature et
des gens: et fort de ce appui solide, je discuterai cette matière aussi
délicate qu'importante, et qui seule peut fournir la règle propre à décider les
contestations qui s'élèvent en temps de guerre entre les nations neutres et les
belligérantes». Sugli aspetti essenziali del
giusnaturalismo settecentesco, vedi per tutti, la sintesi di G. Fassò, Storia della filosofia del diritto, II. L'età moderna, Bologna 1968, pp. 109 ss.; 241 ss.;
in particolare sulla posizione di Grozio, che dovette avere forte influenza
sull'A., ivi, pp. 99 ss.
[19] Vedi, per esempio, Sistema, 1, p. 112 (= Droit maritime, 1,
p. 325) proprio in riferimento a leggi antiche, divenute comuni, «per la loro equità», o anche «per la saviezza di chi le ha dettate».
[20] Vedi, per esempio, Droit
maritime, 1, p.
[24] Et quidem naturali iure omnium communia sunt illa: aer, aqua profluens
et mare, et per hoc litora maris.
[25] Et quidem naturali iure omnium communia sunt illa: aer, aqua profluens
et mare, et per hoc litora maris. Nemo igitur ad litus maris accedere
prohibetur, dum tamen villis et monumentis et aedificiis abstineat, quia non
sunt iuris gentium, sicut et mare. La citazione di Azuni – fatta con riferimento esplicito al brano
del Digesto – corrisponde al primo tratto comune a Marc. 3 inst. D. 1.8.2.1 e a
Inst. 2.1.1 e si conclude, dopo puntini di sospensione, con la frase finale del
passo delle Istituzioni: quia non sunt
iuris gentium sicut et mare.
[27] Quamvis mari, quod natura omnibus patet, servitus imponi privata lege
non patet, quia tamen bona fides contractus legem servari venditionis exposcit,
personae possidentium aut in ius eorum succedentium per stipulationis vel
venditionis legem obligantur.
[28] Maris communem usum omnibus hominibus, ut aeris, iactasque in id pilas
eius esse qui iecerit: sed id concedendum non esse, si deterior litoris marisve
usus eo modo futurus sit.
[29] Si noti che i passi non riguardano direttamente il mare, bensì
il primo i fiumi pubblici e i porti pubblici e il secondo le res sanctae (come le mura delle città e
le porte).
[30] Si quis me prohibeat in
mari piscari vel everriculum (quod Graece sagéne dicitur) ducere, an iniuriarum iudicium possim eum convenire? Et rell.
[31] Sane si maris proprium ius
ad aliquem pertineat, uti possidetis interdictum ei competit, si prohibeatur
ius suum exercere, quoniam ad privatam iam causam pertinet, non ad publicam
haec res, utpote cum de iure fruendo agatur, quod ex privata causa contingat,
non ex publica. Ad privatas enim causas accomodata interdicta sunt, non ad
publicas.
[32] La citazione di Azuni è peraltro inesatta; egli riporta C.
4.63.4.1 in questo modo: ne quis utrique
imperio subiectus, ultra Nisibin Callinicum, et Artaxatam, emendi seu vendendi
species causa proficisci auderet, mentre il testo, sul punto, recita: nullus igitur posthac imperio nostro
subiectus et rell. Che si tratti di una svista dell'Azuni è mostrato, per
esempio, dal fatto che il testo della Glossa coincide con quello dell'edizione
Krüger, qui impiegata.
[35] Sed flumina paene omnia et
portus publica sunt; è appena il caso di notare che il brano delle
Istituzioni dipende dal frammento marcianeo.
[36] Saluberrima sanctione
censemus, ne merces illicitae ad nationes barbaras deferantur. et quaecumque
naves ex quolibet portu seu litore dimittuntur, nullam concussionem vel damna
sustineant: ita tamen, ut earum naucleri deponant, in quam provinciam ituri sunt,
ut hoc manifestato nulla contra eos postea indignatio seu concussio procedat.
[37] Oltre che rinviare genericamente a Cuiacio (ad tit. Cod. de vectigal et com.) e a Loccenius (de Jure marit. Lib. I, cap. 8 § 4, 5 et seq.).
