Luisa Bussi
Università di Sassari
i
diritti d'uso pubblico nella dottrina di mancaleoni fra interpretazione e
creazione del giurista
Gentili Signore e Signori, illustri Colleghi,
Desidero anzitutto ringraziare
l'amico Francesco Sini perché, invitandomi a partecipare a questo Convegno, mi
ha sollecitato a guardare da un altro punto di osservazione un tema che mi ha
molto intrigato e impegnato in passato. E mi ha indotto a farlo appuntando
l'attenzione su di uno studioso, Flaminio Mancaleoni, della generazione di quei
maestri con cui si ha qualche remora a misurarsi, maestri di cui mi parlava mio
padre, e la cui fama circolava proprio durante i suoi anni di Università (ho
trovato frequenti citazioni di Mancaleoni nei testi della sua biblioteca:
Perozzi, Pacchioni, Costa, per citarne solo alcuni).
Poco
più di un secolo ci divide ormai da quando Mancaleoni fu chiamato quale
professore straordinario di diritto romano in questo Ateneo.
Da
allora la nostra scienza è stata investita da qualcosa di simile a un vento di
tempesta. Con un giuoco di parole si potrebbe dire che lo storicismo non ha
giovato alle scienze storiche, le quali si sono trovate, come Alice, impigliate
nel gioco di specchi di un relativismo di cui l'affinamento stesso della loro
metodologia ha contribuito a moltiplicare gli effetti.
E non minore crisi ha
attraversato e sta attraversando il mondo del diritto, coinvolto nella profonda
trasformazione della società la cui vita è teso a regolare. Secondo le
pessimistiche previsioni del Savigny, l'aureo sistema della codificazione è
praticamente andato in frantumi. Si sono appannati i lineamenti degli istituti
che da millenni ne costituivano il fondamento del diritto privato (la
proprietà, la famiglia). E stiamo assistendo nello sconcerto generale allo
sfumare interno e internazionale di quella che consideravamo la sua fonte di
produzione: la sovranità dello Stato. Sicchè quel tempo, quel tempo a noi
vicino si è fatto già lontano, è divenuto oggetto di storia, si lascia
avvicinare da noi attraverso lo stesso filtro metodologico necessario per
qualunque altro tempo. A un tale avvicinamento per la verità, io mi propongo di
contribuire nei limiti di un aspetto molto particolare dell'attività dello studioso
per ricostruire il cui itinerario scientifico siamo qui riuniti: le servitù
d'uso pubblico. Su questo tema è incentrato uno degli ultimi studi di
Mancaleoni, comparso negli “Studi sassaresi” del 1923, con il titolo Sulla natura dei diritti d'uso pubblico in
relazione ai modi d'acquisto, e visibilmente collegato con una controversia
che opponeva ad un privato il comune di Sennori, delle cui ragioni il
Mancaleoni fu vittoriosamente avvocato sia in appello che in cassazione.
A dare lo spunto
all'articolo è la pubblicazione del Corso di diritto civile del Bianchi, ove
non si teneva conto dei nuovi orientamenti della suprema Corte in tema di modi
d'acquisto dei diritti d'uso pubblico. Di tali nuovi orientamenti il Mancaleoni
rivendicava la paternità, per cui si era sentito spinto, come egli scrive -
"a esporre, richiudendole in conciso ragionamento" le considerazioni
che gli parevano decisive in materia.
Un tale genere di approccio
di per sè attira subito la nostra attenzione. Perché si lega al delicato rapporto
della dottrina con la produzione del diritto. Una produzione che dai trionfi
della communis opinio, la serrata
dello Stato moderno, suggellata dalla Rivoluzione Francese, aveva formalmente
ridotto al rigido monopolio dello Stato. Quelli di Mancaleoni erano gli anni -
come nota Grossi - di uno Stato
garantista e controllore, gli anni della onnipotenza della Legge, arbitro per
definizione neutrale del vivere civile.
Da questo punto di vista,
l'apertura dell'articolo è sorprendente: Mancaleoni sembra parlare invece di un
diritto che va oltre il puro testo della legge, un diritto che abbisogna di una
particolare opera maieutica che non si confonde con la sola interpretatio del giudice e che fa già
vacillare il primato della statualità.
