N° 2 - Marzo 2003 – Lavori in corso –
Contributi
Sulla
nozione di cittadinanza(*)
[p. 13]
1. – Negli ultimi quindici anni il tema della cittadinanza è
tornato ad essere di grande attualità. Le imponenti ondate migratorie dalle
aree più povere del mondo verso i paesi industrializzati, segno ed insieme
effetto dei processi di globalizzazione, hanno riproposto all’interno delle
liberal-democrazie contemporanee la questione dell’inclusione-esclusione,
sollevando problemi, in parte inediti, di riconoscimento, identità, visibilità,
accettazione e non-discriminazione, vale a dire, in sintesi, il problema
dell’effettività dei diritti umani in un contesto caratterizzato dal fenomeno
del multiculturalismo[1].
Ma l’epoca della globalizzazione ha anche prodotto come reazione
[p. 14]
un’incredibile
reviviscenza dei localismi. La brulicante rinascita dei movimenti
nazionalistici (prevalentemente) a base etnica, che ha interessato i quattro
quinti del globo, ha riportato in primo piano istanze indipendentistiche (fino
al limite del secessionismo) e i problemi cruciali dell’ identità e
dell’appartenenza[2].
In modo analogo il revival nazionalistico ha caratterizzato la difficile
fase di transizione di quei paesi coinvolti nel disfacimento dei sistemi del
cosiddetto socialismo reale, mentre, all’opposto, procedeva e realizzava
significativi sviluppi il processo di integrazione (e unificazione) dell’Europa
occidentale.
Questi eventi hanno
contribuito a riaccendere, in sede teorica, il dibattito sui presupposti, i
fondamenti, i contenuti, i limiti e le aporie del concetto di cittadinanza. A
partire – e il punto di riferimento è stato pressoché obbligato - dalla
rivisitazione critica della concezione di Thomas H. Marshall che, elaborata in
un celebre saggio pubblicato nel 1950, presenta un impianto teorico tuttora
solido, anche se nel complesso appare irrimediabilmente datata[3].
I rilievi si sono focalizzati soprattutto sulla descrizione del processo di
costruzione della cittadinanza moderna come un continuum evolutivo privo
di tensioni e conflitti e sulla sua capacità di dare conto della nuove
rivendicazioni e, dunque, di spiegare l’insorgenza di quei diritti che appaiono
geneticamente slegati dalle dinamiche tipiche delle relazioni fra capitale e
lavoro[4].
Insomma, una concezione giudicata, per un verso, irrealisticamente
“ottimistica” e, per un altro, “troppo ristretta”. Meno frequenti, ma non
assenti, le critiche opposte, relative all’eccessiva ampiezza della nozione[5].
Eppure forse questo è uno dei punti più deboli della prospettiva marshalliana,
secondo la quale il concetto moderno di cittadinanza designa – sotto il profilo
giuridico, politico e sociologico - la situazione esistenziale
“onnicomprensiva” degli individui che appartengono ad una determinata comunità
politica, lo status che assorbe in sé
[p. 15]
tutti
gli altri (compreso lo status personae), l’unico contenitore dei diritti
la cui graduale conquista - dapprima quelli civili, poi quelli politici ed
infine quelli legati alla sicurezza sociale - ha scandito la storia della
società industriale verso traguardi caratterizzati dall’acquisizione, continua
e progressiva, di condizioni di sempre maggiore uguaglianza (Ferrajoli). In
altre parole, movendo dall’ipotesi, peraltro non del tutto irrealistica, che
nelle odierne democrazie occidentali l’individuo si presenta prima facie
sotto le spoglie del cittadino, Marshall considera le tre principali famiglie
di diritti che tradizionalmente compongono la classe dei diritti umani, vale a
dire i diritti civili, i diritti politici e i diritti sociali, sic et simpliciter
come diritti che afferiscono all’unica grande categoria (per l’appunto:
onnicomprensiva) dei diritti di cittadinanza. In questa accezione molto ampia
l’espressione “diritti di cittadinanza” denota l’insieme dei diritti, delle
tutele, delle garanzie, delle prestazioni (in una parola: gli entitlements)
di cui godono gli individui in virtù del loro legame di totale appartenenza ad
una determinata comunità. Si tratta di una nozione di cittadinanza
sufficientemente generica, tale, cioè, da consentire di coprire un vasto campo estensionale,
ma, per ciò stesso, anche incapace di coglierne il contenuto specifico, che
rimane perciò labile e incerto. In definitiva, col fondere insieme ciò che,
almeno sul piano analitico, va tenuto distinto, Marshall conferisce al concetto
di cittadinanza una capacità denotativa così ampia da fargli perdere ogni
proprietà distintiva. Ciò che ne risulta non è un concetto dotato di maggiore
capacità euristica o esplicativa, bensì un concetto che rende opache le
differenze fra i diritti che ne costituiscono il contenuto, le loro peculiari
funzioni, le loro (talora gerarchiche) relazioni. Ma, soprattutto, offusca la
rilevanza, in relazione alla definizione, della categoria dei diritti politici,
che invece rappresenta il nucleo primario del significato originario della
nozione di “cittadinanza”, l’elemento intrinseco costitutivo della sua
specifica capacità connotativa[6].
2. – Se il termine
“sudditanza” denota la condizione del suddito e, per simmetria, il termine
“cittadinanza”, in almeno uno dei suoi possibili significati[7],
la condizione del cittadino, allora la definizione di “cittadinanza” è
intuitivamente semplice: in fondo, basterebbe conoscere il significato di
“cittadino” (non del termine, beninteso, ma del concetto) per formularla.
