N° 2 - Marzo 2003 – Tradizione Romana

Renato Del Ponte

Pontremoli

 

 

E nos Lases iuuate”. I Lari nel sistema spazio-temporale romano

 

 

 

Sommario: 1. Il lucus Deae Diae e i Fratelli Arvali: i Lari come protettori dell’ager Romanus. – 2. Compitalia sive Laralia: i Lari come protettori dei quartieri e loro funzione “politica”. – 3. Dalla capanna protostorica all’editto di Teodosio: relazione tra fuoco e Lari. – 4. I Lari come difensori del pomerium, in qualità di di terrestres (v. la formula della devotio) rappresentano la dimensione orizzontale del mundus. – 5. Conclusione: Romolo e Remo, Lari Protettori, al centro dell’urbs e dell’orbis.

 

 

 

1. – Il lucus Deae Diae e i Fratelli Arvali: i Lari come protettori dell’ager Romanus.

 

Al quinto miglio della via Campana, cioè a circa 7 Km. e mezzo dal centro di Roma, sorgeva l’antichissimo lucus della Dea Dia[1], sede cultuale dell’unica confraternita religiosa romana i cui membri si chiamassero col nome di “fratelli” (i Luperci erano fra loro semplici sodales): cosa che ha fatto supporre tra di loro una unione più intima, tale da trasformare in qualche modo il loro status come membri di una nuova famiglia spirituale, e riscontrabile in ambito italico col solo caso dei dodici Fratelli Atiedii di Gubbio[2]. Come i mesi dell’anno i Fratres Arvales erano 12, un numero che ricorre anche nella composizione del sodalizio dei Luperci e in quello dei Salii: ma in questi si hanno due gruppi di 12 membri per ciascun collegio, mentre nel sodalizio arvale vi è un solo gruppo di 12 membri.

La cosa era giustificata dalla tradizione col fatto che, mentre i due gruppi dei Luperci erano considerati rispettivamente i discendenti ideali di Romolo e Remo, il solo Romolo era divenuto Arvale alla morte del dodicesimo figlio di Acca Larenzia, la madre dei componenti del primo sodalizio e contemporaneamente la nutrice dei divini gemelli. Il fatto del mancato inserimento di Remo tra gli Arvali è certamente da porsi in relazione alla sua tragica fine, allorché fu vittima della prima sanzione intesa a difendere le mura primigenie dell’Urbe. In tal modo Remo diveniva il prototipo dei lemures, i morti insoddisfatti, la cui festa si celebrava, nella prima metà di Maggio, nei tre giorni dei Lemuria (9,11,13), a cui calendarialmente si contrapponevano, nella seconda metà del mese, proprio i tre giorni (alternativamente il 17, 19, 20 e il 27, 29, 30) in cui agivano sacralmente i Fratelli Arvali.

La riunione dei Fratres nel lucus Deae Diae avveniva il 19 o il 29 di maggio e la liturgia che vi veniva svolta, minuziosa e assai complessa, ci è nota attraverso i frammenti dei loro processi verbali (detti per lo più Acta dagli studiosi moderni)[3], collocati fra il I e il III secolo d.C. ma dalle caratteristiche proprie ad una grande arcaicità.

In una cerimonia segreta e a porte chiuse (dal momento che dal tempietto di Dea Dia venivano fatti uscire tutti gli estranei, compresi gli inservienti)[4], succinte le toghe e forniti ciascuno di un libellus, i Fratelli intonavano, aiutandosi col movimento ritmico dei piedi proprio della danza sacra, il noto inno che così recita:

 

“e nos lases ivvate (ripetuto tre volte)

neve lve rve  marmar sins incvrrere in pleores (idem c.s.)

satvr fv fere mars limen sali sta berber (idem c.s.)

semvnis alternei advocapit conctos (idem c.s.)

e nos marmar ivvato (idem c.s.)

trivmpe (ripetuto cinque volte)”.