[38] Caesar cum insulae Cretae cotorias locaret, legem ita dixerat: ‘ne quis
praeter redemptorem post idus martias cotem ex insula Creta fodito neve eximito
neve avellito’. cuiusdam navis onusta cotibus ante idus Martias ex portu Cretae
profecta vento relata in portum erat, deinde iterum post idus Martias profecta
erat. consulebatur, num contra legem post idus martias ex insula Creta cotes
exisse videntur. respondit, tametsi portus quoque, qui insulae essent, omnes
eius insulae esse viderentur, tamen eum, qui ante idus Martias profectus ex
portu esset et relatus tempestate in insulam deductus esset, si inde exisset,
non videri contra legem fecisse, praeterea quod iam initio evectae cotes
viderentur, cum et ex portu navis profecta esset.
[39] Si propter necessitatem
adversae tempestatis expositum onus fuerit, non debere hoc commisso vindicari
divi fratres rescripserunt.
[40] Il frammento di Alfeno tratta il caso di uno specifico divieto
legislativo di esportare da Creta pietre per coti dopo una certa data (le idi
di marzo), perché lo sfruttamento delle stesse era stato dato in appalto a un
determinato redemptor; una nave
carica di coti era partita prima dell'entrata in vigore del divieto, ma era
stata costretta a rientrare in porto, riprendendo il largo successivamente alla
data suddetta; al giurista viene chiesto se in questo modo la nave avesse
trasgredito la legge; egli risponde negativamente: …eum, qui ante idus Martias profectus ex portu esset et relatus
tempestate in insulam deductus esset, si inde exisset, non videri contra legem
fecisse, praeterea quod iam initio evectae cotes viderentur, cum et ex portu
navis profecta esset. Com'è facile notare il passo ha un impianto
marcatamente casistico e la regola generale che il caso di forza maggiore (la
tempesta) esclude dall'applicazione della legge proibitiva, che sembra, almeno
in parte, sorreggere il ragionamento di Alfeno, non è enunciato in modo
esplicito. Azuni sembra richiamare il passo, in modo alquanto estensivo, per
sostenere l'esenzione dal pagamento dei diritti d'ancoraggio, che è però
fattispecie diversa rispetto a quella oggetto del frammento del Digesto. In
sostanza l'unico elemento in comune tra quest'ultimo e quanto vuole sostenere
Azuni è l'effetto esimente derivante dalla forza maggiore.
[41] Il che sembra voler implicitamente dire che per Azuni non è
tenuta al pagamento di eventuali imposizioni sulla merce stivata a bordo. Il
passo marcianeo sembra riguardare l'esenzione dal pagamento di vectigalia sulla merce trasportata –
stabilita dal rescritto dei divi fratres
–, qualora per una tempesta, il carico fosse stato abbandonato. Anche in questo caso l'elemento in
comune con il brano del Digesto consiste soltanto nell'ipotesi di forza
maggiore; le fattispecie in cosiderazione sembrano invece del tutto diverse. Si
noti anche che Azuni applica il principio del pagamento dei soli diritti
d'ancoraggio, anche qualora la nave approdi «en passant», dunque non costretta da una tempesta.
[42] Sed et naves eorum
angariari posse Aelio firmo et Antonino Claro veteranis rescriptum est. Si
noti che né in questo passo, né nella costituzione citata subito dopo, risulta
attestato il termine angariarum come
pretende Azuni; inoltre il passo ulpianeo è menzionato come l. 4,§ 1 ss. de Privileg. veteranor., ma il titolo D.
[43] Vedi, soprattutto, il par. 1: Quotiens sane in translatione armorum angariae necessariae
fuerint…secundum missam a sublimitate tua notitiam naves vel angariae confestim
de publico praebeantur.
[45] 22. Huiusmodi igitur obsequia
et hi, qui neque municipes neque incolae sunt, adgnoscere coguntur. 23. Sed
et eos, qui faenus exercent, etsi veterani sint, tributiones eiusmodi
adgnoscere debere rescriptum est. 24. Ab
huiusmodi muneribus neque primipilaris neque veteranus aut miles aliusve, qui
privilegio aliquo subnixus, nec pontifex excusatur.