Il punto che rende
l’operazione meno semplice di quel che appare a prima vista è che il concetto
di cittadino non è un concetto banalmente anagrafico, ma eminentemente
politico. Come del resto “popolo”, anche “cittadino” è un concetto convenzionale,
nel senso che è indissociabile dall’atto politico costitutivo della sfera dell’appartenenza,
cioè dei confini fra inclusione ed esclusione, qualunque sia il
modo attraverso il quale, nelle diverse società e nelle diverse epoche, si è
giunti a stabilire la convenzione che traccia i confini (per contratto o
in seguito alla
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guerra
civile, per citare i due casi estremi). Ne discende che la categoria di
cittadino è storicamente condizionata, politicamente dipendente, strutturalmente
relativa: niente altro che un contenitore a contenuto variabile. Ciò dovrebbe
indurre ad un minimo di prudenza e scoraggiare la pretesa (invero velleitaria)
di ricercare una sorta di astorica e immutabile “essenza” della cittadinanza,
in grado di coglierne il quid proprium in ogni luogo e in ogni tempo. Il
che però non significa che si debba rinunciare ai tentativi di rintracciare gli
elementi costanti e le caratteristiche ricorrenti della nozione di cittadino
presenti nella tradizione della cultura politica occidentale.
Lo stesso Aristotele, che
di questa tradizione culturale rappresenta un punto di riferimento ineludibile,
nell’apertura del terzo libro della Politica ritiene che la definizione
di cittadino sia un’operazione preliminare rispetto alla definizione della
città (a sua volta indispensabile per definire la costituzione): «poiché essa è
un composto, come un qualsiasi altro tutto costituito di molte parti, è chiaro
che bisogna prima cercare che cos’è il cittadino: infatti la città è costituita
da una moltitudine di cittadini, sicché sorge il problema di determinare a chi
spetti questa qualifica e che cosa significhi»[8].
E, pur riconoscendo che la qualifica di cittadino può essere diversa a seconda
del regime politico (della costituzione della città), tanto che «chi lo è in
una democrazia spesso non lo è in un’oligarchia»[9],
Aristotele tenta di pervenire alla «definizione del cittadino in quanto tale,
senza limitazioni bisognose di integrazioni, in modo che essa serva a porre e
risolvere il problema dell’appartenenza alla cittadinanza anche a proposito dei
cittadini disonorati e traditori»[10].
Stabilito, quindi, che non tutti gli abitanti della città sono cittadini –
perché se così fosse non avrebbe senso porsi il problema della definizione e
cercare, di conseguenza, criteri selettivi adeguati allo scopo – Aristotele
sembra escludere che il fattore discriminante possa essere costituito da
qualità, in senso lato, etico-politiche (il comportamento onorevole o
l’atteggiamento di lealtà nei confronti della città). Ma neppure la residenza o
la facoltà di adire i tribunali possono essere assunti a criteri di
distinzione: «non si è cittadini perché si abita un certo luogo (ché anche i
meteci e gli schiavi condividono con i cittadini il luogo di residenza), né
perché si abbiano i diritti civili, sì da poter comparire in tribunale o di
potervi citare qualcun altro (…)»[11].
Sono invece criteri di discriminazione l’età e la possibilità di partecipare
alle funzioni di governo della città[12].
Esclusi, dunque, i soggetti che soffrono di impedimenti «naturali», o presunti
tali, vale a dire gli schiavi, le donne, i vecchi (in parte), i fanciulli e i
meteci, gli unici abilitati a fregiarsi del titolo di
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cittadino
sono i maschi adulti, nati nella polis: solo loro possiedono la capacità
di accedere alle «cariche deliberative e giudiziarie».
Sesso, età e luogo di
nascita costituiscono perciò i requisiti indispensabili per l’acquisizione
della qualità di cittadino, perlomeno, come avverte Aristotele, nei regimi democratici[13].
I requisiti, ovviamente, variano a seconda delle costituzioni: ad esempio,
annota Aristotele, nelle oligarchie vale anche il criterio del censo, mentre
nelle aristocrazie sono rilevanti la virtù e il merito[14].
Ciò che non varia e che quindi individua e differenzia il cittadino dagli altri
abitanti, qualunque sia la forma di governo, è l’elemento della titolarità dei
diritti politici. Questo è il dato costante, fisso, comune a tutte le
costituzioni, le quali si distinguono, appunto, unicamente in relazione ai
criteri di selezione e, dunque, al grado della loro maggiore o minore
inclusività. In altre parole, quel che distingue e fa la differenza fra la
democrazia, l’ aristocrazia e l’oligarchia - i tre regimi ai quali Aristotele
accenna nell’affrontare il problema della definizione del cittadino (ed è
significativo che non citi la monarchia) – non è la qualità di
cittadino, bensì la quantità dei cittadini, il dato variabile che
dipende dai criteri convenzionali di ascrizione che trovano applicazione nelle
diverse costituzioni.
Non i soli cittadini, però,
godono delle libertà. Anche i non-cittadini, con l’eccezione degli schiavi,
appartengono alla categoria degli uomini liberi: possiedono infatti i diritti
civili e li possono far valere in giudizio. Ma, rispetto allo straniero o al
meteco, il cittadino gode di un surplus di libertà (e di poteri
correlati): la libertà politica che introduce al governo della polis (e,
dunque, il potere di prendere decisioni collettive vincolanti). Il cittadino è
il soggetto governante, il non-cittadino il soggetto governato,
ossia, in senso proprio, il suddito, colui che è sottoposto a leggi e
disposizioni che, a differenza del cittadino, non ha concorso, né direttamente
né indirettamente, a formulare.