 

È una preghiera, dunque, rivolta, oltre che alla poco nota categoria divina dei Semones[5], al dio guerriero Marte, non perché porti la guerra altrove, ma perché impedisca alla guerra di devastare il territorio dei Lari, e ai Lari stessi appunto, qui intesi senza dubbio come i Lares Praestites o publici, coloro che garantiscono «la sicurezza di tutto ciò che resta sotto i loro occhi e proteggono le mura della Città»[6]. Un valore ribadito da quella espressione pleores (= plures), il cui concetto, come ha scritto il Catalano, «serve ad esprimere l’attiva partecipazione della maggioranza e sembra sorgere parallelamente al concetto di populus»[7]. I Lares (Lases è la forma arcaica anteriore all’introduzione del rotacismo a Roma nel IV secolo a.C.), qui attestati per la prima volta in un documento pubblico, sono invocati per primi come entità divine della terza funzione, cioè della prosperità e del populus (= pleores), che sono minacciati. La teologia dei Fratelli Arvali, sacerdoti della prima funzione e, in quanto tali vestiti di bianco (colore caratteristico della sovranità magico-giuridica) come specialisti dell’aspetto femminile di Dius (Dea Dia), quello che lega la società umana alla sua terra, gli arva che recano i fruges (Fratres Arvales dicti sunt qui sacra publica faciunt propterea ut fruges ferant arva: Varro, De ling. Lat. 5.85), riguarda dunque la fecondità della terra, ma concerne di conseguenza la difesa del territorio, e quindi la santità del patto che garantisce la proprietà e l’uso della terra (vale a dire le tre funzioni)[8]. La richiesta di aiuto ai Lari non presuppone, allora, l’estensione del campo d’azione dei Lari stessi all’agricoltura, quanto la licenza di raccogliere i prodotti di quella terra che (in qualità di mitici antenati del popolo romano) era stata ed è ancora, metastoricamente, loro. Un concetto, questo, rafforzato dalla constatazione che il lucus della Dea Dia, al quinto miglio della via Campana, attribuita dal Coarelli, insieme con la via Salaria, sua continuazione, «al livello più arcaico documentabile»[9], è stato da lui ritenuto come uno dei limiti dell’ager Romanus antiquus e corrispondente «con grande probabilità al [territorio del]la ‘città romulea dell’VIII secolo’»[10]. E del resto, ager Romanus è «concetto che risale, secondo la tradizione, a Romolo»[11]. Tuttavia, il sito del lucus Deae Diae, trovandosi trans Tiberim, non poteva, a nostro giudizio, essere compreso, per ragioni di giurisprudenza sacra, nell’ager Romanus antiquus. Infatti: Pectuscum Palati dicta est ea regio Urbis, quam Romulus obversam posuit, ea parte, in qua plurimum erat agri Romani ad mare versus, et qua mollissime adibatur Urbs, cum Etruscorum agrum a Romano Tyberis discluderet, caeterae vicinae civitates colles aliquos haberent oppositos (Festus., p. 232 L.). Inoltre: Anio... Latium includit a tergo (Plinius, Nat. Hist. 3.54). In altri termini, considerato nel diritto augurale il particolare valore religioso dei fiumi, il territorio annesso da Romolo verso la fine del suo regno, quello dei cosiddetti septem pagi (cfr. Plut., Rom. 25.5), non può a rigore essere considerato ager Romanus e il lucus degli Arvali deve essere ritenuto come un santuario di frontiera delimitante non l’ager Romanus, ma i fines populi Romani in direzione sud-ovest[12].

Non saremo dunque molto lontani dal vero supponendo che l’arcaico rituale dei Fratelli Arvali (riformato, certo, da Augusto, lui stesso frater Arvalis [Mon. Ancyr. I, 7], col consueto rispetto della sua base antica) risalga, nelle linee essenziali della sua formulazione, ai primi tempi della monarchia, così come la struttura del collegio stesso possa addirittura preesistere alla fondazione dell’Urbe[13].