E’ naturale a questo punto
essere indotti a rivolgere la nostra attenzione al caso che ha fornito lo
spunto allo studio di cui si tratta. Come si è accennato, questo vede opporsi
da un lato il comune di Sennori, dall'altro il proprietario di un fondo, sito
nel territorio dello stesso Comune, in contrada Crabiolu, fondo nel quale
esisteva una fonte cui da tempo i cittadini del Comune usavano attingere acqua.
Il proprietario del fondo aveva cinto con un muro il terreno, incorporando la
fonte e impedendo così ai cittadini di usarne. Il Comune di Sennori aveva
assunto la difesa del diritto dei suoi cittadini, sostenendo che la fonte era
soggetta alla servitù d'uso pubblico, e quindi il proprietario del fondo era
tenuto a garantirvi l’accesso. Gli interessi contrapposti si inserivano, come
si può intuire, in un contesto spinoso.
Sul piano concreto, il
rapporto con il suolo rappresentava ancora nel nostro Paese la più importante
fonte di ricchezza. Sul piano del diritto, bisogna tenere conto del fatto che
all'epoca della formazione del codice francese, sul quale si modellò il nostro,
la risistemazione normativa e teorica della proprietà (che si volle concepire
come le pouvoir juridique le plus complet
d'une personne sur une chose) trascinò con sè la profonda modificazione
dell'istituto delle servitù, che conobbero un drastico dimagrimento. E' appena
il caso di ricordare che l' ancien regime
aveva ereditato dall'età di mezzo
un ben altro tipo di proprietà: a parte la distinzione fra fondi nobili e fondi
plebei, il diritto faceva largo spazio a oneri reali che gravavano i
proprietari dei fondi. Ovunque le popolazioni del contado cercavano di trarre
qualche vantaggio dal fondo del signore spigolandovi, cogliendovi erba o legna
o portandovi le greggi a pascolare.
"Quae consuetudo - scriveva il De Luca - videtur fere universalis per Europam ipsi
iuri naturae, seu naturali rationi innixa et quodammodo necessaria ne cives et
incolae inermem vitam ducant".
Questi diritti - che oggi
qualifichiamo come usi civici - dalla dottrina
di diritto comune erano stati collocati fra le servitù, poichè quella
dottrina utilizzava, il più delle volte deformandole, le figurae del diritto romano. Grande però era stato lo sforzo per
individuarne la specificità. La scuola del diritto naturale aveva addirittura fatto
sorgere una presunzione di esistenza di usi civici, presunzione che aveva
contribuito non poco a renderli invisi e a trascinarli nel generale rifiuto di
tutto quanto avesse il vecchio sapore del feudalesimo, anche quando ciò si
scontrava con le reali esigenze della società. Erano ancora vivi, in Sardegna,
i segni lasciati dalla c.d. legge delle chiudende. L'odio per qualunque onere
reale che gravasse la proprietà affiora ancora nei lavori preparatori del
Codice del 1865, perché la Commissione bocciò con sei voti su quattro l'art.
633 del progetto Cassinis che ammetteva si potesse stabilire un diritto d'uso a
carico di una proprietà privata e a favore di una collettività.
La lite per la fonte
Crabiolu rimbalzò con una rapidità per oggi purtroppo impensabile (ma per la
procedura civile del tempo, padrone della lite erano le parti) per vari gradi
di giudizio. Il Tribunale rigettò la domanda del Comune, la Corte d'appello
l'accolse dichiarando essere la fonte sottoposta all'uso pubblico per
prescrizione ultratrentennale. Ma la corte di Cassazione di Roma, nel 1915,
ritenne fondate le obiezioni del
proprietario del fondo. Quali erano queste obiezioni? A parte alcuni rilievi di
specie (non avere il Comune accertato se gli abitanti di Sennori esercitavano
la servitù in questione uti singuli o
uti cives) aveva posto una questione
giuridica di indole generale: che il concetto della servitù, come era fornito
dal Codice civile non si attagliava ai diritti di uso pubblico di una proprietà
privata, dal momento che della servitù mancava l’elemento essenziale, il fondo
dominante, a meno che non si volesse concepire che il fondo dominante fosse il
pubblico. Tali diritti d'uso, a ben vedere, erano dei veri diritti in re aliena: per essi non occorreva il
fondo dominante, nè si estinguevano come le servitù personali, giacchè
interessavano intere popolazioni. Perciò
in tali diritti, comunque denominati, doveva ritenersi sempre prevalente il
concetto della proprietà privata, mentre d’altro lato, pur non essendo
specificamente previsti dal codice, e non trovandosi nella legislazione dei
regolamenti speciali, essi dovevano attingere per la loro regolamentazione alla
figura giuridica che loro si avvicinava di più, cioè quella delle servitù
prediali. Ma se così era, bisognava tenere conto del fatto che tali diritti
d’uso erano discontinui e dunque era inammissibile per essi l’acquisto per
prescrizione.