La dimensione (non
eminentemente, ma esclusivamente) «politica» che connota la nozione di
cittadino, che Aristotele elabora, forse non a caso, nel periodo della
democrazia ateniese, si affievolisce nell’epoca romana. Il civis romanus
è infatti inquadrato in una dimensione prettamente giuridica. Protetto dallo status
civitatis, che gli garantisce la pienezza dell’insieme delle tradizionali
libertà che gli derivano ex jure Quritium, in cambio della
soggezione alla legge e all’imperium delle supreme magistrature, il
cittadino romano è titolare di una serie di diritti, fra i quali anche, ma non
necessariamente, il diritto di voto da esercitarsi, a seconda delle materie,
all’interno della curia, della centuria o della tribù di
appartenenza[15].
Non sono, quindi, i diritti politici a definire il cittadino – tanto che Roma
conosce e pratica la distinzione fra civis cum sufragio e civis sine
sufrargio - ma le prerogative legate alla sua capacità giuridica: oltre a
un certo grado di sicurezza personale, garantito dalle
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norme
del diritto penale, la facoltà di utilizzare gli istituti e di porre in essere
i rapporti negoziali fra i privati previsti dal diritto civile.
Nell’ordinamento istituzionale repubblicano, del resto, è il popolo, inteso
come unità indistinta, e non il cittadino ad avere una qualche rilevanza
politica. In questo contesto, i diritti politici non solo perdono la centralità
che gli aveva attribuito Aristotele, ma divengono addirittura inessenziali per
definire il profilo del cittadino, un elemento accidentale e, tutto sommato,
perfino irrilevante, se si prescinde dalla figura, che però costituisce uno status
privilegiato, del civis optimo iure[16].
Nel tardo periodo
imperiale, infine, la svolta annunciata: il ruolo del popolo come soggetto politico
declina definitivamente, l’utilitas publica, che in Cicerone indica
l’interesse del popolo (res pubblica equivale a res populi),
viene interpretata dai giuristi come coincidente con l’interesse dell’Impero -
un interesse sovrastante rispetto a quello, sottostante, del popolo – la
categoria del civis romanus diventa inintelligibile se dissociata dalla
qualifica di subiectus Imperii. E’ la formula del cittadino-suddito, un
vero e proprio ossimoro secondo la prospettiva aristotelica, che diverrà l’asse
portante della teoria della cittadinanza di Jean Bodin.
Nel epoca medievale,
dominata dalle concezioni del potere discendente e da rapporti di soggezione di
tipo personale, tramonta l’idea romana dello status civitatis,
sostituita da quella che Pietro Costa chiama «l’idea di un corpus
ordinato e ordinante»[17]
(Costa 19), la quale non contempla più «una cittadinanza, ma una
pluralità di condizioni soggettive differenziate e gerarchizzate»[18],
un fitto reticolo di corpi e di ordini, appunto, dal quale dipende non solo la
«visibilità» dei singoli ma anche il riconoscimento dei loro diritti e il
catalogo dei loro obblighi[19].
In un mondo sorretto da una visione generale che subordina le parti al tutto –
la figura chiave dell’universitas che riunifica le molteplicità
riducendole ad unum[20]
- i soggetti del rapporto politico sono, da una parte, il sovrano (il
signore) e, dall’altra, i corpi intermedi (territoriali o funzionali), cioè le
entità collettive che possono vantare una capacità rappresentativa di tipo
organico (in genere non elettiva) in virtù del fatto che tale rappresentanza si
appoggia su una presunzione assoluta (iuris et de iure, come direbbero i
giuristi: tale, cioè, da non ammettere prova del contrario)[21].
[p. 19]
I
singoli individui, tutt’al più, assumono rilevanza (visibilità) in quanto
sudditi, non in quanto cittadini (nel senso aristotelico del termine).
Diverso, almeno in parte, è
il discorso relativo all’esperienza comunale, nella quale la vita politica, sia
pure «differenziata e gerarchizzata, segnata dalla differenza del censo e dello
status»[22],
non può tuttavia prescindere dalla partecipazione, più o meno attiva, dei
cittadini uti singuli. Sebbene entro un quadro caratterizzato, a seconda
della posizione sociale e delle appartenenze primarie, da un articolato sistema
di disuguaglianze, il cittadino, nella civitas o nella repubblica, è
tale perché possiede il diritto di prendere parte ai processi di selezione del
personale incaricato delle funzioni di governo. E poco importa che i diritti
politici compaiano in un catalogo eterogeneo insieme ad altri diritti, a
privilegi, oneri ed esenzioni, importa che ne facciano parte e che non siano
inessenziali per la definizione del ruolo del cittadino.
In linea di continuità con
la tradizione medievale-feudale, di cui costituisce un «coerente, graduale
svolgimento»[23],
si colloca la teorizzazione di Bodin, agli albori dell’assolutismo. In polemica
con Aristotele - accusato di aver commesso un errore nell’attribuire al
cittadino in generale i caratteri che, tutt’al più, possono essere ritenuti
tipici dei cittadini negli ordinamenti democratici [24]
nonché di aver «fatto confusione fra il regime di uno Stato e il suo governo»[25]
a proposito della democrazia - Bodin ne rovescia radicalmente la prospettiva.
Non solo il concetto di cittadino non si contrappone a quello di suddito, ma è
da questo dipendente, nel senso che la qualifica di cittadino può spettare solo
a chi è suddito. Tanto è vero che «il cittadino solamente onorario, che ha
ottenuto il diritto di votare o la cittadinanza per i suoi meriti o per un
particolare favore che gli si fa, non è vero cittadino, perché non è suddito»[26].
