N° 1 - Maggio 2002 - Tradizione
CLAUDIA SANTI
Università di Roma “
I collegi sacerdotali di Roma arcaica negli studi
storico-religiosi italiani (*)
(*) Ius Antiquum-Drevnee Pravo
5, (Mosca) 1999, pp. 115-123.
Premessa. – 1. Il
flamen dialis e la teoria religiosa di Iuppiter. – 2. L'azione dei pontifices. – 3. Sacra e iura. – 4. Divinazione e demitizzazione. – Nota bibliografica.
Nonostante l'organizzazione
sacerdotale costituisca, insieme con il calendario festivo, il principale
nucleo documentario per ricostruire la
fase arcaica della religione romana, manca a tutt'oggi un'opera che tracci dell'argomento un quadro unitario
da una prospettiva storico-religiosa. Nel corso degli ultimi venticinque anni
di ricerca, tuttavia, la disciplina storico-religiosa sembra aver raggiunto il
duplice l'obiettivo da una parte di eliminare (si spera definitivamente) i
pre-giudizi primitivisti che pesavano sull'ermeneutica della religione romana,
dall'altra di elaborare adeguati strumenti metodologici in grado di comporre in
sinergia i differenti approcci
specialistici. E' quindi oggi possibile delineare una prima sintesi
aggiornata degli orientamenti relativi al problema, partendo dalle ricerhe che gli studiosi della cd. Scuola
Storico-religiosa di Roma, fondata da R. Pettazzoni, hanno dedicato ad aspetti
specifici, ma costitutivi, dell'azione dei principali collegi sacerdotali di Roma arcaica. E' quanto
tenteremo di fare, soffermandoci, in particolare, sulla figura del flamen dialis, e sull'azione dei collegi dei pontifices, degli augures
e dei sacerdoti sacris faciundis.
Fino alla metà
del nostro secolo, la religione romana arcaica veniva comunemente interpretata
in chiave evoluzionista-primitivista: i Romani, incapaci di produrre risultati
analoghi al livello di maturità raggiunto dai Greci quanto a elaborazione mitologica o creazione artistica, si sarebbero fermati ad
uno stadio meno evoluto, più primitivo, senza riuscire mai ad elaborare un
maturo sistema politeista. In tale prospettiva, essi non avrebbero neanche
posseduto delle autentiche figure divine, ma solo delle forme impersonali (numina) su cui si sarebbe riversato il
materiale mitologico greco importato in Roma per acculturazione.
In Italia, fu soprattutto Brelich a
contrastare le tesi primitiviste, il quale
riprese e rielaborò la teoria della demitizzazione elaborata da C. Koch
in relazione alla specificità della religione romana che si presenta senza miti
teo-cosmogonici; Brelich mostrò come anche al rito fosse pertinente quel valore
fondante che è proprio del mito, donde una religione demitizzata, come è quella
romana, poteva altrettanto legittimamente essere fondata dal ritualismo. Alla
luce della metodologia storico-religiosa, egli ammetteva la possibilità di
recuperare perfino le fasi più arcaiche
attraverso le quali il pantheon
romano aveva raggiunto un carattere
compiutamente politeistico. Tali fasi, contro le posizioni ipercritiche cui era
pervenuta la filologia, gli apparivano
ricostruibili, sottoponendo le testimonianze ad un esame critico sulla base dei
criteri del comparativismo e della fenomenologia storico-religiosa (Brelich 1961; Brelich 19762).
[116]
In uno studio rimasto incompiuto che doveva riguardare Iuppiter e la formazione del politeismo romano, Brelich si misura
proprio con il tentativo di recuperare il processo di formazione che ha portato
all'elaborazione della figura divina di Iuppiter O.M., rappresentazione
religiosa dell'idea di res publica.
