Paolo GARBARINO
Credo che parlare di Mancaleoni interpolazionista significhi, al di là dei risultati e delle prospettive aperte dai suoi lavori, porre l'accento sul momento del tutto peculiare della storia degli studi romanistici, in cui egli si trovò a operare negli anni giovanili, quando dedicò le sue energie all'attività di ricerca. La sua produzione si colloca, per lo più, tra l'ultimo decennio dell' '800 e il primo del '900 (con qualche punta negli anni '20). Si tratta di un periodo cruciale, che vede nei nostri studi l'affermarsi sempre più deciso della critica interpolazionistica - nell'ambito di un approccio più marcatamente storicistico al diritto romano - e il progressivo, ma ancora non totale declino dell'impostazione dommatica, legata all'esperienza pandettistica. Sullo sfondo sta, pare ovvio osservarlo, l'entrata in vigore del BGB il 1 gennaio del 1900, che sancì il definitivo abbandono in Europa (a parte marginalissime eccezioni) della concreta vigenza del diritto romano.
Mario Talamanca ha giudicato cruciali gli anni 90 del XIX
secolo, "perché - cito testualmente - si venne a fissare la cornice nella quale si sarebbe svolta, per
circa un cinquantennio, la ricerca sulle fonti romanistiche e sui loro
contenuti giusprivatistici"[La
romanistica italiana tra ottocento e novecento, Index 1995], notando come
in quegli anni emergesse una sorta di bipolarismo tra diritto classico e
diritto giustinianeo, quest'ultimo inteso come diritto della compilazione, con
la conseguenza di lasciare nell'ombra tutto il diritto tardoantico - diciamo,
grosso modo, da Diocleziano sino ai confini dell'età giustinianea, e, in parte,
anche il diritto delle novelle -. Il metodo interpolazionistico aveva dunque
soprattutto la funzione di ricostruire il diritto c.d. classico, distinguendolo
da quello giustinianeo (e, per lo più, solo da quello, almeno in questa fase
dei nostri studi), con un generale appiattimento (o, se si vuole,
concentrazione) dei dati storico-giuridici su questi due poli, senza tenere in adeguata considerazione i
segni del più articolato sviluppo degli istituti e del pensiero
giurisprudenziale che pure sono presenti nelle fonti.
A fronte di questa tendenza, per così dire, nuova, a
cavallo dei due secoli permane - oserei dire almeno in parte quasi per inerzia
- l'influenza della cultura pandettistica, che, per esempio, si manifesta in
Italia, tra l'altro, nelle traduzioni, accompagnate da ricche note di commento,
dei grandi trattati tedeschi (vedremo subito come alla traduzione del Commentario alle Pandette di Glück
collabori lo stesso Mancaleoni). Un segno che si tratta di un periodo di
transizione, in cui l'esperienza culturale e la metodologia di approccio alle
fonti che avevano caratterizzato il recente passato continuava a giocare un
ruolo (invero, nel lungo periodo, sempre meno centrale e propositivo). Questo,
forse, com'è stato notato, va collegato con una certa persistenza di
un'autonoma attenzione al diritto giustinianeo - soprattutto a livello
didattico (si pensi per esempio, alle Istituzioni di Perozzi) -, o, meglio, al
'sistema giustinianeo', attenzione che, secondo Talamanca, dovrebbe leggersi
come "perpetuazione, seppure in
forme diverse, della vecchia tradizione di 'ius commune'".
Ora, l'opera di Flaminio Mancaleoni mi pare che rispecchi
entrambe le impostazioni di metodo (o, se si vuole, culturali) che - sia pure a
costo di qualche semplificazione - ho cercato di riassumere e che mi paiono
caratterizzare la romanistica italiana del periodo a cavallo dei due secoli:
apertura verso l’interpolazionismo da un lato, persistenza della prospettiva
dommatica e sistematica, di matrice anche pandettistica, dall’altro lato.