[46] Multi naves suas diversorum nominibus et titulis tuentur. cui fraudi
obviantes praecipimus, ut, si quis ad evitationem publicae necessitatis titulum
crediderit apponendum, sciat navem esse fisco sociandam. 1. Nam ut privatos quoque non
prohibemus habere navigia, ita fraudi locum esse non sinimus, cum omnes in
commune, si necessitas exegerit, conveniat utilitatibus publicis oboedire et
subvectionem sine dignitate privilegio celebrare. Nella prospettiva di Azuni mi pare particolarmente significativo
il par. 1 della costituzione.
[47] Iubemus nullam navem ultra
duorum milium modiorum capacem ante felicem embolam vel publicarum specierum transvectionem
aut privilegio dignitatis aut religionis intuitu aut praerogativa personae
publicis utilitatibus excusari posse subtractam: nec si caeleste contra
proferatur oracolum, sive adnotatio sit sive divina pragmatica,
providentissimae legis regulas oppugnare debebit. 1. Quod etiam in omnibus causis cupimus observari, ut generaliter, si
quid huiusmodi contra ius vel utilitatem publicam in quolibet negotio
proferatur, non valeat. quidquid enim in fraudem istius legis quolibet modo
fuerit attemptatum, id navigii quod excusatur publicatione corrigimus.
[48] Qui navem Tiberinam habere
fuerit ostensus, onus rei publicae necessarium agnoscat. quaecumque igitur
navigia in alveo Tiberis inveniuntur, competentibus et solitis obsequiis
mancipentur, ita ut nullius dignitas aut privilegium ab hoc officio vindicetur.
[49] In questo caso Azuni cita C. 11,4,2 nella versione contenuta in
C. 1,2,10 (cioè come l. 10 Cod. de sacros. eccles.), non
accorgendosi che si tratta di leges
geminatae.
[51] Quia nonnunquam in
diversis litoribus distrahi publici canonis frumenta dicuntur, vendentes et
ementes sciant capitali poenae se esse subendos et in fraudem publicam
commercia contracta damnari.
[52] Ne frumento, quod
devotissimo exercitui mittitur, in praedam lucrumque vertatur, hac sanctione
decernimus, ut, quicumque hoc fuerit forte mercati, honestiores quidem stilum
proscriptionis incurrant, inferiores autem vilioresque paersonae capitali
supplicio subiaceant.
[53] Qui fiscales species
suscepit deportandas, si recta navigatione contempta litora devia sectatus eas
avertendo distraxerit, capitali poena plectendo.
[54] Nella nota in cui vien fatto tale rinvio (p. 296 n. 1) si legge:
Cum nemo ex facto alieno obligetur;
in realtà il frammento citato non contiene tale frase; forse Azuni ha voluto in
tal modo riassumere quanto espresso da D. 50.17.23 in fine: animalium vero casus
mortesque, quae sine culpa accidunt, fugae servorum qui custodiri non solent,
rapinae, tumultus, incendia, aquarum magnitudines, impetus praedonum a nullo
praestantur.
[55] In proposito Azuni (p. 295 n. 2) si appoggia anche all'autorità
di Peckius e di Vinnius (ad d. leg.
5). Non mi è stato possibile sciogliere tali citazioni.
[56] Camelasia quoque similiter
personale munus est: nam ratione habita et alimentorum et camelorum certa
pecunia camelaris dari debet, ut solo corporis ministerio obligentur. hos ex
albi ordine vocari nec ulla excusatione liberari, nisi sola laesi et inutilis
corporis et infirmitate, specialiter sit expressum.
[59] Si in mari aliquid fiat,
Labeo competere tale interdictum: 'ne quid in mari inve litore quo portus,
statio iterve navigio deterius fiat'; Azuni a pag. 310 n. 2, cita in realtà
la l. 6, §17, ff. de fluminib., ma si
tratta di un evidente errore per l.
[60] Litora, in quae populus
Romanus imperium habet, populi Romani esse arbitror: 1 Maris communem usum omnibus hominibus, ut aeris, iactasque in id pilas
eius esse qui iecerit: sed id concedendum non esse, si deterior litoris marisve
usus eo modo futurus sit. Il par. 1 del frammento era già stato citato da
Azuni in relazione al principio che il mare aperto deve essere considerato
comune a tutto il genere umano: vedi supra, 2.1 e n. 27.
