Pietro
Pinna
Università di Sassari
Crisi
dello Stato liberale e teoria della costituzione in Italia
1. "Il problema decisivo del nostro contesto storico attuale riguarda il rapporto fra Stato e politica. Una dottrina formatasi nel XVI e XVII secolo, inaugurata da Nicolò Machiavelli, Jean Bodin e Thomas Hobbes, attribuiva allo Stato un importante monopolio: lo Stato classico europeo divenne l'unico soggetto della politica. Stato e politica furono indissolubilmente rapportati l'uno all'altra, allo stesso modo come, in Aristotele, «polis» e politica sono inseparabili. Il profilo classico dello Stato svanì quando venne meno il suo monopolio della politica e si insediarono nuovi, diversi soggetti della lotta politica, con o senza Stato, con o senza contenuto statale (Staatsgehahe)"
E’ difficile trovare parole più chiare di queste scritte da Carl Schmitt per esprimere il punto di partenza del ragionamento sulla crisi dello stato liberale e sulla teoria della costituzione in senso materiale che sto per svolgere.
L’arena politica tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento è stata occupata dai partiti di massa e dai sindacati. Da questo momento in poi la politica è stata non più soltanto statale, ma anche e soprattutto partitica (più precisamente, lo stato è diventato strumento della politica di partito); i costituzionalisti sono stati chiamati ad elaborare la forma dell’unità politica, divenuta problematica in una situazione di divisione in molteplici partiti politici. Questa forma di partizione politica apparsa in Europa già negli anni Venti – durante la prima esperienza europea di democrazia pluralista, durante cioè la Repubblica di Weimar, - ha prodotto uno scontro poderoso e tragico tra grandi forze antagoniste, portatrici di opposti progetti complessivi di strutturazione sociale. La giuspubbicistica di lingua tedesca è stata quella che più di ogni altra ha elaborato le teorie costituzionali adeguate a questa situazione. Le dottrine della costituzione astratte (Kelsen) o concrete (Schmitt, Heller e Smend) si sono contese il terreno definendo lo stato come un ordinamento normativo o politico. La discussione ha fissato alcuni tra i più rilevanti nodi teorici del costituzionalismo europeo del Novecento. Ha riguardato essenzialmente la questione se lo stato sia un ordine formale, dato da una costituzione dell’ordine normativo, che stabilisce cioè chi e come produce il diritto, oppure un ordine concreto, una unità politica. L’unità politica è stata concepita come una decisione sovrana (Schmitt) o come un processo di integrazione (Smend) o ancora come un’organizzazione legittimata da principi giuridici-etici (Heller).
2. In Italia il problema dell’unità politica sollevato dalla crisi dello Stato liberale è stato tematizzato come teorizzazione dell’indirizzo politico. La riflessione italiana che negli anni ’30 scopre l’indirizzo politico o la funzione di governo idealmente è iniziata nel 1909 con la prolusione pisana di Santi Romano. Infatti, è in questo discorso di Romano che emerge la consapevolezza della fine dello stato liberale per politicizzazione o ‘corporativizzazione’ della società, la coscienza cioè di una condizione nella quale non c’è più la possibilità di concepire l’unità statale come un dato presupposto, come una realtà intrinseca allo stato. Nello stato liberale era impossibile pensare che potesse esistere un centro politico ed un processo di unificazione extrastatale. La politica era soltanto statale. Perciò quando la società civile si è politicizzata, quando i molteplici e diversi interessi sociali (specie quelli operai e popolari, esclusi dallo stato liberale) si sono organizzati e hanno trovato rappresentazione politica nei sindacati e soprattutto nei partiti, lo stato non poteva più rapportarsi con una società composta da singoli individui, quindi impolitica, che conosce soltanto la competizione tra soggetti (formalmente) eguali in un (quasi) libero mercato. In definitiva, quando l’organizzazione politica si è socializzata, quando cioè gli interessi si sono strutturati con ‘corporazioni’ politiche, allora lo stato liberale si è disgregato, perché ha perduto la società civile.
L’indirizzo politico è una teorizzazione dello stato come una realtà politica, che riceve dall’esterno la direzione della sua azione. Questa teoria va collocata nel contesto in cui il progetto di società borghese presupposto dallo stato liberale non era più un progetto di tutti e che si impone a tutti, perciò obiettivo, insomma non era più stato-sovrano. L’unità politica quindi non poteva più essere intrinseca alla statualità, perché essa non era più data da una classe sociale egemone che era riuscita ad affermare come costituzione il suo progetto di società e che quindi l’organizzazione statale e il pensiero giuridico potevano dare per presupposta. In conseguenza, l’unità politica andava costruita a partire dalla società, cioè dall’esterno dello stato, perché lo stato non era più l’unità politica, ma un mezzo per realizzarla.
