N° 2 -
Marzo 2003 – Tradizione Romana
Pontremoli
“E nos Lases
iuuate”. I Lari nel sistema spazio-temporale romano
Sommario: 1. Il lucus
Deae Diae e i Fratelli Arvali: i Lari come protettori dell’ager Romanus.
– 2. Compitalia sive
Laralia: i Lari come
protettori dei quartieri e loro funzione “politica”. – 3. Dalla capanna protostorica
all’editto di Teodosio: relazione tra fuoco e Lari. – 4. I Lari come difensori del pomerium,
in qualità di di terrestres (v. la formula della devotio)
rappresentano la dimensione orizzontale del mundus. – 5. Conclusione: Romolo e
Remo, Lari Protettori, al centro dell’urbs e dell’orbis.
Al quinto miglio della via Campana, cioè a circa
La cosa era giustificata dalla tradizione col fatto che, mentre i
due gruppi dei Luperci erano considerati rispettivamente i discendenti ideali
di Romolo e Remo, il solo Romolo era divenuto Arvale alla morte del dodicesimo
figlio di Acca Larenzia, la madre dei componenti del primo sodalizio e contemporaneamente
la nutrice dei divini gemelli. Il fatto del mancato inserimento di Remo tra gli
Arvali è certamente da porsi in relazione alla sua tragica fine, allorché fu
vittima della prima sanzione intesa a difendere le mura primigenie dell’Urbe.
In tal modo Remo diveniva il prototipo dei lemures, i morti
insoddisfatti, la cui festa si celebrava, nella prima metà di Maggio, nei tre
giorni dei Lemuria (9,11,13), a cui calendarialmente si contrapponevano,
nella seconda metà del mese, proprio i tre giorni (alternativamente il 17, 19,
20 e il 27, 29, 30) in cui agivano sacralmente i Fratelli Arvali.
La riunione dei Fratres nel lucus Deae Diae
avveniva il 19 o il 29 di maggio e la liturgia che vi veniva svolta, minuziosa
e assai complessa, ci è nota attraverso i frammenti dei loro processi verbali
(detti per lo più Acta dagli studiosi moderni)[3],
collocati fra il I e il III secolo d.C. ma dalle caratteristiche proprie ad una
grande arcaicità.
In una cerimonia segreta e a porte chiuse (dal momento che dal tempietto
di Dea Dia venivano fatti uscire tutti gli estranei, compresi gli inservienti)[4],
succinte le toghe e forniti ciascuno di un libellus, i Fratelli intonavano,
aiutandosi col movimento ritmico dei piedi proprio della danza sacra, il noto
inno che così recita:
“e nos lases ivvate (ripetuto tre volte)
neve lve
rve marmar sins incvrrere in pleores (idem c.s.)
satvr fv fere mars limen sali sta berber
(idem c.s.)
semvnis alternei
advocapit conctos (idem c.s.)
e nos marmar ivvato
(idem c.s.)
trivmpe (ripetuto
cinque volte)”.
È una preghiera, dunque, rivolta, oltre che alla poco nota
categoria divina dei Semones[5],
al dio guerriero Marte, non perché porti la guerra altrove, ma perché impedisca
alla guerra di devastare il territorio dei Lari, e ai Lari stessi appunto, qui
intesi senza dubbio come i Lares Praestites o publici, coloro che
garantiscono «la sicurezza di tutto ciò che resta sotto i loro occhi e
proteggono le mura della Città»[6].
Un valore ribadito da quella espressione pleores (= plures), il
cui concetto, come ha scritto il Catalano, «serve ad esprimere l’attiva
partecipazione della maggioranza e sembra sorgere parallelamente al concetto di
populus»[7].
I Lares (Lases è la forma arcaica anteriore all’introduzione del
rotacismo a Roma nel IV secolo a.C.), qui attestati per la prima volta in un
documento pubblico, sono invocati per primi come entità divine della terza
funzione, cioè della prosperità e del populus (= pleores), che
sono minacciati. La teologia dei Fratelli Arvali, sacerdoti della prima
funzione e, in quanto tali vestiti di bianco (colore caratteristico della
sovranità magico-giuridica) come specialisti dell’aspetto femminile di Dius
(Dea Dia), quello che lega la società umana alla sua terra, gli arva
che recano i fruges (Fratres Arvales dicti sunt qui sacra publica
faciunt propterea ut fruges ferant arva: Varro, De ling. Lat.
