N° 1 - Maggio 2002 - Memorie

 

Rosario Cecaro

Università di Sassari

 

Il “risveglio” della stampa periodica

a Sassari negli anni Venti

 

 

Prima di parlare di risveglio della stampa, in Sardegna e a Sassari nei primi anni Venti, bisogna chiedersi se questo risveglio vi fu e come si manifestò. Domanda tanto più legittima, se si fa un confronto tra la situazione sarda e quella nazionale.

Lo scoppio della guerra aveva dato una scossa all’editoria italiana che, nei confronti di diversi paesi europei, era ancora arretrata, con qualche eccezione. Le tirature di tutti i quotidiani erano cresciute ma non soltanto perché la gente leggeva di più le notizie sulla guerra. Questo, del resto, si era già verificato quattro anni prima, in occasione della guerra di Libia: i quotidiani interventisti, con il Corriere della Sera in testa, che avevano seguito le vicende militari con uno stuolo di inviati, avevano visto i loro sforzi premiati con un vertiginoso aumento dei lettori. Secondo Paolo Murialdi il Corriere superò nettamente le 200 mila copie di tiratura assicurandosi il primato. Con la fine della campagna di Libia, però, per quasi tutti i giornali la situazione delle vendite era tornata ai livelli precedenti e per quegli editori che non avevano una situazione finanziaria molto solida (in pratica la quasi totalità degli editori italiani) i debiti crebbero ancora.

 Dal 1915, invece, lo sviluppo della stampa diventa meno effimero. L’aumento delle tirature, infatti, viene favorito anche dal basso prezzo della carta che, in quell’anno, passa da 120 lire a 35 lire al quintale. Nel 1916 viene imposto un prezzo politico, con vincoli al numero delle pagine che possono essere stampate, non più di sei. Il governo, riconoscendo l’importanza della propaganda e del ruolo svolto dai giornali, carica su tutta la comunità i maggiori costi che gravano sulla stampa e che sono dovuti alle difficoltà nei trasporti e nell’approvvigionamento di materie prime. Questa legislazione favorevole viene mantenuta per sei anni anche dopo la fine della guerra e questo consente ai giornali di conservare le alte tirature, anche se non ci sono più eventi bellici da raccontare. Ben presto, d’altra parte, l’attenzione dell’opinione pubblica sarebbe stata calamitata dalle convulse vicende politiche del dopoguerra.

L’altro fattore di mutamento è determinato dall’ingresso dei grandi capitali nella stampa. Le imprese editoriali italiane non avevano mai navigato nell’oro. Con l’eccezione del Corriere della Sera, della Stampa e di quelle poche altre che avevano raggiunto un’autonomia finanziaria, la maggior parte delle testate vivevano grazie ai legami politici, che procuravano loro sostanziosi contratti pubblicitari, e ai finanziamenti, segreti ma fino a un certo punto, che il governo faceva arrivare, attraverso i prefetti, alla stampa amica.

L’interesse economico e politico delle grandi aziende, soprattutto di quelle siderurgiche e manifatturiere, s’incontra con quello delle imprese editoriali in difficoltà finanziarie. Si assiste così a un mutamento di proprietà che tocca quasi tutti i giornali italiani e che si conclude quando il fascismo sale al potere. L’arrivo di denaro fresco porta anche all’ammodernamento degli impianti, con l’acquisto di nuovi edifici, di rotative e di linotype. La modernizzazione investe, in breve tempo, la veste grafica dei quotidiani, che diventano meno austeri e uniformi, e coinvolge anche i contenuti.

Tutto questo, però, non accade in tutta l’Italia. Valerio Castronovo scrive che “Le trasformazioni tecniche e le combinazioni editoriali del periodo bellico e dell’immediato dopoguerra avevano accentuato gli squilibri nella distribuzione geografica dell’editoria giornalistica. Milano, Roma, Genova, Firenze, Bologna e Torino concentravano ormai oltre la metà delle testate e una quota tra 80 e 85 % della produzione di carata stampata giornaliera. Soltanto una decina di centri periferici continuavano ad essere sede di giornali quotidiani, peraltro di modesta tiratura; tutti (eccetto Catania) nelle regioni centro settentrionali mentre il lettore del Meridione faceva riferimento, di regola, alla stampa della capitale e di Napoli. In questo senso anche la pubblicità aveva ormai operato da discriminante nel processo di concentrazione editoriale a scapito della provincia”.