Va a questo punto ricordato
che in tema di servitù il codice del 1865 conosceva una partizione teorica e
generale fra servitù continue e discontinue (art. 617). Quanto poi alla loro
costituzione l'art. 630 recitava testualmente:
"Le
servitù continue non apparenti e le servitù discontinue, siano o meno
apparenti, non possono stabilirsi che mediante un titolo. Il possesso, benchè
immemorabile, non basta a stabilirle".
Le radici della norma
risalivano all'art. 691 del Codice del Regno d'Italia, recepito poi dall' art. 649 del Codice per gli Stati di
S. Maestà il Re di Sardegna
Il secondo comma di quest'ultimo era in quello del 1865
divenuto materia dell’art.21 delle disp. transitorie per l’attuazione del
codice civile, che stabiliva che le
servitù le quali al giorno dell’attuazione fossero state acquistate col
possesso secondo le leggi anteriori venivano conservate”.
La regola per distinguere
l’una dall’altra categoria veniva vista in ciò che il contenuto delle servitù continue implicasse sempre uno stato di
fatto, mentre il contenuto delle discontinue si esaurisse in una attività del
titolare. In sostanza venivano ritenute continue o discontinue le servitù, a
seconda che fosse o meno necessario, pel
loro esercizio, il fatto attuale dell’uomo.
La
servitù di attingere acqua da una fonte posta in fondo altrui o nel corso perenne che vi trascorra (servitus haustus) era una figura
giuridica che discendeva da quel diritto romano di cui Mancaleoni era maestro.
L' aquae haustus si distingue
dall'acquedotto perché consiste nel diritto di estrarre acqua dal fondo
serviente andando ad attingerla, così che nell' haustus è compreso l'iter.
Secondo i romanisti del tempo, tale figura giuridica si doveva ritenere
sopraggiunta a lato di quelle che avrebbero rappresentato svolgimenti e
concrete applicazioni del primitivo aquaeductus.
I problemi sorgevano riguardo alla sua costituzione. Come di norma, anche nelle
servitù prediali si distingueva in proposito fra diritto classico e diritto
giustinianeo; e nel diritto classico fra fondi italici e fondi
provinciali. Ma dei diversi possibili
modi di acquisto, l’usucapione era il più problematico. Presente nel diritto
più antico, proprio per le servitù rustiche, secondo l'opinione oggi dominante,
era stato poi abolito da una lex
Scribonia della fine della Repubblica. Alcuni ammettevano che già in epoca
classica fosse stato riammesso, ma i
testi che ne facevano menzione erano stati contestati proprio in forza di quel
metodo interpolazionistico cui Mancaleoni fu uno dei primi ad aderire. Certamente l’usucapione delle servitù
tornò in vigore in periodo giustinianeo, perché ad esse venne estesa la praescriptio longi temporis.
Il tema - oggi superato-
venne molto discusso in dottrina, a partire da Ascoli, Bonfante, Perozzi ,
Albertario. Minori discussioni
suscitava invece ormai, sul piano storiografico, la distinzione fra
servitù continue e servitù discontinue, che la critica testuale aveva
dimostrato non avere le sue radici nel diritto romano.
La
partinzione, in realtà, era sorta per opera dei giuristi dell’età intermedia
(già Azzone distingue, a proposito del termine necessario per l’usucapione, fra
le servitù che hanno continuam causam e
le altre), e si era affermata in forza
dell’interpretazione della lex foramen,(D.
VIII, 2, 28) che in realtà richiedeva che la servitù rispondesse ad una
esigenza destinata a durare nel tempo. Si trattava, cioè, di una creazione del
diritto comune, che come si sa fu un diritto di formazione sapienziale.
Stravolgendo le leggi romane per farle seguire ai bisogni di una diversa
società, quel diritto ci addita quali fossero tali bisogni, con tanta maggior
evidenza quanto più evidente è la
stortura.
E’ soprattutto da Bartolo in
poi che le servitù vengono distinte in base al loro modo di acquisto e alla
loro perdita: quindi in continuae et apparentes
e discontinuae et non apparentes.
Qual’era il fondamento della distinzione secondo Bartolo?