5.85), riguarda dunque la fecondità della terra, ma concerne di conseguenza la
difesa del territorio, e quindi la santità del patto che garantisce la
proprietà e l’uso della terra (vale a dire le tre funzioni)[8].
La richiesta di aiuto ai Lari non presuppone, allora, l’estensione del campo
d’azione dei Lari stessi all’agricoltura, quanto la licenza di raccogliere i
prodotti di quella terra che (in qualità di mitici antenati del popolo romano)
era stata ed è ancora, metastoricamente, loro. Un concetto, questo, rafforzato
dalla constatazione che il lucus della Dea Dia, al quinto miglio
della via Campana, attribuita dal Coarelli, insieme con la via
Salaria, sua continuazione, «al livello più arcaico documentabile»[9],
è stato da lui ritenuto come uno dei limiti dell’ager Romanus antiquus e
corrispondente «con grande probabilità al [territorio del]la ‘città romulea dell’VIII secolo’»[10].
E del resto, ager Romanus è «concetto che risale, secondo la tradizione,
a Romolo»[11].
Tuttavia, il sito del lucus Deae Diae, trovandosi trans
Tiberim, non poteva, a nostro giudizio, essere compreso, per ragioni di giurisprudenza
sacra, nell’ager Romanus antiquus. Infatti: Pectuscum Palati dicta
est ea regio Urbis, quam Romulus obversam posuit, ea parte, in qua plurimum
erat agri Romani ad mare versus, et qua mollissime adibatur Urbs, cum Etruscorum agrum a Romano Tyberis
discluderet, caeterae vicinae civitates colles aliquos haberent
oppositos (Festus., p.
Non saremo dunque molto lontani dal vero supponendo che l’arcaico
rituale dei Fratelli Arvali (riformato, certo, da Augusto, lui stesso frater
Arvalis [Mon. Ancyr. I, 7], col
consueto rispetto della sua base antica) risalga, nelle linee essenziali della
sua formulazione, ai primi tempi della monarchia, così come la struttura del collegio
stesso possa addirittura preesistere alla fondazione dell’Urbe[13].
Come si è visto, quella del sodalizio
Arvale era una cerimonia essenzialmente legata ai valori della terra e da
mettersi in relazione con analoghe feste di fine anno, come le Feriae
Sementivae di novembre, sacre a Cerere e Tellus. Del resto, se le nuove
cariche all’interno del sodalizio, come risulta dagli Atti, erano destinate ad
entrare in vigore ai prossimi Saturnalia per durare sino ai seguenti,
l’anno arvalico doveva dunque iniziare da quella grande festa della semina, i Saturnalia
(Saturnus a satu, affermano etimologisti antichi e moderni)[14],
con cui aveva inizio il ciclo delle lavorazioni campestri. E a una festa di
“capodanno” mobile, annoverata tra quelle conceptivae o non fisse,
legata anch’essa alle Feriae Saturni (iniziava infatti «pochi giorni
dopo i Saturnali» per Dionigi di Alicarnasso, IV.14.4), ci rinvia la più
importante celebrazione dedicata ai Lari, i Compitalia detti anche Laralia,
proclamata da un magistrato pubblico, un pretore, con la formula solenne
tramandataci da Macrobio:
dienoni (= die nono) populo romano
quiritibus compitalia erunt[15].
Era, questa, la festa dei compita o crocicchi, dedicata ai
Lares Viales, là dove le strade “si incontrano” (competunt:
Varro, De ling. Lat 6.25). In quella occasione, nel punto di
congiunzione delle diverse proprietà agrarie, poi dei rioni, i Lari, riuniti in
una rudimentale cappella, accoglievano le famiglie della zona per rustici ludi
e offerte sacrificali. Se i Lases degli Arvali erano invocati a
protezione dell’ager Romanus, qui i Lares Viales dovevano essere
intesi come genii protettori dei singoli pagi e quindi, idealmente, come
i primordiali abitanti e/o antenati degli attuali abitatori. E ciò era dimostrato
dal fatto che:
«Le spose, secondo un’antica legge romana, giungendo dal marito
erano solite recare tre monete (= tre assi). Una, che tenevano in mano, la
consegnavano al marito quasi a titolo di acquisto; un’altra, che recavano su un
piede, la ponevano sul focolare dei Lari familiari; una terza, che avevano
riposto in una sacca da viaggio, erano solite riservarla per il crocicchio del
rione»[16].
