Università di Messina
Voglio approfittare di questa
occasione per riflettere su alcuni aspetti di una vicenda complessa, intricata,
contraddittoria, e forse per questo affascinante, qual è quella della memoria
del primo imperatore cristiano, Costantino il Grande.
Il mio intento sarà di
individuare le linee dello sviluppo di questa memoria, prima con alcune
considerazioni di carattere generale e poi soffermandomi su determinati punti
che ritengo significativi.
Quando parlo del mito di
Costantino, intendo ovviamente riferirmi a quel complesso di narrazioni, di
programmi iconografici, di celebrazioni liturgiche, che hanno costituito per
secoli la memoria del primo imperatore cristiano, in altre parole il Costantino
dopo Costantino. Una memoria che è ovviamente elaborazione e che spesso appare
lontanissima dalle vicende storicamente verificabili. Una memoria che, come
talvolta accade, col tempo ha del tutto cancellato il Costantino storico, per
crearne uno appunto ‘mitico’. Il fatto paradossale è che faranno riferimento
proprio a questo Costantino – per dodici lunghi secoli, da subito dopo la morte
dell’imperatore e sino al XVI secolo – in oriente e in occidente, potere
politico e potere religioso, chiesa luterana e chiesa riformata, tradizione
colta e fede popolare.
Pochi altri personaggi hanno
avuto una simile sorte. Non sappiamo se la ‘mitizzazione’ di Costantino – da
collocarsi ovviamente nell’ambito della straordinaria fortuna della memoria di
Roma – sia frutto della eccezionale portata storica della sua vicenda o
piuttosto della volontà dei contemporanei di manipolare questo personaggio per
piegarlo ai propri interessi, per costruire un Costantino a propria misura.
La vicenda costantiniana ha
avuto conseguenze veramente dirompenti sulla società antica ed ha suscitato,
soprattutto nei più tradizionalisti – beninteso pagani e cristiani – fortissime
reazioni. Se i pagani sotto la pressione dei barbari guardavano a Costantino
per trovare le cause della drammatica incertezza del momento, anche fra i
cristiani il ruolo svolto dall’imperatore aveva creato gravi problemi.
E, a pensarci bene, non poteva
essere diversamente. Esisteva una inconciliabilità fra i cristiani e il potere
imperiale, risolta dal rivoluzionario Costantino coll’identificare la ecclesia con lo stato, sostenendola,
difendendone l’unità.
Tutto ciò doveva apparire ai
contemporanei, superata l’euforia della conquistata libertà di culto, una
novità sconvolgente che peraltro conteneva in nuce gli elementi del successivo,
centenario conflitto fra chiesa e stato. Quando, col passare dei decenni, i
cristiani si resero conto delle conseguenze della politica costantiniana, anche
nelle forme in cui fu attuata dai suoi successori, si levò un
‘anticostantinianesimo’ di parte cristiana sempre più forte.
Ecco dunque che l’immagine del
Costantino diciamo ‘storico’ comincia a diventare un peso ingombrante, una
memoria difficile da gestire; ma si trattava pur sempre del primo imperatore
cristiano, di colui che per primo aveva dato la libertà ai cristiani, li aveva
sostenuti economicamente, aveva fatto loro ampie donazioni: non poteva, dunque,
essere semplicemente messo da parte, era opportuno creare un ‘nuovo’
Costantino, meno contraddittorio, meno spigoloso, meno umano.
Una delle conseguenze di questo
scarso interesse verso il Costantino storico è anche, in qualche modo, la
scomparsa di molta parte della storiografia antica. I moderni non potranno che
continuare a sentirsi in qualche modo ‘orfani’, per perdite significative
quali, ad esempio, quella dei primi tredici libri di Ammiano, delle Storie di Eunapio, dei mai
sufficientemente rimpianti annales di
Nicomaco Flaviano, per non parlare della letteratura ariana, dei due libri
della Storia relativa al grande
Costantino di Praxagoras.
Cosa dire poi delle perdute Orationes dello stesso Costantino,
‘discorsi’ che Giovanni Lido, in piena età giustinianea, poteva leggere in
latino.
In ogni caso questa tradizione
storiografica (con l’eccezione della storiografia ecclesiastica, che però si è
presto liberata del Costantino eusebiano, del Costantino storico) è stata
pressoché dimenticata sino alla seconda metà del XVI secolo, e possiamo essere
più precisi, sino al 1576, quando, come ha evidenziato Santo Mazzarino,
Johannes Löwenklav riporta all’attenzione degli studiosi
Attraverso quali canali, sino a
quel
Accanto alla propaganda di
corte e al cerimoniale imperiale a Costantinopoli, laddove vi è un continuo
riferirsi a Costantino e a sua madre Elena, ci sono le circa 25 Vitae agiografiche dell’imperatore
(quelle elencate nella Bibliotheca
Hagiographica Graeca ai nn. 362-369).
Poi ci sono le tradizioni
diffuse nell’Europa orientale. Bisogna ancora ricordare la meno nota, ma
significativa, tradizione britannica, interna al ciclo Arturiano, che vuole
Costantino nato in Britannia da Elena, figlia del re Coel di Colchester.
Parallela alla saga
costantiniana, corre poi la tradizione della ‘Kreutzauffindungslegende’, che,
come vedremo, ad un certo momento, e siamo alla fine del IV secolo, si legherà
strettamente allo sviluppo del mito costantiniano.