[61] D. 43.14.1 pr: Praetor
ait: 'Quo minus illi in flumine publico navem ratem agere quove minus per ripam
onerare exonerare liceat, vim fieri veto. item ut per lacum fossam stagum
publicum navigare liceast, interdicam'; 3: Lacus est, quod perpetuam habet aquam. Stagnum est, quod temporalem
contineat aquam ibidem stagnantem, quae quidem aqua plerumque hieme cogitur;
7: Possunt autem etiam haec esse publica.
Publicano plane, qui lacum vel stagnum conduxit, si piscari prohibeatur, utile
interdictum competere Sabinus consentit: et ita Labeo. ergo et si a municibus
conductum habeat, aequissimum erit ob vectigalis favorem interdicto eum tueri.
[62] Di questo lungo frammento paiono di un certo rilievo solo le
parole iniziali del pr.: Fluminum
publicorum communis est usus, sicuti viarum publicarum et litorum. in his
igitur publice licet cuilibet aedificare et destruhere, dum tamen hoc sine
incommodo cuiusquam fiat.
[64] Il testo dell'inizio della costituzione (a cui evidentemente
Azuni si riferisce) è però in parte diverso rispetto alla regola così come
citata: Inter alios res gestas aliis non
posse facere praeiudicium saepe constitutum est.
[65] (…)cuiusve opera dolo malo
hostes populi Romani commeatu armis telis equis pecunia aliave qua re adiuti
erunt…
[66] Cotem ferro subigendo
necessariam hostibus quoque venundari, ut ferrum et frumentum et sales, non
sine periculo capitis licet.
[67] Ad barbaricum transferendi
vini et olei et liquaminis nullam quisquam habeat facultatem ne gustus quidem
causa aut usus commerciorum.
[68] Nemo alienigenis barbaris
cuiuscumque gentis ad hanc urbem sacratissimam sub legationis specie vel sub
quocumque alio colore venientibus aut in diversis aliis civitatibus vel locis
loricas et scuta et arcus sagittas et spathas et glasios vel alterius
cuiuscumque generis arma audeat venumdare, nulla prorsus isdem tela, nihil
penitus ferri vel facti iam vel adhuc infecti ab aliquo distrahatur.
[70] Il problema sussiste ancora oggi nel diritto internazionale
bellico: vedi, per tutti, anche per citazioni di fonti e bibliografia, Ronzitti, Diritto internazionale dei conflitti armati, Torino 1998, pp. 225
ss., che osserva in proposito: «Benché i
neutrali abbiano diritto di commercio e libertà di navigazione in alto mare, i
belligeranti possono confiscare le merci che costituiscono contrabbando di
guerra, cioè quei prodotti utili allo sforzo bellico dell'avversario. Se viene
accertato che la merce costituisce contrabbando, il carico è confiscato. La
confisca può colpire anche la nave» (ivi, p. 227).
[72] Dominus navis si illicite
aliquid in nave vel ipse vel vectores imposuerint, navis quoque fisco vindicatur:
quod si absente domino id a magistro vel gubernatore aut proreta nautave aliquo
id factum sit, ipsi quidem capite puniuntur commissis mercibus, navis autem
domino restituitur. Azuni p. 199 n. 1, indica, per un evidente errore, il
passo come l. 2 de Publican. vectigalib.
et commiss., mentre in realtà è la l. 11 del titolo; inoltre la citazione
termina a vindicatur, con omissione della restante parte
del frammento.
[73] Si tratta di un'argomentazione che, tra l'altro, rivela una
certa consapevolezza della dimensione anche storica del diritto romano, che
perciò non sempre coincide con i princìpi universali della «legge di natura»
(che comunque hanno la prevalenza su di esso).
[74] Lege Rhodia cavetur, ut,
si levandae navis gratia iactus mercium factus est, omnium contributione
sarciatur quod pro omnibus datum est; Azuni (p. 226 n. 1) cita erronemente
il passo come l. 14 ad legem Rhodiam de
jactu, mentre si tratta del frammento 1; inoltre la citazione ha inizio da ut e termina con sarciatur.
[75] Il passo è riportato (a p. 227 n. 1), forse a memoria, in modo
molto inesatto e parziale, inoltre è indicato come l. 43 Quod vi aut clam, mentre è il frammento 7,4 del titolo; ne diamo
qui di seguito la versione esatta della parte del passo a cui Azuni probabilmente
intendeva riferirsi: si tamen quid vi aut
clam factum sit neque ignis usque eo pervenisset, simpli litem aestimandam: si
pervenisset, absolvi eum oportere. idem ait esse, si damni iniuria actum foret,
quoniam nullam iniuriam aut damnum dare videtur aeque perituris aedibus.