 

 

2. – Compitalia sive Laralia: i Lari come protettori dei quartieri e loro funzione “politica”.

 

         Come si è visto, quella del sodalizio Arvale era una cerimonia essenzialmente legata ai valori della terra e da mettersi in relazione con analoghe feste di fine anno, come le Feriae Sementivae di novembre, sacre a Cerere e Tellus. Del resto, se le nuove cariche all’interno del sodalizio, come risulta dagli Atti, erano destinate ad entrare in vigore ai prossimi Saturnalia per durare sino ai seguenti, l’anno arvalico doveva dunque iniziare da quella grande festa della semina, i Saturnalia (Saturnus a satu, affermano etimologisti antichi e moderni)[14], con cui aveva inizio il ciclo delle lavorazioni campestri. E a una festa di “capodanno” mobile, annoverata tra quelle conceptivae o non fisse, legata anch’essa alle Feriae Saturni (iniziava infatti «pochi giorni dopo i Saturnali» per Dionigi di Alicarnasso, IV.14.4), ci rinvia la più importante celebrazione dedicata ai Lari, i Compitalia detti anche Laralia, proclamata da un magistrato pubblico, un pretore, con la formula solenne tramandataci da Macrobio:

 

dienoni (= die nono) populo romano quiritibus compitalia erunt[15].

 

Era, questa, la festa dei compita o crocicchi, dedicata ai Lares Viales, là dove le strade “si incontrano” (competunt: Varro, De ling. Lat 6.25). In quella occasione, nel punto di congiunzione delle diverse proprietà agrarie, poi dei rioni, i Lari, riuniti in una rudimentale cappella, accoglievano le famiglie della zona per rustici ludi e offerte sacrificali. Se i Lases degli Arvali erano invocati a protezione dell’ager Romanus, qui i Lares Viales dovevano essere intesi come genii protettori dei singoli pagi e quindi, idealmente, come i primordiali abitanti e/o antenati degli attuali abitatori. E ciò era dimostrato dal fatto che:

 

«Le spose, secondo un’antica legge romana, giungendo dal marito erano solite recare tre monete (= tre assi). Una, che tenevano in mano, la consegnavano al marito quasi a titolo di acquisto; un’altra, che recavano su un piede, la ponevano sul focolare dei Lari familiari; una terza, che avevano riposto in una sacca da viaggio, erano solite riservarla per il crocicchio del rione»[16].

 

I Laralia rientravano, a giudizio di Antistio Labeone[17], fra i Popularia Sacra: una festa, dunque, né del tutto privata, né del tutto pubblica, che la tradizione collegava ai sovrani etruschi e certamente risalente a un epoca a cui era ignota «la giustapposizione fra publicus e privatus», così come, del resto, sarebbe da dirsi per lo «stesso concetto di populus Romanus Quirites»[18]. La contrapposizione tra “rionale” e “civico” non creava incompatibilità finché era tenuta sul piano cultuale: questa sarebbe emersa, invece, quando avrebbe invaso il campo politico[19]. D’altronde, proprio i collegia Larum, a cui i Compitalia erano affidati, “assunsero caratteri politici (di ‘concentramenti di partito’): disciolti dal senatoconsulto del 64 a.C., furono riammessi nel 58 a.C. dalla lex Clodia de collegiis. Tra il 14 e il 7 a.C. il culto dei Lari fu da Augusto trasformato in culto pubblico”[20].

 

 

3. – Dalla capanna protostorica all’editto di Teodosio: relazione tra fuoco e Lari.

 

         L’8 novembre del 392, essendo consoli Arcadio per la seconda volta e Rufino, l’imperatore Teodosio emanava da Costantinopoli un editto inteso a combattere all’interno delle stesse case private l’ultima resistenza dell’antica religione, proibendo di venerarvi «con rito segreto il Lare per mezzo del fuoco, il [proprio] Genio per mezzo del vino, i Penati per mezzo di profumi» (CTh. 15.10.12).

