N° 2 - Marzo 2003 – Lavori in corso – Contributi
Il costituzionalismo del secondo
dopoguerra e
Università di Sassari
1.
La
distinzione tra il sistema di giustizia costituzionale accentrato e quello diffuso
è diventata problematica. La questione se il sistema accentrato di giustizia
costituzionale in Italia comprenda forme di controllo diffuso della
costituzionalità delle leggi, evidentemente, la presuppone. Quindi
preliminarmente va discussa la validità di tale discriminazione.
Le differenze tra il modello diffuso americano (judicial
review) e quello accentrato
austriaco (Verfassungsgerichtbarkeit) erano apparse già a
Cappelletti meno nette di quanto emerga in
linea di principio[2].
Pizzorusso poi le ha ulteriormente sfumate e, utilizzando l’astrattezza o la
concretezza quale criterio di discriminazione, è pervenuto alla conclusione che
il giudizio accentrato di costituzionalità instaurato in via incidentale non è
molto diverso da quello diffuso, proprio degli U.S.A. Egli inoltre ha posto in
rilievo che la concretizzazione del sistema accentrato è correlata alla
funzionalizzazione della giustizia costituzionale alla protezione dei diritti.
In questo modo il giudizio di costituzionalità instaurato in via incidentale ha
assunto caratteri più giurisdizionali che politici, mentre quello instaurato in
via principale è caratterizzato in modo più politico che giurisdizionale ed è
rivolto alla tutela della ripartizione costituzionale delle competenze[3].
A. Il senso e la portata di questa trasformazione emergono se si
volge lo sguardo verso l’evoluzione del costituzionalismo europeo di questo
Secondo dopoguerra[4].
La costituzione dello stato liberale ottocentesco, secondo il
paradigma del costituzionalismo dell’Europa continentale, era fondamentalmente
organizzativa, cioè era la costituzione dell’assetto di potere piuttosto che
della libertà. Negli Stati Uniti d’America, invece, la costituzione è stata
percepita come legge superiore[5].
Qui i giudici la hanno utilizzata subito come parte fondamentale del diritto in
base al quale esercitare la giurisdizione. La giustizia costituzionale quindi è
stata concepita come parte integrante della funzione giurisdizionale (comune).
Il diritto costituzionale (più precisamente, la pretesa giuridica fondata sulla
costituzione) è stato utilizzato dai giudici in quanto diritto posto a tutela
della libertà. Insomma è stato visto non come diverso da quello legislativo, ma
piuttosto come il diritto posto da una legge superiore, che quindi in caso di
contrasto prevale sulla legge. Pertanto, secondo questa impostazione, il
giudice affronta la questione di costituzionalità come un problema attinente
alla determinazione del diritto da applicare al caso, cioè alla stregua di una
comune questione interpretativa, che quindi è connaturata all’esercizio della
funzione giurisdizionale.
Nell’Europa continentale invece la costituzione e la legge sono
state poste su due piani paralleli. I diritti sono stati fondati non sulla
costituzione, ma sulla legge. Questa
soltanto quindi ha costituito il diritto applicato dai giudici, mentre il
diritto costituzionale ha riguardato l’assetto politico statale. Perciò non si
è neppure posto il problema della disapplicazione della legge in contrasto con
la costituzione. E’ vero che i giudici sono stati assoggettati soltanto alla
legge, cioè è stato imposto loro di applicare il diritto legislativo. Ma questo
vincolo è stato prescritto per renderli indipendenti dall’apparato regio. È
stata, insomma, la soluzione di un problema costituzionale, attinente cioè
all’assetto di potere piuttosto che alla tutela dei diritti: sottrarre i
giudici al re per sottoporli al comando astratto e impersonale dei parlamenti
borghesi. In questo modo i giudici e la funzione giurisdizionale sono stati al
servizio non del re, ma della legge, nonostante siano rimasti funzionari regi.
La giustizia costituzionale teorizzata da Kelsen, quindi il modello
della Verfassungsgerichtbarkeit, si inscrive all’interno di questa
tradizione del costituzionalismo europeo. E’ infatti un presidio della
costituzione organizzativa e non dei diritti. Ha forma giurisdizionale, ma non
è giurisdizione. E’ semmai controllo di costituzionalità delle leggi diretto a
difendere la ripartizione costituzionale delle competenze. E’ quindi un
controllo svolto da un organo apposito, l’unico abilitato, non a disapplicare,
ma ad eliminare le leggi incostituzionali[6].