[76] Anche in questo caso Azuni erra nell'indicare il passo come l. 9
ad legem Aquiliam, trattandosi del
frammento 29,3 del titolo. Ecco la parte del testo che qui interessa: Item Labeo scribit, si, cum vi ventorum
navis impulsa esset in funes anchorarum alterius et nautae funes praecidissent,
si nullo alio modo nisi praecisis funibus explicare se potuit, nullam actionem
dandam. Idemque Labeo et Proculus et circa retia piscatorum, in quae navis
piscatorum inciderat, aestimarunt. plane si culpa nautarum id factum esset,
lege Aquilia agendum. La citazione di Azuni omette item Labeo scribit e inizia con un quod (Quod si vi ventorum)
non presente in Ulpiano.
[77] Si conservatis mercibus
deterior facta sit navis aut si quid exarmaverit, nulla facienda est collatio,
quia dissimilis earum rerum causa sit, quae navis gratia parentur et earum, pro
quibus mercedem aliquis acceperit: nam et si faber incudem aut malleum
fregerit, non imputaretur ei qui locaverit opus. sed si voluntate vectorum vel
propter aliquem metum id detrimentum factum sit, hoc ipsum sarciri oportet.
[78] Si navis tua inpacta in
meam scapham damnum mihi dedit, quaesitum est, quae actio mihi competeret. Et
ait Proculus, si in potestate nautarum fuit, ne id accideret, et culpa eorum
factum sit, lege Aquilia cum nautis agendum, quia parvi refert navem immittendo
aut serraculum ad navem ducendo an tua manu damnum dederis, quia omnibus his
modis per te damno adficior: sed si fune rupto aut cum a nullo regeretur navis
incurrisset, cum domino agendo non esse.
[79] Quod dicitur damnum
iniuria datum Aquilia persequi, sic erit accipiendum, ut videatur damnum
iniuria datum, quod cum damno iniuria attulerit: nisi magna vi cogente fuerit
factum, ut Celsus scribit circa eum, qui incendii arcendi gratia vicinas aedes
intercidit: nam hic scribit cessare legis Aquiliae actionem: iusto enim metu
ductus, ne ad se ignis perveniret, vicinas aedes intercidit: et sive pervenit
ignis sive ante extinctus est, existimat legis Aquiliae acrionem cessare.
[80] Quod ait praetor de damno
dato, ita demum locum habet, si dolo damnum datum sit: nam si dolus malus
absit, cessat edictum. quemadmodum ergo procedit, quod Labeo scribit, si
defendendum mei causa vicini aedificium orto incendio dissipaverim, et meo nomine
et familiae iudicium in me dandum? Cum enim defendendarum mearum aedium causa
fecerim, utique dolo careo. puto igitur non esse verum, quod Labeo scribit. an
tamen lege Aquilia agi cum hoc possit? et non puto agendum: nec enim iniuria
hoc fecit, qui se tueri voluit, cum alias non posset. et ita Celsus scribit.
[81] In realtà i due brani ulpianei citati non considerano una simile
fattispecie e sono a essa riportabili solo con qualche sforzo: (D.39.3.1.4) Sed et fossas agrorum siccandorum causa
factas Mucius ait fundi colendi causa fieri, non tamen oportere corrivandae
aquae causa fieri: sic enim debere quem meliorem agrum suum facere, ne vicini
deteriorem faciat; (D. 39.3.1.11)
Idem aiunt aquam pluviam in suo retinere vel superficientem ex vicini in suum derivare,
dum opus in alieno non fiat, omnibus ius esse (prodesse enim sibi unusquisque,
dum alii non nocet, non prohibetur) nec quemquam hoc nomine teneri.
[82] Cum stramenta ardentia
transilerint duo, concurrerunt amboque ceciderunt et alter flamma consumptus
est: nihilo eo nomine agi, si non intellegitur, uter ab utro eversus sit.