Non sta a noi qui domandarci se il provvedimento (una «morte per decreto» è stata autorevolmente definita)[21] avesse potuto avere qualche efficacia pratica – almeno per l’immediato – in riferimento al culto privato: resta il fatto, in ogni modo, che questa sarà l’ultima attestazione pubblica di un culto, quello del fuoco, le cui origini si può dire coincidessero con quelle stesse della stirpe latina.

Nelle rotonde capanne preistoriche la fiamma del focolare domestico fu certamente considerata la prima forma divina oggetto di culto: questa ardeva di norma in un piccolo incavo del terreno, talora costituito da un fornello di terracotta a cui si associavano piccoli alari di pietra, forse la più remota rappresentazione aniconica dei Lari domestici. Del resto, la più antica attestazione di uno stretto legame tra la capanna preistorica (di cui l’aedes Vestae e lo stesso tempietto di Dea Dia riproducevano le sembianze: poiché Vesta «è la Terra», afferma Ovidio, in Fasti 5.27)[22], il suo focolare e i primi luoghi di culto pubblico, è oggi documentato nel territorio laziale a Satricum, dove, al di sotto delle fondazioni del tempio di Mater Matuta (fine sec. VII a.C.) è stata con precisione individuata una capanna cultuale di forma ovale (fine IX sec. a.C.), con un focolare ed una fossa interpretata proprio come un mundus[23].

Si consideri adesso il pomerio romuleo lungo le falde del Palatino, con al centro la fossa della Roma Quadrata (da non confondersi col mundus), là dove forse era esistito un primordiale sacello sacro alla dea Caca: apparirà come un ampio circuito inaugurato dall’andamento ellittico, in cui i limiti dell’urbs (che Varrone [L.L. 5.143] fa derivare da orbis, “cerchio”, e da urvum, “curvo”) sono concepiti come quelli di un’unica e vasta abitazione protostorica. Da una parte, ai suoi estremi ma all’interno, non molto lontano dal mundus del Comizio, l’aedes Vestae, di pianta circolare, sarà il focolare della città, dove brilla un fuoco casto e inestinguibile alimentato incessantemente da vergini sacerdotesse. Dall’altra diversi fuochi sparsi sono accesi dinanzi a vari templi per ricevere le offerte agli dèi tutelari della comunità.

Si tratta delle arae, altari dalla base quadrangolare: quindi orientati e legati, secondo le rigorose norme augurali, alle quattro regioni del cielo. Se il pomerium, per quanto inaugurato, non era detto templum, non poteva essere affatto di forma rettangolare come supposto da taluno[24] né aveva necessaria orientazione, cosa che toglie ulteriori dubbi sul fatto che l’espressione Roma Quadrata potesse riferirsi al pomerio delimitato dal solco primigenio.

«È probabile», ha scritto Mircea Eliade, «che il primitivo modello di Roma sia stato un quadrato inscritto in un cerchio: la diffusione estesissima della tradizione gemella del circolo e del quadrato invita a supporlo»[25]. E da questa dialettica del rotondo e del quadrato, diremo noi, da questa ierogamia di Cielo e Terra, si può dire tragga origine la città di Roma.

L’editto teodosiano dell’8 novembre, per una circostanza singolare (o forse ricercata?) cadeva in uno di quei tre giorni dell’anno che l’antico calendario contrassegnava con l’espressione MUNDUS PATET (che noi tradurremo: «si apre la fossa che mette in comunicazione i tre mondi»), ponendo in tal modo in stretta relazione il fuoco del focolare domestico e i Lari (nel caso citato “il Lare”, che al singolare si riferiva propriamente al Lar familiaris, tutelare della famiglia nel suo senso più ampio, quindi anche degli schiavi). La relazione è dunque fra “l’anima della famiglia”, il fuoco e la memoria religiosa dei suoi progenitori, sì che nel testo teodosiano è molto difficile separare le due entità - a tal punto nella pratica rituale e nello stesso linguaggio ufficiale, esse erano associate nella mentalità degli antichi.

