Università di Brescia
Norberto Bobbio, nella Prefazione
al suo libro Il problema della guerra e
le vie della pace, sostiene la tesi, pienamente condivisa, che la bomba
atomica abbia prodotto “una trasformazione radicale” rispetto alla concezione
tradizionale della guerra[1].
Il pericolo termonucleare ha così fatto giustizia delle
molteplici teorie giustificatrici della “guerra giusta”, della “guerra come male
minore”, della “guerra difensiva”; da qui la proposta del filosofo italiano di
formare “una coscienza atomica”[2]
contro la guerra.
Il superamento della contrapposizione tra i due blocchi dell'Est
e dell'Ovest, simbolicamente fissato nelle date del 9 novembre 1989 e 25
dicembre 1991[3], se
ha ridotto di molto il rischio di una guerra termonucleare non ha però affatto
inciso sul contenimento dei conflitti convenzionali, come stanno a dimostrare,
per limitarsi agli esempi più recenti di coinvolgimento dell'Occidente europeo,
le vicende del Golfo (1990-1991), dell’area balcanica (Bosnia 1991-1995 e del
Kosovo 1999) e, da ultimo, dell’Afghanistan (2001-2002)[4].
In special modo il conflitto armato nel Kosovo (24 marzo -10
giugno 1999) ha sollevato problemi che spostano su un terreno nuovo la
riflessione sulla guerra[5].
Il paradigma tradizionale di stampo idealistico[6],
per la verità già imperfetto ai fini della comprensione della “guerra fredda”[7],
si dimostra vieppiù insufficiente per i successivi conflitti “limitati”, senza
rischio atomico.
Gli elementi tipicamente innovativi, che fanno del Kosovo un
esempio di conflitto postmoderno, possono sintetizzarsi nei seguenti tre:
Ø
nel Kosovo si è combattuta la prima
guerra mossa da un gruppo di Stati, alleati sotto il cartello della NATO e
senza mandato dell’ONU, contro “uno stato sovrano reo di violenze politiche interne”[8].
L’intervento è stato giustificato con la difesa dei diritti umani fondamentali[9]
e, per questo, definito “umanitario”[10];
Ø
il motivo ufficiale del conflitto è
stata la necessità di bloccare l’operazione di “pulizia etnica” praticata dal
governo serbo di Milosevic contro la minoranza etnica e religiosa albanese. Uno
scontro tra etnie, che conferma la tendenza all’aumento di conflitti
interculturali dalla conclusione della “guerra fredda”[11],
segnando un definitivo allontanamento dalla logica tradizionale della
contrapposizione di interessi tra Stati sovrani[12];
Ø
sono state evidenziate dal conflitto,
in modo inequivocabile, una serie di “imperfezioni”[13],
quali la mancanza di norme internazionali legittimanti[14],
la sproporzione tra fini e mezzi bellici, il significato di “guerra chirurgica”
in relazione alla perdita di vite umane tra la popolazione civile[15].
Nonostante tali diversità, il termine ‘giusto’[16]
è stato spesso utilizzato per definire lo scontro, quasi a voler indicare nella
difesa di diritti primari dell’uomo, universalmente riconosciuti, una
necessità, un bisogno prioritario travalicante lo stesso principio di
sovranità, “attributo naturale” degli Stati[17].
Si tratta di una motivazione che, sebbene non sia direttamente riconducibile
alla classica teoria del “bellum justum”
di stampo tomistico, la richiama molto da vicino.
Già in relazione al conflitto del Golfo (1990-1991) si discusse
aspramente, non soltanto in Italia, se definire “giusta” l’offensiva militare
che gli Stati Uniti e i loro alleati, dietro l’autorizzazione dell’ONU[18],
portarono contro l’esercito di Saddam Husseim in seguito all’invasione del
Kuwait. La polemica prese spunto da un’intervista al filosofo torinese Norberto
Bobbio[19],
il quale ai due interrogativi sulla natura della guerra, “se giusta o
efficace”, rispose in modo perentorio al primo (“è una guerra giusta perché è
fondata su un principio fondamentale del diritto internazionale che è quello
che giustifica la legittima difesa”) mentre problematizzò il secondo ponendo
tre condizioni (“la guerra sarà efficace … se vincente, rapida e limitata”).
L’attenzione dei mass-media e il dibattito che ne seguì furono, però, incentrati
esclusivamente sul tema della “guerra giusta”.
Ancora di recente, a proposito dell’azione bellica in Afghanistan
dopo l’11 settembre 2001, Oshama Bin Laden e gli ideologi dell’organizzazione
terroristica Al Qaeda motivavano la resistenza armata all’attacco militare
anglo-americano chiamando in causa la figura religiosa di jihad, la “guerra santa”[20].
Di contro, in un documento[21]
a sostegno dell’offensiva americana, sottoscritto da un nutrito gruppo di
intellettuali statunitensi, si legge, tra le diverse giustificazioni alla
risposta bellica, il richiamo alla “guerra giusta”, in quanto “war not only
morally permitted, but morally necessary” [22].
L’espressione “guerra giusta” è, quindi, decisamente presente nel
linguaggio attuale, anche se, come ricaviamo dagli stessi esempi qui riportati,
i significati ad essa attribuiti non sempre sono identici[23].
Si oscilla da un contenuto strettamente giuridico dell’aggettivo “giusto”, come
nell’uso fattone da Bobbio a proposito della guerra del Golfo[24],
a quello teologico, secondo cui la guerra è intrapresa per eseguire il comando
divino[25],
ad uno etico-morale, per cui l’evento bellico sarebbe finalizzato alla difesa
di valori umani “universali e pregiuridici”[26].
Nonostante le molteplici sfaccettature, l’aspetto da privilegiare
nell’approccio resta quello giuridico, nella misura in cui, come già avvertivo
a proposito dell’interpretazione dei conflitti armati dopo lo sfaldamento della
contrapposizione tra i due blocchi, nuove regole debbono stabilirsi per le
relazioni internazionali[27],
tese a riconsiderare il tradizionale principio di sovranità[28],
che, dal XVI alla fine del XX secolo, ha connotato il sistema degli
Stati-nazione, riducendo la guerra ad un problema interno del singolo Stato[29].
Cresce l’esigenza di una rifondazione del diritto internazionale che abbandoni
l’attuale sistema, frammentario e poco efficace, per recuperare una piena
giuridicità delle relazioni tra Stati, riducendo le regole consuetudinarie a
vantaggio di norme materiali e superare così l’insufficienza dell’apparato
sanzionatorio. Si tratterebbe di un rinnovamento che, nell’ambito specifico
della gestione dei conflitti, abbandoni – come auspica Bobbio – “criteri
puramente morali per stabilire chi ha ragione e chi ha torto e sostituisca ai
giudizi morali le regole giuridiche”.[30]
Il terzo millennio è dunque iniziato all’insegna della cifra
bellica, quasi a confermare la convinzione di Raymod Aron secondo cui la guerra
sarebbe compagna di tutte le civiltà[31].
Non si vuole con ciò sostenere il luogo comune, cinico e immobilista,
dell’ineluttabilità della guerra, quanto piuttosto sollecitarne un rinnovato
ripensamento convinto, come sono, che una più approfondita comprensione
dell’evento bellico possa contribuire alla costruzione della pace[32].
La pace è concetto da tenere sempre presente nell’analisi sulla
guerra. Quando pensiamo alla pace, dobbiamo però abbandonare l'idea
tradizionale di “non-guerra”, che per secoli l’ha relegata ad un rango
subordinato nei confronti della guerra[33],
privilegiando invece la concezione di “pace positiva” che - come scrive Bobbio
- “consiste nel dominio della giustizia, nell’esistenza di reali condizioni di
eguaglianza sociale e di benessere diffuso, nonché nell’assenza di quella
‘violenza strutturale’ che, provocando tensioni e conflitti all’interno del
corpo sociale, pone le premesse per l’insorgere di conflitti violenti tra
stati”[34].