Ancora bisogna ricordare due,
forse meno noti, filoni narrativi, risalenti ai secoli XIII e XIV, ma che
conservano tracce di narrazioni più antiche.
I primo è il cosiddetto Libellus de Constantino Magno eiusque matre
Helena risalente alla fine del XIII e pubblicato nel 1879 da Eduard
Heydenreich, recentemente riproposto da Giulietta Giangrasso. In questa si
narra di Elena, nobile fanciulla di Treviri, che, recatasi a Roma per far
visita alle tombe degli apostoli Pietro e Paolo, viene rapita e violentata
dall’imperatore Costanzo, che poi, preso dal rimorso, la lascia libera. Rimasta
a Roma, dà alla luce Costantino. Dopo molte traversie, fra le quali il
matrimonio, combinato da alcuni mercanti, di Costantino, spacciato per il figlio
dell’imperatore di Roma, con la figlia dell’imperatore costantinopolitano, che
aveva combattuto una guerra con l’imperatore di Roma (ed è significativo questo
contrasto, non solo narrativo, fra romani d’occidente e romani d’oriente, che
nasce probabilmente dalla memoria della poco amichevole presenza bizantina in
Italia, e ancora dal ruolo antagonista che l’impero di Bisanzio svolge nel XIII
secolo nei confronti delle città mercantili d’Italia), durante il viaggio di
ritorno verso Roma i due giovani subiscono il furto di tutti i doni
matrimoniali, ad esclusione di una preziosissima veste della sposa, grazie alla
quale Elena compra una locanda e diviene una stabularia, la bona
stabularia della tradizione ambrosiana.
A questo punto Costantino si
mette in luce nel corso dei giochi allestiti in occasione del compleanno
dell’imperatore Costanzo che lo riconosce come figlio, nominandolo proprio
erede; anche l’imperatore greco, venuta a sapere l’esito della vicenda, lo
riconosce come proprio erede, per cui l’impero ritrova l’unità.
La seconda narrazione è
testimone di una tradizione confluita nei poemi del Ciclo carolingio, elaborati
nella versione italiana dei Paladini di
Francia e che trova alla fine del XIV secolo un efficace autore in Andrea
da Barberino, autore dei Reali di Francia, dove viene affermata la discendenza dei
re di Francia, e dunque di Carlo, da Costantino, una discendenza che compare,
oltre che nei Reali barberiniani,
solo nelle cosiddette Storie di
Fioravante redatte sempre in Italia fra il 1315 e il 1340, e in una
tradizione islandese definita Flovents
saga Frakka konungs che dipenderebbe dalle Storie di Fioravante, tutti e tre dipendenti da un’unica
tradizione.
«Nel tempo che Gostantino regnò
in Roma – così iniziano I reali – fu
in Roma un santo papa, pastore di santa chiesa, che aveva nome Salvestro, il
quale fu molto perseguitato da Gostantino, lui e gli altri cristiani, per
fargli morire».
Silvestro cerca di sfuggire
alla persecuzione e trova rifugio sul «monte Siracchi», il Soratte; da qui però
Silvestro «andossene nelle montagne di Calabria, nelle più scure montagne
chiamate le montagne d’Aspromonte, per le più aspre, e menò seco certi
discepoli che s’erano battezzati e fatti cristiani e servi di Cristo».
Questa riferimento
all’Aspromonte come luogo di rifugio di Silvestro poggia su un’altra
tradizione, quella della cosiddetta chanson
d’Aspremont, una narrazione che appartiene ovviamente al filone delle chanson de geste e che colloca in
Calabria, a Reggio, denominata Risa,
un episodio della lotta tra i paladini e i mori.
Torniamo alla narrazione dei Reali. Gostantino si ammala di lebbra;
viene chiamato Silvestro che lo guarisce tramite il battesimo. L’imperatore fa
battezzare tutta la sua famiglia, tranne due figli, Gostantino, come il padre,
che fugge ad Aquileia, ove muore ucciso da nemici, e Costo, come il nonno
(ovviamente Costanzo Chloro), che fugge a Costantinopoli, che era stata già
fondata, ove muore. Solo un terzo figlio accetta di essere battezzato, Gostanzo
detto Fiordimonte, di circa vent’anni.
Questi, che dopo il battesimo
prende il nome di Fiovo, si rende protagonista di un grave fatto. Mentre
serviva una coppa di vino al padre Gostantino, cadutene alcune gocce sul
mantello di un tale Saleone, «signore di molte province di Grecia», grande
amico dell’imperatore, ma che non aveva voluto essere battezzato, venne da
questi colpito con un pugno e così apostrofato «Ribaldo poltrone, se io non
riguardassi all’onore di tuo padre, io ti torrei la vita».
Fiovo per vendetta uccide il
greco Saleone (ancora una volta ritorna il motivo dello scontro con i greci, i
‘romani d’oriente’) fugge poi in direzione della Toscana, dove inseguito dal
padre Gostantino, riesce a stento a sfuggirne l’ira («Figlio bastardo! Figlio
snaturato! Si perda con te la discendenza, si cancelli il mio nome, precipiti
lo stato; ma pure il meglio è ch’io t’uccida con le mie mani, che farti
giustiziare a Roma». Raggiunge
Assediata Roma dai pagani, che
Andrea da Barberino identifica con i saraceni, Gostantino richiama Fiovo, che
ha la meglio sui nemici. Gostantino a questo punto si trasferisce a
Costantinopoli, Fiovo regna a Roma, mentre i suoi figli, Fiore e Fiorello
saranno rispettivamente l’uno re di Dardenna (cioè delle Ardenne e dunque della
Francia orientale) e l’altro della Francia occidentale; da essi sarebbero poi
discesi Pipino e dunque Carlo.