“qualiter autem cognoscens utrum servitutis
habeat causam continuam aut non, do tibi regulam infallibilem. Si quidem ad
usum servitutis requiratur factum hominis numquam dicitur habere causam
continuam; quam homo non potest operari continue. Si vero non requiritur factum
hominis dicitur habere causam continuam vel quasi ut l.28 D., 8, 2. Ex hoc
apparet quod servitus viae et itineris non habent causam continuam quia non
potest homo semper ire: servitus vere aquaeductus potest habere causam continuam
cum semper aqua fluat vel apta fluere”.
Secondo tale teoria quindi,
le sole servitù continue erano soggette alla prescrizione acquisitiva di dieci
o venti anni (fra presenti o fra assenti) potendosi invece le discontinue
acquistare solo con il possesso immemorabile, il quale, come è noto, presenta
dei caratteri che lo distinguono nettamente dalla usucapione. Sul punto si era affermata una solida opinio communis. Ancora Gotofredo,
commentando D. 8,1,4 notava:
"Servitutes
non habentes perpetuam causam, vel quasi, non usucapiuntur neque praescribuntur
nisi tanto tempore cuius non extat memoria" .
Nella dottrina di impronta
umanistica, che applicava anche allo studio del diritto gli strumenti offerti
dalla critica testuale, la concezione di Azzone e di Bartolo perse come si può
ben capire terreno. Donello parla di vulgaris
error. Come Donello, anche
Duareno, Pothier e la dottrina
successiva ragionano in termini di prescrittibilità di tutte indistintamente le
servitù, suscettibili o non suscettibili di continuo e ininterrotto esercizio
di fatto..
Ma nei Paesi con una forte impronta del mos italicus si continuò a seguire prevalentemente la dottrina dei
giuristi medievali e, con riferimento alla distinzione fra servitù continue e
discontinue si affermò che mentre le prime necessitavano della praescriptio longi temporis cui si
doveva unire la scientia e patientia del proprietario del fondo
servente, le seconde si acquistavano con l'immemorabile; e così pure
accadde nell'ambito dell' usus modernus (in Germania
principalmente).
Anche nella prassi dei
nostri tribunali, quindi, la distinzione aveva mantenuto un predominio
pressocchè indisturbato, probabilmente perché a tale soluzione veniva
riconosciuto un contenuto di ordine sociale che giustificava tale diverso
trattamento. Come attestano Pecchio, Cepolla, De Luca, Richeri, la distinzione
era universalmente accolta dalla curia. E d'altra parte, la stessa cosa è da
dirsi della prassi dei tribunali francesi, come ci attesta il prezioso
Repertorio del Merlin. Qui, sia nei paesi di diritto scritto che in quelli di
diritto consuetudinario si continuò generalmente a mantenere la distinzione e a
richiedere l’immemorabile per le servitù discontinue.
Si
potrebbe dunque pensare che con la sentenza della Corte di Cassazione del 1915
la causa per la fonte Crabiolu fosse decisa., ma così non fu. La sentenza in
realtà si allontanava da un orientamento che si andava affermando nella Suprema
Corte romana teso a tornare a dare rilievo, all’interno delle servitù prediali,
ai diritti d’uso esercitati da una comunità e che si dovesse distinguere questi
da quelli che venivano esercitati da un privato.
"Liberati
ormai dal pregiudizio che niuna forma di proprietà collettiva sia utile,
dobbiamo invece salvarne le reliquie, ricostituire i demani comunali, educare
gli individui al godimento sociale dei beni"
Così, nel 1914, scriveva
Brugi nelle sue Istituzioni di diritto civile.
Fondamentale a tal fine era
stata la vertenza che aveva opposto al Principe Borghese il popolo di Roma a
proposito dell'uso di quest'ultimo di passeggiare per la Villa Borghese. In una
celebre comparsa, poi pubblicata, Pasquale Stanislao Mancini, avvocato del
Comune di Roma, aveva polverizzato l'obiezione che o si trattava d'uso del
passeggio, che non poteva che essere personale - e quindi mancava la necessaria
perpetuità, o si trattava di servitù prediale e quindi mancava la coesistenza
dei fondi, avanzando l'idea che si trattasse di un diritto diverso: non si
tratta - aveva argomentato il Mancini - di servitù privata, ma del possesso,
più che notorio di un uso pubblico a favore della universalità degli abitanti
di una città intera, che è di affatto differente natura, sia che si qualifichi
uso civico e diritto reale sui generis, sia che si qualifichi servitù non di
diritto privato, ma di utilità pubblica.
