Massimo Vari
Vice
Presidente della Corte costituzionale
della
Repubblica italiana
Intervento.
Giuristi europei nel XXI secolo
Gli impegni di lavoro presso la Corte non
mi hanno consentito di giungere prima, sì da poter assistere, come sarebbe stato
mio desiderio, a tutte le sessioni di questo importantissimo convegno. Convegno
che non poteva trovare più appropriata conclusione di quella odierna e cioè di
una seduta volta ad interrogarsi sul valore e sul ruolo del Diritto romano
nella formazione del giurista del XXI secolo.
Flaminio Mancaleoni ¾ insigne studioso la cui opera
l’Università di Sassari ha voluto ricordare con questa iniziativa ¾ nel discorso pronunziato il 12 novembre
1907, in occasione della solenne inaugurazione degli studi in questo
prestigioso Ateneo, richiamava la comunità scientifica del tempo a ritornare
alla «ricerca delle cose antiche»; infatti ¾ egli diceva ¾ «l'orizzonte dell'avvenire si allarga quanto più lanciamo
lo sguardo nel passato», affinché «l'umanità presente possa ritrovare se stessa
come il naturalista trova l'uomo nell'embrione».
Si tratta di una esortazione tuttora valida
per chi voglia cogliere il senso della nostra epoca, caratterizzata da una
lenta ma inesorabile erosione della sovranità degli Stati nazionali, cui si
accompagna l'esigenza, ovunque avvertita, di forme adeguate di tutela dei
diritti umani. Il che induce a due ordini di considerazioni.
Il primo riguarda l'esperienza che,
attualmente, stiamo vivendo come cittadini ormai non solo dell'Italia, ma dell'Europa;
esperienza che ci pone di fronte ad un ordinamento comunitario sempre più
proiettato verso una compiuta dimensione, anche in virtù delle fondamentali
innovazioni organizzative, di ormai prossima attuazione (sistema di moneta
unica).
L'integrazione europea è un processo
molto faticoso che si va tuttora svolgendo e che si esprime attraverso scelte
che presuppongono l'abbandono di un sistema di riferimento concettuale che
attiene a quella vicenda della formazione dello Stato moderno che si è venuta
compiendo nel tempo, attraverso sedimentazioni progressive.
La linea di tendenza sulla quale questa
vicenda si è svolta vede la progressiva affermazione della supremazia della
legge come fonte primaria del diritto, prima del diritto del principe, poi di quello
dello Stato.
Oggi parlando di integrazione europea si
tratta di accettare proprio il tramonto di questo primato, con la conseguente
necessità di ripensare la teoria delle fonti e la teoria della legge; al tempo
stesso di chiedere quale possa essere il compito affidato ai nuovi assetti ed
ordinamenti che, ormai da tempo, si vengono delineando, nella convinzione
sempre più diffusa dell'inadeguatezza di visioni dogmatico-formalistiche,
legate storicamente all'identificazione del diritto con l'insieme delle norme
di derivazione essenzialmente statale, a risolvere i problemi della società e
degli individui.
La preminenza del diritto comunitario su
quello interno, secondo un principio ormai pacifico per gli Stati aderenti
all'Unione europea, ci induce, pertanto, non solo a riflettere sui fondamenti
attuali della nostra organizzazione politica, ma anche a prestare un'attenzione
sempre maggiore al riaffiorare di idee e concezioni che, nella storia della
cultura e della civiltà europea, hanno continuato a sopravvivere come
patrimonio comune, nonostante la formazione ed il consolidamento degli Stati
nazionali.
Abbiamo in questo la conferma di quel
sotterraneo perdurare (Weitergelten)
del diritto romano, nonostante le codificazioni del XIX secolo, di cui ci parla
Schmitt (La condizione della scienza giuridica europea), e che, se ci volgiamo
all'indietro, ci consente di constatare come l'attuale processo d'integrazione
si innesti in un percorso molto risalente, attenuato o addirittura interrotto
proprio dal divenire degli Stati.
Superando lo schermo delle codificazioni,
l'esperienza di oggi finisce, così, per riportarci inevitabilmente allo ius
commune e, in definitiva, al diritto romano e all'importanza del suo
studio, se è vero quanto osservato ancora da Schmitt e cioè che, "in
realtà, la storia della scienza del diritto europeo è stata per cinque secoli
una storia della scienza del diritto romano", giacché ciò che si è
insegnato come "diritto", nelle scuole, nelle università e nelle
facoltà, a partire dalla loro fondazione nel XII, XIII e XIV secolo, è stato,
accanto al diritto canonico, soprattutto il diritto romano.
E' il caso di ricordare, a questo
proposito, come le concrete connessioni ed assonanze fra diritto europeo e
diritto romano, siano già state indagate da autorevole dottrina: mi riferisco
ad un pregevole saggio di Rolf Knütel, il quale ha evidenziato che i numerosi
"principi generali" del diritto, che si rapportano alle
caratteristiche di struttura dell'Unione europea ¾ come la democrazia, lo Stato di diritto, la tutela dei
diritti fondamentali, il principio di proporzionalità, di certezza, di
chiarezza del diritto, del contraddittorio, del "ne bis in idem", della tutela dell'affidamento ¾ affondano le loro radici nella
tradizione romana e trovano sviluppo ed elaborazione nello ius commune.