Come è noto, la vicenda di
Costantino lebbroso guarito da Silvestro attraverso il battesimo è in realtà
ripresa dalla tradizione degli Actus
Sylvestri, una affascinante vita agiografica del vescovo di Roma.
Una narrazione, da collocarsi
tra la fine del IV e gli inizi del V secolo, che, per un verso o per l’altro
costituisce l’Ur-Text di tutte le altre tradizioni su Costantino. Si tratta di
un testo estremamente importante diffuso in più versioni (latina, greca,
siriaca, armena), che hanno conosciuto nell’età tardoantica e in quella
medievale un’ampia diffusione, testimoniata da oltre 400 codici, e una straordinaria
fortuna come testo di riferimento per i compilatori medievali e umanistici; un
testo che nella comune opinione, pur nella varietà delle versioni esistenti, si
deve far risalire ad una redazione latina.
In essa, a mio parere,
compaiono tre sezioni ben distinte fra loro e che risalgono a nuclei narrativi
distinti poi confluiti a formare il testo nella forma a noi nota: la prima è
incentrata sulle imprese carismatiche e sulle riforme liturgiche operate da
Silvestro; la seconda riguarda la conversione di Costantino pagano e malato di
lebbra; la terza è costituita da una altercatio,
un contraddittorio tra Silvestro e dodici rabbini, svoltosi alla presenza di
Costantino e di sua madre Elena.
Nella parte centrale, quella
che ho chiamato conversio Constantini,
si racconta di Costantino, pagano, persecutore dei cristiani, malato di lebbra.
I sacerdoti pagani gli consigliano un bagno di sangue umano e per questo i
soldati raccolgono oltre tremila fanciulli; subito l’imperatore si rende conto
della gravità dell’atto e vi rinuncia. Nella notte gli appaiono in sogno Pietro
e Paolo che, inviati da Cristo, lo sollecitano a richiamare dall’esilio sul
monte Soratte il vescovo Silvestro, fuggito a causa della persecuzione, il
quale gli indicherà il modo per guarire dalla malattia attraverso il battesimo.
Siamo, e gli Actus lo dichiarano
esplicitamente, nel 326.
Una tradizione, questa di
Costantino lebbroso guarito dal battesimo, che confluirà arricchita della
donazione di Roma a Silvestro nel constitutum
Constantini, e che troverà ampia attestazione nella iconografia
altomedievale nell’ambito ovviamente del confronto fra autorità statale e
autorità religiosa.
La conversio è nata probabilmente dopo il sacco alariciano del 410,
allorquando la polemica pagana che negli ultimi anni del IV secolo si era in
qualche modo attenuata, ritrova ora virulenza nel sostenere il nesso di
consequenzialità tra l’abbandono dei culti tradizionali a favore della
religione cristiana e la caduta di Roma.
Quanti tra i pagani si opposero
alla rivoluzione costantiniana, infatti, avevano avuto gioco facile a
rintracciare in quella vicenda aspetti che, per un verso o per l’altro,
polemicamente potevano diventare oggetto di critiche talvolta anche gravi. Così
negli anni ‘60 del IV secolo, il nipote Giuliano in un passo famoso dei caesares, senza citare direttamente i
delitti familiari quali l’uccisione del figlio Crispo e della moglie Fausta,
presenta lo zio Costantino che in compagnia della Dissolutezza e della
Sregolatezza incontra Cristo, il quale promette ad ogni peccatore, attraverso
l’acqua purificatrice del battesimo e la riconciliazione, la cancellazione di
ogni colpa, una divinità verso la quale – continua Giuliano – Costantino non
tarda a indirizzarsi.
Una opposizione a Costantino,
ma più in generale al cristianesimo e, ancora, alla nuova capitale,
Costantinopoli, che per vie non ancora del tutto chiarite, nelle quali si deve
collocare la mediazione dei già ricordati annales di Nicomaco Flaviano, già forse
presente nell’opera di Eunapio, appare, in forma radicalizzata in Zosimo.
Contro le rinnovate argomentazioni pagane
polemizza la conversio Constantini,
che mantenendo inalterati gli elementi della tradizione pagana anticostatiniana
ne stravolge quello che era l’elemento negativo, l’uccisione di Crispo e Fausta
come causa determinante e facendo ricorso ad una tradizione forse già diffusa,
presenta Costantino pagano afflitto dalla lebbra, dalla quale tenta di guarire
attraverso il bagno cruento, per poi fare ricorso al lavacro battesimale.
Una risposta alla polemica
pagana che però nel contempo, spostando il battesimo di Costantino al 326, e
soprattutto a Roma, pone in risalto il carattere occidentale della conversione,
di cui è artefice Silvestro, vescovo della città in quegli anni; soprattutto
veniva eliminata ogni contaminazione con l’arianesimo insita, come vedremo, nel
battesimo nicomediense. Ancora, veniva sancito il primato del vescovo di Roma
non solo sul processo di conversione dell’imperatore e dunque in qualche modo
nei confronti dell’autorità statale, ma anche sulla chiesa occidentale, e
fors’anche su quella orientale.