Nella tensione tra la natura dell’evento bellico e la costruzione
di uno stato di pace positiva trova spazio ancora oggi, come abbiamo visto,
l’idea di “guerra giusta”, nonostante il tramonto delle situazioni originarie,
storiche e culturali, che l’hanno prodotta.
L’espressione “guerra giusta” ha una storia molto lunga dietro di
sé, che ne condiziona il significato seppure riferita a episodi recenti. Si
tratta di un passato risalente al periodo medievale, quando il pensiero
politico-religioso propugnò la dottrina del bellum
justum ancorandola alla elaborazione giuridica e filosofica romana dello
stesso concetto, che per altro aveva in origine un diverso significato.
Palesare l’uso e l'ambiguo fascino che, ancora oggi, esercita
tale sintagma significa da una parte rilevarne le metamorfosi e le
contraddizioni di natura strutturale, dall’altra ripercorrerne, a grandi linee,
il percorso storico-concettuale risalendo fino al diritto romano, che
rappresentò il milieu culturale
all’interno del quale l'espressione bellum
iustum venne forgiata.
L’uso dell’espressione “guerra giusta” per valutare forme di
relazioni tra comunità straniere fu proprio della cultura politico-giuridica
dell’antica Roma[35]. Se
ne ha testimonianza in Cicerone. Combinando la lettura di alcuni passi di due
delle sue opere più mature, il De
republica[36] e il
De officiis[37],
apprendiamo che si aveva bellum iustum
quando i Romani muovevano guerra, secondo l’antico rituale posto in essere dai
sacerdoti Feziali, ad un popolo straniero qualora esso non avesse provveduto,
entro trenta giorni, alla richiesta di soddisfazione per l’eventuale danno
subìto o temuto. La “guerra giusta” per il popolo romano consisteva in una
procedura rigorosamente fissata dal diritto, a cui, per motivi di ordine
giuridico-religioso soprattutto nel lungo periodo della formazione e del
consolidamento della civitas (VI-IV
sec. a.C.)[38],
bisognava attenersi per il buon esito dell’evento bellico. L’aggettivo iustum richiamava, in quel contesto, non
un valore etico di giustizia quanto piuttosto rigorosi criteri giuridici[39].
L’espressione bellum iustum, indicava
la guerra secondo le regole del diritto: una guerra, diremmo oggi,
giuridicamente legittima, cioè tutta interna alla sfera del diritto.
Tale concezione subì una torsione sostanziale sotto la spinta
della riflessione di Agostino, il quale, nel tentativo, riuscito, di
traghettare la cultura classica romana nel pensiero cristiano, riportò
l’elaborazione ciceroniana sulla guerra all’interno della propria visione
teologica del mondo. Agostino corresse definitivamente la posizione di
“pacifismo assoluto” espressa da Tertulliano un secolo prima per cui il mestiere
delle armi era ritenuto illecito[40].
Nella sua opera più importante il De
Civitate Dei e in altri suoi scritti[41],
la “città degli uomini” gode di uno stato di pace incerta[42]
che può essere messo in crisi dalla guerra connessa all’attività umana[43].
Oltre ai conflitti generati dall’esistenza di popoli nemici[44],
dalla brama di potere[45]
e dalla diffidenza[46],
può aversi il caso del bellum iustum[47], a cui il sapiente deve, suo malgrado,
partecipare per rispondere all’ingiustizia portata: iniquitatis partis adversae[48].
In questo caso la guerra è ispirata da Dio per punire la corruzione dei popoli
e per educare le genti alla vita pacifica[49].
Il termine iustum si riferisce,
quindi, alla giustizia divina, unica fonte giustificatrice del conflitto[50].
Sebbene il vescovo di Ippona non esprima una visione sistematica della “guerra
giusta”, l’aver introdotto il volere divino come suprema giustificazione del
conflitto armato determinò l’inizio della concezione etica della guerra
offuscandone la valenza giuridica.
La riflessione agostiniana fu ripresa e codificata da Tommaso
d’Aquino nel 1300, il quale, richiamandosi all’autorità di Agostino e facendo
tesoro dei contributi della canonistica[51]
e civilistica[52]
medievale, fissò tre condizioni per il bellum
justum: l’auctoritas principis,
la guerra doveva essere dichiarata dall’autorità legale; la iusta causa, la guerra doveva essere
dettata da una giusta causa; la recta
intentio, la guerra doveva perseguire il bene contro il male. Il portato
religioso introdotto da S. Agostino, che trasformava la guerra in strumento
della volontà divina, venne esaltato ed elevato a regola da S. Tommaso[53].
Erano, dunque, guerre giuste solo quelle dei cristiani contro gli infedeli: è
il trionfo del principio teologico.
Un ripensamento strutturale fu introdotto dal De iure belli ac pacis (1623-1625) di
Ugo Grozio. Il giurista olandese, forte delle anticipazioni di Francisco de
Vitoria (1485-1546)[54]
e Alberico Gentili (1552-1608)[55],
mette in secondo piano la giustificazione etico-religiosa della guerra, la “vera justitia”, per concentrarsi sulle
procedure del combattimento. Il bellum
justum doveva essere inteso, alla stregua del testamentum justum o delle justae
nuptiae, come bellum solemne, dove
la solennità era conferita dalla decisione presa dalle massime autorità
istituzionali di muovere guerra e dal rispetto delle ritualità belliche
prescritte[56].
Si supera così la concezione universalistica della respublica christiana a vantaggio dello
Stato moderno accentrato e unitario territorialmente[57].
Il potere non si fondava più sulla fede bensì sulla politica. Il monopolio
della forza legittima – come nota acutamente Weber – si trasferiva agli Stati.
Un riscontro della teoria di Grozio, sul piano degli eventi storici, può essere
rintracciata nella pace di Vestfalia alla fine della Guerra dei Trentanni
(1648-1649), dove le regole di politica internazionale, destinate a restare in
auge fino alla I Guerra Mondiale, furono espressione dei singoli Stati-nazione.
Da questo momento in poi, per tutta l’età moderna, si affermerà la teoria dello
Stato-potenza, per cui la guerra sarà intesa come espressione della sovranità
(= imperium) statale, finalizzata al
perseguimento degli interessi economici e territoriali del singolo Stato.
L'attenzione di Grozio era rivolta non soltanto alla justa causa quanto piuttosto ai
requisiti formali della conduzione del conflitto, attuando quasi un rimando
alla lezione più genuina del bellum
iustum del diritto romano (come attesta anche il suo stesso argomentare
continuamente puntellato da citazioni di documenti testuali giuridici ed
extra-giuridici dell’esperienza romana), anche se l’interesse speculativo si
spostava decisamente dallo ius ad bellum
allo ius in bello.
Fu con l’affermarsi del giuspositivismo che la teoria del bellum justum diventò uno strumento
inutile per il diritto internazionale del XIX secolo. Come scrive Bobbio: “il
positivismo giuridico, non prendendo in considerazione altro diritto che il
diritto positivo, che è il diritto effettivamente osservato in una determinata
società, scisse nettamente il giudizio su ciò che è giuridico dal giudizio su
ciò che è giusto”[58].
La portata della nuova concezione, applicata al conflitto
bellico, determinò un comportamento tra gli Stati “come se non esistesse di
fatto alcuna regola comunemente accettata per distinguere guerre giuste da
guerre ingiuste. In altre parole, gli stati considerano la guerra come una
procedura sempre lecita”[59].
Il principio restò dominante fino alla I Guerra Mondiale, dove si
consumò il passaggio dalla ‘legittimità’ alla ‘legalità’ della guerra[60].
Il diritto internazionale bellico non era interessato più alla giustificazione
del conflitto quanto piuttosto alla regolamentazione della violenza tra i
belligeranti.
In questa direzione, dal 1907 (Convenzioni dell’Aia) in poi, si
assiste al graduale intento di codificare, attraverso convenzioni e protocolli,
norme consuetudinarie e accordi tra gli Stati in materia di ius in bello. Tale sistematizzazione può
essere riassunta in quattro regole generali, per cui l’uso della forza in un
conflitto armato deve: essere limitato ai belligeranti e, solo collateralmente,
interessare la popolazione civile; essere circoscritto agli obiettivi militari;
escludere armi particolarmente insidiose e micidiali; essere delimitato alle
zone di guerra[61]. Si
tratta di una serie di limitazioni, che hanno indotto all’uso dell'espressione
‘diritto internazionale umanitario’ in sostituzione dell’originario ‘diritto
bellico’.