L’alternativa applicazione o disapplicazione appartiene infatti ad una
problematica tipicamente interpretativa, quindi giudiziaria. Il controllo di
costituzionalità accentrato invece prescinde dalle concrete controversie
giudiziarie, perché è diretto non a tutelare i diritti, ma ad eliminare le
leggi incostituzionali. Sicché incide sulla vigenza di queste. Appartiene al processo
formativo, non a quello applicativo del diritto. E’ rivolto a fare in modo che
la legge ed il legislatore stiano al posto loro assegnato dalla costituzione
(in questo senso la giustizia costituzionale è un potere neutro). Influisce
sulla giurisdizione e sui diritti, in quanto modifica il diritto legislativo,
quindi indirettamente. In definitiva, il sistema accentrato della giustizia
costituzionale è parallelo alla giurisdizione e ai diritti, così come la
costituzione è parallela alla legge. La sovrapposizione della costituzione alla
legge è situata nell’ambito non dei diritti, ma delle competenze. Perciò
nell’Europa continentale la dottrina costituzionalistica prevalentemente ha
spiegato la superiorità della costituzione con la rigidità, quindi con un elemento
estrinseco e formale (procedimentale), del documento costituzionale. Da qui
l’idea comunemente accettata secondo cui la rigidità sarebbe il presupposto
della giustizia costituzionale e allo stesso tempo il bene protetto da questa.
B. Il costituzionalismo europeo dell’ultimo dopoguerra ha fatto
venir meno il parallelismo tra la costituzione e la legge, per quanto riguarda
la tutela dei diritti, aprendo così la strada all’uso giudiziario del diritto
costituzionale.
La costituzione non ha perso il significato,
conforme alla tradizione europea, di organizzazione dello stato. Tuttavia essa
organizza lo stato in connessione con la strutturazione della società, secondo
valori radicati e accettati socialmente piuttosto che decisi e imposti politicamente.
Questi valori, espressi con principi costituzionali, costituiscono l’insieme
delle convinzioni condivise su cui si basa la complessa costituzione
democratico-pluralista. I
principi della costituzione non sono quindi il fondamento del progetto costituzionale
dei vincitori, unitario e rigido, che pretende di essere soltanto attuato; sono
piuttosto l’identificazione dello sfondo di possibili intese e processi di
unificazione politica; sono cioè non un disegno precisamente definito e
consegnato dal potere costituente a quello costituito per la sua realizzazione,
ma una prospettiva, il campo delle opportunità da scoprire e da coltivare con
la pratica politica democratica-pluralista. Essi sono quindi la possibilità di
una esistenza politica discorsiva; l’unica compatibile con un assetto
democratico e pluralista.
Pertanto, la
disciplina costituzionale si è estesa a ogni ambito di vita sociale, senza
alcuna pretesa totalizzante. Il tradizionale senso organizzativo della
costituzione si è arricchito di nuovi importanti significati, che derivano
dalle aspettative di giustizia e di libertà che le costituzioni del secondo
dopoguerra hanno recepito con norme che rendono vincolanti giuridicamente i
principi etici che sono riconosciuti universalmente come principi di civiltà[7]. La
costituzione quindi fonda l’organizzazione innanzitutto nel senso che prescrive
la trasformazione conforme ai principi di giustizia e di libertà, indica la
prospettiva di un futuro migliore. Essa non solo indica la legittimazione
dell’organizzazione e dell’azione politica, ma fonda anche la rivendicazione di
una condizione sociale di esistenza individuale e collettiva libera e
dignitosa; la pretesa per sé e per altri (che versano nella medesima condizione
di disagio) di una vita migliore, più libera e dignitosa. Questa pretesa
soggettiva può essere fatta valere nei confronti di qualsiasi potere costituito
e innanzitutto nei riguardi del legislatore (ordinario e perfino
costituzionale). Si possono dunque avanzare pretese di diritti e di libertà in
base alla costituzione; queste prevalgono su quelle fondate sulla legge;
insomma la costituzione è diventata legge superiore, che configura posizioni
soggettive difendibili in via giurisdizionale.