La fortuna degli Actus si concretizza, in occidente quasi
immediatamente, alla fine del V secolo, nella decretalis de recipiendis et de non recipiendis libris legata al
nome di papa Gelasio e ancora agli inizi del VI secolo attraverso i cosiddetti
‘Apocrifi Simmachiani’ realizzati durante lo ‘scisma laurenziano’: il Silvestro
degli Actus, colui cioè che aveva
guarito e convertito Costantino, viene chiamato in causa come illustre
precedente a sancire l’indipendenza del vescovo di Roma dall’autorità statale;
una tradizione che si rafforza, tra il 525 e il 530, attraverso la confluenza
della biografia di Silvestro nella raccolta del Liber Pontificalis. In oriente bisogna attendere il 787,
allorquando in occasione del secondo concilio niceno questa tradizione viene
ufficialmente accettata.
Tutto questo prosperare di
narrazioni, tutto questo sviluppo del mito costantiniano è servito anche a
compensare, in certo qual senso, una serie di lacune nella conoscenza della
vicenda costantiniana, talune importanti, che hanno condizionato e continuano a
condizionare pesantemente la comprensione di quanto accaduto nella prima metà
del quarto secolo.
Facciamone una brevissima
carrellata. Le zone d’ombra cominciano dalla origo di Costantino, dai rapporti fra Costanzo ed Elena, la bella
locandiera, dell’anno di nascita dell’imperatore, ricostruito solo su base
deduttiva, senza peraltro alcuna certezza e del luogo, forse Naisso, l’attuale
Niš in Serbia, città tuttavia che, come è stato notato, appare troppo legata
alla memoria della vittoria del restitutor
Claudio Gotico avvenuta nel 269 e la cui indicazione come patria, come città natale
dell’imperatore è attestata solo da due testimonianze.
E ancora oscure continuano ad
apparirci le vicende relative alla fanciullezza e alla giovinezza
dell’imperatore, prima cioè del ricongiungimento con Costanzo, tra la fine del
305 e gli inizi del 306, alla morte del quale nel giugno del 306 presso York viene
proclamato dai soldati come successore del padre; anni nei quali è
genericamente collocata una presenza presso la corte di Diocleziano e Galerio.
Nulla dunque sui rapporti con il padre Costanzo e di questi con Elena, nulla
sugli anni della formazione, nulla sul legame con Minervina e sulla nascita del
primogenito Crispo: un velo avvolge quegli anni, per squarciarsi,
all’improvviso con l’ingresso (dirompente) nella compagine tetrarchica.
Senza neppure tentare di
accennare alla miriade di problemi che circondano il tema della conversione di
Costantino, un tema sul quale, si può dire con sicurezza, dal IV secolo in poi
il dibattito non si è mai sopito, e che di recente è stato fortemente
rilanciato dal lavoro di Jochen Bleicken, altre vicende ci appaiono oscure,
come quelle relative alla guerra contro Massenzio per la quale non disponiamo
che del resoconto offerto da due panegirici, quello anonimo pronunciato a
Treviri tra l’estate e l’autunno del 313 e quello offerto da Nazario il 1 marzo
del 321, sulla base dei quali tuttavia non è possibile una chiara ricostruzione
non tanto delle azioni compiute dalle truppe costantiniane, quanto del modo in
cui la guerra è stata condotta da parte di Massenzio. Così come non del tutto
chiare sono le fasi della battaglia di Ponte Milvio.
E si potrebbe continuare con i
difficili rapporti fra Elena, Fausta e i figli di Teodora, e dunque delle varie
soluzioni dinastiche escogitate dall’imperatore, tutte vanificate dalla strage
del settembre 337. E per finire, i rapporti con gli ariani e le modalità del
battesimo ad opera di Eusebio di Nicomedia. L’elenco è lungo, a dimostrazione
del fatto che in realtà su Costantino è molto più quello che non sappiamo che
quello che sappiamo.
Non è un caso, ovviamente. Da
una parte c’è stata la volontà dello stesso Costantino a creare una ben
definita immagine di se stesso, costruita su un numero limitato di informazioni
debitamente propagandate; dall’altra la vicenda costantiniana, come ho già
detto, ha creato non pochi imbarazzi ai contemporanei.
Proprio in relazione a questi
vuoti emblematica è la vicenda di Silvestro. Una perfecta defectio, una eclissi totale è quella accaduta a proposito della vicenda di Silvestro I,
vescovo di Roma dal 314 al 335, un ventennio senza dubbio cruciale nella storia
dell’impero e, ovviamente, nella storia della chiesa; cruciale soprattutto per
la definizione dei rapporti fra stato e chiesa, sulla base dei quali prenderà
forma l’Europa medievale e moderna.
Di questi importanti anni Silvestro
non può non essere stato testimone privilegiato; anzi ci aspetteremmo di vedere
proprio il vescovo della Città Imperiale, in qualche modo, attore di primo
piano, se non addirittura protagonista di quegli avvenimenti.
E invece sembrerebbe che nulla
di tutto questo sia accaduto: sulla vicenda di Silvestro I le fonti antiche
appaiono, nel migliore dei casi, reticenti e più spesso tacciono quasi
completamente. Sulla scorta di questa reticenza, di questo apparente silenzio,
gli storici moderni hanno liquidato un episcopato ventennale in poche battute.