Vorrei in primo luogo sottolineare gli interessi
dommatici di Mancaleoni: egli, come già detto, collaborò alla traduzione delle
Pandette di Glück - di cui erano direttori Pietro Cogliolo e, soprattutto,
Carlo Fadda, il suo maestro -; a lui è dovuta, in particolare la traduzione del
titolo De nautico foenere, apparsa
nel libro XXII dell'opera, pubblicato nel 1906. Le sue note di commento, a
parte eccezioni del tutto secondarie, non danno spazio a particolari problemi
interpolazionistici, né l'opera, mi sembra, era idonea a questo scopo. Semmai
si può osservare come non manchi il confronto con il diritto vigente -
nell'ottica del resto dei propositi apertamente dichiarati dagli ideatori e
curatori dell'impresa editoriale (tanto che in copertina dei volumi si precisa
che il Commentario alle Pandette è arricchito di copiose note e confronti col
Codice civile del regno d'Italia) -, che si sostanzia, in particolare, in
una lunga nota (pag. 184 n. gg) dedicata al contratto di assicurazione
marittima secondo il diritto italiano allora vigente.
La partecipazione alla traduzione del Commentario di
Glück, al di là dei motivi contingenti che possono averla suggerita, mi pare
sia del tutto coerente con gli interessi scientifici di Mancaleoni, il quale in
tutti i suoi lavori non manca mai di instaurare un confronto sempre attento e
costante con la dottrina tedesca del recente e meno recente passato, ivi
compresi i pandettisti. Alcuni suoi lavori, in particolare, sono caratterizzati
da ampie discussioni sulle posizioni della dottrina: a titolo di esempio si
possono ricordare il saggio apparso nel 1898 sull'Archivio Giuridico in tema di
mandato (Esame esegetico-critico del fr.
49 D. mandati 17.1) o quello pubblicato nel 1899 su Il Filangieri dal
titolo La in rem versio nel diritto
giustinianeo, in cui si trovano vere e proprie rassegne delle opinioni
espresse dalla dottrina tedesca in merito ai passi sottoposti a esame, con
citazioni che vanno, tra gli altri, da Savigny, Jhering, Karlowa da un lato a
Glück, Vangerow, Arndt-Serafini, dall'altro lato; mi pare che ciò denoti un
interesse scientifico che coinvolge sullo stesso piano sia i lavori di
pandettisti in senso stretto, sia quelli di grandi studiosi che avevano
privilegiato un apporto più storicamente orientato. Il dato è comune ad altri
romanisti italiani che scrivevano a fine '800. Mi pare però di un certo
interesse averlo rilevato, in quanto colora in una certa direzione l'approccio
interpolazionistico di Mancaleoni. [Ancora una notazione, sia pure marginale,
sull'attenzione che Mancaleoni mostra verso la cultura giuridica tedesca: essa
non sembra limitata al solo utilizzo delle opere dei giuristi d'oltralpe nel
lavoro scientifico; vi è qualche traccia, ancora tutta da controllare, che
lascia intuire come egli avesse rapporti epistolari con gli studiosi tedeschi e
dunque che la discussione scientifica in taluni casi assumesse la veste di un
rapporto interpersonale]. Mi sembra dunque che egli parta da una forte base
dommatica e solo alla luce di essa introduca il discorso interpolazionista. L'interpolationeniagd appare - almeno
credo - non esclusivamente fine a se stessa, ma radicata su un impianto
interpretativo dommatico di tipo tradizionale, con scelta culturale che sarà
poi, almeno in parte, abbandonata dai successivi sviluppi della scienza romanistica
nei momenti di massimo fulgore del metodo interpolazionistico. Noto subito, per
tornare in seguito su questo aspetto, che in taluni casi Mancaleoni, dopo una
parte centrale dedicata alla esegesi delle fonti in cui sviluppa la sua critica
interpolazionistica, ritorna alla fine dei suoi lavori alla prospettiva
dommatica, proponendo una ricostruzione sistematica dell'istituto o del
problema trattato.