In uno dei due lavori preparatorii, lo studioso, in forma di appunti, passa in
esame le pratiche del flamen dialis,
il sacerdote di Iuppiter, movendo dall'ipotesi che, all'interno dell'istituto
del flaminato, siano riconoscibili i segnali di una stratificazione, di un
processo che abbia portato il sacerdozio
ad assumere l'assetto e l'aspetto che ci è testimoniato dalle fonti (Brelich 1972). Il tema non era
propriamente inedito: in particolare, G. Dumézil, in un articolo apparso nel
1938, aveva affrontato un problema analogo, ossia la pre-istoria dei flamini
maggiori (dialis, martialis e quirinalis). Lo studioso francese, in base alla comparazione con
l'area indo-iranica e italica, aveva formulato l'ipotesi che le tre figure
sacerdotali, sottoposte nell'ordine gerarchico solo al rex sacrorum, alludessero ad una dimensione più antica di quella
testimoniata dalla triade cd. capitolina. Tale raggruppamento (la cd. triade
arcaica) replicherebbe, a livello teologico, la divisione della società,
ricostruibile presso altre popolazioni di origine i.e., in tre classi, o caste
o "funzioni", quella della sovranità, della forza guerriera, della
fecondità e fertilità. In tale contesto, la coppia flamen dialis-rex sacrorum, sarebbe espressione della Prima
funzione, quella della sovranità, articolata nei suoi due aspetti, magico e
giuridico.
Rispetto
all'intepretazione data da Dumézil, Brelich non si pronuncia; egli piuttosto,
in relazione alle limitazioni (caerimoniae)
cui era sottoposta la persona del flamen dialis
ed alle incombenze rituali che gli erano attribuite, da una parte
afferma la sostanziale irriducibilità del flamen dialis a sacerdote templare di Iuppiter
O.M., dall'altra sottolinea l'esigenza di identificare quale "forma"
di Iuppiter abbia di volta in volta
agito da referente nei confronti del suo flamen.
A giudizio di Brelich, solo il sacrificio annuale a Fides e quello mensile a
Iuppiter, in occasione delle Idus, non sarebbero inquadrabili se non
nell'ambito di una struttura pre-capitolina, ma già politeista, in cui il dio
si avvia ormai ad assumere una posizione sovraordinata, mentre tutte le altre
prescrizioni sarebbero, a giudizio dello studioso, perfettamente coerenti, se
riferite ad una figura di Iuppiter dio-cielo.
Come si può
osservare, Brelich pone all'attenzione degli studiosi un problema di rilievo,
laddove richiama la necessità di restituire profondità e spessore alla figura
divina di Iuppiter; tuttavia appare condizionata pesantemente da una visione
evoluzionista soprattutto la soluzione proposta, che vede in un dio-cielo,
ovvero in un Essere Supremo pre-politeistico la più antica configurazione di
Iuppiter, che per riplasmazione sarebbe giunto alla forma di Iuppiter O.M..
Sulla stessa
linea metodologica, ma con esiti assai divergenti, si pone la riflessione
portata sul flamen dialis da due
studiosi che del Brelich furono allievi, Sabbatucci e Montanari.
Le
interdizioni e prescrizioni che gravavano sul flamen dialis sono assunte da Sabbatucci come mezzi di
rappresentazione per risalire alla teoria romana di Iuppiter in riferimento
"agli altri sacerdozi pubblici di Roma ed al pantheon romano nel suo complesso", all'interno di un saggio, Lo stato come conquista culturale, che segue a distanza di pochi anni la bozza di
studio di A. Brelich (Sabbatucci 1975). Sabbatucci, attraverso un
confronto tra flamen dialis sacerdote
di Iuppiter e rex sacrorum -definito
da Wissowa quasi un sacerdote di Ianus- riordina, in termini di dialettiche
religiose, una serie di elementi,
all'apparenza irrelati tra loro.
Così la
condizione del flamen esprimerebbe l'essere, ossia il carattere di stabilità,
festività, libertà proprio di Iuppiter, anche attraverso la incompatibilità con
quanto attiene alla sfera della guerra (cavallo, esercito in armi, ferro). Per
contro, Ianus rappresenterebbe il
"divenire" e dunque anche la guerra, come sua forma perspicua, così
come la pace (sotto il segno di Iuppiter) poteva venire intesa come la forma
perspicua dell'essere.