Cittadino, secondo la tradizione romano-medievale, è il pater familias allorché
«esce dall’ambito della casa in cui comanda per trattare e negoziare coi capi
delle altre famiglie di ciò che riguarda l’interesse comune»[27],
ossia quando si spoglia delle vesti di padrone domestico ed assume quelle,
provvisorie, di soggetto politico. Allora, secondo Bodin, «comincia a chiamarsi
cittadino, parola che in termini precisi significa suddito libero
che dipende dalla sovranità altrui»[28].
Ma che ogni cittadino sia suddito, non significa che sia vero il contrario e
che anche ogni suddito sia cittadino. I servi e gli schiavi, le donne e i
figli, sottoposti all’autorità padronale e maritale, non lo sono. Cittadino è
unicamente il suddito libero, il pater familias che è titolare di
diritti e privilegi perché si suppone abbia contratto con il sovrano un tacito
patto, offrendo obbedienza e fedeltà in cambio di «giustizia, consiglio,
conforto, aiuto e protezione»[29].
[p. 20]
Quella
di cittadino è dunque una condizione privilegiata, ma è pur sempre la
condizione di un suddito, una delle possibili specificazioni del suddito, il
concetto che sorregge (insieme a quello di sovrano) l’intera impalcatura
dell’analisi politica e della sistemazione teorica di Bodin.
La categoria del cittadino
come suddito libero serve per stabilire la distinzione, da un lato, con
la condizione di straniero e, dall’altro, con la condizione dell’abitante della
città, il bourgeois che, a differenza degli abitanti delle campagne,
gode di privilegi particolari[30].
La distinzione è importante perché consente di sganciare la nozione di
cittadino da riferimenti di tipo anagrafico-territoriale e di ricondurla
esclusivamente al rapporto di soggezione con il sovrano. In questo senso «la
parola cittadinanza - annota Bodin - è parola giuridica»[31],
ma, si può aggiungere, non priva di un minimo di valenza politica. Il suddito
libero (o cittadino) si distingue dal suddito naturale perché è titolare
di una serie di diritti e di privilegi che gli derivano dal rango, dal sesso,
dall’appartenenza all’ordine, insomma da una posizione sociale preminente. “Libero”
perché non sottoposto a vincoli di tipo personale e perché può liberamente
disporre dei beni di sua proprietà, un diritto, questo, che non può essere leso
neppure dal sovrano[32].
Ma, al di là dell’esercizio di diritti e privilegi che riguardano i rapporti
fra i privati, può, naturalmente a discrezione del sovrano ed entro i ristretti
limiti che il regime assolutistico concede, occuparsi anche degli “affari
pubblici”. Questo è l’aspetto che conferisce al concetto di cittadino un
carattere anche politico e che rende non del tutto improprio l’uso che
ne fa Bodin associandolo all’idea del suddito libero.
Lo stridente contrasto
presente nell’abbinamento dei due semantemi «cittadino» e «suddito» è
radicalmente risolto da Rousseau, che, nel definire i significati dei termini
chiave della propria teoria politica, fa un fuggevole (e critico) accenno alla
posizione di Bodin[33].
Il problema principale di Rousseau è di stabilire a priori le condizioni
di legittimità di qualsiasi sistema politico, cioè di «trovare una forma di
associazione che difenda e protegga con tutta la forza comune la persona e i
beni di ciascun associato, e per la quale ciascuno, unendosi a tutti, non
obbedisca tuttavia che a se stesso, e resti libero come prima»[34].
In realtà Rousseau, nell’impostare il problema, fornisce anche la soluzione: il
principio dell’autonomia, inteso alla lettera come capacità di dare leggi a se
stessi. I “consociati” possono restare liberi, una volta che si sono
volontariamente riuniti in un corpo politico, se ubbidiscono unicamente a se
stessi, quindi solo se vi è identificazione (concettuale e fisica) fra
sovrano e sudditi. Ecco perché ogni consociato è contemporaneamente cittadino,
in quanto partecipe dell’autorità sovrana, e suddito, in quanto
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obbligato,
per contratto, ad osservarne le disposizioni[35].
In questo modo, Rousseau nel 1762, al culmine dell’ Ancient Règime,
recupera integralmente il paradigma aristotelico, rovescia completamente il
senso della prospettiva indicata da Bodin e stabilisce, a futura memoria, l’identikit
del cittadino democratico.
Le interpretazioni
normative e le definizioni esplicative proposte da Rousseau sui significati dei
termini che compongono la catena logica cittadino-sovrano-sudditto,
operando una sorta di reductio ad unum delle tre categorie, trovano solo
parziale accoglienza nella solenne Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino, che l’Assemblea nazionale francese approva il 26 agosto del
L’interpretazione letterale
del testo non consente di dare risposte sicure, ma solo di avanzare ipotesi in
qualche modo pre-orientate dalla conoscenza degli eventi storici successivi[36].
E, in effetti, i dubbi vengono sciolti dalla stessa Assemblea nazionale che,
quattro mesi più tardi, con la legge del 22 dicembre 1789 introduce la
distinzione fra “cittadini attivi” e “cittadini passivi” e, su questo
fondamento, istituisce un complesso sistema elettorale di tipo rigidamente
censitario. Ai cittadini passivi spettano i diritti civili che
[p. 22]
libertà positiva, ossia il diritto di esercitare la libertà-potere di
prendere decisioni vincolanti non solo per se, ma anche su e per gli
altri. Sotto questo profilo, l’homme, il cittadino passivo,
conserva sostanzialmente la connotazione di franc subiect, che gli aveva
riservato Jean Bodin, con in meno i limitatissimi diritti politici che al suddito
libero competevano per graziosa concessione del sovrano. In altre parole,
«cittadino passivo» è l’ossimoro che traduce approssimativamente, nel
linguaggio della Francia rivoluzionaria, l’ossimoro bodiniano «suddito libero». L’appellativo di «cittadino», seguito dall’aggettivazione
«passivo», serve solo a distinguerlo dallo straniero, non, però, anche dal
suddito.