Quanto all'aspetto della ricostruzione storica, le
ricerche di Mancaleoni sono in linea con la già rilevata polarizzazione
dell'esperienza giuridica romana nei due grandi contenitori, in qualche misura
contrapposti, ma in sé esaustivi, del diritto classico e del diritto
giustinianeo. Solo in pochissimi casi egli, di fronte a posizioni contrastanti
di giuristi, suppone uno sviluppo interno al dibattito giurisprudenziale per
così dire classico. Uno di questi è rintracciabile nell'opera che egli pubblicò
nel 1896 per l'aggregazione nella facoltà giuridica sassarese, Studi sull'acquisto dei frutti in forza di
diritti reali sulla cosa fruttifera - un'opera forse ancora un po' acerba
(ma l'A. accenna, nella premessa, alle ragioni concorsuali, che imponendogli
dei termini ristretti, non gli avevano consentito di estendere oltre
l'indagine), ma comunque ricca di spunti - , ove si sostiene (pag. 65 ss.) la
tesi che l'obbligazione del possessore di buona fede di restituire i frutti
esistenti - prevista da una costituzione dioclezianea (C.3,32,22) - sia stata
introdotta dalla giurisprudenza "negli
ultimi anni del diritto classico". Egli cerca in tal modo di di
spiegare alcune contraddizioni che emergono dai testi conservati in materia nel
Digesto, ricorrendo all’ipotesi di uno sviluppo interno alla riflessione
giurisprudenziale e non già all'ipotesi, per lui più usuale, dell’intervento
compilatorio (pur senza rinunciare però a proposte interpolazionistiche per
superare le pretese incongruità di alcuni passi). Si tratta però di
un'eccezione. La categoria del ius
controversum o quella di un pensiero giurisprudenziale che muta nel corso
dell’età c.d. classica, sembrano, a parte limitate eccezioni - come quella
segnalata -, piuttosto lontane dalla sensibilità storico-giuridica di
Mancaleoni, come del resto lo erano per gran parte dei romanisti dell'epoca.
Veniamo ora a esaminare un poco più da vicino, pur senza
pretese di completezza, quello che possiamo definire il laboratorio
intrepolazionistico di Mancaleoni: quali sono state le tecniche da lui usate
nell’analisi dei testi e quale, più in generale, l’approccio esegetico.
Occorre in primo luogo dire che egli non è alieno da
considerazioni di carattere puramente formale, relative allo ‘stile’ dei passi
esaminati o a ‘stilemi’ in essi contenuti. Si tratta di un metro di giudizio
sulla c.d. ‘genuinità’ dei testi già usuale a fine ‘800 (sia in Germania che da
noi), ma che forse troverà ancora miglior successo più tardi. Ecco dunque frasi
di questo genere: “la forma…del paragrafo
è assolutamente indegna del tempo di Diocleziano” (a proposito di C. 4,26,7
in tema di actio utilis de in rem verso
– per Mancaleoni tutti i passi in cui si menziona tale actio sono da ritenersi interpolati, perché si tratterebbe di una
consapevole innovazione giustinianea-); o, ancora: “non sarà inopportuno rilevare la corrispondenza tribonianea «sed et si
– tunc enim» e l’espediente giustificativo del «quasi» così caratteristico” [La
donazione tra vivi e la legittima del patrono, pag. 6] a proposito di un passo
ulpianeo in tema di successione del patrono al liberto: Ulp. 41 ad ed. D. 38,2,3,18 [Sed et si non mortis causa, donavit libertus
patrono, contemplatione tamen debitae portionis donata sunt, idem erit
dicendum: tunc enim vel quasi mortis causa imputabuntur vel quasi adgnita
repellent patronum a contra tabulas bonorum possessione].