La “guerra giusta”, messa in ombra dal positivismo ottocentesco,
riemerse durante e dopo
Si tratta di un’acquisizione di non poco conto rispetto alla
precedente filosofia dei rapporti tra Stati-nazione, in base alla quale il
ricorso alla guerra nelle controversie internazionali era percepito come un
diritto acquisito. La guerra è ripudiata[64],
come sancisce la stessa Costituzione italiana[65].
E’ evidente che la diversa considerazione dell’evento bellico non è sufficiente
all’edificazione di uno stato di pace permanente, come provano i tanti
conflitti che dalla fine della II Guerra Mondiale ad oggi hanno interessato e
interessano molte zone del pianeta, ma l’orientamento scelto sembra essere
fecondo: non l’utopistica e, forse, nemmeno necessaria[66]
eliminazione dei conflitti quanto piuttosto una gestione non violenta degli
stessi, sotto il diretto controllo del diritto, ponendo l'accento sul rapporto
guerra-diritto che, come già visto, costituisce un punto nevralgico nella
teoria della “guerra giusta”.
E’ questo uno degli aspetti teorici e pratici su cui si sono
spesso soffermati gli studiosi della guerra e della pace. Lo abbiamo intravisto
a proposito del pensiero di Kelsen e potremmo risalire attraverso gli
antecedenti al ciceroniano “silent enim
leges inter arma”[67].
Tuttavia, ai fini della nostra ricerca, è sufficiente richiamarsi ai quattro
tipi di rapporto indicati da Bobbio[68]:
la guerra come antitesi del diritto; la guerra come mezzo per realizzare il
diritto, che è alla base della teoria della “guerra giusta”; la guerra come
oggetto del diritto, dove è centrale il problema della regolamentazione della
condotta bellica; la guerra come fonte del diritto, per cui la violenza bellica
è all’origine di un nuovo ordinamento giuridico.
Soffermiamoci sul primo tipo di rapporto, perché in esso la
costruzione dello stato di pace è posto come obiettivo prioritario: il “diritto
come insieme di regole ordinate al fine della pace: e la pace è l’eliminazione della guerra”[69].
E' necessario, per meglio comprendere la relazione descritta da
Bobbio, chiarire il concetto di guerra, che è qui intesa, giova ricordarlo,
come conflitto tra gli Stati e non come guerra civile e/o rivoluzionaria.
Bonanate[70] la
definisce come “lo scontro volontario di molti che si schierano su due fronti
opposti nell'intenzione di piegarsi fisicamente l'un l'altro”[71].
La costrizione violenta di uno dei due belligeranti richiama la più antica
definizione di Karl von Clausewitz (1780-1831): “la guerra è dunque un atto di
forza che ha per scopo di costringere l'avversario a sottomettersi alla nostra
volontà”[72].
E’ la forza, quindi, il tratto predominante del fenomeno bellico.
Una forza mortale, violenta: “la specificità della guerra consiste nel mezzo
usato: la violenza”[73].
Un uso della forza privo di regole, legibus
solutus[74], a
cui si contrappone la forza ordinata prodotta dal diritto grazie alla
coercibilità delle norme[75].
“Il diritto”, quindi, “non ha a che fare con la guerra, ma ha a che fare con
l’elemento costitutivo della medesima, ossia con la forza”[76].
Proprio tale peculiarità consente al diritto di porsi come
strumento privilegiato, tra altri, per ridurre gli spazi della guerra favorendo
l’espandersi della pace. Una pace, quindi, che è sì assenza della guerra ma in
una prospettiva progettuale[77].
E' il problema della “pace positiva” che - come scrive Bobbio - “significa non
soltanto cessare dalle ostilità o non fare più la guerra, ma anche instaurare
uno stato giuridicamente regolato che tende ad avere una certa stabilità”[78].
La guerra, in quanto forza mortale, è dunque negazione del
diritto che, come mezzo di pacificazione, può ritenersi suo antagonista ed
essere utilizzato per arginarne l’uso. E’ questa, a mio avviso, la filosofia
sottesa nella Carta delle Nazioni Unite anche quando la stessa prevede l’uso
della forza armata come exstrema ratio
per la legittima difesa e per tutelare la sicurezza internazionale.
Il fine del diritto può essere indirizzato alla riduzione degli
spazi occupati dalla guerra, favorendo in questo modo la realizzazione dello
stato di pace.
Siamo nel campo d’azione di ciò che Bobbio definisce “pacifismo
giuridico”, strettamente collegato all’idea kelseniana della pace attraverso il
diritto[79].
Per sottrarre l’uso della forza bellica al libero arbitrio dei singoli
Stati-potenza, è necessario rendere efficace la soluzione giuridica delle
controversie tra Stati adottata dalla struttura istituzionale sovranazionale.
Il tutto necessita di una visione normativa dei rapporti internazionali, che si
traduca anche in un potenziamento non solo decisionale ma pure
organizzativo-operativo degli organismi. Si pensi, ad esempio, alla costituzione
di uno Stato Maggiore dell’ONU, previsto dalla Carta (art. 47), che avrebbe il
comando dell’azione di polizia deliberata dalla stessa ONU; all’accettazione
dello statuto della Corte penale internazionale (1998) da parte di tutti gli
Stati; alla riorganizzazione della NATO da struttura militare difensiva della
superata alleanza atlantica a organismo per la sicurezza in Europa.
Si impone una rifondazione delle relazioni internazionali
attraverso la codificazione di nuove regole sovranazionali che introducano
criteri di valutazione giuridica sull’uso della forza armata. In questa ottica
andava inteso lo sforzo di Antonio Cassese di individuare “cinque condizioni
ben precise” per una nuova legittimazione nel diritto internazionale dell’uso
della forza, partendo dalla non legalità dell’intervento militare nel Kosovo[80].
Bobbio ha parlato, al riguardo, dell’istituzionalizzazione di “un
nuovo diritto internazionale”[81],
richiamando la tesi di Habermas del passaggio “dalla politica di potenza
classica a uno stato di cittadinanza universale”[82].
Il dato incontrovertibile, che emerge dall’analisi, è una forte
contrazione del principio di sovranità dello Stato-potenza.
Lo stesso recente fenomeno della globalizzazione neoliberista
alimenta tale tendenza, spostando la sfera decisionale dagli Stati al mercato[83].
Ma il mutamento, per essere in qualche modo utile alla formazione di
prerequisiti per un piano di pace, non deve essere subito come portato oggettivo
di mere leggi economiche quanto piuttosto essere governato da una politica
internazionale affronti le disuguaglianze e
punti a ridurre la povertà. Che il mercato da solo significhi pace è
un'illusione. Il Governo dell'economia globalizzata non può essere lasciato
alle istituzioni specializzate come il Fondo monetario internazionale,
E'
evidente che il progressivo abbandono della guerra tradizionale a favore della
costruzione di uno stato di pace in
progress presuppone il primato dell'ONU e passa attraverso la concertazione
di una molteplicità di strumenti: politici, economici, culturali e diplomatici[85].
Tra questi un ruolo determinante può essere svolto anche dal diritto:
l'obiettivo è che gli Stati e tutti i soggetti della politica internazionale
prendano sul serio le norme su cui si identifica e si regge la stessa comunità
internazionale e che ne garantiscano la effettività[86].
Nel rapporto antitetico tra guerra e diritto, le istituzioni internazionali
dovrebbero, in casi rigidamente circoscritti e
come extrema ratio, autorizzare e
guidare l'uso della forza armata secondo principi universalmente riconosciuti,
conformi cioè al sistema normativo internazionale.