C. Il
sistema di giustizia costituzionale accentrato di stampo kelseniano è stato
messo in crisi da questa evoluzione del costituzionalismo del secondo dopoguerra:
originariamente concepito come parallelo a quello giurisdizionale, in quanto
potere neutro al servizio dell’interesse oggettivo al buon funzionamento delle
istituzioni, della costituzione, è stato via via chiamato a difendere interessi
soggettivi, le libertà e i diritti costituzionali. Il cambiamento è avvenuto
attraverso l’instaurazione incidentale vincolata alla pregiudizialità della
questione di costituzionalità, che ha determinato una stretta connessione tra
le controversie concrete e i problemi di costituzionalità della disciplina da
applicare ad esse. In questo modo la giustizia costituzionale è stata posta
sempre più al servizio della giurisdizione, cioè della decisione dei casi
concreti conforme alla costituzione. Dal punto di vista funzionale, la
giustizia costituzionale non è stata più separata dalla giurisdizione (comune).
Funzionalmente dunque è venuto meno il parallelismo tra questa e quella che
caratterizzava il sistema accentrato. Strutturalmente permane l’accentramento,
i giudici (comuni) non possono disapplicare la legge. Lo possono fare soltanto
dopo che la corte costituzionale ne ha dichiarato l’incostituzionalità. Da
questa situazione di unità funzionale e di differenziazione strutturale è
emerso un sistema complesso di giustizia costituzionale, che può essere reso
abbastanza bene con l’idea dell’integrazione: la corte costituzionale e i
giudici comuni costituiscono un sistema integrato di giustizia costituzionale.
Da una parte la funzione (di giustizia costituzionale) non è più accentrata dal
primo, quindi non è più indipendente dalla giurisdizione (comune), in questo
senso è quindi diffusa; dall’altra parte, i secondi non possono ricavare dalla
costituzione la norma da applicare se vi è una norma legislativa contrastante,
cioè non possono disapplicare la legge e contemporaneamente applicare la
costituzione. La funzione è la stessa, ma il ruolo è diverso, il giudice non
può disapplicare la legge incostituzionale, se non è stata dichiarata tale
dalla corte costituzionale. Questo risulta dagli artt. 101 e 136 della
Costituzione, dall’art. 30, 3°, della legge 87/1953: il giudice è soggetto alla
legge (soltanto), però deve disapplicarla quando sia stata dichiarata
costituzionalmente illegittima.
D. Se
si segue questa prospettiva, emerge non solo l’integrazione del controllo di
costituzionalità con la giurisdizione comune in funzione della tutela dei
diritti costituzionali, ma anche la diffusione del giudizio di
costituzionalità: tutti i giudici giudicano della legittimità costituzionale
delle leggi, più precisamente delle norme legislative. L’accentramento riguarda
solamente quelle questioni di costituzionalità la cui soluzione richiede la
disapplicazione della legge. Sicché il giudice comune per sollevare la
questione di legittimità costituzionale davanti alla corte deve stabilire non
solo se esista un problema di legittimità costituzionale, ma anche se la
questione trovi soluzione con la disapplicazione. In altri termini, la
questione di legittimità costituzionale va sollevata solamente quando
l’individuazione della regola giuridica del caso si pone in termini di
disapplicazione di una norma legislativa incostituzionale. Non va sollevata
invece se il giudice, ricorrendo alle risorse interpretative a sua
disposizione, quindi senza disapplicare la legge incostituzionale, identifica
la norma costituzionalmente legittima sulla base della quale decidere la
controversia. In definitiva, il giudice comune utilizza direttamente il diritto
costituzionale, giudica sulla legittimità costituzionale delle norme
legislative. Però non può disapplicarle, poiché la disapplicazione della legge
presuppone una sentenza di accoglimento della corte costituzionale.
Come si vede, la
concretizzazione-diffusione della giustizia costituzionale, conseguente
all’affermazione della costituzione come legge superiore, ha determinato
l’integrazione di questa stessa giustizia con quella comune, cosicché i giudici
(tutti i giudici) utilizzano il diritto costituzionale, se necessario anche
disapplicando la legge sulla base della dichiarazione di incostituzionalità che
può essere pronunciata solamente dalla Corte costituzionale. Questa
dichiarazione è rivolta all’eliminazione non della legge incostituzionale, ma
della norma che impedisce al giudice di applicare la previsione della
costituzione o comunque una disciplina costituzionale (conforme alla
costituzione); insomma, è diretta a proteggere i diritti fondati sulla
costituzione. Sicché la giustizia costituzionale integrata con la giurisdizione
(comune) è non più accentrata, ma diffusa, sino a un certo punto.