Se in precedenza abbiamo rilevato la funzione tutelare dei Lari ai confini dell’ager Romanus e, in qualità di Viales, dei singoli rioni della città, ora il riferimento al mundus ci riporta al ‘centro’ (da intendersi in senso qualitativo e non geometrico) dell’urbs e dell’orbis, la forma del quale – a giudizio di Catone[26] – corrispondeva a quelle del mondo celeste e del mondo infero. Si spiega allora perché Romolo, nel momento di tracciare il solco fatale, avrebbe invocato (oltre a Giove e a Mars pater) anche Vesta mater, la casta custode del focolare: un atto dovuto e naturale, dal momento che proprio sopra la fossa del mundus lo stesso fondatore avrebbe acceso il primo focolare della compagine romana[27]. Resta ora da meglio definire la funzione dei Lari in relazione a questo ‘centro’.

 

 

4. – I Lari come difensori del pomerium, in qualità di di terrestres (v. la formula della devotio) rappresentano la dimensione orizzontale del mundus.

 

La definizione del più antico pomerio, l’area sacra di rispetto che il fondatore avrebbe tracciato intorno e ai piedi del Palatino superando la sella che lo unisce alla Velia secondo un andamento antiorario, procedeva, a giudizio di Tacito[28], dall’ara Maxima a quella di Conso, indi alle Curiae Veteres e al sacellum Larum. Questo sacello dei Lari (da intendersi come i Lares publici populi Romani Quiritium o Praestites), certamente di fondazione antichissima se associato al tracciato romuleo, sorgeva in un sito di singolare importanza topografica, sul bordo meridionale della Sacra via, sulla Velia. Lì, ci dice Solino (1.23), re Anco Marcio ebbe il suo focolare, cioè la sua reggia: in summa Sacra via, ubi aedes Larum est, ubicazione confermata nel testamento di Augusto (Mon. Ancyr. IV.7) a proposito della ricostruzione della (allora) vera e propria aedes, da lui compiuta nel 4 d.C.[29]

Dal momento che la Sacra via faceva quasi da circonvallazione esterna alla Roma Quadrata del Palatino, dalla Curiae Veteres al Fornix Fabianus del Foro, il tempietto dei Lari sull’alto della via doveva costituire una sorta di compitum o crocicchio stradale, se sorgeva all’incrocio della Sacra via col clivo Palatino. Tuttavia, si potrebbe più propriamente parlare di un “crocicchio di Stato” se i Lari vi dovevano svolgere la medesima funzione difensivo-offensiva riscontrata nella formula della devotio fatta recitare dal pontefice massimo Marco Valerio al console Decio Mure prima che questi si scagliasse, sacrificando se stesso, contro i nemici:

 

«O Giano, o Giove, o padre Marte, o Quirino, o Bellona,

o Lari, o dèi Novensili, o dèi Indigeti,

o divinità che avete potere su di noi e sui nemici,

o dèi Mani, vi prego...»[30].

 

Una formula rivolta, appunto, contro chi rappresenti una minaccia esiziale per la stessa sopravvivenza dell’urbs, quasi fosse giunto in prossimità della cinta sacra delle mura.

Ora, in un suo attento studio, Emilio Peruzzi[31] ha riconosciuto nella formula della devotio tre gruppi di divinità: di caelestes, di terrestres e di inferni, alla cui seconda categoria, quella dei terrestres, «costituita da mortali divinizzati», sono ascritti, oltre ai novensiles e agli indigetes, i Lares, cioè le anime divinizzate degli antenati.