Da questo modello scaturisce una concezione
della guerra 'giuridicamente lecita', vale a dire corrispondente alla normativa
internazionale codificata dalla comunità mondiale, che, per il carattere
multilaterale delle proprie scelte, è in grado di imporre criteri di giudizi
condivisi. Comunque, è sempre una liceità circoscritta entro limiti rigorosi
quella che deriva dalla Carta delle Nazioni Unite. Non si tratta di recuperare
antiquate giustificazioni di ordine religioso, morale o etico, quanto piuttosto
di valutare, conflitto per conflitto, la conformità giuridica (considerando sia
i fini, sia l'estensione e l'offensività dei mezzi impiegati) dell'eventuale
uso della forza armata all'ordinamento internazionale.
* Il testo qui riprodotto introduce, con qualche modifica
formale, il volume A. Calore (a
cura di), “Guerra giusta”? Le metamorfosi
di un concetto antico, ed. Giuffrè, Milano 2003.
[1] N. Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace,
Bologna, 19913, p. 1. Il libro di Bobbio è composto da scritti risalenti al
periodo della contrapposizione mondiale in due blocchi, occidentale e
orientale, caratterizzato dal costante pericolo della guerra nucleare. Le
quattro "Prefazioni" aggiornano il punto di vista del filosofo
sull'argomento. I saggi, nonostante risultino datati, restano tuttora di grande
stimolo per iniziare un ragionamento sia sul tema della guerra (vedi i primi
due saggi) sia su quello della pace e della nonviolenza (vedi gli ultimi due
saggi). Il deterrente atomico, da individuarsi nella catastrofe generale
dell'umanità senza né vinti né vincitori, generava – secondo Bobbio – la
concezione di "una via bloccata" alla guerra sulla terra.
[3] Rispettivamente la caduta del muro di Berlino e la rimozione
della bandiera sovietica dal Cremlino.
[4] Nel periodo dal 1945 al 1989 i conflitti “tradizionali” sono
stati stimati nel numero di 138 (cfr. E. Luttwak,
Toward Post-Heroic Warfare, in Foreign Affairs, may-june, 1995); solo
nel 1989, fase conclusiva della “guerra fredda”, le guerre in atto furono
diciannove (cfr. P. Wallensteen –
M. Sollenberg, Armed Conflict and regional Conflict
Complexes 1989-
[5] Per un primo approccio, è sufficiente rinviare agli articoli
raccolti nell’opuscolo della rivista Reset
dal titolo L’ultima crociata? Ragioni e
torti di una guerra giusta, Roma, 1999; ai saggi apparsi su Ragion Pratica, 13, 1999, pp. 11-165;
alle riflessioni su Quaderni
Costituzionali, 1 e 2, 1999; al quaderno speciale di Limes (supplemento al n. 1/1999) dal titolo Kosovo. L'Italia in guerra.
[6] Un modello noto è quello della guerra come “continuazione” della
politica, elaborato da Clausewitz (Della
guerra (1832), trad. it., Milano, 1970); su cui, tra gli altri, vedi R. Aron, Penser la guerre. Clausewitz, 2 voll., Paris, 1976; P. Paret, Clausewitz and the State, New York & London, 1976; ora L. Bonanate, La guerra, Roma-Bari, 1998, sp. pp. 9 ss. e P.F. Taboni, Clausewitz. La filosofia fra guerra e rivoluzione, Urbino, 1990.
[7] Per N. Bobbio, Il problema della guerra, cit., pp. 32
ss., il conflitto atomico vanifica il compito della filosofia della storia di
giustificare la guerra, perché quest’ultima è diventata “impossibile” e
“ingiustificabile”. R. Aron, Pace e guerra tra le nazioni (1962),
trad. it., Milano, 1970, infra, pur
condividendo il dato centrale della tradizione realista della guerra come mezzo
legittimo delle relazioni fra entità politiche, introduce “l’ideologia” e “la
diplomazia” come elementi determinanti delle “politiche di potenza” degli Stati
(sulla teoria dello studioso francese, vedi A.
Panebianco, Introduzione a Raymond Aron, La politica, la guerra, la storia, Bologna, 1992).
[9] “Sono ‘diritti fondamentali’ tutti quei diritti soggettivi, che
spettano universalmente a ‘tutti’ gli esseri umani in quanto dotati dello status di persone, o di cittadini o di
persone capaci di agire; inteso per 'diritto soggettivo' qualunque aspettativa
positiva (a prestazioni) o negativa (a non lesioni) ascritta ad un soggetto da
una norma giuridica, e per 'status'
la condizione di un soggetto prevista anch'essa da una norma giuridica positiva
quale presupposto della sua idoneità ad essere titolare di situazioni giuridiche
e/o autore degli atti che ne sono esercizio” (L. Ferrajoli, Diritti
fondamentali (1998), Roma-Bari, 2001, p. 5. Tale categoria di diritti è
stata individuata da Norberto Bobbio (L’età
dei diritti, 1990, p. VII) come uno dei tre problemi fondamentali (gli
altri due sono la democrazia e la pace) con cui il mondo contemporaneo deve
necessariamente confrontarsi.
[10] Per una visione sintetica degli "interventi d'umanità"
prima del Kosovo, vedi N. Ronzitti, Uso della forza e intervento di umanità,
in N. Ronzitti (a cura di), NATO,
conflitto in Kosovo e Costituzione italiana, Milano, 2000, pp. 6-12. Giustifica, con le dovute cautele,
l'intervento A. Cassese, 'Ex iniuria ius oritur': Are We Moving towards
International Legitimation of Forcible Humanitarian Countermeasures in the
World Community?, in European Journal
of International Law, 1999, p. 23 ss. Per una “politica
dei diritti umani” che superi il riferimento etico a favore di una loro “giuridificazione”
vedi J. Habermas, Umanità e bestialità: una guerra ai confini
tra diritto e morale, in L’ultima
crociata?, cit. p. 83 ss. Per contro, una critica radicale al principio
universalistico della protezione dei diritti fondamentali degli uomini, avvertito
come l’avvio di “una nuova ideologia occidentale”, è in D. Zolo, “Chi dice umanità”. Guerra, diritto e ordine globale, Torino, 2000.
Sulla questione, in relazione alla “ingerenza umanitaria” della NATO nel
Balcani, vedi già S. Senese, L’insanabile contraddizione tra guerra e
tutela dei diritti umani, in Questione
giustizia, 3, 1999, pp. 393-399.
[11] Esempi recenti di guerre per l’identità etnica e/o religiosa
sono: la guerra civile in Somalia a partire dal 1991; lo scontro Hutu-Tutsi in
Rwanda riacutizzatosi dal 1996; il conflitto algerino tra fondamentalisti ed
esercito regolare a partire dal 1992.
[12] Sarebbe questa, secondo la recente polemologia, la
caratteristica delle guerre post-moderne: scontri devastanti con molti morti,
animati da etnie diverse per lo più appartenenti allo stesso Stato (insiste
unicamente su questo aspetto C. Risé,
La guerra postmoderna, Gorizia, 1996,
infra, mentre, come scrivo nel testo,
possono individuarsi altri elementi peculiari della guerra post-moderna). Mette
in guardia dall’uso dell’aggettivo ‘etnico’ per descrivere i fenomeni bellici
(‘conflitto’, ‘guerra’, ‘scontro’, ‘pulizia’), C. Marta, Guerre etniche:
metafora del nostro tempo?, in Parolechiave,
20/21, 1999, pp. 259-
[13] Il termine è usato da G. Bosetti,
I lati oscuri della guerra umanitaria,
in L’ultima crociata? Ragioni e torti di
una guerra giusta, cit., pp. 5-15.
[14] Anche chi, in forma molto esplicita, sostenne l’intervento
armato nel Kosovo non mancò però di rilevare la distanza dalle limitanti prescrizioni
della Carta delle Nazione Unite circa l'uso della forza (vedi, in particolare,
A. Cassese, Le cinque regole per una guerra giusta, in L’ultima crociata?, cit., pp. 25-28); anche chi in maniera
realistica, come Norberto Bobbio (cfr. gli interventi riportati in L’ultima crociata?, cit., pp. 16-24 e
pp. 115-125), non metteva sullo stesso piano la forza militare della NATO e
l’esercito serbo, nondimeno giudicava “non lecito” l’intervento sulla base
della Carta delle Nazioni Unite (tornerò più avanti sul rapporto tra la
normativa delle Nazioni Unite e il ricorso legittimo alla forza armata). Per un
sguardo generale sui problemi di diritto costituzionale in relazione al Kosovo,
vedi N. Ronzitti (a cura di), NATO, conflitto in Kosovo e Costituzione
italiana, cit., in particolare il saggio di Cesare Pinelli (pp. 193-208).