L’esemplificazione potrebbe continuare, ma va detto che questo tipo di
approccio, che ai nostri occhi appare piuttosto semplicistico e datato, non è
troppo generalizzato nell’opera del Nostro Autore. Egli paga lo scotto a una
tecnica interpretativa allora forse già in voga, ma non è affatto l’unica
chiave di lettura dei testi da lui impiegata. Vorrei a questo proposito
segnalare un caso che mi pare significativo, per il taglio a mio giudizio molto
moderno che emerge dall’analisi proposta da Mancaleoni. Si tratta del saggio intitolato
Contributo allo studio delle
interpolazioni, pubblicato su Il Filangieri nel 1901. Il lavoro è dedicato
allo studio della parola pecunia al
plurale e vi si sostiene che tale uso, quando non assume un significato
collettivo, ma indica “molti oggetti
singoli, molte monete” sia da
ascriversi ai giustinianei. Mancaleoni parte da una puntuale disamina lessicale
del termine pecunia al singolare,
usato in senso collettivo, dando una ricca esemplificazione di testi del
Digesto in cui esso ricorre, e procede poi a un controllo, per così dire,
quantitativo dell’impiego del termine stesso nel linguaggio giuridico delle
costituzioni giustinianee. Egli così nota – cito testualmente – che “su 128 volte che Giustiniano usa la parola
‘pecunia’, la troviamo 83 volte usata al plurale e 45 volte al singolare,
mentre su 2076 volte che la parola si trova nel digesto, è usata al plurale
solo 69 volte” e aggiunge: “È dunque notevolissima la sproporzione nei
due casi, e ciò non sarebbe stato possibile, se Giustiniano non avesse
attribuito un diverso significato alla parola ‘pecunia’”. Da qui si dirama
un’articolata lettura, passo per passo, dei 69 frammenti del Digesto in cui pecunia ricorre al plurale, per
individuare in essi quelli che a giudizio di Mancaleoni sono da ritenersi
interpolati, anche per ulteriori ragioni (queste sì d’ordine talora solo
formale, ma tal'altra anche d’ordine sistematico o sostanziale), ragioni che
vengono, sia pure succintamente, menzionate. A me pare, al di là
dell’affidabilità dei risultati cui Mancaleoni concretamente perviene, che
questo tipo di approccio riveli in lui una consapevolezza dei problemi sottesi
all’analisi testuale, non sempre presente in autori coevi o anche successivi.
Si ricordi che il saggio cui sto facendo riferimento si intitola,
genericamente, Contributo allo studio
delle interpolazioni; Mancaleoni voleva perciò proporre un lavoro
esclusivamente rivolto all’individuazione delle alterazioni dei passi: si
trattava di una Interplationenjagd nel senso più pieno e proprio del termine.
L’ancorarsi a dati quantitativi così precisi sembra perciò indizio di una certa
qual presa di distanza da un metodo basato esclusivamente su un metro di
giudizio invero troppo soggettivo, quale quello che fa leva su non meglio
precisate ragioni stilistiche o estetiche del passo.
Vorrei ora passare a un altro aspetto della metodologia
di ricerca di Mancaleoni. Osservavo prima come nelle sue opere non manchi la
prospettiva dommatica e insieme sistematica. Aggiungo ora che essa appare non
di rado strettamente connessa all’analisi interpolazionistica, tanto da esserne
in qualche misura dipendente. Mi spiego subito con un esempio. Nel 1900
Mancaleoni dà alle stampe un saggio dal titolo Contributo alla storia e alla teoria della rei vindicatio utilis; si
noti subito, nel titolo, il significativo accostamento della parola ‘storia’
alla parola ‘teoria’: è una chiara allusione, a mio giudizio, a un contenuto
che intende essere contemporaneamente proposta di ricostruzione storica e di
interpretazione dommatica dell’istituto in esame. Ora, quanto alla
ricostruzione storica, ritroviamo qui la bipolarità tra diritto giustinianeo e
diritto classico cui alludevo all’inizio. In particolare mi sembra meritevole
di essere sottolineato il fatto che il lavoro prenda le mosse dal diritto
giustinianeo: Mancaleoni richiama subito una serie di costituzioni di
Giustiniano, e segnatamente C. 5,12,30 in tema di dote [ma anche C. 5,13,1,5a
in tema di actio rei uxoriae e C.