Ai fini di
questa ricostruzione, piuttosto che Iuppiter O.M. appare significativa la
figura di Iuppiter Stator, in cui, secondo Sabbatucci si renderebbe manifesto
come il dio supremo, anche quando intervenga nella guerra, ossia in una sfera
che esula dalla dimensione di "stabilità" che egli esprime, agisca
imponendo una stasi, un congelamento della situazione. Ma attraverso questa
analisi, Sabbatucci può anche sottoporre ad esame critico alcune delle
conclusioni, [117] raggiunte da Dumézil. Nello specifico, restando
sull'episodio che ha portato all'introduzione del culto di Iuppiter Stator,
Sabbatucci non ritiene che l'intervento del dio in quell'episodio bellico
rimandi ad una sovranità magica per Dumézil rappresentata da Iuppiter, in
quanto la contrapposizione tra l'azione del dio supremo e l'azione propriamente
militare emergerebbe, senza ricorrere alla magia, facendo riferimento al
distanziamento rituale dalle cose di guerra prescritto al flamen dialis. Se fosse la magia a differenziare Iuppiter ed il suo
flamen, si chiede Sabbatucci, che
senso avrebbe "proibire a un <<mago>> di vedere un esercito in
armi, di montare a cavallo, o di avere a che fare con il ferro?".
Sabbatucci
supera i residui primitivisti di Brelich, come depura la teoria trifunzionale
di Dumézil da sfumature magiste, anche in relazione alla figura divina di
Quirinus, della quale contesta sia l'intepretazione di Brelich (Brelich 1960) come dema, sia quella a suo modo agraria di Dumézil: si tratterebbe
piuttosto, secondo Sabbatucci, di una sovranità, per così dire, quiritaria,
ossia esercitata sui cives uniti in co-viriae(>curiae), cui sarebbe
correlata la regalità super-etnica di Iuppiter e quella civica di Mars (Sabbatucci 1984).
Alla
definizione del rapporto Iuppiter-sovranità concorre anche l'analisi di E.
Montanari, che si concentra sul problema posto dalla partecipazione del flamen dialis alla festa dei Vinalia (Montanari
1988). Montanari mostra di non condividere le tesi di Brelich, non solo laddove questi interpreta
Iuppiter come forma evoluta di un dio-cielo, ma anche laddove afferma l'assenza
di ogni implicazione politica nell'agire del sacerdote dialis. Per Montanari, al contrario, la sfera della sovranità del
dio non si risolverebbe entro una dimensione puramente celeste, come pure
l'attrazione del vino nell'orbita di
Iuppiter non relegherebbe questa bevanda entro una dimensione esclusivamente
agraria.
Un carattere
"politico" dell'auspicatio vindemiae, prerogativa del flamen dialis, appare infatti
ricostruibile, per Montanari, non solo sulla base del mito etiologico della
festa dei Vinalia priora, ma anche
dell'esame dell'intero complesso ideologico-religioso che al vino fa capo. In
tale prospettiva, tale elemento, lungi dal risolversi in un uso squisitamente
alimentare, neanche assume una funzione inebriante; piuttosto esso sarebbe uno
dei "segni" connesso alla victoria
come modalità della sovranità del dio, il cui culto riveste particolare
importanza nel feriale di Aprile,
mese nel quale Iuppiter, oltre ad intervenire attraverso il suo flamen nei Vinalia del 13, era celebrato
nelle epiclesi di Victor e di Libertas.
Il profondo
rinnovamento degli studi storico-religiosi giunge a conseguire, a nostro
avviso, i risultati più cospicui, laddove si applica all'analisi del campo di
azione dell'altro grande corpo sacerdotale di Roma arcaica, quello dei pontifices.
In questo
settore si segnalano ancora soprattutto le ricerche di Sabbatucci, e di
Montanari che, nell'ambito della teoria della demitizzazione, si sviluppano sui
due assi principali della demitizzazione come storificazione e della
demitizzazione come ritualismo (anche giuridico).