[15] Esempi eclatanti: una bomba NATO colpisce, per errore, un treno
a Grdelica, , provocando 55 morti tra i civili (12 aprile); un aereo della NATO
colpisce, per errore, un autobus di linea vicino Pristina, provocando circa 47
morti tra i civili (1° maggio); l'ospedale civile e il mercato di Nis sono
colpiti, 20 i morti tra i civili (7 maggio); l’ambasciata cinese viene
bombardata per errore dalla NATO, 3 i morti (8 maggio); l'ospedale di Surdulica
è colpito, 20 i morti (31 maggio). Casi questi, che rimandano ai principi di
“proporzionalità” e di “discriminazione” (emersi e discussi ampiamente già al
tempo della guerra del Golfo), determinanti per la conduzione di una guerra
secondo le regole (= ius in bello) e
fondanti, insieme ad altre condizioni, per riformulare, a detta di una parte
della dottrina, una teoria attuale della “guerra giusta” (cfr. L. Bonanate, La rivoluzione internazionale, in Teoria politica, 1991, 2, pp. 3-20. Riflette in modo critico
sull’argomento G. Pontara, Guerre, disobbedienza civile, nonviolenza,
Torino, 1996, pp. 44-53).
[16] L’espressione “guerra giusta” è stata spesso presente nei
mass-media di quel periodo. Alcuni esempi in:
[17] Il rapporto tra i diritti fondamentali dell’uomo e la sovranità
degli Stati, è stato di recente ripensato dalla politica del Vaticano con la
teorizzazione, ad opera dello stesso Pontefice, della tesi della
“legittimità-doverosità della più diretta ‘ingerenza umanitaria’ che preveda
anche l’eventuale uso delle armi”, perché i crimini contro l’umanità non si
possono considerare affari interni di una nazione (cfr. C.M. Martini, La guerra moderna e i diritti dell’uomo, in
[18] La risoluzione 688 dell’aprile 1991 giustificava l’intervento
armato richiamando la “minaccia alla sicurezza internazionale”.
[19] N. Bobbio, Una guerra giusta? Sul conflitto del Golfo,
Venezia, 1991, pp. 39-40, nel libro sono raccolti i reiterati interventi del
filosofo sull’intera questione.
[20] Sulla complessità del termine jihad, cfr. in generale J.T. Johnson-J.
Kelsay (eds.), Just War and Jihad. Historical and
Theoretical Perspectives on War and Peace in Western and Islamic Traditions,
New York-London, 1991; R.F. Peters,
The Jihad in Classical and Modern Islam,
[21] Il documento, What We're
Fighting For, è leggibile via internet al seguente indirizzo http://www.propositionsonline.com/html/fighting_for.html.
[22] Cfr. il cap. A Just War? Il documento dei sessanta
intellettuali statunitensi vuole essere una giustificazione dell’uso della
forza bellica contro il nuovo terrorismo. Non si disconosce la necessità di una
risposta ‘forte’, occorre però precisare che, affinché questa sia efficace, le
forme della stessa debbono essere idonee allo scopo, riducendo nell’immediato
le azioni terroristiche e rimuovendone le cause nel medio-lungo periodo. Al riguardo,
il passaggio obbligato, su cui poco si è dibattuto nonostante l’11 settembre, è
il modo di intendere questo nuovo terrorismo internazionale. In una recente
interpretazione, esso è stato definito “una forma di guerra” a cui “si può
rispondere solo con la guerra” (così C. Carr, Terrorismo, Milano, 2002, pp. 7 e 11. Si noti che in precedenza il
termine usuale era quello di ‘lotta’). Si può essere d’accordo o meno
sull’affermazione dell’opinionista statunitense (non è possibile discutere di
ciò in una nota); ritengo però corretta l’impostazione della questione: per
dare una risposta efficace alle nuove manifestazioni terroristiche dobbiamo
innanzi tutto intenderne la natura (spunti in F. Cardini, La paura e
l'arroganza, Roma-Bari, 2002, pp. XXVII ss.) Per limitarci ad un esempio
ancora in atto, la guerra “totale” condotta contro l’Afghanistan ha sì prodotto
la caduta del regime filo-terrorista dei Talebani ma a prezzo di alti costi
umani tra la popolazione civile di quel paese e senza pervenire alla cattura
dei capi dell’organizzazione terroristica di Al Qaeda, ritenuta
dall’amministrazione Bush l’obiettivo principale dell’intera operazione (la
giudica una “risposta sbagliata” S. Senese,
Guerra e nuovo ordine mondiale, in Questione giustizia, 2, 2002, p. 472);
un pericolo questo, che sembra corrersi di nuovo, con conseguenze ben più
tragiche, nella proposta del governo statunitense di muovere una “guerra
preventiva” contro l’Iraq, in quanto “Stato canaglia” (rogue state) e per il rapporto stretto tra le reti terroriste e il
regime di Saddam Hussein (in verità un rapporto finora non dimostrato).
[23] La bibliografia sulla “guerra giusta” è vasta, oltre a quella
riportata nei saggi del presente volume, si citano qui i classici L. Le Fur, Guerre juste et juste paix, Paris, 1920; R.H.W. Regout, La doctrine de la guerre juste de Saint Augustin à nous jours,
Paris, 1934, rist. Aalen, 1974; il saggio di J.T. DELOS, Sociologie de la guerre moderne et théorie de la guerre juste, in Guerre et Paix, 1953, pp. 201-224; M. Walzer, Guerre giuste e ingiuste (1977), trad. it., Napoli, 1990; e ora il
libretto didattico di G. Bacot, La doctrine de la guerre juste, Paris,
1989.
[24] Una guerra “giuridicamente lecita”, cioè “conforme alla legge”
perché, come scrive più avanti, “fondata su un principio fondamentale del
diritto internazionale che è quello che giustifica la legittima difesa” (il
riferimento è all’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite). Cfr. N. Bobbio, Una guerra giusta? Sul conflitto del Golfo, cit., pp. 10-11 e p. 39.
[25] Per il significato di “guerra santa” secondo la religione
mussulmana vedi la nt. 20. Il contenuto, però, non si discosta dalla concezione
cristiana di “guerra di religione”, che ebbe origine con Agostino.
[26] Se ne ha un chiaro esempio nel citato documento degli
intellettuali statunitensi, dove vengono indicati quattro generalissimi valori:
1) la convinzione che “all persons posses innate human dignity”; 2) l’esistenza
e l’accessibilità per tutti i popoli di “laws of Nature and of Nature’s God”; 3)
la possibilità che in caso di disaccordo sui valori si possa avere una
“openness to other views, and reasonable argument in pursuit of truth”; 4)
“freedom of conscience and freedom of religion”. La difesa di tali “American
values”, che poi per un'incomprensibile proprietà transitiva diventano “in fact
the shared inheritance of humankid, and therefore a possible basis of hope for
a world community based on peace and justice”, può costituire il fondamento per
una “just war" a prescindere da ogni valutazione da parte di istituzioni
sopranazionali (nel documento l'ONU non viene mai citato e non c'è riferimento
alcuno ad altri organismi mondiali). Non deve meravigliare questa “fuga” dal
diritto. Il ritorno alla nozione di “guerra giusta” in un’ottica etico-morale è
propria di Michel Walzer, uno dei promotori dell’appello, che nel suo libro Just and Unjust Wars (trad. it.
dell’edizione del 1977, Guerre giuste e
ingiuste, Napoli, 1990) manifesta
una grande sfiducia nella capacità del diritto di parlare di guerra: “I
giuristi hanno costruito un mondo di carta, incapace di render conto, nei
momenti cruciali, del mondo reale in cui viviamo” (p. 5 della trad. it.).