I Laralia rientravano, a giudizio di Antistio Labeone[17],
fra i Popularia Sacra: una festa, dunque, né del tutto privata, né del
tutto pubblica, che la tradizione collegava ai sovrani etruschi e certamente
risalente a un epoca a cui era ignota «la giustapposizione fra publicus
e privatus», così come, del resto, sarebbe da dirsi per lo «stesso
concetto di populus Romanus Quirites»[18].
La contrapposizione tra “rionale” e “civico” non creava incompatibilità finché
era tenuta sul piano cultuale: questa sarebbe emersa, invece, quando avrebbe
invaso il campo politico[19].
D’altronde, proprio i collegia Larum, a cui i Compitalia erano
affidati, “assunsero caratteri politici (di ‘concentramenti di partito’): disciolti
dal senatoconsulto del
L’8 novembre del 392, essendo consoli Arcadio
per la seconda volta e Rufino, l’imperatore Teodosio emanava da Costantinopoli
un editto inteso a combattere all’interno delle stesse case private l’ultima
resistenza dell’antica religione, proibendo di venerarvi «con rito segreto il
Lare per mezzo del fuoco, il [proprio] Genio per mezzo del vino, i Penati per
mezzo di profumi» (CTh. 15.10.12).
Non sta a noi qui domandarci se il provvedimento (una «morte per
decreto» è stata autorevolmente definita)[21]
avesse potuto avere qualche efficacia pratica – almeno per l’immediato – in riferimento
al culto privato: resta il fatto, in ogni modo, che questa sarà l’ultima
attestazione pubblica di un culto, quello del fuoco, le cui origini si può dire
coincidessero con quelle stesse della stirpe latina.
Nelle rotonde capanne preistoriche la fiamma del focolare
domestico fu certamente considerata la prima forma divina oggetto di culto:
questa ardeva di norma in un piccolo incavo del terreno, talora costituito da
un fornello di terracotta a cui si associavano piccoli alari di pietra, forse
la più remota rappresentazione aniconica dei Lari domestici. Del resto, la più
antica attestazione di uno stretto legame tra la capanna preistorica (di cui l’aedes
Vestae e lo stesso tempietto di Dea Dia riproducevano le sembianze:
poiché Vesta «è
Si consideri adesso il pomerio romuleo lungo le falde del
Palatino, con al centro la fossa della Roma Quadrata (da non
confondersi col mundus), là dove forse era esistito un primordiale
sacello sacro alla dea Caca: apparirà come un ampio circuito inaugurato
dall’andamento ellittico, in cui i limiti dell’urbs (che Varrone [L.L.
5.143] fa derivare da orbis, “cerchio”, e da urvum, “curvo”) sono
concepiti come quelli di un’unica e vasta abitazione protostorica. Da una
parte, ai suoi estremi ma all’interno, non molto lontano dal mundus del
Comizio, l’aedes Vestae, di pianta circolare, sarà il focolare della
città, dove brilla un fuoco casto e inestinguibile alimentato incessantemente
da vergini sacerdotesse. Dall’altra diversi fuochi sparsi sono accesi dinanzi a
vari templi per ricevere le offerte agli dèi tutelari della comunità.
Si tratta delle arae, altari dalla base quadrangolare:
quindi orientati e legati, secondo le rigorose norme augurali, alle quattro
regioni del cielo. Se il pomerium, per quanto inaugurato, non era detto templum,
non poteva essere affatto di forma rettangolare come supposto da taluno[24]
né aveva necessaria orientazione, cosa che toglie ulteriori dubbi sul fatto che
l’espressione Roma Quadrata potesse riferirsi al pomerio delimitato dal
solco primigenio.
«È probabile», ha scritto Mircea Eliade, «che il primitivo
modello di Roma sia stato un quadrato inscritto in un cerchio: la diffusione
estesissima della tradizione gemella del circolo e del quadrato invita a
supporlo»[25].
E da questa dialettica del rotondo e del quadrato, diremo noi, da questa ierogamia
di Cielo e Terra, si può dire tragga origine la città di Roma.
