Terza Università di Roma
LA SCIENZA DEL DIRITTO
COMPARATO AI TEMPI DI FLAMINIO MANCALEONI
1. Un’altra relazione, quella di Anna Maria Mancaleoni, ha analizzato l’influenza del pensiero e della cultura evoluzionistica sull’opera di Flaminio Mancaleoni.
L’intendimento di questa comunicazione è quello di evidenziare alcune particolarità nello sviluppo della nozione di diritto comparato e come questa sia mutata nel corso dei decenni, ed in particolare durante il XX secolo.
L’osservazione è particolarmente evidente ove si consideri che da sempre si discute su quali siano i contenuti del diritto comparato, i suoi metodi, i suoi obiettivi. Il dibattito è sempre stato vivace anche perché – per fortuna, si può dire – la qualifica di “comparatista” non è conferita da alcuno ed è in larga misura frutto di auto-qualificazione accettata dalla comunità degli studiosi.
E mentre, in generale, le partizioni didattico-accademiche sono quasi sempre indicative della specializzazione del soggetto, il metodo comparatistico può affermarsi nelle più diverse branche del diritto sì da poter qualificare come “comparatisti” studiosi recanti l’etichetta di “romanista”, “civilista”, “costituzionalista”, “teorico generale”, ecc.
Si aggiunga, poi, che il termine “diritto comparato” non assume lo stesso significato o la stessa valenza in tutte le culture giuridiche, dipendendo, com’è ovvio, da fattori storici e d’insieme.
2. Il periodo nel quale Flaminio Mancaleoni si forma e si afferma è particolarmente importante per la storia del diritto in Italia e, più in generale, per la storia del diritto comparato. Vale la pena ricordare solo due eventi che segnano irreversibilmente quell’epoca : l’entrata in vigore il 1 gennaio 1900 del Codice Civile tedesco, a coronamento di 80 anni di impegno da parte della pandettistica tedesca, da Savigny in poi. Lo svolgimento, lo stesso anno, a Parigi del primo congresso internazionale di diritto comparato, promosso dall’infaticabile Edouard Lambert.
Quanto avviene in Italia non può essere disgiunto dal panorama europeo.
Si spiega in tal modo il progressivo spostamento della cultura giuridica italiana dal seguito dell’école de l’exegèse francese – frutto del riproduttivo codice unitario del 1865 – verso la pandettistica tedesca.
In questa opera i romanisti – inevitabilmente – svolgono un ruolo egemone, al pari di quanto avviene in Germania: se le fonti del diritto si devono rinvenire nell’esperienza romana, correttamente e storicamente ricostruita, solo chi conosce a fondo tali vicende è in grado di costruire il nuovo.
Vittorio Scialoja, Carlo Fadda, Paolo Emilio Bensa illustrano meglio di chiunque altro tale egemonia che si espande non solo nel campo del diritto civile – è difficile essere civilisti di peso se non si è anche romanisti – ma anche nel campo del diritto pubblico e del diritto penale. Non serve qui sintetizzare un percorso che è stato oggetto dei ben più precise ricostruzioni: quel che interessa, agli occhi del comparatista, è che la circolazione di un modello giuridico – quello tedesco – si fonda sulla autorevolezza del medesimo, che a sua volta viene fatta discendere dalla sua, apparente , certezza e autenticità storica.
E mentre il modello francese si era imposto prima con le armi, poi con le leggi ed in ogni caso perché era l’unico “moderno”, quello tedesco circola per ragioni che il comparatista riscontrerà molte altre volte nel corso del XX secolo.
3. Lo spostamento dell’orizzonte culturale del giurista italiano a cavallo fra XIX e XX secolo porta con sé una conseguenza che oggi viene svalutata ed anzi avversata, ma che all’epoca appariva una forza: l’affermarsi della dogmatica giuridica ovverosia la visione del sistema giuridico, come un insieme coerente, non contraddittorio, auto-sufficiente di regole basate su postulati, sviluppi logici, corollari ed eccezioni. La sua manifestazione più evidente è il formalismo giuridico: se il diritto è logica – e dunque una branca della filosofia – quel che conta è la coerenza dell’articolazione espressiva (affidata allo scritto), che inevitabilmente sovrasta (coerentemente con l’approccio idealista e metafisico) la realtà che ad essa deve confermarsi. Non sono i fatti a fornire le regole, ma sono le regole che governano e plasmano i fatti.