Un silenzio attribuito da una
parte alla, per così dire, inettitudine dello stesso Silvestro, e dall’altra
alla contemporanea, concorrente presenza di Costantino che svolse certamente un
ruolo determinante e in qualche modo assolutizzante.
In realtà di Silvestro
conosciamo solo le assenze. A proposito della vicenda donatista, il iudicium romano del 313 che vedeva
contrapposti Ceciliano e Donato dinanzi ad una corte di vescovi presieduta da
Milziade, vescovo di Roma, si era risolto con la conferma di Ceciliano quale
vescovo di Cartagine, non aveva però eliminato l’opposizione di Donato e della
sua fazione, che interposero immediatamente appello. La nuova inchiesta viene
prima affidata al vicario d’Africa, poi al proconsole Eliano. La relazione di
quest’ultimo raggiunge Costantino a Treviri tra il febbraio e il marzo del 314,
ed è una relazione sostanzialmente favorevole a Ceciliano. Occorreva dunque che
un organo ecclesiastico facesse propri quei risultati. L’imperatore convoca
così una sinodo per il 1° agosto di quel 314 ad Arelate.
Alla sinodo, nella quale sono
rappresentati quasi tutti i territori sottoposti a Costantino e che si
configura dunque come una sorta di concilio generale delle chiese occidentali,
non partecipa, ed è questo il fatto significativo, il nuovo vescovo di Roma,
Silvestro, che invia al suo posto due presbiteri e due diaconi.
All’assente Silvestro, i
vescovi riuniti ad Arles inviano una lettera con la quale comunicano l’esito
della sinodo e lamentano l’assenza di Silvestro, quasi a dire che la sua
presenza avrebbe reso ancora più severa la condanna di Donato e dei suoi
seguaci.
Funzionale all’auspicato esito
dell’incontro di Arles era ritenuta l’esclusione di quanti – come Silvestro –
avrebbero potuto impedire la conciliazione fortemente voluta dall’imperatore
Costantino; una posizione, molto probabilmente, suggeritagli da qualcuno dei
suoi consiglieri, fra i quali è da annoverare – già in quegli anni – certamente
Ossio di Cordova, un personaggio destinato a svolgere un ruolo fondamentale
nella attuazione della politica religiosa costantiniana e al quale
l’imperatore, già nel 313, aveva affidato, come è noto, il compito di
sovrintendere alla distribuzione di denaro alle chiese africane.
Ancora Ossio incontriamo in
relazione all’altra significativa assenza di Silvestro, quella in occasione del
concilio di Nicea del
Proprio Ossio, che apre la
lista delle sottoscrizioni, presiederà l’assemblea e sarà – come comunemente si
ritiene – l’artefice delle decisioni conciliari. Svolgerà dunque un ruolo
determinante, adeguato peraltro al prestigio che aveva assunto presso
Costantino.
Dicevamo dell’assenza di
Silvestro. La notizia fornita da Eusebio non può non suscitare alcune
perplessità. Certo, noi non possediamo alcun dato cronologico a proposito di
Silvestro, ma probabilmente nel 325 egli doveva essere realmente abbastanza
avanti negli anni, circa 60; purtuttavia, Silvestro continuò a sostenere la
carica episcopale a Roma per altri dieci lunghi anni; e ancora c’è da notare
come lo stesso Ossio, che a Nicea svolge un ruolo delicato e impegnativo, aveva
in quella occasione ben 70 anni.
Ad Arles Silvestro era stato
forse escluso dalla sinodo in quanto, per quello che abbiamo detto, avrebbe
potuto intralciare l’opera di mediazione voluta da Costantino e messa in atto
da Ossio; adesso, a Nicea, la contrapposizione fra Silvestro e Ossio è netta,
dovuta presumibilmente, ancora una volta, ad una qualche difficoltà, da parte
di Silvestro, a giocare in quella occasione un ruolo di mediazione.
Nella lettera sinodale inviata
da Damaso a Graziano e Valentiniano nel 380 dopo il quarto concilio romano, si
fa riferimento ad accuse che erano state fatte proprio a Silvestro, che si era
dovuto difendere dinanzi a Costantino
Agostino in un passo del De unico baptismo, scritto nell’atmosfera
infuocata della conferenza di Cartagine del 411, riferisce del fatto che da
parte donatista agli inizi del V secolo (ma doveva certo trattarsi di accuse
che risalivano alla prima metà del IV) venne mossa al vescovo Marcellino
(296-304) l’accusa di essere stato un traditor;
accusa rivolta anche a tre suoi presbiteri Milziade, Marcello e Silvestro,
personaggi nei quali, senza eccessiva difficoltà, potremmo riconoscere il
Marcello, futuro vescovo di Roma nel 308-309, Milziade, vescovo dal 310 al 314,
e il nostro Silvestro.
Se dunque questa è l’accusa
mossa dai donatisti a Silvestro, quella cioè di aver ceduto alle pressioni dei
persecutori, di avere consegnato i libri sacri e dunque di essere stato un traditor, allora si potrebbe comprendere
il fatto che egli rappresentava, ad Arles, la persona meno adatta a partecipare
ad un giudizio oggetto del quale era proprio l’accusa di Donato ad un
Ceciliano, consacrato dal traditor
Felice d’Aptungi.