1.
In
questo nuovo contesto, l’accentramento della corte costituzionale è
evidentemente inversamente proporzionale alla possibilità di risolvere le
questioni di legittimità costituzionale con i mezzi interpretativi consentiti
ai giudici comuni, quindi alla eventualità che questi ricostruiscano regole
costituzionali, rimanendo sottoposti alla legge.
Nel controllo di costituzionalità accentrato-astratto si
confrontano disposizioni, cosicché se il testo legislativo è incompatibile con
quello costituzionale l’alternativa è: o si applica la costituzione o la legge.
L’applicazione della costituzione necessariamente implica la disapplicazione
della legge. Questo dilemma si presenta in modo più sfumato, così da consentire
soluzioni più articolate, se la relazione è stabilita tra norme, perché in
questo caso entrano in gioco i fatti. La concretizzazione della giustizia
costituzionale quindi di per sé modifica l’approccio al problema di
costituzionalità. L’oggetto del giudizio di costituzionalità si sposta dalle
disposizioni alle norme nella stessa misura in cui lo scopo del controllo passa
dall’eliminazione della legge incostituzionale all’esercizio della
giurisdizione secondo il diritto costituzionale. In conseguenza la giustizia
costituzionale si allontana dalla logica dilemmatica del controllo astratto:
infatti, questa logica che è propria di ogni giudizio sulla compatibilità tra
testi, si adatta male ai giudizi sui fatti secondo regole giuridiche. Ma c’è di
più. Non solo l’instaurazione incidentale del giudizio di legittimità
costituzionale secondo l’istituto della pregiudizialità o della rilevanza ha
modificato l’oggetto e il senso del giudizio di costituzionalità. Ma
soprattutto l’evoluzione costituzionale in senso reticolare della democrazia
pluralista ha determinato relazioni tra le fonti, in genere, e tra la
costituzione e la legge, in particolare, più complesse di quanto lascino intendere
i criteri binari o dilemmatici che sono comunemente utilizzati per ordinare le
fonti.
La democrazia pluralista, affermatasi
con le costituzioni contemporanee, ha frantumato l'omogeneità politica dello
stato liberale; ha detronizzato lo stato-sovrano; ha smontato l'apparato
statale in molti centri decisionali autonomi. L'organizzazione gerarchica è
stata via via soppiantata da una struttura composta di molteplici centri
decisionali più o meno autonomi e comunque non subordinati ad un vertice, né
incaricati di riprodurre il 'centro' in 'periferia'. L'organizzazione delle costituzioni democratico-pluraliste è infatti senza
un vertice, priva di un ponte di comando; in essa non c'è alcun processo
decisionale concentrato in un centro, in una istituzione. Quindi manca un corpo
centrale o un vertice unitario dal quale muovano i processi di unificazione
politica o normativa, di costruzione di un ordine politico-sociale e di un
ordinamento giuridico. Gli ordinamenti democratico-pluralisti non hanno quindi
una base, né un vertice. L'immagine che li esprime non è quella della piramide,
ma quella della rete: l'immagine cioè di una struttura che si compone di tanti
nodi, che integrati fra loro, ciascuno per la sua parte, concorrono alla
formazione delle decisioni del sistema. Il sistema è reticolare, è
l'organizzazione di molteplici nodi che dialogano e interagiscono tra loro. E'
una rete interattiva, dove l'influenza reciproca tra i nodi genera decisioni di
tutto il sistema. E' un sistema i cui componenti sono accentuatamente
interconnessi tra loro, cosicché tra essi vi sono relazioni di interazione e
non di subordinazione; è un sistema non lineare, ma circolare; l'unità di
questo sistema è processuale e non statica, è il risultato (delle relazioni
interattive) della organizzazione reticolare e non il dato presupposto da
questa e da cui questa deriva. Nessuna istituzione politica può pretendere di
essere l'unità del sistema in quanto tale e perciò di imporsi sulle altre.
Infatti l'unità della democrazia pluralista non può essere un qualcosa che
annulla il pluralismo, una sintesi della pluralità che riduce i più a uno che
li comprende tutti; insomma non può essere una unità che vada oltre, che
trascenda la divisione pluralistica; che quindi si affermi oltre, nonostante e contro
le molte e diverse parti o comunità politiche che la compongono. Non c'è nessun
centro, ma molte istituzioni che esercitano diverse funzioni o le medesime
funzioni con diversi ruoli, le cui attività si intersecano secondo linee che si
muovono in tutti sensi, come è ben evidenziato dal modello matriciale teorizzato
da Elazar[8], per stare alle metafore geometriche o
matematiche.