[84] Vi è sempre il dubbio che la citazione di Azuni sia errata:
abbiamo infatti visto in precedenza alcuni rinvii manifestamente errati, di cui
abbiamo proposto la correzione; in questo caso però ciò non sembra possibile.
Quanto al primo passo, potrebbe forse essere più pertinente il paragrafo
immediatamente successivo, D. 9.2.45.4 (Qui,
cum aliter tueri se non possent, damni culpam dederint, innoxii sunt: vim enim
vi defendere omnes leges omniaque iura permittunt et rell.), ma si tratta
di una mera congettura, non altrimenti dimostrabile.
[85] L'opera del Galliani a cui qui Azuni fa riferimento è citata nel
Catalogue des Auteurs (Droit maritime, 2, p. 476) con il titolo De'
doveri, de' principi neutrali, verso i principi guerreggianti, e di questi
verso i principi neutrali.
[86] Novissime videndum, an
eiusdem rei nomine et de recepto honoraria actione et furti agendum sit: et
Pomponius dubitat: sed magis est, ut vel officio iudicis vel doli exceptione
alterutra esse contentus debeat.
[90] Al punto, indicato da Azuni, culpam
autem: culpam autem esse, quod cum a
diligente provideri poterit, non esset provisum aut dum denuntiatum esset, cum
periculum evitari non possit.
[91] Non est novum, ut qui
dominium non habeat, alii dominium praebeat: nam et creditor pignus vendendo
causam dominii praestat, quam ipse non habuit.
[94] Aliud est 'capere', aliud
'accipere'. capere cum effectu accipitur: accipere, et si quis non sic accepit,
ut habeat. ideoque non videtur quis capere, quod erit restituturus: sicut
pervenisse proprie illud dicitur, quod est remansurum. Riportato da Azuni a
p. 304 n. 1, con est (accipere est, si quis et rell.) al posto
di et.
[95] In bello [sottointeso postliminii ius competit], cum hi, qui nobis hostes sunt, aliquem ex
nostris ceperunt et intra praesidia sua perduxerunt: nam si eodem bellois reversus fuerit, postliminium habet, id est
perinde omnia restituuntur ei iura, ac si captus ab hostibus non esset. Antequam
in preasidia perducatur hostium, manet civis (…).
[96] Postliminio redisse
videtur, cum in fines nostros intraverit, sicuti amittitur, ubi fines nostros excessit
(…).
[98] Quod dicimus in eo herede,
qui fideiussori testatoris id, quod ante aditam hereditatem ab eo solutum est,
debere statim solvere, cum aliquo scilicet temperamento temporis intellegendum
est: nec enim cum sacco adire debet.
[99] Item si ita legatum sit:
'heres meus Seio penum dato: si non dederit, decem dato', quidam putant
omnimodo in legato decem esse, penum autem mortis causa capi nec in Falcidiam
imputare id heredem posse. ego autem didici, si in continenti heres penum
solverit, videri hoc legatum esse et in legem falcidiam imputari posse: et quod
dixi 'in continenti' ita accipiendum cum aliquo spatio. quod si iam mora facta
solverit heres penum, tunc nec legatum eum accepisse nec Falcidiam imputari posse:
iam enim transfusum legatum esse et decem deberi (…).
[100] Quaestiones eorum
criminum, quae legibus aut extra ordinem coercentur, ubi commissa vel inchoata
sunt vel ubi reperiuntur qui rei esse perhibentur criminis, perfici debere
satis notum est.
[101] In francese "recousse" o "reprise", donde il
titolo dell'art. V del cap. IV: De
[102] Quidquid autem eorum ceperimus, eo usque nostrum esse intellegitur, donec
nostra custodia coercetur: cum vero evaserit custodiam nostram et in naturalem
libertatem se receperit, nostrum esse desinit et rursus occupantis fit.
[103] Del passo pare rilevante soprattutto il pr.: Quod meo nomine
possideo, possum alieno nomine possidere: nec enim muto mihi causam
possessionis, sed desino possidere et alium possessorem ministerio meo facio.
nec idem est possidere et alieno nomine possidere: nam possidet, cuius nomine
possidetur, procurator alienae possessioni praestat ministerium.
[104] Procurator si quidem
mandante domino rem emerit, protinus illi adquirit possessionem: quod si sua
sponte emerit, non nisi ratam habuerit dominus emptionem. Occorre notare
che Azuni rinvia, con evidente
errore, al par. 2 del passo, che, in realtà, non esiste.