Partendo da questa ipotesi si
potrebbe dunque comprendere l’isolamento nel quale Silvestro viene a trovarsi
per il prosieguo del suo episcopato; un isolamento che è determinato non tanto,
o meglio non soltanto, dall’iniziativa sempre più ampia che Costantino prende
nei confronti della chiesa che vuole cattolica, quanto dall’essere Silvestro
collocato su posizioni che Ossio – e dunque lo stesso Costantino – non
consideravano accettabili; dal costituire cioè un problema, dall’essere, per
usare una espressione moderna, impresentabile.
Tuttavia non si poteva rinunciare
alla figura di quel vescovo di Roma che aveva guidato la città proprio negli
anni della svolta costantiniana. Sorge allora una tradizione agiografica che
opera una lieve elaborazione degli avvenimenti; per cui Silvestro diviene,
attraverso l’esperienza del carcere, confessore, si ritira, durante la grande
persecuzione, sul monte Soratte cum suis
clericis, costituendo quindi, in quel luogo, una sorta di cenobio. Ritorna
poi a Roma per svolgere un ruolo determinante nel processo di conversione di
Costantino, vicenda che collocata nella tradizione della conversio Constantini nel 326 naturalmente non può che porre
l’allora vescovo della città, Silvestro, quale protagonista: è proprio la conversio, a mio parere, a catalizzare
l’attenzione su Silvestro, a riabilitarlo e a farne il protagonista di una saga
fra le più interessanti.
L’altro personaggio che ha
giocato un ruolo fondamentale nello sviluppo del mito costantiniano è la madre
Elena. Non è un ruolo scontato. Molte sono le perplessità sul reale peso di questa
donna sulla vita del primo imperatore cristiano, certamente negli anni
giovanili, ma anche nella maturità, quando certamente ebbe un peso sulle scelte
politiche dell’imperatore e nel contrasto con Fausta (morte di Crispo) e poi
nella opposizione verso il ramo cadetto (figli di Costanzo Cloro e di Teodora,
e poi i nipoti Annibaliano e Delmazio).
In ogni caso il culto di
Costantino appare quasi sempre accompagnato da quello per la madre Elena ed è
sempre caratterizzato dalla presenza della croce. Si tratta, come è noto di un
culto antico. Sorto in Oriente, forse già immediatamente dopo la morte
dell’imperatore, è il frutto di una sorta di commistione fra apoteosi imperiale
e canonizzazione, una apoteosi cristiana.
Come è noto Costantino venne
sepolto in un sarcofago di porfido rosso nella Basilica dei XII Apostoli a
Costantinopoli, in posizione centrale rispetto alle steli degli Apostoli;
Costanzo II tra il 359 e il 360 avrebbe spostato la sepoltura, momentaneamente
presso la chiesa di S. Acacio e poi trasferita nel Mausoleo, collocato
all’esterno del Martyrion, dedicato nel 370. Si trattava, come avrebbe spiegato
qualche anno dopo Giovanni Crisostomo, di distinguere nettamente i santi della
chiesa e i sovrani divinizzati. Questo potrebbe essere l’indizio che la
venerazione dell’imperatore fosse già iniziata.
Esistono profonde differenze
nel culto di S. Costantino tra oriente, dove si è sviluppato senza soluzione di
continuità, e occidente, dove il culto di questo santo è giunto per vie non
ancora del tutto esplorate, ma certamente a seguito delle armate bizantine
venute nelle nostre regioni a ‘liberarle’ dai goti e dai vandali.
Ma anche in queste regioni il
culto a S. Costantino non si è diffuso in modo uniforme. Soffermiamoci
sull’Italia. Accanto a testimonianze toponomastiche importanti e a celebrazioni
vissute con una forte partecipazione popolare come questa di Sedilo, troviamo
tracce altrettanto significative in altre regioni del paese che tuttavia non
hanno alimentato un culto diffuso e partecipato come quello sardo.
Questo non significa che un
culto non esista, o meglio non sia esistito.
Anche alcune zone della Sicilia
orientale presentano una analoga situazione. Sto compiendo una ricognizione
delle testimonianze presenti nella provincia di Messina, o meglio in quella che
era la medievale Val Demone e ho trovato numerose attestazioni di un culto
ancora attivo anche se non in maniera eclatante, testimonianze che mi
riprometto di presentare, magari in un prossimo incontro.
Anche l’onomastica risente in
qualche modo di una limitata consapevolezza, fuor di Sardegna, dell’esistenza
di un culto nei confronti del primo imperatore cristiano. Si pensi, ad esempio,
che in uno dei più noto Dizionari etimologici dei nomi italiani, quello curato
da Emidio De Felice, il nome Costantino non compare se non come derivato da
Costante; il paradosso è che si vuole considerare il nome ‘Costantino’ con
oltre 31.000 attestazione, più altre 9.000 della variante femminile, per un
totale di 40.000 come derivato di ‘Costante’ che registra solo 7.000
attestazioni, senza alcun riferimento al fatto che il nome ‘Costantino’
potrebbe vivere di vita autonoma e che il suo successo potrebbe appunto
derivare dal prestigio proprio di S. Costantino.
Si diceva di Elena e del fatto
che il suo culto venga quasi sempre associato a quello del figlio. Non sono
d’accordo con quanti ritengono che ciò sia avvenuto per attenuare l’eccessiva
preponderanza del ruolo del principe: a mio parere Elena è stato lo strumento
attraverso il quale è stato recuperato Costantino.