L’editto teodosiano dell’8 novembre, per una circostanza
singolare (o forse ricercata?) cadeva in uno di quei tre giorni dell’anno che
l’antico calendario contrassegnava con l’espressione MUNDUS PATET (che
noi tradurremo: «si apre la fossa che mette in comunicazione i tre mondi»),
ponendo in tal modo in stretta relazione il fuoco del focolare domestico e i
Lari (nel caso citato “il Lare”, che al singolare si riferiva propriamente al Lar
familiaris, tutelare della famiglia nel suo senso più ampio, quindi anche
degli schiavi). La relazione è dunque fra “l’anima della famiglia”, il fuoco e
la memoria religiosa dei suoi progenitori, sì che nel testo teodosiano è molto
difficile separare le due entità - a tal punto nella pratica rituale e nello
stesso linguaggio ufficiale, esse erano associate nella mentalità degli
antichi.
Se in precedenza abbiamo rilevato la funzione tutelare dei Lari
ai confini dell’ager Romanus e, in qualità di Viales, dei singoli
rioni della città, ora il riferimento al mundus ci riporta al ‘centro’
(da intendersi in senso qualitativo e non geometrico) dell’urbs e dell’orbis,
la forma del quale – a giudizio di Catone[26]
– corrispondeva a quelle del mondo celeste e del mondo infero. Si spiega allora
perché Romolo, nel momento di tracciare il solco fatale, avrebbe invocato
(oltre a Giove e a Mars pater) anche Vesta mater, la casta
custode del focolare: un atto dovuto e naturale, dal momento che proprio sopra
la fossa del mundus lo stesso fondatore avrebbe acceso il primo focolare
della compagine romana[27].
Resta ora da meglio definire la funzione dei Lari in relazione a questo
‘centro’.
La definizione del più antico pomerio, l’area sacra di rispetto
che il fondatore avrebbe tracciato intorno e ai piedi del Palatino superando la
sella che lo unisce alla Velia secondo un andamento antiorario, procedeva, a giudizio
di Tacito[28],
dall’ara Maxima a quella di Conso, indi alle Curiae Veteres e al sacellum
Larum. Questo sacello dei Lari (da intendersi come i Lares publici
populi Romani Quiritium o Praestites), certamente di fondazione antichissima
se associato al tracciato romuleo, sorgeva in un sito di singolare importanza
topografica, sul bordo meridionale della Sacra via, sulla Velia. Lì, ci
dice Solino (1.23), re Anco Marcio ebbe il suo focolare, cioè la sua reggia: in
summa Sacra via, ubi aedes Larum est, ubicazione confermata nel testamento
di Augusto (Mon. Ancyr. IV.7) a proposito della ricostruzione
della (allora) vera e propria aedes, da lui compiuta nel 4 d.C.[29]
Dal momento che
«O Giano, o Giove, o padre Marte, o Quirino, o Bellona,
o Lari, o dèi Novensili, o dèi Indigeti,
o divinità che avete potere su di noi e sui nemici,
o dèi Mani, vi prego...»[30].
Una formula rivolta, appunto, contro chi rappresenti una minaccia
esiziale per la stessa sopravvivenza dell’urbs, quasi fosse giunto in
prossimità della cinta sacra delle mura.
Ora, in un suo attento studio, Emilio Peruzzi[31]
ha riconosciuto nella formula della devotio tre gruppi di divinità: di
caelestes, di terrestres e di inferni, alla
cui seconda categoria, quella dei terrestres, «costituita da mortali
divinizzati», sono ascritti, oltre ai novensiles e agli indigetes,
i Lares, cioè le anime divinizzate degli antenati.
Se ora ritorniamo al mundus del Comizio (dal Coarelli
identificato con quel singolare monumento, di cui rimangono resti, definito
significativamente umbilicus Urbis)[32],
questa dimensione “terrestre” dei Lari, rapportata al mundus come «luogo
di intersezione dei tre livelli cosmici»[33],
attribuisce ai Lari stessi la dimensione mediana o “orizzontale” del sacro: in
quanto tale presente ab origine in ogni altare o luogo sacro
inteso come spazio privilegiato diverso qualitativamente dal resto del
territorio. Lì appunto, come ha scritto M. Eliade in riferimento alla
simbologia del mandala (in cui l’analogia col mundus è più che
evidente), «il sacro si manifestava mediante una rottura di livello che
permetteva la comunicazione tra le tre zone cosmiche: cielo, terra, regione
sotterranea»[34].