Se ora ritorniamo al mundus del Comizio (dal Coarelli identificato con quel singolare monumento, di cui rimangono resti, definito significativamente umbilicus Urbis)[32], questa dimensione “terrestre” dei Lari, rapportata al mundus come «luogo di intersezione dei tre livelli cosmici»[33], attribuisce ai Lari stessi la dimensione mediana o “orizzontale” del sacro: in quanto tale presente ab origine in ogni altare o luogo sacro inteso come spazio privilegiato diverso qualitativamente dal resto del territorio. Lì appunto, come ha scritto M. Eliade in riferimento alla simbologia del mandala (in cui l’analogia col mundus è più che evidente), «il sacro si manifestava mediante una rottura di livello che permetteva la comunicazione tra le tre zone cosmiche: cielo, terra, regione sotterranea»[34].

 

 

5. – Conclusione: Romolo e Remo, Lari Protettori, al centro dell’urbs e dell’orbis.

 

Se molto appropriatamente è stato detto come il mundus, la fossa scavata da Romolo al centro ideale dell’urbs – successivamente circondata dalle mura – contribuisca «a mettere in evidenza il nesso fra spazio e tempo», poiché «il centro religioso dello spazio è anche il punto iniziale della storia del popolo romano»[35], le connessioni da noi individuate tra questo, l’urbs, l’ager Romanus, il pomerium e i Lari sono servite a metterne in evidenza la rilevanza “pubblica” di vigili tutori dello spazio romano e di silenti custodi del suo tempo sacro. È evidente che qui ci si riferisce particolarmente ai Lares Praestites, la dedica del cui altare ricorreva il 1° maggio[36], giorno stesso sacro alla dea Maia («cioè la Terra», sosteneva Cornelio Labeone)[37], alla quale gli antichi connettevano etimologicamente i maiores o “antenati”.

Remo, accolto tra i lemures dopo la violazione dei novos muros[38], sarà tuttavia destinato a conciliarsi col fratello divenendo con lui Lare domestico nella reggia di Anco.

Dei due Lari Pubblici della città, è vero, solo uno è il fondatore della stirpe, l’eponimo dell’Urbe, il suo Lar familiaris, per modo di dire, ma il sangue versato da Remo sulla zolla infranta dal sulcus primigenius ha legato anche lui indissolubilmente al suolo di quel sito, destinato nel volgere dei tempi a diventare veramente ‘centro’ e intersezione di realtà universali[39].

 

 

 

 



 

(*) Il testo qui pubblicato corrisponde alla relazione presentata nel XII Seminario Internazionale di Studi Storici “Da Roma alla Terza Roma” «Città ed Ecumene. I luoghi dell’universalismo, da Roma a Costantinopoli a Mosca» (Roma, Campidoglio, 12-23 aprile 2002).

 

[1] Sorgeva nei pressi dell’odierna stazione della Magliana, là dove sarebbe sorto il piccolo cimitero di Generosa, dipendente in antico dal titolo di San Crisogono. Cfr. N. Turchi, Il rituale degli Arvali, in Saggi di storia delle religioni, Foligno 1924, p. 154 nota. Dello stesso cfr. anche La religione di Roma antica, Bologna 1939, pp. 317-320.

La via Campana era così detta perché in campum, sive, ut Itali dicunt, “in campagna”, ...ducebat (Forcellini, Totius Latinitatis Lexicon, V. I, p. 456). Più esattamente, conduceva (e lì finiva) sino al campo delle saline a nord della futura città di Ostia, zona strappata da Romolo agli Etruschi e definitivamente assoggettata da Anco Marcio.

 

[2] Sui Fratelli Atiedii cfr. G. Devoto, Gli antichi Italici, Firenze 1977, pp. 208 e ss. Varro, De ling. Lat. 5.85, mette i Fratelli Arvali in relazione con le “fratrie” del mondo greco.