Quel che colpisce di questo processo è che la cultura giuridica italiana – soprattutto quella del diritto civile – imbocca la strada del formalismo giuridico – dal quale comincerà ad uscire solo 60 anni più tardi – quando già in Germania si avvia una riflessione critica sui danni del dogmatismo: le mirabili e indimenticabili pagine di Rudolf Jhering sull’ “empireo dei concetti giuridici” stanno a dimostrare la forza contrapposta del realismo.
Ma ancor più significativo è che l’insoddisfazione verso l’inaridimento dell’esegesi del Codice Napoleone, alla base della germanofilia della cultura giuridica italiana, porta in quegli stessi anni l’emergere di nuovi, ed innovativi, orientamenti fra i giuristi francesi: François Josserand, Raymond Saleilles e, soprattutto, Edouard Lambert.
I quali non disprezzano certo i progressi logici e tecnici della scuola tedesca ma li sfruttano funzionalmente al fine di svecchiare il diritto francese. In questa opera il metodo comparatistico applicato da Lambert si dimostra particolarmente utile.
4. Qual’è l’eco delle vicende d’oltralpe in Italia? Pur nella sommarietà della ricognizione può essere interessante analizzare, a mo’ di campione, alcune tra le esperienze ed iniziative più significative di quegli anni.
Si prenda, ad esempio, il “Programma” enunciato nelle prime pagine del primo fascicolo della Rivista di diritto civile, pubblicato nel 1909 e firmato da Alfredo Ascoli, Pietro Bonfante, Carlo Longo, E. A. Porro:
“Perché anche di un indirizzo ha bisogno ormai la nostra produzione scientifica di diritto civile; occorre che essa si faccia prettamente italiana. Fino a trent’anni or sono essa risentiva troppo dell’influenza francese, oggi tende a cadere soverchiamente sotto quella germanica; ed è invece necessario ormai che la nostra scienza del diritto civile attinga alle fonti della vita, dei bisogni, dei costumi, dei sentimenti italiani. Intendiamoci: non è una specie di nazionalismo della scienza, che noi vogliamo instaurare: la nostra Rivista si terrà anzi lontana da ogni esclusivismo nazionale: i risultati degli studi e dell’attività legislativa degli stranieri vi troveranno larga ospitalità; e ne è una prova il contenuto di questo primo fascicolo: ma l’influenza benefica, che nessuno può disconoscere a tutte le idee della scienza, a tutti i portati della pratica, da qualunque parte essi vengano, non basta a distruggere la necessità che la nostra scienza civilistica sia fondata su materiali italiani, sia opera di intelletti italiani. Ecco perché in questa Rivista daremo largo campo alla rassegna della legislazione, che via via si forma e si prepara in Italia: questo materiale facile a sfuggire all’attenzione di chi troppo agevolmente si innamora delle teoriche, che illustri scrittori ultramontani fondano sopra disposizioni legislative, sopra concezioni della vita e sopra bisogni diversi dai nostri, varrà a richiamare i nostri studiosi all’osservazione della vita paesana e ad indirizzarli sopra una via nella quale il connubio fra la pratica e la scienza sarà più facile, con quanto maggior profitto del progresso dei nostri studi, ognun vede”.
Se tale programma appare particolarmente aperto alla pratica e alla esperienza straniera, è bene considerare che esso è sottoscritto da uno dei romanisti più versatili dell’epoca, Pietro Bonfante, particolarmente attento ai fenomeni economici, come testimoniano le sue belle “Lezioni di storia del commercio” (tenute, non a caso, presso l’Università Bocconi) (Roma 1925).