Se molto appropriatamente è stato detto come il mundus, la
fossa scavata da Romolo al centro ideale dell’urbs – successivamente
circondata dalle mura – contribuisca «a mettere in evidenza il nesso fra spazio
e tempo», poiché «il centro religioso dello spazio è anche il punto iniziale
della storia del popolo romano»[35],
le connessioni da noi individuate tra questo, l’urbs, l’ager Romanus,
il pomerium e i Lari sono servite a metterne in evidenza la rilevanza
“pubblica” di vigili tutori dello spazio romano e di silenti custodi del suo
tempo sacro. È evidente che qui ci si riferisce particolarmente ai Lares Praestites,
la dedica del cui altare ricorreva il 1° maggio[36],
giorno stesso sacro alla dea Maia («cioè
Remo, accolto tra i lemures dopo la violazione dei novos
muros[38],
sarà tuttavia destinato a conciliarsi col fratello divenendo con lui Lare
domestico nella reggia di Anco.
Dei due Lari Pubblici della città, è vero, solo uno è il
fondatore della stirpe, l’eponimo dell’Urbe, il suo Lar familiaris,
per modo di dire, ma il sangue versato da Remo sulla zolla infranta dal sulcus
primigenius ha legato anche lui indissolubilmente al suolo di quel sito,
destinato nel volgere dei tempi a diventare veramente ‘centro’ e intersezione
di realtà universali[39].
(*) Il testo qui pubblicato corrisponde alla relazione presentata
nel XII Seminario Internazionale di Studi Storici “Da Roma alla Terza Roma” «Città
ed Ecumene. I luoghi dell’universalismo, da Roma a Costantinopoli a Mosca»
(Roma, Campidoglio, 12-23 aprile 2002).
[1] Sorgeva nei pressi dell’odierna stazione della Magliana, là dove
sarebbe sorto il piccolo cimitero di Generosa, dipendente in antico dal titolo
di San Crisogono. Cfr. N. Turchi,
Il rituale degli Arvali, in Saggi di storia delle religioni,
Foligno 1924, p. 154 nota. Dello stesso cfr. anche La religione di Roma
antica, Bologna 1939, pp. 317-320.
La via Campana era così detta perché in campum,
sive, ut Itali dicunt, “in campagna”, ...ducebat (Forcellini, Totius Latinitatis Lexicon, V. I, p. 456).
Più esattamente, conduceva (e lì finiva) sino al campo delle saline a nord
della futura città di Ostia, zona strappata da Romolo agli Etruschi e
definitivamente assoggettata da Anco Marcio.
[2] Sui Fratelli Atiedii cfr. G.
Devoto, Gli antichi Italici, Firenze 1977, pp. 208 e ss. Varro, De
ling. Lat. 5.85, mette i Fratelli Arvali in relazione con le “fratrie” del
mondo greco.
[3] Più che Acta dovrebbero essere definiti più propriamente commentarii
(così F. Sini, Documenti
sacerdotali di Roma antica. I. Libri e commentarii, Sassari 1983, p.
112, sulla scorta di un’osservazione di E. De Ruggiero [v. p. 139, n. 118]).
[4] Dagli Acta Fratrum Arvalium del 218: Omnes fores
exierunt, ibi sacerdotes clusi, succincti, libellis acceptis carmen
descindentes tripodaverunt in verba haec: e nos Lases iuuate, etc.
[5] Rinvio a G.B. Pighi,
La preghiera romana, in AA.VV.,
La preghiera, Roma 1967, pp. 605-606, che mette in relazione i Semones
con Semo Sancus Dius Fidius e Salus Semonia e ipotizza
l’esistenza di una *Dia Semonia «nel cui nome si restringerà attraverso
i secoli tutto il significato di questa teologia».
[9] F. Coarelli, I
santuari, il fiume, gli empori, in AA.VV., Storia di Roma. I.
Roma in Italia, Torino 1988, p.133.
[10] Ibidem, p. 135 (con bibliografia alle note 30 e 31).
Plutarco (La fortuna dei Romani, 5) riporta la notizia che re Anco
Marcio avrebbe fondato un tempio di Fors Fortuna nei pressi di quello
più antico di Dea Dia (secondo altri l’iniziativa sarebbe stata di
Servio Tullio).