Già Brelich,
nel 1938 nell'articolo Il mito nella storia
di Cecilio Metello, aveva
focalizzato la presenza di temi mitici all'interno di un tessuto storico-narrativo, ipotizzando un passaggio del mito alla storia piuttosto che dal mito alla storia (Brelich 1938). Parallelamente, G.
Dumézil, nel corso degli anni Quaranta aveva isolato, nella protostoria di
Roma, la presenza di temi mitici, divini o eroici, dei quali in Roma erano
stati investiti i personaggi del periodo monarchico o dei primi secoli della res publica. Sabbatucci amplia questa
prospettiva in varie direzioni (Sabbatucci
1975). Innanzitutto egli propone un
sistema di lettura dei cinquanta anni di storia di Livio dal 445 al
In un lavoro
successivo, Sabbatucci prende in esame la prerogativa, attribuita ai pontifices di organizzare il tempo non
solo in senso diacronico, costruendo e ricostruendo il serbatoio della memoria
pubblica, ma anche in senso sincronico attraverso l'organizzazione del
calendario (Sabbatucci 1978). Vi
viene presa in considerazione la definizione del tempo e dello spazio in
relazione all'istituto della regalità, allargando, o meglio, portando una
comparazione allargata alla Mezzaluna Fertile. I complessi meccanismi che
presiedevano alla elaborazione del sistema di computo del tempo in Roma sono
ricostruiti con una acutezza, che in
questa sede è impossibile rendere. Ma ciò che soprattutto caratterizza
l'approccio di Sabbatucci al problema è il carattere empirico della ricerca:
come afferma lo stesso autore, le riflessioni riportate nel testo a proposito
della sistemazione del calendario romano arcaico, sono frutto anche di
un'osservazione autoptica delle fasi lunari condotta nel corso di un anno
intero.
Se l'indagine
di Sabbatucci prende in considerazione innanzi tutto i meccanismi che hanno
agito per grandi direttrici, è con il contributo di Montanari che l'analisi
della demitizzazione come storificazione, nell'ambito dell'attività annalistica
dei pontifices, si rivolge allo
studio di meccanismi ed ingranaggi più minuti, e perciò anche più delicati (Montanari 1990). In particolare, si
deve a questo studioso la definizione di alcuni aspetti nodali connessi al
rapporto tra annalistica pontificale e annalistica letteraria. Le due
produzioni si rivelano sostanzialmente omogenee, da un punto di vista non solo
materiale, ma anche per quanto attiene agli estensori. Nell'attività di
redazione di annales cooperano,
infatti, magistrati e sacerdoti
appartenenti ad un unico ambiente, a
quella nobilitas
senatorio-magistratuale che nel corso del III e del II secolo a.C. espresse le
più illustri figure di senatori-storici e di pontifices di cui è giunta memoria. Il processo di storificazione
dei miti in Montanari perde quel carattere di azione, in un certo senso,
meccanica che poteva avere ancora in Sabbatucci. Così anche l'intervento pontificale, inserito in
una più ampia dinamica culturale che viene a coinvolgere l'intera élite, recupera una sua profondità
di prospettiva, non configurandosi più come l'agire di una sorta di
corpo separato. L'analisi di Montanari si appunta anche su un'altra crux, ossia sul problema
dell'attribuzione di nomi di gentes storiche a personaggi delle
origini e dei primi secoli della res publica. Come è noto, Dumézil aveva
liquidato l'intera questione, ritenendo che un'indagine condotta in tal senso
non avrebbe fatto altro che aggiungere incertezze ulteriori alle difficoltà già
considerevoli poste dagli intrecci narrativi. Così facendo, tuttavia, restava
preclusa la possibilità di investigare su uno dei punti di raccordo tra protostoria
e storia repubblicana, e quindi di intersezione tra livello "storico"
e livello "leggendario". Montanari muove dall'ipotesi che non possa
essere privo di significato il fatto che un'azione sia attribuita all'esponente
di una gens, piuttosto che di
un'altra. Analogamente egli ritiene che non esistano confini definiti tra mito
e storia, ma che al contrario la capacità fabulatoria di rielaborare secondo
funzioni e temi mitici si estenda ben al
di là del limite acettato convenzionalemente. Una stessa "qualità
mitica" consente di delimitare
all'interno dell'annalistica un ambito entro cui collocare le azioni
"storiche" dei Caecilii, che trova i suoi antecedenti non solo nella
gesta [119] mitistoriche attibuite a Cocles ma anche, ancora più
indietro, nelle imprese dei personaggi mitici della serie
Cacus-Kyclops-Caeculus. Se da una parte, temi e funzioni mitiche orientano la
rappresentazione di atti storici, dall'altra la rappresentazione e
l'autorappresentazione di personaggi storici si orienta verso l'esemplarità
ereditata. E' il caso dei Mucii
Scaevolae: la fides che i Mucii
Scaevolae storici ereditano come tradizione dal loro antenato
"eroico" fa sì che essi "si
riconoscano nel primo portatore del
nome familiare, ma anche che vengano pubblicamente
riconosciuti in base a quel comportamento.".