Quanto proprio il mondo del diritto commerciale fosse lontano da chiusure e stereotipi lo conferma il “programma” che pochi anni prima due dei più innovativi giuristi italiani tra ‘800 e il ‘900 Cesare Vivante ed Angelo Sraffa, ponevano ad apertura della loro “Rivista del diritto commerciale”:
“Ma il diritto commerciale è una disciplina che al pari del commercio da cui deriva, si sviluppa con una collaborazione internazionale di leggi e di dottrine. L’essenziale omogeneità della vita commerciale si riflette nel diritto che la governa; non vi ha legge straniera che non possa servire di punto d’appoggio a un ulteriore progresso della legislazione nazionale, e spesso i risultati della giurisprudenza straniera, per es., in materia di cambio, di società anonime, di navigazione, possono risparmiare faticose e contraddittorie esperienze alla giurisprudenza italiana. Perciò attingeremo alle leggi e ai giudicati dei paesi che sono a capo del progresso civile per agevolare con la loro autorità razionale l’opera dei nostri giuristi”.
È sufficiente spigolare le prime annate di quella Rivista per rimanere colpiti, se non ammirati, per la vastità degli interessi dei direttori e degli autori: Sraffa si occupa della responsabilità dei sindacati nel diritto inglese, o dell’ “Holding trust” nei trasporti negli Stati Uniti, l’influenza di Herbert Spencer sul diritto delle società, le società per azioni straniere in Francia; Sarfatti del diritto commerciale inglese e sugli sviluppi ivi dell’assicurazione marittima; Roselli della legge inglese sul telegrafo senza fili; Segrè recensisce il libro di Saleilles sul codice civile tedesco.
Non si tratta di vera e propria comparazione ma attesta la qualità prima del comparatista e cioè la curiosità verso ciò che è diverso; e, d’altra parte, si tratta di un approccio assolutamente “moderno”, che a distanza di un secolo rimane attualissimo, in particolare per quanto riguarda l’attenzione al diritto anglo-americano, all’epoca ancora sconosciuto alla dottrina maggioritaria.
Ma questo excursus ci ha portato molto lontano dagli ambienti romanistico-civilistici nei quali opera Flaminio Mancaleoni e che domineranno la scena per gran parte del secolo appena iniziato. Uno dei testi che si imporrà negli atenei e che sarà una sorta di livre de chevet nei primi decenni del secolo, la “Enciclopedia giuridica” di Filomusi Guelfi, dedica allo studio della legislazione comparata una riga in nota, a proposito della riforma degli studi giuridici.
Dei rischi di isterilimento della riflessione si avvede quasi subito uno dei più eminenti romanisti-civilisti, Giovanni Pacchioni, che già nel 1916, nei suoi “Elementi di diritto civile”, nel constatare come la codificazione abbia finito per isolare i giuristi all’interno dei singoli confini nazionali, suggerisce:
“Due sono, a nostro avviso, i rimedi che possono scongiurare i pericoli inerenti a questo stato di cose, e cioè: da una parte il rinnovato studio del diritto romano dal punto di vista pratico, e dall’altra l’intensificazione delle ricerche di legislazione e di diritto comparato. Occorre illuminare e vivificare lo studio del codice civile patrio collo studio parallelo dei codici degli altri paesi, e più specialmente di quei codici che più si diversificano dal nostro”.
Gli fa eco uno dei più ingegnosi civilisti dell’epoca, Giacomo Venezian, prematuramente scomparso nell’inutile strage della grande guerra, dedicando, all’interno del suo studio, tuttora attualissimo, sulla causa del contratto, la prima riflessione nostrana sulla consideration nel contract inglese, creando quel binomio di inesauribile fecondità dialettica e comparatistica, che è “causa e consideration”.
Si tratta tuttavia solo di spie di grandi intelligenze individuali, le quali non deviano, né plasmano la grande corrente del diritto italiano.
5. Occorrerà attendere la fine della prima guerra mondiale ed i rinsaldati – anche se per poco – legami con Francia e Inghilterra per vedere i cambiamenti più significativi.
Volendo periodizzare, il decennio 1926-1935 è straordinariamente ricco di avvenimenti che balzano agli occhi anche per l’evidente contrasto con la sempre più accentuata impronta nazionalista ed isolazionista della politica fascista.