[27] L. Bonanate, Democrazia tra le nazioni, cit., p. 21,
avanza l’esigenza di un “nuovo paradigma nelle relazioni internazionali”. Una
disamina sulla crisi del “sistema internazionale stato-centrico” è ora in G. L.
Cecchini, Pace e guerra nel diritto delle relazioni internazionali, Milano,
2000, sp. pp. 9-28.
[28] In questo senso, G. Zagrebelsky,
Il diritto mite, Torino, 1992, pp.
4-5: “In quell’idea di sovranità – intesa originariamente come situazione
efficiente di una forza materiale impegnata nel compito della costruzione e
della garanzia della propria unicità e supremazia nella sfera politica – si
trova insito, in nuce, il principio
dell’esclusione e della belligeranza nei confronti dell’altro da sé. Da ciò
deriva – all’interno – la necessità per lo Stato dell’annientamento dei suoi
antagonisti e – all’esterno – la tendenza, alimentata dall’economia e dall’ideologia,
all’imperialismo e alla ‘cattolicità’, nel senso della teologia politica di
Carl Schmitt. Lo Stato sovrano non poteva ammettere concorrenti. Se si fosse
aperta una concorrenza, esso avrebbe cessato di essere politicamente ‘tutto’ e
avrebbe iniziato a essere semplicemente ‘parte’ di sistemi politici più
comprensivi. Inevitabilmente, ciò avrebbe messo in discussione la sovranità e,
con ciò, l’essenza stessa della statualità”.
[29] Sull’esaurimento del ruolo dello Stato attuale, scrive
lucidamente L. Bonanate, op. cit., p. 22: “Sostenere che lo stato
tradizionalmente inteso sia in declino, non implica alcunché di catastrofico,
ma piuttosto che esso, in cinque secoli, ha sviluppato e consumato tutte le sue
potenzialità, dopo essersi esteso a ogni livello di attività e di penetrazione…
Ciò non significa che la storia si sia arrestata, ma più semplicemente che lo
stadio ‘finale’ dello stato è quello della sua compartecipazione a una società
planetaria”.
[31] R. Aron, La politica, la guerra, la storia,
Bologna, 1992, p. 431. La visione dello studioso francese si iscrive, per la
verità, nel tradizionale e multiforme filone di pensiero occidentale sulla
guerra come principio indispensabile dell’esistenza, risalente alla famosa e
antichissima definizione del filosofo greco Eraclito (VI sec. a.C.), per cui la
guerra sarebbe il padre di tutte le cose regnando su tutto e facendo emergere
la distinzione tra gli dèi e gli uomini, tra gli schiavi e i liberi (cfr. Eraclito fr. 53). Sul frammento,
interpretato quale “archetipo culturale” della teoria “dialettica” della guerra
nel pensiero filosofico, vedi S. Cotta,
Guerra e diritto a confronto, in C.
Jean (a cura di), La guerra nel pensiero
politico, cit., pp. 135-142. Per il significato eracliteo del termine
guerra (Pòlemos), la cui comprensione
(attraverso il Lógos) produce la
cultura della pace effettiva, vedi R. Gasparotti,
Alle origini delle categorie di “guerra”
e “pace”, in C. Jean (a cura di), La
guerra nel pensiero politico, cit., pp. 154-160; per una sua accezione che
trascende la "determinazione esclusivamente storico-politica", cfr.
U. Curi, Pólemos, Torino, 2000, sp. pp. 110-122.
[32] Sempre seguendo il pensiero di Aron (La politica, la guerra, la storia, cit.), lo studio “sociologico”
della guerra, inteso come “studio delle relazioni tra entità tribali o
nazionali” (p. 431), condurrebbe alla “natura della collettività” (p. 436) e,
quindi, ad una migliore comprensione della realtà.
[33] Chiarisce bene il punto N. Bobbio,
s.v. Pace, in Dizionario di politica, Milano, 1994, p. 737: “Pace viene definita
negativamente come assenza di guerra, più brevemente come non-guerra. Si dice
che dei due termini [= Guerra e Pace], il primo è il termine forte, il secondo
è il termine debole”.
[35] Anche la cultura greca si confrontò con il complesso problema
della guerra, lo fece però soprattutto in funzione politico-morale, come
attesta la riflessione aristotelica. Per Aristotele (Pol. 7,1333 b 37-
[36] Cic., rep. 3,23,35: Illa iniusta bella sunt, quae sunt
sine causa suscepta. <Nam extra ulciscendi aut propulsandorum hostium causam
bellum geri iustum nullum potest.> …Nullum bellum iustum
habetur nisi denuntiatum, nisi indictum, nisi de repetitis rebus
(sottolineature mie). Il passo appartiene a quella parte del De republica molto lacunosa il cui
contenuto si ricostruisce grazie alle citazioni di autori antichi. Nel nostro
caso si tratta dell’erudito ecclesiastico del VI-VII sec. d.C. Isidoro di Siviglia,
che riporta il testo nelle sue Etimologie
(18,1,2-3). La parte tra parentesi, dove si tratta delle “giuste cause” della
guerra, è sospettata come non ciceroniana da L. Loreto, Il ‘bellum
iustum’ e i suoi equivoci, Napoli, 2001, pp. 27 ss., contrariamente alla
totalità dei commentatori.
[37] Cic., off. 1,36: Ac belli quidem aequitas sanctissime fetiali
populi Romani iure prescripta est. Ex quo intellegi potest nullum bellum
esse iustum, nisi quod aut rebus repetitis geratur aut denuntiatum ante
sit et indictum (sottolineature mie). Cicerone ricorda le regole, proprie
dell’antico ius fetiale, in relazione
all’indizione della guerra da parte dei Romani contro altri popoli.
[38] La religiosità del popolo romano, anche grazie agli eventi
bellici, subì profonde trasformazioni nel corso del III e II secolo a.C.
[39] Tale conclusione non trova unanime la dottrina. La quasi
totalità della stessa infatti se da una parte ammette, per il periodo arcaico
della storia di Roma, l’accezione giuridico-formale di bellum iustum, dall’altra ne individua nella riflessione
ciceroniana del I sec. a.C. il punto di svolta, dovuto all’introduzione della iusta causa belli, che avrebbe dato
inizio alla concezione etico-sostanziale della “guerra giusta”, sviluppata poi
dalla cultura cristiana del medioevo e ancora presente nella moderna
polemologia (per alcuni significativi esempi, con sfumature interne, vedi S. Albert, ‘Bellum iustum’. Die Theorie des ‘gerechten Krieges’ und ihre
praktische Bedeutung für die auswärtigen Auseinandersetzungen Roms in
republikanischer Zeit, Kallmünz, 1980; A. Watson, International Law in Archaic Rome. War and
Religion, Baltimore-London, 1993; K.-H. Ziegler,
Völkerrechts-geschichte, München,
1994). A tale concezione si oppone ora L. Loreto, Il ‘bellum iustum’ e i suoi equivoci, cit., il quale ritiene,
imputando ai più un equivoco reiterato nella lettura di Cicerone, che la
nozione di bellum iustum sarebbe
stata, nel corso dell’intera esperienza romana, di carattere esclusivamente
giuridico formale. Pur condividendo la critica di Loreto alla tesi dominante,
non mi convince l’interpretazione della concezione ciceroniana sulla guerra,
perché troppo appiattita su quella dei secoli precedenti (VI-IV sec. a.C.)
quando le relazioni ‘internazionali’, la situazione di politica interna, il
sistema giuridico-religioso di Roma erano profondamente diversi da quelli
dell’ultimo secolo della repubblica. E’ mia convinzione che Cicerone sia stato,
anche perché ispirato dalla filosofia greca, uno studioso attento dei problemi
della pace e della guerra anche se, e in ciò ha ragione Loreto, la sua
riflessione sistematizzante si muove tutto all’interno dell’orizzonte giuridico
ben lontano da quello etico-religioso che in seguito sarà di S. Agostino.