Il sistema delle fonti non
coincide completamente con questo assetto istituzionale. Tuttavia, lo
rispecchia abbastanza. Sicché avviene che il diritto sia sempre meno prodotto
esclusivamente da un soggetto (da un legislatore) e da un unico procedimento
(legislativo-parlamentare). Non è dunque più valida l’equazione fondamentale
dello stato di diritto borghese: diritto uguale legge; sempre più spesso il
diritto è piuttosto il risultato di un processo complesso nel quale
intervengono molteplici soggetti secondo vari procedimenti decisionali. Questi
sono sempre più difficilmente collocabili in serie, secondo una gerarchia, o in
parallelo, secondo la diversa competenza. Infatti, per quanto riguarda la
gerarchia, l’organizzazione costituzionale (ma spesso anche amministrativa) ha
perso la forma piramidale e centralistica, cosicché la prevalenza della fonte
di grado superiore è perlomeno molto attenuata. Infatti, nessuna fonte sembra
autosufficiente, indipendente dalle altre. La fonte di grado inferiore è
deputata non soltanto all’esecuzione, ma all’integrazione, secondo autonome
determinazioni, del diritto prodotto da quella di grado superiore. La
disciplina costituzionale, essenzialmente di principio, è integrata dalla
legge; le disposizioni legislative, sovente anch’esse formulate in termini di
principio o generali, frequentemente rinviano alla disciplina regolamentare di
dettaglio, ecc. Si determina in tal modo una nuova circolarità decisionale che
si somma a quella antica connaturata al processo di produzione- applicazione
del diritto, che è resa con la distinzione tra le disposizioni e le norme
(l’interprete è vincolato dai testi; il significato dei testi però dipende
dall’interpretazione).
Le fonti prodotte da
diversi processi politici sono in qualche misura parallele, cioè intervengono
nei diversi ambiti che sono lasciati alle autonome determinazioni dei circuiti
decisionali cui esse appartengono. Però ciascuno di questi processi si colloca
in un complesso sistema ispirato ai principi non di separazione e di
indipendenza reciproca (secondo un certo modo di intendere la divisione dei
poteri) ma di partecipazione e interdipendenza. Pertanto, le statuizioni
dettate da fonti con diversa competenza finiscono per interferire in qualche
punto. Questo avviene in modo evidente quando diversi soggetti esercitano la
medesima funzione con ruoli differenti. L’integrazione tra le disposizioni
molteplici consente di individuare molte norme che sono più o meno pertinenti o
adeguate alla situazione cui devono essere applicate. Sicché l’applicazione di
alcune norme non sempre né necessariamente comporta la disapplicazione di
altre.
In definitiva, il diritto è prodotto da molteplici fonti
interdipendenti. Sicché la regola di un fatto è stabilita non sempre da una
fonte piuttosto che da un’altra (superiore o competente), ma più spesso dalle
previsioni di molte fonti, pure di diverso grado e competenza, integrate fra
loro. Può essere dunque che la regola del caso sia costruita integrando le
disposizioni costituzionali con quelle legislative e persino regolamentari.
Sicché le combinazioni possibili dei vari testi sono tali e tante che abbastanza
spesso è possibile ricostruire una norma costituzionalmente legittima, senza
contemporaneamente disapplicare la legge incostituzionale. Per quanto riguarda
in particolare il rapporto tra la costituzione e la legge, bisogna aggiungere
che le costituzioni di questo secondo dopoguerra prescrivono principi piuttosto
che regole di giusta strutturazione sociale, come si è detto in precedenza. E
ad un principio corrispondono molteplici regole. Sicché è improbabile che
l’applicazione di una norma conforme alla costituzione comporti la
contemporanea disapplicazione di un’altra incostituzionale. Può essere che le
relazioni tra alcune di queste si configurino come antinomiche. Ma questa
contraddizione evidentemente pone un problema tipicamente interpretativo, poiché
consiste nell’individuazione della norma pertinente al fatto.