Nel 1926 Mario Rotondi apre l’anno accademico a Pavia con la sua prolusione su “Il diritto come oggetto di conoscenza. Dogmatica e diritto comparato”.
Da quel momento Rotondi rappresenterà, per almeno 40 anni, il maggiore esponente della comparatistica italiana, dando corpo ad una disciplina fino ad allora, accademicamente, ignorata.
Nel 1927 tre grandi accadimenti: la presentazione del progetto italo-francese di un codice delle obbligazioni nel quale il metodo comparato, ancorché non espressamente abbracciato, è adottato per recepire le grandi e positive novità portate dalla codificazione tedesca. Non è un caso che il IV libro del Codice Civile del 1942 – che sul progetto in larga misura si fonda – resti tuttora l’elemento più solido di tutto l’edificio, proprio perché felice sintesi di almeno tre modelli.
Lo stesso anno Vittorio Scaloja dà vita all’Istituto per l’unificazione del diritto privato (UNIDROIT) la cui vocazione comparatistica è tuttora viva e manifesta. E sempre nel 1927 Salvatore Galgano inizia l’Annuario di Diritto Comparato, che nel giro di pochi anni rovescerà sui tavoli dei giuristi italiani migliaia di pagine su leggi, sentenze, orientamenti dei paesi più vicini o lontani: dalla Francia al Giappone, dagli Stati Uniti all’Unione Sovietica, dall’America Latina all’Inghilterra. Forse non è esattamente quel che noi qualificheremmo “diritto comparato” ma ne fornisce le basi documentali.
Gli effetti non tardano a vedersi: nel 1933 Sarfatti dà alle stampe la versione definitiva (le dispense erano già di qualche anno prima) della sua “Introduzione allo studio del diritto comparato”; nel 1935 Remo Franceschelli pubblica “Il trust nel diritto inglese”. E di lì a poco, in quel clima così incoraggiante, muoverà i primi passi, seppure ancora da civilista, Gino Gorla.
6. La ricognizione svolta offre delle vedute sulla cultura giuridica italiana ai tempi di Flaminio Mancaleoni, ma soprattutto fa vedere come in tutte le epoche vi sia una tendenza del giurista a cercare fuori dal proprio sistema dei punti di riferimento fermi e di confronto.
Se accentuiamo questo profilo metodologico della comparazione ci avvediamo come alla fine del XIX secolo le teorie evoluzionistiche di derivazione darwiniana sono servite per dare un senso alla ricerca storica e porla su un continuum. Anche se oggi è facile criticare – se non addirittura irridere - talune conclusioni cui giungevano i giuristi dell’epoca, occorre confrontare tale movimento con quanto accadeva in precedenza. Pur con tutti i suoi schematismi, l’evoluzionismo portò il giurista a fare i conti con altre scienze umane e sociali e a scoprire la interdisciplinarietà.
Fra le due guerre l’attenzione sarà, quasi integralmente, dedicata alla legislazione e ai tentativi di unificazione convenzionale. Anche qui si coglie l’ingenuo ottimismo positivista, ma ancora una volta vi sono aspetti positivi, fra cui la conoscenza dei sistemi stranieri e l’affinamento delle tecniche redazionali, indispensabile per la formulazione di qualsiasi norma.
Quando la polvere delle distruzioni materiali e spirituali arrecati dal secondo conflitto mondiale si sarà posata, il comparatista si cimenterà con temi apparentemente più ristretti, ma non meno impegnativi: la ricerca del “cuore comune” degli ordinamenti e con essa l’analisi funzionale degli istituti; la circolazione dei modelli giuridici in particolare dei flussi fra civil law e common law.
Certo siamo molto lontani dalla “Evoluzione regressiva negli istituti giuridici” di Flaminio Mancaleoni; ma se qualche cosa abbiamo imparato da quella stagione è che anche la cultura giuridica si evolve sulla stratificazione delle esperienze passate.
E oggi non saremmo qui, se ieri anche in queste aule dell’Ateneo sassarese, non si fossero dedicate passione e intelligenza in quelle ricerche.