[40] Tert., cor. 11 e sp.
pargr. 7: “…etiam militiae ipsius
inlicitae”. Vedi pure apol. 37,5
e idol. 19,3.
[42] Civ. 19,5. Nella città
celeste, invece la pace è “plaenissima
atque certissima” (Civ. 19,10 ma
già in 1 praef.)
[44] Civ. 19,7: Quamvis
enim non defuerint neque desint hostes exterae nationes, contra quas semper
bella gesta sunt et geruntur.
[47] Quaest. in Hept. 6,10:
Iusta autem bella definiri solent, quae
ulciscuntur iniuras, si qua gens vel civitas, quae bello petenda est, vel
vindicare neglexerit quod a suis improbe factum est, vel reddere quod per
iniuras ablatum. Sed etiam hoc genus belli sine dubitatione iustum est, quod
Deus imperat, apud quem non est iniquitas et novit quid cuique fieri debeat
(sottolineature mie).
[49] Civ. 1,1. La funzione
positiva della guerra giusta, mandata da Dio, è ribadita da Agostino in Civ. 7,30: “qui (= il Dio cristiano contrapposto agli dèi pagani) bellorum quoque ipsorum, cum sic emendandum
et castigandum est genus humanum, exordiis progressibus finibusque moderatur”.
Ancora in un altro passo del De Civitate
Dei si legge che la divisione terrena tra vincitori e vinti discende dalla
volontà divina: “… Dei providentia, in
cui potestate est, ut quisque bello aut subiugetur aut subiuget, quidam essent
regnis praediti, quidam regnantibus subditi” (Civ. 18,2,1).
[50] C’è un testo (Enarr. in
ps. Xxxv,16) in cui si coglie
bene la tensione di Agostino a conformare la volontà umana alla volontà divina,
come giusta directio (da cui
‘diritto’ come ‘giustizia’) della vita quotidiana: “Illa (= volontà di Dio) recta
est, sed tu (= volontà di umana) curvus;
voluntas tua corrigenda est ad illam, non illa curvanda est ad te: et rectum
habebis cor”.
[52] Cfr. Cino da Pistoia,
In codicem et aliquot titulos primi
pandectarum tomi id est digesti veteris doctissima commentaria, in D.
1,1,5; e in particolare, nel secolo XIV, Baldo degli Ubaldi, con le sue cinque condizioni (sulla
dottrina medievale relativa alla guerra, vedi ora L. Busi, Il problema della
guerra nella prima civilistica, in A
Ennio Cortese, I, Roma, 2001, pp. 117-151).
[54] F. De Vitoria
nelle conclusioni della sua Relectio de
iure belli (Corpus Hispanorum de Pace,
vol. VI, Madrid, 1981) indica tre “regulae
belligerandi” generali, a metà strada tra lo ius ad bellum e lo ius in
bello. La prima è che il principe, munito dell’autorità di muovere la
guerra, deve ricorrere ad essa soltanto come extrema ratio, sforzandosi invece di vivere in pace (“Suppositio quod principes habent
auctoritatem gerendi bellum, primum omnium debent non quaerere occasiones et
causas belli sed, si fieri potest, cum omnibus cupiant pacem habere”); la
seconda è che la guerra giusta sia finalizzata non allo sterminio del nemico ma
alla pace e alla sicurezza dopo aver ripristinato il diritto leso e difeso la
patria (“Conflato iam ex iustis causis
bello, oportet illud gerere non ad perniciem gentis contra quam bellandum est,
sed ad consecutionem iuris sui et defensionem patriae, ut ex illo bello pax
aliquando et securitas consequatur”); la terza è che, conseguita la
vittoria, il principe si comporti come un giudice che, con equità e misura, dia
soddisfazione alla parte lesa e punisca il colpevole non oltre la misura (“Parta victoria et completo bello… oportet
victorem existimare se iudicem sedere inter duas respublicas: alteram, quae
laesa est, alteram quae iniuriam fecit, ut non tanquam accusator sententiam
ferat, sed tanquam iudex satisfaciat quidem laesae. Sed quantum fieri poterit
sine calamitate reipublicae nocentis”).
[55] Per Gentili il jus belli
deve valere inter gentes, cioè anche
per il nemico (Commentatio de jure belli,
lib. I, cap. 1). Il diritto sopravanza così la morale. Da qui la famosa frase
gentiliana: “Silete theologi in munere
alieno” (op. cit., lib. I, cap. 3).
[56] H. Grotius,
De jure belli ac pacis, lib. I, cap.
3, § 4: Ut bellum solenne sit ex jure gentium,
duo requiruntur; primum ut geratur utrique auctore eo, qui summam potestatem
habeat in civitate; deinde, ut ritus quidam adsint, de quibus agemus suo loco
(= lib. III, cap. 3, §§ 4-5). Per avere una “guerra
giusta” occorre che: sia proclamata da soggetti muniti di imperium, inteso quest'ultimo come ‘sovranità’ (cfr. lib. I, cap.
3, § 17. Per cui i combattenti devono essere hostes giuridicamente riconosciuti: lib. III, cap. 1, §§ 1-2); sia
indetta da un publice decretum e
dichiarata pubblicamente, mediante denuntiatio
(lib. III, cap. 3, § 5).
[57] Per una visione di sintesi della formazione dello “Stato
moderno” vedi P. Schiera, s.v. ‘Stato moderno’, in Dizionario di politica, Milano, 1990, pp. 1128-1134.
[60] Il significato che attribuisco alla distinzione è quella
prospettata da Bobbio (op. ult. cit.,
ma già Guerra e diritto (1966) ora in
N. Bobbio, Teoria generale della
politica, a cura di M. Bovero, Torino, 1999, pp. 520-521), secondo il quale
“il giudizio di legittimità della guerra riguarda il giusto titolo (la iusta causa) per cui è intrapresa; il
giudizio di legalità riguarda esclusivamente l’esercizio o la condotta della
guerra” (p. 64; vedi pure a p. 103).
[61] Cfr. N. Bobbio, Il problema della guerra, cit., p. 65.
Possono vedersi, a titolo esemplificativo, gli artt. 48, 51 e 57 del I
Protocollo aggiuntivo del 1977 alle Convenzioni di Ginevra del 1949.
[63] Art. 33 della Carta: “le parti di una controversia, la cui
continuazione sia suscettibile di mettere in pericolo il mantenimento della
pace e della sicurezza internazionale, devono, anzitutto, perseguire una
soluzione mediante negoziati, inchiesta, mediazione, conciliazione, arbitrato,
regolamento giudiziale, ricorso ad organizzazioni od accordi regionali, od
altri mezzi pacifici di loro scelta”.
[64] “Lo Statuto delle nazioni Unite […] si discosta dal Covenant [= Patto della Società delle Nazioni] in quanto interdice, mediante il divieto generale dell’uso o
della minaccia della forza (art. 2 n. 4), ogni forma di guerra” (A. Curti Gialdino,
s.v. Guerra (Dir. Intern.), in EdD, p. 871.
[65] Art. 11: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa
alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie
internazionali…”. Il nostro Stato-comunità, quindi, rinuncia ad usare il
‘fatto’ bellico contro altri popoli, anche se ciò non significa affermazione
del pacifismo assoluto, perché, sempre nella Costituzione, è prevista la guerra
di difesa (artt. 52 c. 1; 78 e 87 c. 9). Sulla dibattuta quaestio, anche in relazione all'intervento italiano in Kosovo,
vedi le suggestioni in M. Dogliani-S.
Sicardi (a cura di), Diritti umani e uso della forza, Torino,
1999.
[66] Sulla inevitabilità dei conflitti, cfr. l’interessante libro di
I. Eibl-Eibesfeldt, Etologia della guerra (1998), trad. it.,
Torino, 1999.
[67] Cic., Mil. 4,11. La
frase è pronunziata l’8 aprile del
[68] Vedi in particolare gli scritti del 1966, 1967, 1983 tutti
ripubblicati in N. Bobbio, Teoria generale della politica, cit.,
pp. 520-535; e, ancora, Id., Il problema della pace e della guerra,
cit., pp. 99-118.