 

[3] Più che Acta dovrebbero essere definiti più propriamente commentarii (così F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica. I. Libri e commentarii, Sassari 1983, p. 112, sulla scorta di un’osservazione di E. De Ruggiero [v. p. 139, n. 118]).

 

[4] Dagli Acta Fratrum Arvalium del 218: Omnes fores exierunt, ibi sacerdotes clusi, succincti, libellis acceptis carmen descindentes tripodaverunt in verba haec: e nos Lases iuuate, etc.

 

[5] Rinvio a G.B. Pighi, La preghiera romana, in AA.VV., La preghiera, Roma 1967, pp. 605-606, che mette in relazione i Semones con Semo Sancus Dius Fidius e Salus Semonia e ipotizza l’esistenza di una *Dia Semonia «nel cui nome si restringerà attraverso i secoli tutto il significato di questa teologia».

 

[6] Ovidius, Fasti 2.6.15.

 

[7] P. Catalano, Populus Romanus Quirites, Torino 1974, p. 159.

 

[8] Cfr. G.B. Pighi, La preghiera, cit., p. 604.

 

[9] F. Coarelli, I santuari, il fiume, gli empori, in AA.VV., Storia di Roma. I. Roma in Italia, Torino 1988, p.133.

 

[10] Ibidem, p. 135 (con bibliografia alle note 30 e 31). Plutarco (La fortuna dei Romani, 5) riporta la notizia che re Anco Marcio avrebbe fondato un tempio di Fors Fortuna nei pressi di quello più antico di Dea Dia (secondo altri l’iniziativa sarebbe stata di Servio Tullio).

 

[11] P. Catalano, Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, in Aufstieg und Niedergang der Römischen Welt, II.16,1, Berlin-New York 1978, pp. 492-493.

 

[12] Conto di ritornare in maniera più ampia su tale complessa questione in seguito e in altra sede.

 

[13] Sarà sufficiente ricordare, nel rituale arvale, l’interdizione dall’uso del ferro, l’utilizzo dell’olla terrea e il sacrificio a Dea Dia su un fornello d’argento ornato di zolle cespugliose, ricordo di una prassi antichissima.

 

[14] Cfr. Festus, pp. 202 e 432 L.; Arnobius 4.9; Varro, De ling.Lat. 5.64 (condividono il parere antico Preller, Wissowa, Warde-Fowler, Thulin). Si ricorderà che la festa dei Saturnalia del 17 dicembre è preceduta dai Consualia del 15 e seguita dagli Opalia del 19 (inglobata, quest’ultima, da Augusto nei giorni saturnalizi), solennità tutte dalle caratteristiche agrarie.

 

[15] Macrobius, Sat. 1.4.27; cfr. Aulus Gellius, Noct. Att. 10.24.3.

 

[16] Varro, De vita populi Romani, I (= Nonius, p. 531 L.).

[17] Cit. in Fest., 298 L.

 

[18] P. Catalano, Populus Romanus Quirites, cit., pp. 124-125.

 

[19] Cfr. D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, Milano 1988, pp. 24-25. L’origine della funzione “politica” dei Lari va ricercata, a nostro giudizio, nella prassi, antichissima, della deposizione dei propri Lares da parte dei clientes fra i Lares del patronus: l’allentarsi col tempo del significato psicologico e religioso del gesto ne avrebbe accentuato la strumentalizzazione politica. Anche qui Augusto è intervenuto come restauratore dell’uso antico, con intenti, s’intende, affatto nuovi.

 

[20] P. Catalano, Populus Romanus Quirites, cit., pp. 124.

 

[21] L’espressione è di J. Bayet, La religione romana. Storia politica e psicologica, Torino 1959, p. 298, e fatta propria da F. Sini, “Sua cuique civitati religio”. Religione e diritto pubblico in Roma antica, Torino 2001, pp. 159-167.