Privilegio legato alla
condizione di proprietario – non al diritto di proprietà che
La distinzione concettuale fra
«cittadino attivo» e «cittadino passivo» si conserva, sotto varie forme e
diciture, per tutto il XIX e per buona parte del XX secolo, non tanto perché è
autorevolmente suffragata dalle riflessioni di Immanuel Kant[38]
o dalle argomentazioni di Benjamin Constant[39],
quanto perché, come criterio o requisito per l’acquisto dei diritti politici, è
funzionale al tradizionale impianto oligarchico-censitario dello Stato liberale[40].
D’altra parte, una rivoluzione liberale non è una rivoluzione democratica. (Il
primario valore politico del liberalismo è la libertà individuale, intesa come
non impedimento, come non interferenza dello Stato nella sfera delle attività
dei privati, che però - si pensi a Locke - è strettamente connessa, almeno
all’origine, con la proprietà. Ed è proprio questo binomio, dalla guerra civile
inglese in poi, a giocare un ruolo non irrilevante nel contrastare e limitare
lo strapotere dell’assolutismo regio)[41].
La «rivoluzione»
democratica è sancita dalla Dichiarazione universale dei diritti umani approvata
dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, che, al primo
comma dell’art. 21, recita: «Ognuno ha diritto di partecipare
[p. 23]
al
governo del proprio paese, sia direttamente, sia attraverso rappresentanti
liberamente scelti». Non i cittadini (né tampoco i cittadini attivi), ma
ognuno. In questo dettaglio è racchiuso il significato della svolta epocale che
3. – Chiuso il cerchio
della ricognizione, effettuata a grandi linee, del significato di «cittadino»
nella storia della cultura politica occidentale, si possono tirare le prime
somme. Cittadino è il soggetto titolare di una serie di diritti all’interno di
un ordinamento giuridico-politico[42].
Questi diritti possono essere distinti in due grandi classi: i diritti, lato
sensu, civili, che riguardano la sfera privata del cittadino e che si
concretizzano, da un lato, in alcune garanzie che tutelano l’inviolabilità
della persona e, dall’altro, in una serie, più o meno ampia, di facoltà (o
capacità) di porre in essere atti e negozi giuridici finalizzati a perseguire
la soddisfazione degli interessi privati; i diritti politici, che riguardano la
dimensione pubblica degli individui e che consistono essenzialmente nella
capacità di partecipare, in forme e modi diversi a seconda delle epoche
storiche e dei regimi costituzionali, ai processi che conducono a prendere le
decisioni vincolanti per l’intera collettività.
Nel paradigma aristotelico
il cittadino assomma in sé le due classi di diritti. Rispetto al non-cittadino,
che gode solo di quelli civili, possiede pertanto un surplus di diritti.
Nella tradizione romana il soggetto titolare di entrambe le classi dei diritti
è denominato civis cum sufragio o optimo iure, ma l’appellativo
di cittadino spetta anche a chi possiede solo i diritti civili (civis sine
sufragio). In questo modo, il termine «cittadino» diventa generico: aumenta
la propria capacità denotativa (il campo di estensione), e, di
conseguenza, riduce quella connotativa (il campo dell’intensione).
Bodin, a dispetto della sua polemica con Aristotele, riunifica in capo al
cittadino i diritti civili e i (limitati) diritti politici, ma lo chiama,
incorrendo in un evidente ossimoro, «suddito libero». Rousseau si limita ad
«estremizzare» la prospettiva aristotelica, inserendola, appunto, in una dimensione
di democrazia radicale. I costituenti francesi (fra il 1789 e il 1791)
ripropongono la distinzione della tradizione romana, suddividendo la categoria
del cittadino in due sottocategorie: il cittadino con il surplus di
diritti politici è denominato «attivo», l’altro «passivo». Anche in questo caso
il termine senza aggettivazioni, nel rivestire un significato generico, perde
quel carattere di «termine giuridico» che Bodin aveva inteso riservargli
introducendo la differenza concettuale fra citoyen e bourgeois,
fra il cittadino, titolare di diritti (anche politici) e privilegi particolari,
e l’abitante della città, individuato semplicemente in relazione ad un
parametro di tipo spaziale (il
[p. 24]
luogo
di residenza). Analogamente, la nozione di cittadino passivo indica
anche l’abitante, peraltro non privo di diritti, del suolo francese e il suo
significato, pertanto, coincide, per un verso, con il significato di non-cittadino
dello schema teorico di Aristotele e di civis sine sufragio contemplato
dal diritto pubblico romano, e, per un altro verso, con quello che Bodin
attribuisce al termine bourgeois.
La distinzione fra
cittadino attivo (o cum sufragio) e passivo (o sine
sufragio), più che aver rilevanza sul piano analitico e quindi essere utile
per chiarire il significato del concetto di cittadinanza, è il risultato di una
classificazione che introietta i criteri, predeterminati, che segnano i confini
convenzionali fra l’inclusione e l’esclusione. Dipende, quindi,
non tanto da un atto teoretico, quanto da un atto politico. E
poiché non riguarda il problema della definizione della cittadinanza,
attraverso l’individuazione delle sue proprietà intrinseche, bensì la questione
della delimitazione della sfera della sua inclusività, non aggiunge elementi
‘conoscitivi’, ma riproduce semplicemente il contenuto di una previa decisione
imperativa che stabilisce i requisiti (in genere censitari) per l’acquisizione
dei diritti politici in un determinato contesto costituzionale. In questo
senso, non indica che cosa il cittadino sia, ma chi, in un
ordinamento dato, lo è oppure non lo è. Insomma, è una distinzione che non ha
alcuna funzione esplicativa, ma solo la funzione enunciativa del
contenuto normativo di una scelta ideologica e/o di un documento di
diritto positivo (al punto che verrebbe voglia di sostenere, se non fosse del
tutto insostenibile, che il suo «contesto di validità» potrebbe essere meglio
rappresentato dalla logica della giustificazione, piuttosto che dalla logica
della dimostrazione).