5,3,15 sulle donazioni obnuziali], che prevede a favore della moglie, per il
recupero della dote, l’actio in rem
accanto all’actio hipothecaria. Da
questa base di partenza l’Autore passa poi a esaminare i frammenti
giurisprudenziali o le costituzioni imperiali anteriori a Costantino, che
accennano in questa o anche in altre materie (per esempio in tema di
accessione), alla concessione di un’actio
utilis in rem o rei vindicatio
utilis, per giungere alla conclusione che in tutti i casi tale tipo di actio è creazione dovuta ai compilatori
giustinianei. Alla fine della sua indagine egli afferma testualmente: “…questo istituto [la utilis reivindicatio] …si deve con moltissima probabilità
interamente a Giustiniano ed ai suoi compilatori, e…perciò sarebbe errato
andarne a cercare l’origine, gli estremi, lo svolgimento materiale e
procedurale nel diritto classico” (pag. 66). Non mi interessa qui discutere
la correttezza o meno di questa conclusione [vorrei solo notare, a margine, che
nella discussione Mancaleoni non manca di affrontare, con una certa finezza di
argomentazione, i problemi del rapporto tra azione reale e azione contrattuale
presenti in taluni passi, per esempio quelli gaiani relativi alla tabula picta: Gai. 2,78; Gai. 2 r. cott. D. 41,1,9,2], quanto rilevare
come sulla base di essa, terminata la pars destruens del suo lavoro,
Mancaleoni proceda a una “costruzione
dommatica” dell’istituto, come egli stesso la definisce, tutta incentrata
sul diritto giustinianeo. Egli ritiene, in proposito, che “i casi enumerati [dalle fonti] devono
tutti ritenersi come prodotto di ‘ius singulare’, come determinazioni positive
prodotte dalla considerazione equitativa di determinati elementi apprezzati dal
legislatore” e procede poi a esaminare la legislazione giustinianea da
questo particolare angolo visuale, chiedendosi, tra l’altro se l’azione in
questione abbia indole reale o personale, per concludere che essa ha carattere
reale e giungere alla seguente affermazione riassuntiva della sua ricostruzione
dommatica: “la reivindicatio utilis è
diretta a dare soddisfazione alla obbligazione che ne è il fondamento, mediante
appropriamento dell’oggetto della medesima o della cosa, che la legge gli
surroga, purché si trovi nel patrimonio dell’obbligato” (pag. 90) [giacché
se non si trova nel patrimonio dell’obbligato soccorre la concorrente azione
ipotecaria].
Mi sono un po’ dilungato su questo saggio, perché mi pare
che esso sia in qualche misura esemplare del tipo di lavoro svolto da
Mancaleoni sulle fonti in molti dei suoi contributi, o almeno in quelli che a
mio giudizi sono i suoi migliori: la ricerca delle interpolazioni non è fine a
se stessa, ma è volta allo scopo di ricostruire l’istituto o nel suo momento
classico o nel suo momento giustinianeo (come nel caso esaminato). Una volta
determinati i profili sostanziali dell’istituto attraverso l’analisi esegetica
(cioè, per Mancaleoni, per lo più interpolazionistica), egli passa alla
costruzione dommatica, per la quale dipende essenzialmente – io credo - dalla
tradizione pandettistica. In quest’ottica le fonti – isolati i due momenti
storici attorno ai quali, per così dire, esse si polarizzano - diventano una
sorta di grande repertorio normativo, da interpretare secondo schemi astratti e
astorici.
Un piccolo e
curioso esempio che può forse confermare questa mia ultima affermazione lo si
può desumere dall’incipit di un breve articolo apparso su Il Filangieri nel
1898, Il fr. 49. D. de usurpationibus et
usucapionibus 41,3 e la reversio ad dominum nel furtum possessionis;
l’articolo inizia ex abrupto con un passo di Paolo (54 ad ed. D. 41,3,4,21), riportato il quale Mancaleoni scrive: “conformi Paolo (9 ad Sabinum.) D. 47,2,20,1 e Modestino (10 pandectarum.) D. 41,4,5”. “Conformi”; sembra di leggere, oggi, un
saggio di diritto positivo, che riporti massime giurisprudenziali, appunto tra
loro “conformi”.