Dal punto di vista della diffusione della stampa e della lettura la Sardegna può essere collocata in quest’area centro settentrionale. E’ una caratteristica, questa, che si è conservata fino ai giorni nostri: la Sardegna oggi è una delle regioni dove si legge di più in Italia, in rapporto alla popolazione più che in Piemonte o nel Veneto.  Si è calcolato che già agli inizi del Novecento leggessero almeno un quotidiano tutte le persone che si recavano a votare. Subito dopo la grande guerra e nei primi anni Venti nell’isola si pubblicano ben sei quotidiani: a quegli “storici” e ormai affermati, L’Unione Sarda e La Nuova Sardegna, si aggiungono, infatti, Il Risveglio dell’Isola e Il Corriere di Sardegna, che vengono stampati a Cagliari, Il Solco, pubblicato a Cagliari e, per brevi periodi, anche a Sassari, e L’Isola, il quotidiano del Partito fascista, che nasce a Sassari nel 1924 per fare concorrenza, da destra, alla Nuova Sardegna e che soppianta il quotidiano sassarese quando questo, nel 1926, viene costretto a chiudere.

Oltre ai quotidiani, l’editoria sarda post bellica vede un fiorire di periodici: solo alcuni, però, continuano le pubblicazioni per qualche anno, la maggior parte si limita a una breve apparizione o a un semplice numero unico. Tra periodici più longevi va citato Libertà, un settimanale fondato a Sassari nel 1910 da Padre Manzella, che viene pubblicato tutt’ora. Libertà diviene, dai primi numeri, il giornale delle autorità diocesane sassaresi e si caratterizza per le polemiche con i fogli laici e socialisti.

Perché la nascita di tanti periodici e in così breve periodo? Con il ritorno della pace vi è una ripresa vivace dell’attività politica. Particolarmente attive sono le associazioni dei combattenti, che danno vita a numerosi periodici d’opinione, che riescono ad attirare l’attenzione di tutta la stampa e, in qualche misura, a condizionarla. Secondo Laura Pisano  “in Sardegna i giornali diventarono da quel momento parte integrante della vita del partito e della lotta politica, oltre che sede naturale di dibattito, di orientamento, di informazione”.

Come sono fatti questi giornali, con quali mezzi riescono a sostenersi? In Italia vi fu, dicevo all’inizio, una scalata alle testate dei quotidiani e dei periodici più importanti da parte dei grandi gruppi industriali e del grande capitale. In Sardegna l’unico rilevante mutamento di proprietà fu quello che avvenne nel 1920, quando L’Unione Sarda fu acquistata dall’industriale Ferruccio Sorcinelli, finanziatore delle prime squadre fasciste dell’iglesiente. Il mancato matrimonio tra industria e stampa sarda riuscì, per qualche tempo, a garantire autonomia e indipendenza ai giornali della Sardegna, a prezzo, però, di una povertà  di capitali che significò pochi mezzi e poche tecnologie: le tipografie erano poco attrezzate, molte usavano ancora la composizione a mano.

L’Unione Sarda e la Nuova Sardegna erano all’avanguardia. Dopo un avvio difficile e le avvisaglie di crisi all’inizio del Novecento, erano riuscite a ristrutturare le rispettive aziende e ad aggiornare le tecnologie: allo scoppio della guerra entrambi i giornali stampavano su rotativa e componevano con le linotype, allora macchine modernissime.

Negli anni Venti, però, anche questi due giornali sembrano tagliati fuori dalla ventata di progresso che stava investendo l’editoria italiana.

Capitali e tecnologie hanno trasformato, in Italia, anche la professione giornalistica. I tremila giornalisti italiani sono più professionalizzati ma, anche, più inquadrati gerarchicamente. Nell’organizzazione dell’impresa giornalistica emergono solo i direttori e le grandi firme. Tutti gli altri, che fanno funzionare la “macchina” del giornale, operano nell’anonimato. Paolo Murialdi riferisce che nel 1920 si parla di “proletariato giornalistico” e di “giornali senza personalità”.