[105] Appare rilevante il pr.
del frammento: Si procurator rem mihi
emerit ex mandato meo eique sit tradita meo nomine, dominium mihi, id est
proprietas, adquiritur etiam ignoranti.
[106] Si procurator meus me mandante
vel ratum habente precario rogaverit, ego precario habere proprie dicor.
[107] Si procurator meus
pecuniam meam habeat, ex mora utique usuras mihi pendet. sed et si pecuniam
meam faenori dedit usurasque consecutus est, consequenter dicemus debere eum
praestare quantumque emolumentum sensit, sive ei mandavi sive non, quia bonae
fidei hoc congruit, ne de alieno lucrum sentiat: quod si non exercuit pecuniam,
sed ad usus suos convertit, in usuras convenietur, quae legitimo modo in
regionibus frequentantur. denique Papinianus ait etiam si usuras exegerit
procurator et in usus suos convertit, usuras eum praestare debere.
[108] Si ex fundo quem mihi emit procurator fructus consecutus est, hos
quoque officio iudicis praestare eum oportet.
[109] Si ego hac mente pecuniam procuratori dem, ut ea ipsa creditoris
fieret, proprietas quidem per procuratorem non adquiritur, potest tamen
creditor etiam invito me ratum habendo pecuniam suam facere, quia procurator in
accipiendo creditoris dumtaxat negotium gessit: et ideo creditoris
ratihabitione liberor.
[110] «Quelque
soit le sentiment intérieur d'un tel individu, sentiment dont il n'est
responsable qu'envers le Tout-Puissant, et pour lequel, par conséquent, il
n'est pas suyet à l'animadversion des lois humaines».
[111] In realtà il frammento ulpianeo recita: cogitationi poenam nemo patitur; si tratta forse di una citazione
fatta a senso, e perciò non esattamente corrispondente al passo del Digesto.
[112] Cap. V, art. III: De
[114] Labeo quoque ait, si res
peculiaris servi mei subrepta sit me
ignorante, deinde eam nanctus sit, videri in potestatem meam redisse: commodius
dicitur, etiamsi sciero, redisse eam in meam potestatem (nec enim sufficit, si
eam rem, quam perdidit ignorante me, servus adprehendat): si modo in peculio
eam esse volui: nam si nolui, tunc exigendum est, ut ego facultatem eius nactus
sim.
[115] Quod autem dicit lex
Atilia ut res furtiva non usucapiatur, nisi in potestatem eius, cui subrepta
est, revertatur, sic acceptum est, ut in domini potestatem debeat reverti, non
in eius utique, cui subreptum est. igitur creditori subrepta et ei, cui
commodata esr, in potestatem domini redire debet.
[116] Né, per quanto ho potuto constatare, le edizioni del Digesto
precedenti a quella del Mommsen, hanno una diversa articolazione in paragrafi
del frammento: è sufficiente, in proposito, consultare il testo della Glossa.
[117] Hostes sunt, quibus bellum
publice populus Romanus decrevit vel ipsi populo Romano: ceteri latrunculi vel
praedones appellantur. et ideo qui a latronibus captus est, servus latronum non
est, nec postliminium illi necessarium est: ab hostibus autem captus, ut puta a
Germanis et Parthis, et servus est hostium et postliminio statum pristinum
recuperat.
[118] Latrones tibi servum
eripuerant: postea is servus ad germanos pervenerat: inde in bello victis
Germanis venierat. negant pusucapi eum ab emptore Labeo Ofilius Trebatius, quia
verum esset eum subreptum esse, nec quod hostium fuisset aut postliminio
redisset, ei rei impedimento esse.