3. Secondo la teoria della costituzione in senso materiale elaborata da Costantino Mortati nel 1940, il partito politico è il centro non statale di direzione politica. Mortati teorizza la costituzione materiale come istituzione posta e imposta non da tutti gli interessi organizzati politicamente, ma soltanto dagli interessi vincenti; non da tutte le forze politiche, ma soltanto dalla forza politica che è riuscita a imporre alle altre, e quindi all’intera società, la sua idea politica. E’ l’unità raggiunta attraverso la vittoria di una parte degli interessi sociali e la sconfitta degli altri. In definitiva, è la costituzione della forza politica, del partito politico dominante. Il partito politico è il soggetto della costituzione, la sua idea politica ne è il contenuto, ovvero, la materia della costituzione, lo scopo che da unità politica alla società, consentendole di elevarsi a stato. Questo partito politico è totalitario nel senso che è il portatore di una concezione generale, di un progetto complessivo, totale di strutturazione sociale. L’unità politica in conseguenza è il risultato dell’affermazione di un partito sugli altri, di un progetto di società sugli altri. In definitiva, la costituzione è il fine dello stato imposto dal gruppo sociale dominante organizzato politicamente in partito. Sebbene quello di partito sia un interesse o uno scopo di parte, di una parte sociale, di una classe o di un blocco sociale, esso tuttavia è “totalitario” nel senso che corrisponde ad un’idea politica generale, ad una concezione della società, insomma ad una “Weltanschauung politica”.
Questo punto di vista non è
molto diverso da quello decisionista di Carl Schmitt. Anche Mortati concepisce
l’unità statale come un ordine sostanziale e concreto stabilito sovranamente.
Tuttavia, la teoria mortatiana si
differenzia da quella schittiana per alcuni profili che mettono in luce diverse
prospettive di politica costituzionale.
Il pensiero di Schmitt è rivolto contro il pluralismo partitico, così da
costruire una unità statale, nonostante e se necessario contro, i partiti.
Mortati invece teorizza l’unità statale attraverso il partito. Egli immagina un
processo di unificazione che ha radici politico-sociali; Schmitt considera
esclusivamente fenomeni politico-statuali. La costruzione di Mortati parte
dalla società e va in direzione del superamento della separazione liberale tra
lo stato e la società civile. Il partito politico è (auto)organizzazione della
società e la sua statalizzazione appartiene ad un processo di socializzazione
dello stato.
Schmitt milita per la preservazione della neutralità statale, della
decisione statale neutrale, in quanto espressiva della “unità e globalità”.
Egli è per lo Stato estraneo alla partizione politica, tutore della condizione
di unità politica in quanto capace di opporsi alla divisione. Mortati invece
accoglie pienamente la tendenza contemporanea alla partizione politica, cioè al
conflitto sociale che si organizza politicamente e quindi in certa misura si
statalizza. La questione dell’unità politica dello stato, per lui, è risolta
con l’affermazione di un partito sugli altri, col fatto che l’indirizzo
politico del partito vittorioso diventa l’indirizzo fondamentale dello stato,
sulla base del quale si unificano tutte le funzioni dello stato (legislative e
amministrative). La diversa posizione riguardo alla partizione politica
comprende anche e necessariamente un diverso atteggiamento rispetto
all’integrazione nello stato degli interessi sociali. Mentre il discorso di
Schmitt è chiuso in un ambito rigorosamente politico-statale, quello di Mortati
è invece aperto alla società, agli interessi sociali nel momento in cui essi si
organizzano in partito, quindi si politicizzano e si statalizzano. E’ questa la
componente integrativa della teoria mortatiana, che la distingue in modo
rilevante dal decisionismo schmittiano.
In definitiva, l’aspetto che caratterizza in modo peculiare l’elaborazione mortatiana, differenziandola, per un verso, dalla teorizzazione decisionista di Schmitt e, per un altro verso, da quella dell’integrazione di Smend, è l’idea dell’integrazione realizzata dal partito politico. Questo è il soggetto che organizza politicamente gli interessi sociali e li integra nello stato.
La speciale valorizzazione del partito politico, in più inserita nel contesto di una concezione integrativa, coglie sicuramente un fenomeno caratteristico del costituzionalismo contemporaneo. Infatti, l’idea dell’integrazione attraverso il partito politico riguarda situazioni costituzionali del Novecento di segno molto diverso: in particolare concerne tanto l’esperienza fascista quanto quella democratico pluralista e forse anche quella socialista-sovietica. Quindi l’integrazione partitica verosimilmente è una tendenza generale che in Europa ha attraversato tutti i più importanti tentativi di soluzione delle questioni costituzionali determinate dalla dissoluzione dello Stato liberale.