Sulla stessa
linea metodologica, segnaliamo un nostro lavoro che, partendo dall'indagine
sulla complessa tradizione che ruota intorno alla figura di Numa, ha consentito
di isolare all'interno della vulgata
dei nuclei che per le loro caratteristiche possono ritenersi arcaici: il tema di Numa pitagorico, le historiolae
di sapore popolaresco-folklorico che lo vedono come protagonista insieme alla
ninfa Egeria, la tradizione delle cd. famiglie numaiche mostrano i segni di una
stratificazione che, per i frammenti più arcaici, sembra con ogni
probabilità risalire almeno al IV secolo
a.C. (Santi 1993).
Ancora il
processo di storificazione dei miti è oggetto di indagine nel lavoro di V.E.
Vernole, dedicato alla figura ed all'epopea
di Furius Camillus (Vernole
1997). L'analisi si appunta sugli avvenimenti relativi alla presa di Veio,
riconsiderando i principali problemi e giungendo alle conclusioni più originali
soprattutto nell'analisi del cognomen
Camillus: dal confronto con le altre figure che recano questo nome (la vergine Camilla; i Cadmilli,
ministri del culto dei "Grandi Dei"; il camillus, giovane patrizio adiutore del flamen Dialis) scaturisce l'ipotesi che la subordinazione del camillus romano alla sfera di Giove
risponda ad una coerente struttura
ideologica, che se da un lato ammette la nozione religiosa di un dio servitore
o intermediario e del suo corrispettivo umano, dall'altro separa tale nozione
da ogni commistione con elementi dionisiaci e misterici.
Abbiamo
parlato a proposito del processo di storificazione dei miti di un orientamento
attualistico che Sabbatucci ritenne di poter rilevare nella produzione
annalistica elaborata dai pontifices;
dobbiamo aggiungere ora che analogo orientamento Sabbatucci pensò di
riconoscere, anche nell'altra attività demandata al collegio sacedotale,
l'azione giuridica (e/o giurisprudenziale) (Sabbatucci
1975). Anche in questo campo, Sabbatucci liquida definitivamente le teorie
primitiviste e nello specifico magiste diffuse
non solo nel campo degli studi storico-religiosi, ma anche in campo
giuridico, contestandone l'utilità piuttosto che la fondatezza. I rilievi
critici dello studioso si indirizzano soprattutto alle interpretazioni in
chiave magico-dinamica delle procedure del postem
tenere; dell'investitura dei pater
patratus (capo dei fetiales);
della legis actio sacramento in rem; della manumissio per vindictam.
Ammessa, senza
discussione, l'attendibilità delle formule e l'arcaicità delle procedure,
Sabbatucci contesta in particolar modo l'interpretazione come trasferimento di
potenza dell'atto del toccare,
presente in tutte le fattispecie esaminate: si tratterebbe piuttosto, per
Sabbatucci, di un contatto che non
contagia ma che serve per affermare una proprietà proprio nel momento che
prelude all'alienazione dell'oggetto (o del sacerdos)
e dunque di una sorta di estensione analogica del principio che sta alla base
dell'istituto del mancipium.