[70] Per una breve ma puntuale panoramica su 'tipi', 'modi', e 'fini'
della guerra rimando alle pagine di L. Bonanate,
La guerra, Roma-Bari, 1998, pp. 5-10.
[73] R. Aron, La politica, la guerra, la storia,
Bologna, 1992, p. 85. Per F. Armao,
Capire la guerra, Milano, 1994, p.
17, "la terza condizione [della guerra, dopo l'agire intenzionale e
collettivo] sarà che l'agire sia violento”.
[74] E’ sempre Bobbio, Guerra e diritto, cit., p.
[75] Cfr. N. Bobbio, Contributi ad un dizionario giuridico,
Torino, 1994, pp. 59-87: “il carattere specifico dell’ordinamento normativo del
diritto rispetto alle altre forme di ordinamenti normativi consiste nel fatto
che il diritto ricorre in ultima istanza alla forza fisica per ottenere
il rispetto delle norme, per rendere, come si dice, effettivo o efficace
l’ordinamento nel suo complesso…” (p. 79, sottolineature mie). L'esercizio del
'potere' per la realizzazione di interessi individuali leciti nell'ambito del diritto
privato è colta lucidamente da E. Betti,
Istituzioni di diritto romano, I,
Padova, 19472, p.
[76] L’interessante spunto è in M. Pedrazza
Gorlero, Il diritto la guerra e la costituzione, in Bollettino della Società Letteraria di Verona, Verona, 2000, pp. 33
ss.
[77] Tradizionalmente la "pace viene definita negativamente come
assenza di guerra, più brevemente come non-guerra (vedi quanto già detto alla
nt. 33). Il termine pax deriverebbe
da "due radici distinte che nel corso della loro storia, all'interno delle
singole tradizioni linguistiche non si esclude che abbiano potuto avere
contatti reciproci". La radice *PAG-/P$G-, che ha il significato di "piantare",
"conficcare", da cui "costituire"; la radice *PAK-/P$K-, il cui primo significato è
"unire", "legare", "congiungere" (cfr. M.L. Porzio Gernia, Considerazioni linguistiche sulla famiglia del latino 'pax',
'paciscor', ecc., in I. Lana (a cura di), Le concezioni della pace a Roma, Torino, 1987, p. 208). Già
Ulpiano, giurista romano del III sec. d.C., coglieva nel termine pax un collegamento con pactio e quindi con pactum, che indica l'atto di concludere un accordo. D. 2,14,1,1-2
(Ulpianus, libro quarto ad edictum): Pactum autem a pactione dicitur (inde etiam
pacis nomen appellatum est) et est pactio duorm pluriumve in idem placitum
et consensus. (trad.: "Il termine patto deriva da 'pactio' (da cui anche il significato di pace); la 'pactio' consiste nel consenso di due o
più individui sullo stesso scopo". Sottolineature mie). Si tratterebbe di
una "definizione (etimologicamente) persuasiva", come scrive A. Carcaterra, Le definizioni dei giuristi romani. Metodi, mezzi, fini, Napoli,
1966, p. 410. Vedi, di recente, F. Sini,
‘Bellum nefandum’, Sassari, 1991, pp.
244 ss. Da qui il verbo primitivo pacere,
presente nelle XII Tavole col senso di 'concludere un accordo' (cfr. G. Semerano, s.v. 'pax', in Diz. etim. ling.
lat.) Il termine latino pax
significa "il presupposto e la premessa di un contenuto", al contrario
del greco eiréne che invece indica
"il contenuto e i frutti del tempo di pace" (I. Lana, L'idea di pace nell'antichità, cit., p. 56. Altra bibliografia in
F. Sini, ‘Bellum nefandum’, cit., pp. 246-247). In conclusione, lo stato di
pace sarebbe una conquista dell’umanità e non uno stadio, cui perviene
meccanicamente l’evoluzione dell’umanità (si pensi alla “pace perpetua”
propugnata da Kant).
[78] Cfr. N. Bobbio,
s.v. pace, in Dizionario di Politica, cit., p. 739, dove la “pace negativa”, consistente
nella semplice assenza di guerre, è distinta dalla “pace positiva”.
[79] Il concetto è descritto da N. BOBBIO, Il problema della guerra e le vie della pace, cit., pp. 65-66,
all'interno della più vasta riflessione sulla guerra termonucleare: "dopo
essere stata considerata, ora come un mezzo per attuare il diritto (teoria
della guerra giusta), ora come oggetto di regolamentazione giuridica
(nell'evoluzione del ius belli), la
guerra ritorna ad essere, come nella raffigurazione hobbesiana dello stato di
natura, l'antitesi del diritto", cui si contrappone il "pacifismo
attivo" articolato in tre forme: "il primo strumentale, ovvero la
pace attraverso il disarmo e la nonviolenza, il secondo istituzionale, ovvero
la pace attraverso il diritto, il terzo etico e finalistico, ovvero la pace
attraverso l'educazione morale" (per le varie forme di
"pacifismo" storicamente determinato, vedi la breve ma chiara
esposizione di N. BOBBIO, s.v. Pacifismo,
in Dizionario della Politica, cit.,
pp. 745-747). Per un’esplicitazione del collegamento stretto tra la proposta
del “pacifismo istituzionale” di Bobbio e la linea di un ordinamento giuridico
come mezzo per garantire una pace stabile e universale di Kelsen, cfr. D. Zolo, I signori della pace, Roma,
[80] A. Cassese, Le cinque regole per una guerra giusta,
in L’ultima crociata?, cit., p. 28:
"1) lo Stato contro cui si usa la forza ha violato in modo gravissimo,
massiccio e ripetuto i diritti umani fondamentali; 2) il Consiglio di sicurezza
ha ripetutamente invitato quello Stato a porre termine ai massacri; 3) è stata
tentata ogni possibile soluzione diplomatica e pacifica; 4) l’uso della forza è
sostenuto da un gruppo di Stati e non da una singola potenza e la maggioranza
degli Stati dell’ONU non è contraria a tale uso; 5) il ricorso alla guerra non
ha alternative rispetto alla prosecuzione dei massacri da parte dello Stato
responsabile”.
[81] N. Bobbio, Gli intellettuali tra deprecazione e
realismo, in L’ultima crociata?, cit.,
p. 119. L’idea era già presente nella riflessione del filosofoso torinese, come
si evince dall’espressione “tappa della tappa” in Una guerra giusta, cit., p. 23.
[82] Cfr. J. Habermas, Umanità e bestialità: una guerra ai confini
tra diritto e morale, cit. p. 86. Il filosofo tedesco ha insistito molto
sull’instaurarsi di un nuovo paradigma nelle relazioni internazionali, vedi in
modo particolare J. Habermas, L’inclusione dell’altro, Milano, 1998 e La costellazione postnazionale, Milano,
1999.
[83] Per un’analisi degli effetti che il processo di globalizzazione
in atto produce in ambito istituzionale e giuridico, vedi ora M.R. Ferrarese, Le istituzioni della globalizzazione (Diritto e diritti nella società
transnazionale), Bologna, 2000.
[84] Sul terreno istituzionale, una conquista importante sarebbe la
democratizzazione della società planetaria, su cui vedi L. Bonanate, Democrazia tra le nazioni, cit.
[85] Ha posto l’accento su tale aspetto specifico, il rapporto stretto
tra la diplomazia e la guerra, Raymond Aron (La politica, la guerra, la storia, cit., p. 431), per il quale “gli
uomini di stato hanno sempre considerato la guerra come risorsa estrema della
diplomazia” (p. 412).
[86] Una crescita di normazioni e giurisdizioni internazionali
dovrebbe far fronte alla perdita del primato legislativo dei singoli Stati
(vedi M.R. Ferrarese, Le istituzioni della globalizzazione,
cit., spec. pp. 101-158; altri spunti nei saggi di A. Cassese, L. Bonanate e F.
Cerutti in F. Cerutti (a cura
di), Gli occhi sul mondo (Le relazioni
internazionali in prospettiva interdisciplinare), Roma, 2000).