Il che non significa,
naturalmente, che la nozione aristotelica di cittadino sia, al contrario,
«pura», avalutativa, meramente descrittiva. Anch’essa riflette scelte di valore
e posizioni potestative ed è una definizione di tipo stipulativo (o
convenzionale). E, tuttavia, nel connettere lo status di cittadino alla
titolarità dei diritti politici ne esplicita – come dato intrinsecamente
essenziale ai fini della definizione - la funzione squisitamente politica,
ossia la capacità di partecipare, in modo diretto o indiretto, al governo della
cosa pubblica. Questa funzione è fondamentale per cogliere la proprietà
connotativa, lo specifico elemento di identificazione del cittadino e, dunque,
per distinguerlo in modo chiaro e netto, innanzitutto, sia dal suddito sia
dallo straniero, e, secondariamente, sia dall’abitante di un località urbana
(o, per estensione, di un qualsiasi altro luogo) sia dal soggetto che è, sì,
titolare di una serie di diritti, ma non anche di quelli politici (il
semicittadino o il quasi-cittadino).
La definizione aristotelica
è, quindi, più esplicativa rispetto alle altre. Non solo, è anche l’unica
possibile in un contesto istituzionale di tipo democratico. La democrazia senza
cittadini (nel significato aristotelico del termine) è infatti un autentico nonsense,
anzi una vera e propria contraddizione in termini[43].
Ciò, ovviamente, non vuol dire che è una definizione applicabile solo ai
sistemi democratici, dal
[p. 25]
momento
che ha un carattere generale e può perciò essere usata con riferimento a tutti
i regimi che prevedano un qualche grado, anche minimo, di partecipazione
popolare alle funzioni di governo. Né vuol dire che coglie unicamente le
qualità specifiche della cittadinanza democratica, per la semplice ragione che
l’unico elemento distintivo di questo tipo di cittadinanza è di carattere
quantitativo: riguarda la dimensione dell’inclusività (la proporzione fra
numero dei cittadini e numero complessivo degli abitanti), che nei sistemi
democratici è maggiore di quella di ogni altro sistema costituzionale.
La tesi che il cittadino è
un soggetto dotato di un surplus di diritti rispetto al non-cittadino
richiede, però, qualche chiarimento. Infatti, essa implica che i diritti
politici siano aggiuntivi rispetto ad altri diritti. Che questo
significhi che essi integrano un “pacchetto” preesistente, nel senso che
la loro acquisizione è, in ordine di tempo, successiva al riconoscimento di
altri diritti, può apparire perfino banale. Nessun dubbio che la figura del
proprietario sorga prima di quella del cittadino o che il principio dell’habeas
corpus divenga norma del diritto positivo inglese prima (e, comunque, a
prescindere dalla circostanza che) agli inglesi, o a una parte di essi, sia
riconosciuta la qualifica di cittadini. Ma la precedenza cronologica non esaurisce
il significato di «diritti aggiuntivi», e, in ogni caso, non è decisiva ai fini
della definizione dei diritti politici. Conta piuttosto la priorità logica. Se
si assume come punto di riferimento il testo della Dichiarazione del
1789 e, ancor più, il suo contesto politico e culturale, non si può negare che
i diritti del cittadino integrino i diritti dell’uomo, che comprendono, da
un lato, i diritti di libertà, e, dall’altro, i diritti civili, cioè quei
diritti che, secondo la rigorosa classificazione recentemente proposta da Luigi
Ferrajoli, costituiscono i diritti della persona[44].
Ma, fra questi, soltanto i diritti di libertà indicati nella Dichiarazione
(l’inviolabilità del corpo, le libertà di opinione e di stampa) precedono logicamente
i diritti politici, giacché si pongono come loro presupposti
indispensabili, così come la libertà negativa, intesa come assenza di
impedimenti o di interferenze, si pone come condizione necessaria per
l’esercizio della libertà positiva[45].
Il fatto che i diritti politici presuppongano i diritti di libertà, non
comporta, però, che possano essere considerati, rispetto a questi, necessariamente
aggiuntivi. Eppure lo sono. Non si può, infatti, non riconoscere che, sul
piano dei contenuti, li integrino e li completino. Da questa apparente impasse,
si può uscire con un uso più preciso del linguaggio. I diritti politici non
presuppongono, in realtà, la classe dei diritti di libertà né si
aggiungono ad essa come una classe distinta: di tale classe
presuppongono semplicemente alcuni diritti e solo rispetto a questi sono
aggiuntivi, ovverosia si aggiungono in essa e la integrano e completano
perché è la classe alla quale essi stessi appartengono.
[p. 26]
Il surplus
di diritti di cui gode il cittadino è, dunque, costituito, in primis, da
diritti di libertà[46].