La giurisprudenza per principi ha fatto emergere una ipotesi, per
certi versi estrema, che tuttavia chiarisce come nel sistema di giustizia
costituzionale che si sta delineando è (deve essere) normale la condizione
nella quale possono essere individuate interpretativamente molteplici norme
conformi alla costituzione. E’ il caso della norma legislativa incostituzionale
perché limita le potenzialità regolatrici del principio costituzionale, come è
ben messo in evidenza dalle sentenze della Corte costituzionale sull’adozione.
In altri termini, l’illegittimità consiste nella ‘rigidità’ della norma o nella
sua pretesa di essere esclusiva che impedisce l’applicazione di altre regole
orientate al medesimo principio costituzionale.
In conclusione,
l’individuazione di una norma conforme alla costituzione dovrebbe essere
impossibile fondamentalmente in due sole ipotesi, cioè quando: a) la
disposizione consente soltanto una interpretazione incostituzionale ovvero
impedisce l’individuazione di una regola costituzionale; b) comunque, sulla
base di essa si è consolidato un diritto vivente incostituzionale. In questi
due casi la questione di costituzionalità si configura in termini di
disapplicazione così da richiedere l’intervento della corte costituzionale.
infatti esclusivamente la sentenza che dichiara l’illegittimità costituzionale
ha l’effetto di eliminare disposizioni, in virtù dell’art. 136 Cost., quindi di
imporre la disapplicazione delle norme che se ne ricavano, secondo la
previsione della legge 87/1953. Nelle altre ipotesi, invece la questione di
legittimità costituzionale può essere decisa dal giudice comune. Dunque, la
questione di costituzionalità nella maggior parte dei casi, normalmente – forse
si potrebbe dire – può essere decisa nell’ambito della giurisdizione comune.
Sicché la giustizia costituzionale in Italia si evolve verso un particolare
sistema diffuso, che si differenzia, sotto vari profili, dal modello
statunitense. La funzione della corte costituzionale tende verso il controllo
della costituzionalità del diritto vivente. Questo è il nuovo ruolo dell’organo
di giustizia costituzionale che si profila all’orizzonte. Esso si fonderebbe
ormai soltanto sulla sua posizione di strutturale estraneità dalla
giurisdizione.
Il processo che spinge
la corte costituzionale verso una sorta di funzione nomofilattica del
diritto costituzionale è ancora in itinere e forse non è neppure giunto
ad una fase irreversibile. Quindi potrebbe essere efficacemente contrastato.
Tuttavia, il suo esito possibile, anzi probabile, perché poggia su una base
solida, è che il ruolo della corte costituzionale riguardi più la corretta ed
uniforme applicazione del diritto costituzionale che l’annullamento delle
leggi.
[1]
Pubblicato in Il giudizio sulle leggi e la sua "diffusione", a
cura di MALFATTI, ROMBOLI, ROSSI, Torino 2002.
[2] CAPPELLETTI, Il controllo giudiziario di costituzionalità delle
leggi nel diritto comparato, Milano 1968, 51 ss.
[3] PIZZORUSSO, I sistemi di giustizia costituzionale: dai modelli
alla prassi, in Quaderni cost., 1982, 522 ss.
[4] Cfr. DOGLIANI, Introduzione al diritto costituzionale,
Bologna 1994; PINNA, La costituzione e la giustizia costituzionale,
Torino 1999; VOLPE, Il costituzionalismo del Novecento, Bari 2000.
[5] Cfr. FIORAVANTI, Appunti di storia delle costituzioni moderne,
I, Le libertà: presupposti culturali e modelli storici, Torino 1990; ID, Stato
e costituzione, Torino 1993; MATTEUCCI, Lo Stato moderno, Bologna
1993; ID., Organizzazione del potere e libertà, Torino 1988; REBUFFA, Costituzioni
e costituzionalismi, Torino 1990.
[6] KELSEN, Judicial Review of Legislation.
A Comparative Study of the Austrian and the American Constitution, in Journ.
of pol., 1942, trad. it. Il controllo di costituzionalità delle
leggi. Studio comparato delle costituzioni austriaca e americana, in La giustizia costituzionale, Milano 1981, 305; ID, La
garantie jurisdictionnelle de
[7]
Sui principi giuridici-etici v. HELLER, Staatslehre, Leiden
1934, trad. it., Dottrina dello Stato, Napoli 1988, 316 ss.
[8] ELAZAR, Exploring Federalism, The
University of Alabama Press, 1987, trad. it. Idee e forme del federalismo,
Milano 1998