Tuttavia, neppure la teoria
della costituzione in senso materiale coglie l’essenza del costituzionalismo
del secondo dopoguerra, come del resto tutte le dottrine della costituzione del
Novecento che hanno teorizzato sistemi costituzionali piramidali e
gerarchizzati espressione di una sottostante omogemità politica. La
costituzione della democrazia pluralista infatti non è un progetto globale di
società, non è un’idea politica totale che non ammette la coesistenza di altri
indirizzi. Non c’è più, non ci può più essere, un unico principio ordinatore,
una costituzione (unica) data da un sovrano, ma in una situazione di democrazia
pluralista ci sono molte costituzioni, o meglio, c’è una costituzione complessa
che si compone di molti elementi irriducibili ad unità, ma integrabili. L’unità della democrazia pluralista non può
essere un qualcosa che annulla il pluralismo, una sintesi della pluralità che
riduce i più a uno che li comprende tutti; insomma non può essere una unità che
vada oltre, che trascenda la divisione pluralistica; che quindi si affermi
oltre, nonostante e contro le molte e diverse parti politiche. Non è un dato,
ma piuttosto un risultato, ottenuto con le relazioni tra le molte parti, la
loro interconnessione e influenza reciproca; è l’unità raggiunta attraverso
l’integrazione discorsiva.
L’organizzazione delle costituzioni democratico-pluraliste è senza un vertice, un ponte di comando; in esse non c’è alcun processo decisionale concentrato in un centro, in una istituzione. Non c’è più uno stato-progetto di società da realizzare e quindi neppure un vertice unitario dal quale muovano i processi di unificazione politica o normativa, di costruzione di un ordine politico-sociale e di un ordinamento giuridico. I processi decisionali della democrazia pluralista sono non lineari, ma circolari e quindi non consentono di individuare niente e nessuno che possa dominarne il loro svolgimento e predeterminarne gli esiti. In conseguenza, l’unità del sistema è processuale e dinamica, è il risultato – mai definitivo – di un processo che coinvolge e comprende molteplici soggetti e funzioni, che si intersecano variamente nei diversi procedimenti decisionali
Il sistema istituzionale, strutturalmente privo di un centro, nel quale le decisioni sono il risultato di procedimenti dialogici, è integrato sul piano funzionale. Perciò implica la differenziazione funzionale e richiede che ogni nodo della rete politico-istituzionale si caratterizzi, si differenzi, cosicché ciascuno dipende dagli altri nodi. La necessità della caratterizzazione indirizza verso forme di governo molto selettive, capaci di esprimere indirizzi politici univoci, nelle quali il profilo governativo prevale nettamente su quello rappresentativo. Il baricentro decisionale tende a spostarsi dall'assemblea elettiva verso l'apparato governativo. Ma questo non comporta una riduzione del sistema rappresentativo, una sua semplificazione che esclude da esso parti della struttura sociale e politica. In altri termini, la rappresentazione politica della molteplicità sociale non è diminuita; ha piuttosto cambiato forma ed è aumentata. L'accentuata tendenza integrativa delle costituzioni della democrazia pluralista ha trovato nella diffusione reticolare del potere un modo più adeguato dell'assemblea elettiva centrale per rappresentare la molteplicità sociale e politica. In breve, siccome non c'è più un centro, la rappresentanza pluralistica storicamente affidata all'assemblea parlamentare è oggi assicurata soprattutto da un sistema istituzionale tanto complesso e dinamico quasi quanto la società che rappresenta. Deriva da qui la crisi dell'istituzione parlamentare, cui si connette, in qualche modo, quella del partito politico di massa, specialmente di quello centralizzato, come forma sociale di organizzazione politica, come luogo di organizzazione e di rappresentazione politica della società (più precisamente, di parti della società).
L’evoluzione dell’ordinamento democratico e pluralista è approdata a qualcosa di diverso del pluripartitismo: la molteplicità delle sedi della rappresentanza politica, corrispondente alla pluralità e varietà degli interessi, non può essere più rappresentata in un’unica sede, l’assemblea parlamentare. Questa quindi non è il luogo del compromesso tra i contrapposti partiti politici, che Kelsen aveva immaginato. Non c’è, infatti, una sola istituzione rappresentativa di tutto e di tutti, ma ci sono molti e diversi luoghi istituzionali, espressivi dei vari e molteplici interessi. Non c’è più neppure il partito politico capace di esprimere una idea unitaria e globale di strutturazione sociale: i grandi progetti complessivi di società della tradizione illuministica si infrangono oggi contro una complessità sociale irriducibile all’interno di un unico disegno unitario e compatto. L’unità costituzionale non può essere il compromesso tra questi progetti; è piuttosto il risultato del processo discorsivo che si svolge tra i molti e diversi nodi del complesso reticolo istituzionale. Questo è rappresentativo di una società assai articolata e dinamica, nella quale ciascun individuo nel corso della sua esistenza occupa diverse posizioni e ruoli sociali. Pertanto, nella situazione costituzionale attuale la dottrina della costituzione in senso materiale di Mortati non può essere riproposta sostituendo il partito con i partiti politici, cioè parlando del partito al plurale invece che al singolare. E’ in crisi la forma partitica; e questa crisi è la causa e, allo stesso tempo, l’effetto di una formidabile trasformazione che mette in discussione il costituzionalismo tradizionale dell’Europa continentale.