Perché accanto
all’anticostantinianesimo pagano, che ho prima ricordato, è esistito anche un
forse più virulento anticostantinianesimo cristiano, destinato a divenire col
tempo sempre più radicale e che, in qualche misura, è durato sino ai nostri
giorni.
Un anticostantinianesimo
cristiano – sembrerebbe una contraddizione concettuale – che trae origine dal
favore che Costantino sembra concedere negli ultimi anni della sua vita agli
ariani. Un avvicinamento che culmina con il battesimo dell’imperatore avvenuto
a Nicomedia per mano del vescovo Eusebio di Nocomedia, molto vicino alle
posizioni ariane. Un battesimo dal quale, nella opinione di quanti erano legati
all’ortodossia nicena, erano derivate conseguenze terribili, grazie anche al
favore dimostrato agli ariani dal successore di Costantino il figlio Costanzo
II, conseguenze che erano culminate negli atteggiamenti decisamente filoariani
di Valente e nelle simpatie dello stesso Valentiniano II e soprattutto della
madre Giustina.
Questa notizia, alla quale lo
stesso Eusebio di Cesarea, nella sua vita
Constantini, accenna in modo molto sfumato, appare in trasparenza nelle
polemiche sorte sullo sfondo dell’aspro confronto che in occidente,
all’indomani del 337, con Costanzo II si apre fra autorità statale e autorità
religiosa.
Così il quasi centenario Ossio di Cordova, che
pure di Costantino era stato il più fidato consigliere, si scaglia contro
Costanzo e definisce in maniera chiara, per la prima volta dopo Costantino, i
limiti dell’autorità politica nei confronti delle questioni religiose; in
quella occasione egli condanna l’ingerenza di Costanzo, che tenta di ricreare
l’unità della chiesa però su posizioni vicine a quelle ariane, col pensiero
rivolto a colui che aveva creato i presupposti di quella politica religiosa,
Costantino appunto.
Senza reticenze, poi, la voce
estrema del radicalismo niceno, quella di Lucifero di Cagliari, si scaglia
contro Costanzo II definito episcopus
episcoporum e filius diaboli, in ciò giocando sull’ambiguità della
affermazione, poiché Costanzo era pur sempre figlio di Costantino.
Tuttavia bisogna attendere i
convulsi anni tra il 378 e il 380, quelli della battaglia di Adrianopoli e
della morte di Valente, della ascesa al trono imperiale di Teodosio, della
dichiarazione di fede nicena contenuta nell’editto di Tessalonica, perché la
notizia del battesimo ariano venga dichiarata in maniera esplicita e con toni
accorati nelle parole del chronicon
di Girolamo: Constantinus extremo vitae
suae tempore ab Eusebio Nicomediensi episcopo baptizatus in Arrianum dogma
declinat.
Il disagio suscitato da una simile
affermazione dovette essere notevole: se nella maggior parte dei casi la
notizia viene ignorata, altri come Rufino di Aquileia la rielaborano,
attribuendo ad Eusebio di Nicomedia non il ruolo di amministratore del
battesimo, bensì quello di semplice esecutore testamentario. Gli stessi copisti
medievali intervengono pesantemente sul testo, talvolta correggendo Constantinus in Constantius, oppure ponendo Eusebio di Nicomedia quale soggetto
della conversione all’arianesimo.
Da tutto questo, in ambiente
niceno, l’immagine di Costantino, l’immagine del primo imperatore cristiano
esce malconcia. Bisognerà attendere il 395, la morte cioè di Teodosio per
assistere alla riabilitazione di Costantino. Una riabilitazione che passa
attraverso la madre Elena nel de obitu
Theodosii di Ambrogio.
Questi nel 395, alla morte
dell’imperatore Teodosio il Grande, si trova a dover affrontare un grave
problema di successione all’imperatore da poco scomparso: il 17 febbraio 395,
quaranta giorni dopo la sua morte, alla presenza di Onorio e della corte,
Ambrogio pronunciare il de obitu
Theodosii, una orazione funebre che costituisce soprattutto il più
autorevole sostegno alla politica dinastica teodosiana.
Il problema al quale Ambrogio
cerca di dare una soluzione è estremamente grave. La morte improvvisa
dell’imperatore aveva lasciato lo stato in una situazione difficile: a
succedergli sono due figli giovinetti, il diciottenne Arcadio e il più piccolo
Onorio di soli dieci anni, due adolescenti, due principes pueri.
Al di là dei problemi
oggettivi, un tale evento doveva fare i conti con l’esistenza di una forte
polemica contro la successione affidata ad adolescenti, se non addirittura a
fanciulli, un tema caro al confronto politico e al dibattito storiografico del
IV secolo e destinato a essere rinnovato nel secolo successivo.
Una polemica che oggi
definiremmo trasversale in quanto il cristiano, ma tradizionalista, Ambrogio si
muoveva in sostanziale sintonia con quello che era l’atteggiamento di quella
parte ancora pagana e radicalmente tradizionalista dell’aristocrazia romana.
Ambrogio tuttavia, sulla spinta
di nuove esigenze, anche politiche, avrebbe presto mutato opinione allorquando,
nel 392, pronunciava il discorso funebre per l’improvvisa e misteriosa morte
del ventunenne Valentiniano II, nel quale il puer Valentiniano, diviene senex
negli atteggiamenti, nelle scelte politiche, nella maturità degli atti privati
e di governo.