Se questo è vero, e se questo è un difetto, possiamo dire che la Sardegna ne è immune; per arretratezza, è vero, ma ne è immune.

Nel giornalismo sardo era stata sempre mitizzata la bella penna, il giornalista era un semi professionista che dedicava parte del suo tempo agli articoli del giornale Questo avveniva anche nelle rinnovate Unione Sarda e Nuova Sardegna. Negli altri giornali era quasi sempre una necessità: la ristrettezza dei mezzi faceva sì che le figure dei proprietari e dei redattori spesso coincidessero.

Nonostante questa situazione, si è andata formando, anche in Sardegna, una categoria di giornalisti professionisti di grande valore. Ha osservato Laura Pisano che questo giornalismo “peraltro, riservando alle sue prime pagine l’esposizione di questioni assai complesse per lettori spesso non provenienti dal ceto intellettuale, e comunque scarsamente politicizzati, si avvaleva di espedienti che consentivano di mantenere un legame strettissimo con il pubblico, quali la cronaca locale, la pubblicità, il romanzo d’appendice.”

Grazie a questa formula, adottata da Medardo Riccio, la Nuova Sardegna si è trasformata da giornale politico di opposizione a quotidiano di informazione. Riccio era un giornalista d’esperienza, che aveva lavorato all’Ora di Palermo, a Cagliari e a La Sardegna, quotidiano sassarese di fine Ottocento. Quando assume la direzione, trasforma un foglio, nato per sostenere il gruppo del deputato Garavetti, in un giornale ricco di notizie che nel 1896 raggiunge la ragguardevole tiratura di 4500 copie, e nel quale riesce a rispecchiarsi tutta la borghesia cittadina, non solo i gruppi politicizzati e di opposizione.

Nel 1920 la Nuova ha perso buona parte dei suoi toni polemici, ha stemperato il suo radicalismo. Solo di nome resta il giornale della sinistra progressista. Nell’immediato dopoguerra comincia a svolgere una polemica pungente nei confronti dei sardisti e dei socialisti e a guardare con sempre maggior attenzione il sorgente Partito fascista. Il direttore Medardo Riccio, del resto, è ideologicamente vicino al Pnf mentre il deputato Garavetti vi aderisce. Nel 1923, dopo la morte di Riccio, il nuovo direttore Arnaldo Satta Branca riporta la Nuova su posizione antifasciste, esponendola a numerosi sequestri e, nel 1926, alla chiusura.

Nel 1920 la Nuova Sardegna ricalca il modello tradizionale dei quotidiani sardi: quattro pagine, la prima dedicata agli avvenimenti nazionali e al commento, la seconda alle notizie della Sardegna, la terza alla cronaca cittadina e agli argomenti di carattere letterario, e la quarta al romanzo d’appendice e alla pubblicità.

Per qualche settimana esce con due sole pagine: la carta è ancora poca, i costi alti, si vive ancora in un’economia post bellica. La veste grafica riflette questa austerità: titoli poco vistosi mentre le colonne seguono, una dopo l’altra, le notizie suddivise per argomento e provenienze, ma tutte contraddistinte da una rigorosa uniformità grafica. Solo raramente appaiono titoli su due o tre colonne e su argomenti nazionali, in genere sulla politica e sui problemi del governo, sempre in apertura di pagina, mai di taglio.  Il giornale costa, allora, 10 centesimi. Nel mese di gennaio stampa già quattro pagine, ma da più spazio alla politica e alle notizie nazionali.

I contenuti del giornale riflettono molto i problemi economici e sociali post bellici. Sono ricorrenti le notizie che si occupano di trasporti e di approvvigionamenti. I titoli o sono enunciativi o esprimono in modo netto le opinioni politiche del giornale: “Il sedizioso sciopero dei ferrovieri” titola un articolo nel gennaio del 1920.