Tornando
all’impiego delle tecniche interpolazionistiche in funzione della ricostruzione
dommatica degli istituti, vorrei qui ancora far riferimento allo studio dal
titolo Esame esegetico-critico del fr. 49
D. mandati 17.1, uscito nel 1898 su Archivio giuridico. Per quanto ho
potuto vedere si tratta - a mio giudizio - di uno dei migliori lavori di
Mancaleoni, tutto incentrato sull’analitico esame, condotto con particolare
acribia critica, di un famoso e tormentato frammento di Marcello l. 6 dig. D. 17,1,49. Mancaleoni qui si
avvale dell’ampia dottrina, in particolare tedesca, che si era in precedenza
occupata del frammento. Non è questo il luogo per soffermarsi sui tanti
problemi che il passo pone. Sperando di non essere troppo criptico, stante
l'oggettiva difficoltà di sintetizzare in poche parole una matassa invero un
po' troppo ingarbugliata [basta dare anche solo una rapida lettura al passo per
rendersene conto], osservo che molte difficoltà sono dovute alla circostanza
che il brano tratta, a quel che sembra, di due distinti casi riconducibili
grosso modo al tema dell’errore del rappresentante che alieni una cosa propria,
credendola del rappresentato. La complessità dei due casi (in particolare del
secondo) e la ritenuta contraddittorietà delle soluzioni prospettate da
Marcello con altri passi conservati nel Digesto (per esempio con Ulp. 7 disput. D. 41,1,35), aveva condotto la
dottrina precedente a Mancaleoni a un vasto sforzo teso contestualmente sia a
trovare un significato plausibile al frammento di Marcello, sia a conciliarlo
con gli altri passi con i quali esso sembra, come detto, in contraddizione.
Ricordiamo che del problema si era occupato anche Jhering – Mancaleoni parla in
proposito di “acutissima costruzione”
(pag. 30) -, con un’interpretazione esegetica del frammento molto innovativa e
giudicata dallo stesso Mancaleoni ormai accolta dalla dottrina prevalente.
Ebbene, Mancaleoni non accetta le precedenti spiegazioni - neppure quella di
Jhering - e, attraverso una dimostrazione serrata e analitica, sostiene che il
passo è interpolato per una sostanziale incomprensione dei giustinianei: i
compilatori avrebbero frainteso il pensiero di Marcello, e per “chiarirlo” in
qualche modo lo avrebbero intuilmente complicato e reso ancora più oscuro. In
sostanza Marcello non si sarebbe occupato di due distinti casi, come sostenuto
in genere dalla dottrina, ma avrebbe presentato “un solo caso giuridico, invertendo semplicemente la posizione
rispettiva delle persone che nel negozio giuridico rappresentavano una parte”
(pag. 43), utilizzando così un artificio retorico non raro nel linguaggio dei
giuristi e presente, almeno con un esempio, nello stesso Marcello (pag. 44: 22 dig. D. 35,2,56,4): il frammento in
origine avrebbe perciò avrebbe dovuto riguardare il seguente caso (cito
testualmente da Mancaleoni, pag. 47): "Io
comprai di buona fede da un terzo uno schiavo di Tizio e lo possedevo: per mio
mandato Tizio lo vendette ignorando che fosse suo; o ciò che è lo stesso, io,
ignorando che fosse mio, lo vendetti per incarico di lui, che lo possedeva in
buona fede, avendolo trovato nella eredità di chi lo aveva comprato da un terzo",
a cui sarebbe seguita l'enunciazione della questione giuridica: de iure evictionis et de mandatu quaesitum
est, e la risposta che, da un punto di vista dommatico, avrebbe dovuto
essere in linea con il seguente ragionamento: essendo la vendita nulla per
mancanza della volontà, viziata da errore, e inefficace il conseguente
trasferimento di proprietà, Io avrà la rei
vindicatio per recuperare la cosa e non sorgerà azione nei confronti del
mandatario, essendo parimenti il mandato nullo "per la stessa ragione dell'assenza di volontà" (pag. 26 s.).