Se un insegnamento si può
trarre dalle vicende che accompagnano e seguono
4. – Una volta assunto che
la cittadinanza esprime la condizione del cittadino e che «cittadino» denota,
in contrapposizione a «suddito» e per diferentiam con «straniero», il soggetto
titolare dei diritti politici, quei diritti-poteri che abilitano a partecipare,
in forma diretta o indiretta, ai processi che conducono a prendere decisioni
vincolanti non solo per sé, ma anche per e su gli altri, resta da
precisare quale sia il contesto politico-istituzionale entro il quale il
cittadino si definisce ed opera. Si tratta, in altri termini, di individuare il
contesto dell’appartenenza e, ancor prima, di chiarire il significato
del concetto, che contiene un’ambiguità di fondo che va preliminarmente
eliminata.
Sul piano delle definizioni
lessicali, che registrano gli usi linguistici comuni o più diffusi, il verbo
«appartenere» ha due significati opposti: indica, da un lato, l’essere parte
della proprietà di qualcuno e, dall’altro, il far parte di una
categoria, una classe, un’insieme. In entrambi i casi il riferimento può essere
tanto una cosa, un oggetto inanimato (ad esempio: «questa casa mi appartiene»;
oppure «questa casa appartiene al genere delle ville rustiche») quanto un
soggetto umano (ad esempio: «Tom appartiene a Mr. John»; «Tom appartiene alla
categoria degli afro-americani»). è
del tutto evidente che il primo significato di appartenenza non può, per la
contraddizione che non lo consente, riguardare il cittadino; al massimo - per
rimanere entro la sfera della politica - può essere applicato al suddito del
signore feudale all’epoca dello Stato patrimoniale o a soggetti sottoposti, in
senso niente affatto metaforico, all’assoluto dominio altrui (lo schiavo, il
servo della gleba, ecc.). Evidente, ma niente affatto scontato: basta scorrere
alcuni manuali giuridici
[p. 27]
(soprattutto
di diritto costituzionale e di diritto internazionale) per rendersi conto degli
echi di vecchie concezioni che ancora si avvertono nell’idea dell’appartenenza
intesa come piena soggezione dell’individuo all’autorità sovrana dello Stato,
il quale conferisce o revoca, con atti che costituiscono, appunto, esercizio
della «propria» sovranità, lo status di cittadino. Si tratta, è chiaro,
di una questione, forse, più nominalistica che sostanziale, in parte dipendente
da un mancato aggiornamento del lessico e dalla forza inerziale di alcune
categorie dottrinali. Tuttavia è significativo che in Italia, dopo la scomparsa
della monarchia e l’avvento della Repubblica, per enunciare il principio che
l’istituto della cittadinanza è regolato dalla legge si ricorra ad espressioni
(«sottoposizione alla sovranità dello Stato») più consone a designare la
qualifica del suddito, piuttosto che quella del cittadino.
Il che non significa che
nella concezione verticale, o statocentrica, del vincolo che istituisce la
cittadinanza non trovi spazio anche il significato dell’appartenenza come far
parte dell’ordinamento statuale. Anzi, questa, che è assai diffusa
fra i giuristi, rappresenta uno dei due principali modelli esplicativi che
attualmente si contendono il campo. L’altro, tipico degli studi sociologici, è
invece incentrato su una concezione orizzontale del vincolo che definisce la
cittadinanza come appartenenza ad una comunità politica, comunque determinata
nei suoi contenuti politico-culturali e qualunque sia la natura della
convenzione che ne stabilisce i confini[48].
Nel primo modello l’appartenenza è pressoché automatica – la cittadinanza si
acquista in via ordinaria per un mero «accidente», per l’essere nati entro un
determinato territorio - nel secondo, viceversa, è legata, almeno in teoria e
in linea di principio, ad un atto di volontà individuale, ad una scelta che
richiama o rinvia a processi di auto-identificazione.
Nessuno dei due modelli è
pienamente soddisfacente. Nell’approccio statocentrico l’appartenenza esprime
di norma il legame che intercorre necessariamente, fin dalla nascita,
fra l’individuo e lo Stato. Tale vincolo definisce non solo i diritti di cui il
singolo è titolare, ma anche gli obblighi che egli, corrispettivamente, assume
verso lo Stato. Secondo questo approccio, che si può dire rappresenti un
esempio di prospettiva ex parte principis, l’appartenenza è di tipo ascrittivo
e si configura prevalentemente, come s’è detto, in termini di sottomissione
alle leggi dello Stato. Questa concezione tradizionale dell’appartenenza come
soggezione alla sovranità, presenta due limiti invalicabili. Il primo è che non
consente di distinguere in maniera immediata il rapporto di cittadinanza dal
rapporto di sudditanza, omettendo di precisare, nel caso degli ordinamenti
democratici, la sede della sovranità, né di discernere il cittadino dallo
straniero, dato che l’obbligo dell’osservanza delle norme dell’ordinamento non
è discretivo, ma, al contrario, uniformizzante. Il secondo limite concerne la
difficoltà intrinseca a spiegare (ed eventualmente a giustificare) l’insorgere
di movimenti, di tipo etnico, nazionalistico o perfino ideologico, che
reclamano il riconoscimento della loro individualità storico-culturale (o
presunta tale) come presupposto e fondamento della rivendicazione del
[p. 28]
diritto
all’autonomia politica. Appare pertanto una concezione povera e, comunque, inadeguata
a cogliere il carattere dei processi di identificazione collettiva di movimenti
o gruppi allo stato nascente.
Se, però, si cambia il
punto di vista, adottando la prospettiva sociocentrica (o, in senso lato,
comunitaria) e collocandosi, per così dire, ex parte populi, risulta
estremamente problematico individuare il referente empirico dell’appartenenza.