Pur ammettendo la carenza, nel codice vigente, di norme atte a regolare
tale specie di diritti, si era potuto affermare che questo ne contemplava però
l'esistenza rinvenendovi le pur non frequenti ricorrenze dell'espressione
"uso pubblico", e richiamando l’istituto degli usi civici per
invocare lo ius civitatis che essi
implicavano. Era stato egualmente merito del Mancini l'avere suggerito che la
regolamentazione di questa nuova categoria di diritti non andasse cercata nel
diritto privato ma nel pubblico.
L'opinione dominante, a
questo punto, rispecchiava l'esigenza che simili diritti nati a favore della
cittadinanza per soddisfare bisogni materiali o anche artistici e culturali
venissero assicurati nella maniera più efficace. Essi venivano qualificati dal
Giorgi come usi civici che non consistevano in una partecipazione ai prodotti
del fondo, bensì “nella servitù di passo pubblico, nella facloltà di prendere
acqua, aria, giocare, passeggiare in qualche fondo privato; nell’accesso
pubblico in qualche biblioteca, galleria o museo privato per goderne i tesori
artistici che vi stanno rinchiusi. La questione era come costituirli ex novo. Per l'uso di passeggiare per la
Villa Borghese del popolo di Roma, il Mancini aveva potuto invocare
l'immemorabile. E una parte autorevole della dottrina - capeggiata dal Venezian
- negava che tali diritti differissero dalle servitù irregolari, se non per il
fatto che queste venivano costituite a favore di una persona singola, mentre
quelli sono a favore di persone collettive; mentre il Fadda - che come si sa fu
maestro di Mancaleoni - proponeva una teoria ingegnosa, che attribuiva al
complesso degli abitanti di un determinato territorio la qualità di fondo
dominante.
E’
a queste argomentazioni che Mancaleoni si riconnette per ottenere ragione sia
nel giudizio di rinvio (che ha tutta l’aria di aver utilizzato in larga misura
le sue argomentazioni), sia nella definitiva sentenza della Cassazione a
sezioni unite del 1917: egli sostiene qui che le servitù d’uso pubblico sono
diritti reali sui generis dettati da
speciali contingenze della vita sociale. in armonia con i principi generali del
diritto. Ma sostiene anche che in mancanza di norme specifiche non era dato
disciplinare tali servitù altrimenti che valendosi delle norme fornite
dall’art. 3 delle disposizioni preliminari del codice c. (del 1865) ricorrendo
cioè all’analogia. Ma questa analogia andava cercata non già nella norma che
vietava l’acquisto per usucapione delle servitù non continue (norma da
considerarsi eccezionale) bensì nel principio generale per cui la prescrizione trentennale era
riconosciuta come mezzo di acquisto per tutti i diritti tanto reali quanto
personali.
La sentenza della Cassazione a sezioni unite che seguì riprese questa linea di pensiero e la sviluppò al punto da volgere al contrario le stesse argomentazioni che due anni prima erano state efficacemente usate dalla parte avversa a Mancaleoni: il diritto in esame non poteva classificarsi nè fra le servitù prediali nè fra quelle personali, e doveva considerarsi come un diritto autonomo di natura particolare, appartenente in gran parte al diritto pubblico. Perciò era ai “recenti progressi di tale diritto” che si doveva guardare senza cercare di trarre dal diritto privato la disciplina di istituti che appartenevano ad un altro ramo della scienza giuridica. Perciò non poteva applicarsi la regolamentazione delle servitù e in particolare del famigerato art. 630, ma semmai il 542, il quale pur trovandosi nel Capo II - delle servitù prediali - bisognava ritenere creasse un diritto d’uso pubblico senza predialità e fosse lì allocata solo perché richiamata dall’occasione di determinare l’estensione dei poteri di un proprietario di una fonte.
Si veniva così delineando
una categoria teorica che per la sua natura collettiva serviva da un lato a
riconoscere ai diritti d’uso pubblico una
natura giuridica propria e differenziata rispetto alle servitù prediali,
dall'altro ad escludere l'applicabilità di norme a carattere cogente come il
già citato art. 630. La giurisprudenza in sostanza andava così riconoscendo che
al di là dei rapporti interprivati sussistevano situazioni reali improntate a
collettività che perciò solo prescindevano dalle strettoie poste dal diritto moderno
agli iura in re aliena.