Nel de obitu Theodosii, a poco più di due anni di distanza, Ambrogio
non deve più difendere la memoria un princeps
puer, deve invece sostenere il futuro di due pueri che la scomparsa del padre ha reso principes. Il momento è grave: è in gioco la stabilità dello stato,
sono in gioco le scelte politiche operate da Teodosio, sono in pericolo
soprattutto le sue scelte religiose di segno niceno. La stabilità politica, la
sicurezza dello stato dipendono essenzialmente dalle azioni dell’imperatore,
dalle scelte dell’imperatore cristiano che solo in quanto colmo di virtù
cristiane si è vista garantita la protezione divina e l’assunzione in cielo;
protezione divina il cui trasferimento ai figli Arcadio e Onorio diviene un
argomento fondamentale per superare l’incertezza del momento.
Stando così le cose, Ambrogio
in qualche modo sembrerebbe aver superato le obiezioni opposte ai principes pueri. Ma non basta; deve
fornire al proprio pubblico una prova concreta di come quella successione sia
la soluzione migliore per la stabilità dello stato. Per far questo ha bisogno
di un preciso modello di riferimento.
Così, a sostegno del programma
dinastico teodosiano, nella cerchia dei familiari che nei cieli circondano
l’imperatore, colloca anche Costantino, il primo imperatore cristiano; Teodosio
ora sa di regnare veramente perché non si separa da Costantino, con una
avvertenza «…sebbene a Costantino la grazia del battesimo (senza specificare in
quale forma!) abbia rimesso tutti i peccati solo in punto di morte, tuttavia,
siccome fu il primo imperatore a credere e lasciò dopo di sé ai suoi successori
l’eredità della fede (hereditas fidei),
ottenne un posto degno dell’insigne suo merito…».
È questo il grande merito di
Costantino, al di là delle critiche, al di là degli aspetti negativi, al di là
dell’evidenza, talora drammatica, dei fatti.
Come è noto, i successivi
capitoli 41-51 del de obitu Theodosii contengono
un’ampia digressione relativa alla inventio
crucis ad opera di Elena, madre di Costantino, la quale nel voler
assicurare al figlio la protezione divina per affrontare con sicurezza gli
scontri militari, visitò i luoghi santi e sul Golgota rintracciò i chiodi della
croce; con essi realizzò un morso da cavallo e un altro inserì in un diadema di
gemme, morso e diadema che inviò al figlio Costantino, il quale li utilizzò
subito e li trasmise poi ai propri successori, e con essi la fede: il chiodo
inserito nel diadema rappresenta la guida divina all’azione imperiale, mentre
quello collocato nel freno rappresenta la moderazione che deve ispirare il
principe cristiano.
La scelta di Costantino come
primo imperatore cristiano, come primo detentore di quella fides, era ovvia, ma non per questo si trattava di una scelta
facile. L’anticostantinianesimo da parte nicena che non poteva certo essere
ignoto ad Ambrogio. Tuttavia Costantino gli serviva: certamente poiché egli era
il primo imperatore cristiano, ma forse anche per un’altra ragione.
Dicevamo della necessità da
parte di Ambrogio di dimostrare nei fatti l’utilità della successione
dinastica. Gli esempi, nel recente passato, di una dinastia consolidata nel
tempo e vittoriosa, non erano molti; la dinastia valentinianea non poteva certo
essere additata a modello sia per i legami con gli ambienti ariani che per la
relativa brevità del regno; il breve regno di Gioviano (363-364) non era
neppure da prendere in considerazione e il pagano Giuliano era escluso per ovvi
motivi. Restava Costantino che aveva regnato per trenta anni e aveva lasciato
il regno ai figli e in particolare a Costanzo II, il quale ultimo aveva a sua
volta regnato per altri ventiquattro anni, cumulando quindi, a merito della dinastia,
oltre mezzo secolo, quasi un sessantennio, di regno che aveva visto il successo
degli eserciti romani sia contro i nemici esterni, che contro gli usurpatori
interni.
Quella costantiniana, dunque,
poteva rappresentare per Ambrogio un utilissimo modello; tuttavia era un
modello che non poteva essere proposto a cuor leggero proprio a causa di quel
favore manifestato nei confronti degli ariani.
Ma ecco la soluzione: della
vicenda costantiniana viene selezionato un solo episodio, una vicenda che non
poteva creare alcun imbarazzo al niceno Ambrogio, ma che anzi costituiva un
potente segno della benevolenza divina nei confronti di Costantino: la scoperta
della croce ad opera di Elena.
Si trattava di una tradizione
che già doveva circolare alla fine del IV secolo, ma è Ambrogio il primo a
presentarla, per potere in questo modo recuperare in positivo la figura di
Costantino.
Così, grazie ad Elena, la
figura di Costantino può essere riabilitata; così Agostino nel de civitate Dei potrà annoverare
Costantino, assieme a Teodosio, quale campione della fede. Così
l’interpretazione geronimiana della vicenda di Costantino, quella che era, nei
fatti, la più veritiera, veniva sconfessata e sconfitta da quella ambrosiana
che, stravolgendo i fatti, creava l’immagine di un Costantino ortodosso; una
immagine che, parallelamente a quella degli Actus
Sylvestri, delle narrazioni agiografiche, del culto, dei poemi
cavallereschi, dei cicli pittorici era destinata a percorrere i secoli.