Tutto questo dimostra quanta importanza
rivesta oggi il compito che si presenta agli studiosi e cioè quello di
riprendere un filo, di proseguirlo o addirittura di riannodarlo, sia pure su
nuovi presupposti e nuove basi concettuali, recuperando concezioni nell'ambito
delle quali possono trovare spazio almeno tre temi di indagine: il rapporto tra
le fonti; l'assetto dei poteri in rapporto al territorio; l'essenza del nuovo
istituto della cittadinanza europea.
Va da sé che la nozione di cittadinanza,
in contesti istituzionali non più riferibili ad un "demos" unitario,
richiede una diversa chiave di lettura volta, per un verso, al superamento del
concetto di cittadinanza come appartenenza allo Stato (Staatsangehörigkeit) e,
per altro verso, alla valorizzazione della nozione di società civile o,
eventualmente, della nozione di una "appartenenza alla Costituzione
repubblicana", suscettibile di riallacciarsi, come ha scritto Häberle,
alla ricchezza semantica della sequenza "res publica, salus publica,
libertas publica". E questo secondo un punto di vista che ¾ come possiamo intendere ¾ non manca di una propria forza evocativa
di modelli ascrivibili a risalenti concezioni, dotate di particolare capacità
inclusiva ed integrativa, come la società romana, concepita (come ha osservato
di recente Luciani) sin dall'inizio come comunità di diritto.
In un siffatto quadro, il nucleo
aggregante della cittadinanza potrebbe essere rinvenuto, più che nella
comunanza di radici storiche (che pure esistono), nel dato
antropologico-culturale della dignità umana, aprendo così la strada al tema dei
diritti fondamentali, la cui tutela parrebbe invero porsi, ad un tempo, come
causa e come effetto della crisi della sovranità in senso tradizionale, ove si
consideri che la portata universalistica delle proclamazioni dei diritti sembra
quasi esprimere una contraddizione tra la dimensione statuale delle
Costituzioni e la vocazione degli stessi a trascendere lo Stato.
Il che introduce al secondo ordine di
considerazioni che vorrei, sia pure brevemente, svolgere, a riprova
dell'importanza degli studi romanistici.
Mi riferisco, in particolare, alle
inquietudini della nostra epoca, alle domande che essa pone circa la possibile
soluzione di problemi dalle dimensioni ormai planetarie: dall'ambiente,
all'occupazione, dall'istruzione ai diritti politici, dalla salute ai trasporti
e al problema delle regole dei rapporti finanziari ed economici fra gli Stati.
Di fronte a tanti interrogativi, la
convinzione che si va sempre più diffondendo è che non esistono primati che
possano ragionevolmente tenere alla lunga: né quelli teoretici delle dogmatiche
tradizionali, né quelli pratici dei più forti. Sappiamo, soltanto, che il
conflitto tra gli interessi contrapposti è sempre meno componibile attraverso
soluzioni formali.
Nelle democrazie moderne si era ritenuto,
a suo tempo, di risolvere ogni problema con il ricorso al criterio
rappresentativo, fondato sul primato della legge e sull'eguaglianza formale.
Ma questi dati non reggono più alla prova
dei fatti, a causa della constatata insufficienza del diritto degli Stati, che
ci porta ad avvertire la necessità di trovare nuove vie per assicurare a
ciascun individuo un indefettibile spazio di tutela.
Nel ritrarsi degli
ordinamenti nazionali è forse prematuro dire quale potrà essere il definitivo
punto di arrivo, sul piano delle istituzioni, di un’evoluzione che, comunque,
pone sempre più in evidenza l'irrevocabilità dei progressivi fenomeni di
integrazione fra Stati.
Come è stato
rilevato da Fioravanti (Costituzione e
popolo sovrano, Bologna, 1998), le grandi personificazioni del passato ¾ il sovrano, il popolo, il legislatore,
lo Stato come persona ¾ sono ormai
alle nostre spalle. Ciò che conta sono, invece, i problemi che le precedenti
forme di organizzazione dello Stato affidano agli odierni ordinamenti: non solo
la ricostruzione, nel mutato quadro, della sfera della politica e delle
attività che conducono alla libera decisione dei cittadini sulle scelte generali,
ma anche la garanzia dei diritti.
In
questa prospettiva lo stesso ordinamento comunitario, nato originariamente per
creare uno spazio di libertà e di integrazione economica, si vede investito di
un compito che è oggi anche quello di resistere a spinte esterne che vengono
dalla tendenza alla mondializzazione dell’economia, e cioè da quei processi
attraverso i quali attori trasnazionali condizionano gli Stati nazionali e la
loro sovranità, ponendo in pericolo la stessa tutela dei diritti dell'Uomo.
Di fronte a questa scommessa sul presente
e sul futuro non possiamo, perciò, non avvertire l'utilità della riscoperta di
principi e concetti appartenenti alla nostra più antica tradizione giuridica, e
cioè di quella concezione propria del diritto romano, che vedeva mos e ius come profondamente compenetrati.
Può essere questo il progetto non solo
per cogliere il senso degli avvenimenti, ma per ritrovare regole in grado di
garantire la compatibilità e di assicurare la convivenza possibile. A patto di
tornare ad antiche consapevolezze: quelle consapevolezze che parlavano del
diritto come di un'arte; la difficile e tormentata arte del bonum e dell'aequum.