[119] Pomponius tractat: cum
pastori meo lupi porcos eriperent, hos vicinae villae colonus cum robustis
canibus et fortibus, quos pecoris sui gratia pascebat, consecutus lupis eripuit
aut canes extorserunt: et cum pastor meus peteret porcos, quaerebatur, utrum
eius facti sint porci, qui eripuit, an nostri maneant: nam generi quodam
venandi id erant nancti. cogitabat tamen, quemadmodum terra marique capta, cum
in suam naturalem laxitatem pervenerant, desinerent eorum esse qui ceperunt,
ita ex bonis quoque nostris capta a bestiis marinis et terrestribus desinant
nostra esse, cum effugerunt bestiae nostram persecutionem. quis denique manere
nostrum dicit, quod avis transvolans ex area aut ex agro nostro transtulit aut
quod nobis eripuit? si igitur desinit, si fuerit ore bestiae liberatum,
occupantis erit, quemadmodum piscis vel aper vel avis, qui potestatem nostram
evasit, si ab alio capiatur, ipsius fit. sed putat potius nostrum manere
tamdiu, quamdiu reciperari possit: licet in avibus et piscibus et feris verum
sit quod scribit. idem ait, etsi naufragio quid amissum sit, non statim nostrum
esse desinere: denique quadruplo teneri eum qui rapuit. et sane melius est
dicere et quod a lupo eripitur, nostrum manere quamdiu recipi possit id quod
ereptum est. si igitur manet, ego arbitror etiam furti competere actionem:
licet enim non animo furandi fuerit colonus persecutus, quamvis et hoc animo potuerit
esse, sed et si non hoc animo persecutus sit, tamen cum reposcenti non reddit,
supprimere et intercipere videtur. quare et furti et ad exhibendum teneri eum
arbitror et vindicari exhibitos ab eo porcos posse. Mi sembra che la
complessità del caso descritto e l'articolazione del ragionamento non rendano
facile riconoscere con immediatezza nel frammento l'espressione di un principio
generale favorevole alla tesi a sostegno della quale è citato. Paradossalmente,
anzi, esso potrebbe essere addotto a sostegno della tesi opposta, che è quella
preferita da Azuni. Si tratta di un non raro esempio di uso strumentale e, per
così dire, poco controllato, delle fonti romane, a cui ci si rifà in modo
generico e allusivo, piuttosto che pienamente consapevole e critico.
[122] Droit maritime, 1, p. 506. È interessante notare
che anche in un altro caso A. ricorda espressamente la persistente vigenza del
diritto romano, e precisamente trattando della legislazione marittima
dell'Inghilterra, al cui proposito osserva che «Les anglais sont donc obligés, relativement à la jurisprudence
mercantile, de recourir su Droit romain et au Droit civil de leur eoyaume»
(Droit maritime, 1, 471 s.); il riferimento è alla
giurisdizione delle Corti dell'Ammiragliato, sulla cui storia vedi, per tutti,
i cenni Criscuoli, Introduzione allo studio del diritto
inglese. Le fonti, 2a ed.,
Milano 1994, pp. 40, 56 s., 110 ss.
[123] Per un profilo generale del tema vedi Berlinguer, op. cit., pp. 135 ss., che però non indaga
gli aspetti direttamente ricollegabili all'impiego delle fonti romane.
[124] Azuni conosce di Grozio anche l'operetta Mare liberum sive de iure quod Batavis competit ad Indiana commercia dissertatio
citata nel Catalogue des Auteurs in Droit Maritime, 2, 477, accanto all'opera maggiore; è da notare che Mare liberum, inizialmente pubblicato a
se stante, a partire dalla 26a edizione (1667) del De iure belli ac pacis ne divenne un'appendice: traggo la notizia
da Feenstra, ‘Mare liberum’. Contexte historique et consepts fondamentaux, in AA.VV., Grotius et l'ordre juridique international. Travaux du Colloque Hugo
Grotius (Genève 10-11 novembre 1983),
Lausanne 1985, pp. 37 ss.
[126] Al riguardo può essere significativo che A. dedichi un apposito
capitolo alla storia del diritto e della legislazione marittima (Droit maritime, 1, cap. IV) – che, come già detto (vedi supra, par. 1) è in sostanza una sorta di plagio della precedente
opera di Michele de Jorio –, dando a esso un'impostazione più strettamente di
tipo storico-erudito; nel resto dell'opera, invece, le citazioni di fonti
romane hanno per lo più una funzione argomentativa e non di mero richiamo
erudito.
[127] Interessante, per esempio, è l’utilizzazione del passo gaiano
(Gai. 2 rer. cottid. D. 41.1.3.2)
relativo all’occupazione delle ferae
bestiae, per giustificare il diritto di ‘ricupero’ della preda bellica: v supra, par. 3,8.