Noto anche che Mancaleoni non tenta una ricostruzione letterale di quello che avrebbe
veramente detto (o potuto dire) Marcello, ma si limita a proporre il senso
complessivo della risposta che secondo lui il giurista avrebbe dato.
Non posso qui
né ripercorrere l’ampia argomentazione dell’Autore, né segnalare le minuziose
osservazioni testuali da lui avanzate, né discutere o saggiare la bontà delle
sue conclusioni, che oggi lascerebbero indubbiamente molto perplessi. Mi preme
solo porre in evidenza alcuni punti:
-
l’esegesi
è condotta spesso alla luce di considerazioni logico-giuridiche; l’interpolazione
è cioè sostenuta non soltanto sulla base di criteri linguistico-formali;
-
non
di rado Mancaleoni si riporta perciò alle costruzioni dommatiche degli istituti
in gioco per formulare un’interpretazione del passo; per esempio egli sostiene,
come ho già anticipato, che il frammento di Marcello contrasti con i princìpi
relativi alle conseguenze della mancanza di volontà dei negozi giuridici,
princìpi in base ai quali – cito testualmente – “…l’errore del rappresentante che aliena la cosa propria credendola del
rappresentato, producendo l’assenza della volontà, esclude la validità del
negozio giuridico; e quindi la vendita fatta in tali condizioni è nulla e come
tale non è titolo sufficiente al trasferimento della proprietà…”;
-
l’esame
linguistico-formale del passo si avvale di una serie di confronti, in primo
luogo stilistici, con altri frammenti attribuibili allo stesso Marcello o anche
con frammenti di altri giuristi; non mancano rilievi sul ductus retorico del
passo, sempre confrontato con altri esempi; è posto nel dovuto risalto (pag.
47) il tipo particolare di opera (i Digesta)
da cui il frammento è stato tratto [in proposito Mancaleoni (ivi) ricorda che i
Digesta di Marcello sono “di esposizione parte dommatica e parte
casuistica, e quest’ultima conserva in moltissimi casi la forma delle
‘quaestiones’ donde ha avuto origine. Non vi può essere dubbio, per chi abbia
presente alla mente la forma classica delle ‘quaestiones’, che il frammento 49
si presenti con la forma tipica di esse. Ed è pure risaputo, come in quella
forma di produzione scientifica si rispettasse sempre la esatta corrispondenza
delle risposte al quesito proposto. Ciò d’altra parte è riconoscibile anche in
tutti i frammenti di Marcello citati in nota”].
Queste
sintetiche indicazioni mi pare che mostrino comunque - astraendo volutamente
dall'esattezza e condivisibilità delle conclusioni cui egli giunge - l’acribia
critica con cui Mancaleoni si muove in questo caso per dare un fondamento alla
sua ipotesi interpolazionistica. Direi che sono un segno non solo e non tanto
della sua onestà intellettuale, quanto soprattutto del suo gusto per la ricerca
storico-giuridica e della sua capacità indubbia di conciliare le recenti
metodologie esegetiche con gli aspetti più strettamente o, se volete,
tradizionalmente dommatici della ricerca romanistica del suo tempo.
Credo, per
concludere, che da questa rapida e incompleta carrellata su Mancaleoni
interpolazionista sia emersa la figura di un giurista a tutto tondo, che non si
adagia piattamente sulle ultime novità metodologiche che si affacciano nel
campo delle sue ricerche, ma cerca di conciliare la lezione del passato, anche
recente – intendo l’impostazione dommatica degli studi di diritto romano – ,
con quelle novità che costituivano, senza dubbio, all'epoca, ‘un altro modo di
leggere le fonti’. Egli partecipa dunque a pieno titolo al dibattito culturale
che caratterizzò la romanistica non solo italiana, ma europea, a cavallo dei
due secoli, dando un apporto che mi pare ancora oggi significativo e degno di
attenzione.