[11] P. Catalano, Aspetti
spaziali del sistema giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, in Aufstieg und Niedergang der
Römischen Welt, II.16,1, Berlin-New York 1978, pp. 492-493.
[12] Conto di ritornare in maniera più ampia su tale complessa
questione in seguito e in altra sede.
[13] Sarà sufficiente ricordare, nel rituale arvale, l’interdizione
dall’uso del ferro, l’utilizzo dell’olla terrea e il sacrificio a Dea
Dia su un fornello d’argento ornato di zolle cespugliose, ricordo di una
prassi antichissima.
[14] Cfr. Festus, pp. 202 e
[17] Cit. in Fest.,
[19] Cfr. D. Sabbatucci,
La religione di Roma antica, Milano 1988, pp. 24-25. L’origine della
funzione “politica” dei Lari va ricercata, a nostro giudizio, nella prassi, antichissima,
della deposizione dei propri Lares da parte dei clientes fra i Lares
del patronus: l’allentarsi col tempo del significato psicologico e
religioso del gesto ne avrebbe accentuato la strumentalizzazione politica.
Anche qui Augusto è intervenuto come restauratore dell’uso antico, con intenti,
s’intende, affatto nuovi.
[21] L’espressione è di J. Bayet,
La religione romana. Storia politica e psicologica, Torino 1959, p. 298,
e fatta propria da F. Sini, “Sua
cuique civitati religio”. Religione e diritto pubblico in Roma antica,
Torino 2001, pp. 159-167.
[22] I più recenti scavi nel Latium Vetus hanno ben
documentato il tipo di struttura della capanna protostorica da noi descritto.
Si vedano ad esempio: A. Guidi, Luoghi
di culto nei centri protourbani laziali e (in riferimento alla più antica
capanna “del capo” sul Palatino) P. Brocato,
La ricostruzione della capanna I del Cermalo, in AA.VV., Roma,
Romolo, Remo e la fondazione della città, Roma 2000, pp. 330-331 e 241-242.
[23] Cfr. P. Brocato, La
capanna cultuale di Satricum e A. Carandini,
Variazioni sul tema di Romolo, in AA.VV., Roma, Romolo, Remo e la
fondazione della città, cit., pp. 329 e 124.
[25] M. Eliade, Trattato
di storia delle religioni, 3a ed., Torino 1966, p. 385 (che rinvia a A. H. Allcroft, The Circle and the Cross,
London 1927). Se si suppone (come A. Carandini,
Variazioni, cit., p. 128) che i quattro angoli salienti del pomerio
(coincidenti con luoghi di culto, nella descrizione tacitiana) costituiscano la
derivazione (o proiezione augurale) «degli angoli del templum augurale
stabilito sul Cermalus», l’immagine suggerita da Eliade del quadrato
iscritto in un cerchio appare pertinente.
[26] Catone, nei suoi Commentarii iuris civilis (Festus,
[29] Questo era un tempio vero e proprio, con colonnato, trabeazione,
timpano e cella ricoperta da un tetto, se quest’ultimo fu attraversato da un
fulmine, che non lo bruciò, già nel
[32] Cfr. F. Coarelli, Il
Foro romano. Periodo arcaico, Roma 1988, pp. 199 ss. (v. pp. 210-217 per il
riferimento specifico).
[38] Cfr. Livius 1.7.2. Circa la relazione tra Romolo, Remo e le
prime mura della città, rinvio al mio intervento, tenuto al XXI Seminario di
Studi Storici “Da Roma alla Terza Roma” in Campidoglio, dedicato alla Santità
delle mura e sanzione divina.
[39] Per l’elaborazione di questo saggio sono state indispensabili
alcune opere non citate nelle note: A.
De Marchi, Il culto privato di Roma antica, 2 voll., Milano
1896-1903; G. Dumézil, La
religione romana arcaica, Milano 1977; C.
Ampolo, Commento a Plutarco, Le vite di Teseo e di Romolo,
Milano 1988; A. Dubourdieu, Les
origines et le développement du culte des Pénates à Rome, Roma 1989; R. del Ponte, La religione dei
Romani, Milano 1992; A. Carandini,
La nascita di Roma. Dèi, Lari, eroi e uomini all’alba di una civiltà,
Torino 1997.