Sul punto, venne poi
ritenuto che la norma di carattere generale che consentiva questo tipo di
operazione fosse l'art. 2 (art. 11 del cod. vigente) laddove disponeva che
"i comuni ...godono dei diritti civili secondo le leggi e gli usi
osservati come diritto pubblico. Attraverso il richiamo di questa norma veniva
ad essere legittimato un principio che era di pura elaborazione
giurisprudenziale, un principio secondo il quale le comunità di abitanti
acquistano diritti collettivi a carattere reale su beni privati in virtù
dell'uso protratto nel tempo (necessario ad usucapire) senza essere soggette
alle norme limitative poste dal codice in materia di diritti reali.
Nell’articolo pubblicato
successivamente, Mancaleoni ribadisce questo concetto: si deve abbandonare
l’attribuzione dei diritti d’uso pubblico alla categoria di quei diritti che in
diritto privato si chiamano tradizionalmente servitù personali, giacchè si
tratta di diritti che escono dalla sfera del diritto privato, e se pure gravano
sopra una cosa di proprietà privata, la gravano come una limitazione pubblica. Dunque - egli conclude - si tratta di diritti
reali di demanio pubblico su cosa altrui.
Il Mancaleoni contribuiva
così insieme al Mancini, il Giorgi, il Ranelletti e altri alla creazione di una
categoria giuridica speciale, le cui coordinate si distaccano dalle servitù
come ne erano stati staccati gli usi civici ormai in via di estinzione, con i
quali condivide il carattere collettivo dell'imputazione. Ma mentre gli usi
civici estendono il loro contenuto ad utilitates
di frui della cosa e non ammettono costituzioni ex novo, gli usi pubblici vengono a
riguardare solo il frui, e grazie
all'accoglimento della teoria di Mancaleoni possono essere usucapiti. E se la categoria degli usi civici,
aveva ormai perso l'interesse della dottrina, se si eccettua il Venezian che le
aveva dedicato il discorso inaugurale per l’anno accademico 1887 nella
Università di Camerino, quella degli
usi pubblici mostrava una vitalità e una tendenza definitoria straordinarie,
tanto da far pensare che fosse proprio a questi modelli che Mancaleoni pensava
scrivendo di evoluzione regressiva degli istituti giuridici. Per Mancaleoni
l’istituto regressivo è in rapporto dialettico con l’istituto progressivo.
“Bisogna - egli scrive - cercare di non confondere gli elementi decadenti e
quelli ascendenti soprattutto per valutare l’importanza che essi hanno nella
interpretazione analogica e nella estensione della norma come di ius comune o di ius singolare”
Attraverso vicende come
queste, la visione borghese di un diritto "neutrale" pura silloge di
testi normativi, si frantuma già di fronte alle pressioni dell'esperienza
concreta e al riconoscimento del carattere normativo della fattualità filtrata
dalla dottrina. Come nota Grossi, "Demitizzati il codice e il diritto
romano, resta una sola salvaguardia per l'ordine giuridico, ed è
l'interpretazione". L'interprete si porrà sempre di più come un mediatore
fra la legge immobile e la società in corsa, e tenderà a tornare un
protagonista.
Di questa funzione il
Mancaleoni era acutamente consapevole. Nella prolusione al corso di Diritto
Romano tenuta a Napoli il 5 febbraio 1920, accennando alla frattura lasciata dall’appena
conclusa guerra, egli lamentava che si fosse “perduta la via larga e si tentano
i viottoli per riprendere il cammini dell’Umanità.
E i viottoli sono le
ideologie e gli apriorismi, le fedi mistiche nelle instaurazioni arbitrarie
della giustizia e del diritto, che trascurano i procedimenti storici di
adattamento e di modificazione graduale, perché il presente carico di nebbie
fumiganti toglie non solo la conoscenza esatta dello stato attuale, ma ha
cancellato la visione del passato, e sembra a moltissimi che il presente sia
esso stesso inizio di cose nuove senza precedenti e non continuazione di cose
vecchie che si rinnovano e devono rinnovarsi secondo le leggi delle
trasformazioni storiche.
Ricondurre le menti a queste
leggi è togliere le aberrazioni e ridare calma agli animi, riprendere la sicura
coscienza di sé e delle condizioni nelle quali si è vissuto, si vive e si
vivrà”.
Parole profetiche e più che mai valide ancor oggi.