A parte il mutato orientamento politico, la Nuova non sembra molto diversa da quella degli inizi del secolo. Forse è diventata meno vivace, soprattutto se la si paragona ai giornali nazionali che in quello stesso periodo si trasformano e si modernizzano, e con i quali il giornale sassarese fino a poco tempo prima aveva retto il confronto.

Le innovazioni vengono soprattutto dalla pubblicità. Le inserzioni appaiono decisamente più vivaci rispetto al resto del giornale. I prodotti nazionali vengono reclamizzati corredandoli di disegni e riproduzioni e anche gli inserzionisti locali si adeguano alla nuove mode. E’ la pubblicità, più degli articoli dei giornalisti, a segnalare ai lettori sardi che la società postbellica si è rimessa decisamente in movimento, che sul mercato c’è di nuovo abbondanza di prodotti, che stanno nascendo nuove tecnologie per la vita di tutti i giorni e per il lavoro.

Il 25 agosto del 1920 La Nuova pubblica la riproduzione di un volto femminile a corredo di un articolo che si occupa della visita in Sardegna della “bionda attrice polacca Soave Gallone”, un cognome, per la verità, poco polacco e molto “napoletano”. Bisognerà aspettare un anno per vedere un’altra foto sul quotidiano di Sassari. Il primo agosto del 1921 viene sbarcata a Porto Torres la salma del capitano Antonio Oggiano, soldato della Sassari caduto sul Monte Zebbio nel 1917. Oggiano era stato atleta della Torres e i funerali si svolgono con la partecipazione di una folla di sportivi. Il giorno dopo la Nuova pubblica il resoconto della cerimonia con una foto del capitano Oggiano. Le ristrettezze dei bilanci del giornale costringevano, evidentemente, a risparmiare sui costi delle riproduzioni e sullo spazio che cliché e disegni sottraevano alle notizie.

La Nuova Sardegna non è l’unico quotidiano di Sassari. Per un breve periodo in città viene stampato anche il Solco, settimanale dei combattenti, diventato poi quotidiano ed organo ufficiale del partito sardo d’azione. Il Solco è giornale prevalentemente di opinione. Radicale e nazionalista all’atto della fondazione, nel 1919, assume poi una posizione regionalista e separatista. Dopo il 1923, a fino alla chiusura nel 1926, è fortemente antifascista e aventiniano.

La vivacità nel campo editoriale a Sassari si manifesta però, soprattutto, attraverso la nascita di numerosi periodici.

Tra il 1920 e il 1923 vengono pubblicati 24 nuovi giornali, che hanno però, quasi tutti, vita breve. Sono numeri unici, pochi riescano a uscire con regolarità. Alcuni, pochi, sono giornali politici, altri hanno carattere tecnico. La maggior parte sono giornali umoristici. C’era, evidentemente, molta voglia di ridere. Nel 1924 si assiste a una nuova impennata nel numero di pubblicazioni che, tuttavia, dura poco: il regime comincia a farsi sentire e passa anche la voglia di scherzare.

Il 17 giugno viene deposto Flaminio Mancaleoni, l’ultimo sindaco eletto democraticamente. L’anno dopo, nel 1925, a Sassari per la prima volta dall’inizio del secolo, non nasce neppure un giornale nuovo, quelli esistenti cominciano a chiudere; alla Nuova Sardegna toccherà nel 1926.

Considerato il problema dell’isolamento, la scarsità di risorse economiche, l’arretratezza tecnologica, l’organizzazione aziendale spesso approssimativa, considerato tutto questo si può dire che a Sassari, nei primi anni Venti, il risveglio della stampa periodica vi sia, anche facendo il confronto con la situazione nazionale. E’, anzi, tanto più significativo e apprezzabile, perché attuato con la scarsità di mezzi e, prevalentemente, con la ricchezza di inventiva e di idee. E’ un risveglio che comincia tardi e viene soffocato sul nascere dalle leggi che sopprimono la libertà di stampa. Fa in tempo, però, a produrre degli effetti positivi se, passato il ventennio fascista, si può costatare che il giornalismo e l’editoria sarde hanno conservato passione e professionalità e mantenuto, fino ai giorni nostri, una posizione di tutto rispetto nella stampa nazionale.