Al di là delle
conclusioni, lo studio di Sabbatucci (che risale al 1975) è un esempio di
ricerca in cui lo storico delle religioni si avventura anche sul terreno
giuridico e la metodologia storico-religiosa si rivolge all'esame di materiale
di natura non strettamente cultuale; ci sembra da segnalare soprattutto
l'applicazione anche a questo campo del procedimento della comparazione
interna volta al rilevamento di costanti
e di varianti, per ricostruire una struttura o un sistema di relazioni. La
teoria religiosa, infatti, si rivela agli occhi di Sabbatucci, come coincidente
con la teoria giuridica: più volte lo studioso sottolinea la sostanziale
unicità dei due campi, che a suo giudizio si sostanzierebbe soprattutto nel
sistema di opposizioni publicus/privatus = sacer/profanus.
Sabbatucci propone di interpretare questa formula, che secondo la definizione
oraziana sintetizzerebbe la sapientia
più antica, come il prodotto di una [120] rivoluzione che avrebbe
portato il termine profanus, (che
egli intende senz'altro come a favore del fanum
= unità territoriale templare) a correlarsi dialetticamente non più a pro priuo ma a sacer. In questo equilibrio, che coinciderebbe per Sabbatucci con
l'avvento della res publica, sacer e publicus verrebbero ad essere termini solidali, in polemica
con l'assetto di una società pre-civica
ordinata per fana, ricostruibile in
via puramente ipotetica come fase logica (se non cronologica) che precede la
costituzione della civitas. Molto
nell'analisi di Sabbatucci resta inevitabilmente allo stadio di congettura; ciò
non di meno, ci appare che nella ricostruzione da lui operata sia innegabile il
dato per cui Roma si costituì come Urbs anche sul rifiuto della città templare.
In un
recentissimo contributo, Montanari ha ritenuto di poter suggerire un ruolo
determinante dei pontifices, anche in
relazione all'elaborazione del concetto di persona
(Montanari 1997; Montanari 1998). Montanari prende le
mosse dai problemi insiti nell'opinione prevalente secondo cui il termine persona avrebbe avuto in origine il significato di 'maschera
teatrale' e quindi di 'personaggio' e 'parte'; di qui sarebbe trapassato in
ambito giuridico. Questa posizione obbliga a collocare l'insorgenza dell'uso di
persona in ambito giuridico in epoca non anteriore alla fine del IV secolo
a.C., essendo a tale data ascrivibile
l'introduzione in Roma della più antica maschera teatrale, l'atellanica.
Ora l'esame interno di alcuni aspetti della legis
actio sacramento in personam rivelerebbero al contrario caratteri di
marcata arcaicità in contrasto con questa datazione relativamente bassa. Da una
simile aporia non si esce se non ipotizzando una linea di derivazione
alternativa a quella così prospettata. L'alternativa può rinvenirsi, a parere
di Montanari, nel phersu, enigmatica
figura rappresentata in pitture parietali e vascolari etrusche e documentata a
partire dall'ultimo quarto del VI secolo a.C.. L'esame del dossier del phersu
rivelerebbe, a parere di Montanari, il carattere di operatore del sacro della
figura in questione, dotata di una certa versatilità (tanto da comparire in
contesti 'festivi' agonistico-liturgici,
nonché funerari), ma identificabile
sulla base della presenza della maschera, unico elemento fisso (dal momento che
neanche l'abbigliamento lo è). Appare quindi per lo meno plausibile che i
Romani, proprio nell'età che coincide con il periodo di massima influenza
etrusca abbiano assimilato e rielaborato un termine specifico phersu-na 'attrezzo del phersu', essendo in questo caso
l'ampliamento -na da intendersi come
suffisso di appartenenza. Procedendo su
questa linea di ricerca, si può tentare anche di ricostruire i tempi e i modi