 

[22] I più recenti scavi nel Latium Vetus hanno ben documentato il tipo di struttura della capanna protostorica da noi descritto. Si vedano ad esempio: A. Guidi, Luoghi di culto nei centri protourbani laziali e (in riferimento alla più antica capanna “del capo” sul Palatino) P. Brocato, La ricostruzione della capanna I del Cermalo, in AA.VV., Roma, Romolo, Remo e la fondazione della città, Roma 2000, pp. 330-331 e 241-242.

 

[23] Cfr. P. Brocato, La capanna cultuale di Satricum e A. Carandini, Variazioni sul tema di Romolo, in AA.VV., Roma, Romolo, Remo e la fondazione della città, cit., pp. 329 e 124.

 

[24] Cfr. A. Carandini, Variazioni sul tema di Romolo, cit., pp. 125-126.

 

[25] M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, 3a ed., Torino 1966, p. 385 (che rinvia a A. H. Allcroft, The Circle and the Cross, London 1927). Se si suppone (come A. Carandini, Variazioni, cit., p. 128) che i quattro angoli salienti del pomerio (coincidenti con luoghi di culto, nella descrizione tacitiana) costituiscano la derivazione (o proiezione augurale) «degli angoli del templum augurale stabilito sul Cermalus», l’immagine suggerita da Eliade del quadrato iscritto in un cerchio appare pertinente.

 

[26] Catone, nei suoi Commentarii iuris civilis (Festus, 144 L., che attinge ad Ateio Capitone, De iure pontificio), definisce il mundus come nomen impositum ab eo mundo, qui supra nos est. Cfr. anche P. Catalano, Aspetti spaziali, cit., p. 451.

 

[27] Ovidius, Fasti 5.824-828.

 

[28] Cfr. Tacitus, Ann. 12.24.

 

[29] Questo era un tempio vero e proprio, con colonnato, trabeazione, timpano e cella ricoperta da un tetto, se quest’ultimo fu attraversato da un fulmine, che non lo bruciò, già nel 106 a. C. (cfr. Iul. Obs. 41). Si veda anche G. Lugli, I Templi dei Lari e dei Penati sulla Velia, in Melanges offerts à J. Marouzeau, Paris 1948, pp. 26 ss.

 

[30] Livius 8.9.6.

 

[31] E. Peruzzi, I Romani di Pesaro e i Sabini di Roma, Firenze 1990, pp. 99-100.

 

[32] Cfr. F. Coarelli, Il Foro romano. Periodo arcaico, Roma 1988, pp. 199 ss. (v. pp. 210-217 per il riferimento specifico).

 

[33] M. Eliade, Trattato, cit. p. 385 (che rinvia a Macr., Sat.1.15.18).

 

[34] M. Eliade, Lo Yoga, immortalità e libertà, 3a ed., Firenze 1982, p. 210.

 

[35] P. Catalano, Aspetti spaziali, cit., p. 464.

 

[36] Cfr. Ovidius, Fasti 6.129-130.

 

[37] Macrobius, Sat.1.12.20.

 

[38] Cfr. Livius 1.7.2. Circa la relazione tra Romolo, Remo e le prime mura della città, rinvio al mio intervento, tenuto al XXI Seminario di Studi Storici “Da Roma alla Terza Roma” in Campidoglio, dedicato alla Santità delle mura e sanzione divina.

 

[39] Per l’elaborazione di questo saggio sono state indispensabili alcune opere non citate nelle note: A. De Marchi, Il culto privato di Roma antica, 2 voll., Milano 1896-1903; G. Dumézil, La religione romana arcaica, Milano 1977; C. Ampolo, Commento a Plutarco, Le vite di Teseo e di Romolo, Milano 1988; A. Dubourdieu, Les origines et le développement du culte des Pénates à Rome, Roma 1989; R. del Ponte, La religione dei Romani, Milano 1992; A. Carandini, La nascita di Roma. Dèi, Lari, eroi e uomini all’alba di una civiltà, Torino 1997.