di questa acquisizione. "Se si ammette, ad esempio, che un uso tra i più
antichi sia legato al diritto processuale civile, è ben difficile che la
procedura della legis actio sacramento in
personam si possa considerare introdotta solo dopo il teatro, ossia almeno
nel tardo IV secolo a.C.." La risalenza della procedura appare
sufficientemente accreditata anche dal suo carattere di actio generalis al pari della legis
actio sacramento in rem, della quale dovrebbe essere coeva. La data più
ammissibile, per l'una e per l'altra, non dovrebbe, secondo Montanari, scendere
al di sotto della seconda metà del V secolo a.C.. Persona entrerebbe in contesti giuridici a designare ' il ruolo
religioso-giuridico degli uomini' ed in particolare, in origine, del pater familias, il quale esercitava una potestas non illimitata, ma soggetta a
regole. Indissolubilmente legata ad homo,
persona non coinciderebbe con questo
livello biologico dell'individuo (pur non potendosi attribuire ad altri che a
figure umane), ma sarebbe piuttosto espressione di una natura seconda
determinata da relazioni. A promuovere questa definizione e questa astrazione, in un contesto
culturale-linguistico, come quello Romano, così alieno dall'uso di metafore,
sarebbero stati, in ipotesi, per Montanari, i pontifices, che potrtebbero aver operato in questo caso una
ri-nazionalizzazione di un elemento culturale penetrato in Roma con la dinastia
etrusca. Tale ipotesi consentirebbe di inserire in un quadro cronologico più
persuasivo l'arcaica procedura della legis
actio sacramento in personam, stabilendo una coincidenza temporale tra
attestazioni iconografiche del phersu ed insorgenza del concetto
giuridico di persona.
Abbiamo già
parlato del sedimentarsi della memoria delle
res gestae populi Romani. Il quadro, tuttavia, non sarebbe completo, se non
accennassimo, in chiusura, ai due collegi degli [121] augures e dei sacerdoti sacris faciundis, che presiedevano, per quanto era nei loro poteri, alla
fase per così dire progettuale.
In un articolo
ampio e assai accurato, G. Piccaluga, alla fine degli anni Sessanta, ha
esaminato l'intero dossier di Attus
Navius, protagonista di un famoso episodio ambientato sotto il regno di
Tarquinius (Piccaluga 1969).
Alcuni dei passaggi più problematici, che sembrano contrastare con la realtà
storica della pratica dell'augurato, troverebbero, a giudizio della studiosa,
soluzione nella prospettiva di un istituto che ancora non ha assunto i suoi
caratteri definitivi e che pertanto
potrebbe raffigurare in Attus Navius e nella sua azione carismatica quasi il
corrispettivo romano di un
"mito" di fondazione.
Al rilevamento
di una dialettica augures -sacerdoti sacris
faciundis si rivolge l'analisi di
Sabbatucci, i cui risultati appaiono sintetizzabili nelle formule il
“mondo-da-scrivere” ed il “mondo-da-leggere” (Sabbatucci
1989). A suo giudizio il compito
affidato agli augures di indagare la
disposizione degli dei in ordine ad un’azione da intraprendere, interpretando
il manifestarsi di segni all’interno di uno spazio celeste pre-scritto (“mondo-da-scrivere”) poteva porsi in
relazione alternativa con l’incombenza demandata al collegio sacris faciundis di
derivare dalla lettura di un repertorio oracolare, i cd. libri Sibyllini, i mezzi cultuali con cui
ripristinare la pax deorum, la
cui frattura si era palesata con il verificarsi di prodigia (“mondo-da-leggere”). Le due pratiche appaiono a
Sabbatucci afferenti ad ambiti dialetticamente correlati, per cui l’uno presuppone l’altro e ognuno
entra in funzione quando l’altro è in crisi: in una situazione di normalità si ricorre all’auguratio, allorché l’ordine naturale si
incrina, viene decretata la lettura dei libri Sibyllini.
La parte più
originale e persuasiva dell'analisi di Sabbatucci è rappresentata dalle pagine
in cui viene tratteggiata una sorta di
genealogia istituzionale, combinando in un'unica lettura le vicende che portano
al passaggio dei tribuni plebis da
Se l'augurato
si lega tra l'altro al carisma individuale di Attus Navius ed al rifiuto della
figura del rex-augur, come
espressione di una fase irrecuperabile, il collegio dei sacerdoti sacris faciundis, al contrario, non
presenta alcuna proiezione mitica fondante in età regia. Anzi, nella
ricostruzione dell'età regia il
significato infausto associato alla nozione di
prodigium è risultato negli
studi condotti da chi scrive non ancora esclusivo (e neanche prevalente): il
termine, che appare molto prossimo alla sfera semantica di ostentum e di portentum,
poteva caricarsi infatti di valori sia favorevoli che sfavorevoli (Santi 1996). Se tale è quindi in origine il senso del termine, più della
cerimonia di espiazione, che spesso manca nei prodigi di età arcaica, risulta
importante l’esatta decodifica del messaggio che si esprime attraverso il prodigium. E’ questa intonazione
profetica un segnale di distanza tra il sistema di valori
dell’età monarchica e quello dell’età repubblicana. Nel passaggio dal regnum alla res publica sembra si sia modificato il modo di percezione del prodigium e la sua funzione: al tempo
stesso causa e conseguenza di questa alterazione di equilibrio sarebbe stata
l’istituzione del collegio dei sacerdoti sacris
faciundis, interpreti dei responsa custoditi nei libri
Sibyllini, ma privi di qualsiasi “carisma” divinatorio. In epoca
repubblicana ogni annuncio di prodigi era interpretato infatti come una rottura della pax deorum, il cui ripristino
necessitava non di sottigliezze
ermeneutiche, bensì di procedure cultuali efficaci. L'intervento dei
sacerdoti-magistrati preposti poteva prescindere così da un’esegesi del
prodigio e restringere il proprio campo di azione alla ricerca delle modalità
di soluzione della fase problematica; il procedimento divinatorio, che si
trovava in tal modo ad essere sollevato
da ogni prospettiva volta alla ricognizione sia del futuro sia del passato, si risolveva
integralmente nell’attualità dell’indicazione del piaculum da effettuare (Santi
1994).
[122]
Lo spostamento ordinato da Augusto
dei libri Sibyllini dal Campidoglio
al Palatino, con il conseguente
passaggio della tutela da
Iuppiter O.M. ad Apollo, sta ad indicare un nuovo orientamento religioso:
questo trasferimento, oltre a suggerire una complementarità tra la funzione
esplicata dai sacerdoti sacris faciundis
e l’azione salvifica metastorica del dio, sembra sottintendere una diretta derivazione dei libri da Apollo, secondo una
visione avvalorata anche dalla leggenda
virgiliana della Sibylla. In tale contesto, emergono i segni di una più marcata acculturazione, laddove il rapporto libri Sibyllini-Iuppiter O.M. era il
risultato di una riplasmazione in termini originali del complesso acquisito.
Mentre in Grecia il sibillinismo è un fenomeno connesso alla sfera di Apollo e
della mantica ispirata, il fatto che a Roma la raccolta oracolare consultata
dai decemviri sia ospitata nelle fondamenta del tempio Capitolino sottintende
innanzi tutto una tutela da parte del dio garante dei patti e della pax metastorica (Santi 1985). Non solo. Trovandosi ad operare la sua forma
di divinazione sotto il segno di Iuppiter ed entro i confini del suo templum (l’espressione libros adire mostra senza dubbio che i libri non venivano spostati in occasione della consultazione e che
erano i sacerdoti a recarsi nel luogo in cui erano custoditi) il collegio sacerdotale dei decemviri s. f. era chiamato a replicare tutti i
tratti caratteristici della suprema divinità del pantheon romano, e in primo luogo la ratio, intesa in questo caso come attitudine a ordinare al fine della salus rei publicae un materiale oracolare per sua natura
“sibillino”. Alla discesa materiale nei penetralia del tempio capitolino
corrispondeva, in senso figurato, un’immersione in quella dimensione
“sibillino-oracolare” che precedeva l’ordo rerum istituito da Iuppiter O.M. e
che poteva sopravvivere solo in questo specifico ambito, letteralmente
sottoposta alla ratio ordinatrice del
dio supremo.
(*) La nota bibliografica si
riferisce solo alle opere di Storici delle
religioni italiani prese in esame nel testo.
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