E risulta quasi impossibile se la comunità politica d’appartenenza, come nel
caso della pretesa dei giacobini nella fase della loro massima ascesa, è da
individuarsi sulla base della condivisione non di principi etico-politici, ma
di astratti ideologismi e immagini visionarie del mondo e delle virtù
dell’uomo. Sganciata dal dato oggettivo, costituito dal territorio o
dall’ordinamento statuale, l’appartenenza diventa, infatti, il risultato di un
processo proiettivo di auto-identificazione, un dato soggettivo, volontaristico
ed autoreferenziale, che riposa sulla credenza dell’esistenza, vera o presunta,
di elementi di identificazione-differenziazione ritenuti unici ed irripetibili.
Ma poiché i caratteri distintivi vengono generalmente ricercati in una serie di
fattori sia «naturali» (l’etnia, il ceppo autoctono, i legami di sangue o ab
immemorabili) sia latamente culturali (la lingua, la storia, la comunanza
di costumi, abitudini, miti fondativi e valori) che sono talmente vaghi e
generici nella loro formulazione da non permettere – se non per consunti
stereotipi e triti luoghi comuni - una determinazione certa e inequivoca dei
loro contenuti, ne discende che il concetto di appartenenza ad una nazione
nascente o ad altro genere di comunità in fieri, di tipo domestico o
sopranazionale, assume una forte connotazione di carattere emotivo (esprime
aspettative, desideri, ideali) e presenta un contenuto normativo-ottativo,
piuttosto che descrittivo (non indica ciò che è, ma ciò che dovrebbe essere).
Che le due concezioni
abbiano dei limiti, non significa però che siano inadeguate a rappresentare
l’appartenenza in riferimento al contesto, più o meno formalmente istituzionalizzato,
entro il quale diventa possibile l’esercizio dei diritti politici. Qualunque
convivenza organizzata, anche se primitiva o elementare, possiede un tessuto
istituzionale, anche minimo, tramite il quale canalizzare i processi
potestativi e comunicativi; inoltre, non può prescindere da regole che
disciplinano la vita di relazione e che determinano chi sono i soggetti
deputati a stabilirle e attraverso quali procedure. Si tratti dello Stato
nazionale, consolidato nell’esperienza occidentale, di nazioni allo stato
nascente, di gruppi, movimenti e comunità più o meno solidificati, il quadro
non cambia. Comunque venga definito (o costruito o percepito o sentito) il
retroterra culturale dell’appartenenza, questa è sempre relativa ad un plesso
istituzionale politico-giuridico, anche se semplice o miniaturizzato o,
addirittura, allo stato larvale. Si può sostenere che (o discutere all’infinito
se) la cultura autoctona innerva l’etnia, l’etnia è la radice della nazione, la
nazione la culla del popolo, il popolo la base dello Stato, ma, con buona pace
dei teorici del nazionalismo etnico, non è su questa catena discorsiva che si
fonda la categoria dell’appartenenza. Ammesso che si possa giungere a
definizioni chiare e precise di concetti di per sé vaghi, fumosi, e altamente
manipolabili, quali «etnia» «nazione» e «popolo», questi concetti servirebbero,
non già a denotare la categoria dell’appartenenza, ma a giustificare, e
eventualmente a spiegare, il sentimento
[p. 29]
di
appartenenza, non, quindi, a descrivere il fatto oggettivo di essere
parte, bensì ad indicare l’atteggiamento soggettivo del sentirsi parte
di un determinato plesso istituzionale (politico e giuridico). In altre parole,
il sentimento d’appartenenza non definisce la sfera dell’appartenenza, cioè
l’ambito entro il quale il cittadino esercita i diritti politici, ma
l’attaccamento ad essa, la disponibilità a riconoscersi (anche emotivamente)
parte di essa. Il che non guasta, dato che ogni sistema politico incarna dei
valori, la cui condivisione è condizione del suo buon funzionamento e della sua
persistenza. E’, però, a dir poco arbitrario sostenere che l’idem sentire
sia necessariamente correlato alla visione di un bene comune custodito nei
recessi e coltivato nelle pratiche liturgiche di una qualche comunità (più o
meno) organica. Oppure, che debba essere alimentato dal culto di miti fondativi
e di memorie collettive costruiti ad hoc, dal quasi sacrale rispetto di
tradizioni (spesso inventate), dalla dogmatica convinzione delle propria unicità
storica, insomma da tutto il retorico corredo delle credenze che normalmente
accompagna i processi di autoidentificazione su basi etniche o nazionalitarie.
L’idem sentire, più semplicemente, può riguardare il riconoscimento
comune dei valori che stanno alla base dei sistemi politici o che attraverso
questi si possono realizzare, indipendentemente da ogni ipoteca di tipo
etnico-nazionalistico e da enfatiche rappresentazioni dello spirito civico o
dell’attaccamento alla costituzione[49].
Questo è il caso della
democrazia e non è affatto uno dei tanti esempi che si potrebbero fare. La
democrazia, infatti, è l’unico sistema politico a proposito del quale si può
parlare, con rigore e in senso proprio, di cittadini e di diritti di
cittadinanza. I suoi valori di base sono l’uguaglianza (formale) e la libertà
(intesa anche come autonomia), un binomio assiologico che tende ad unire
anziché, come l’idea di nazione, a dividere. Due valori che la democrazia
contemporanea – non occorre, per distinguerla, aggettivarla come “rappresentativa”,
giacché neppure quella ateniese del V e IV secolo a.C. era un puro sistema
assembleare, caso mai è opportuno aggiungere «liberale» – tende a realizzare
col conferire ai diritti politici, di cui i cittadini sono titolari, il ruolo
di fonte della legittimità del potere politico che, pur in presenza della
differenziazione dei codici funzionali delle società complesse, controlla e
regola l’esercizio degli altri poteri. I diritti politici, anche se ridotti
alla loro espressione minima - all’elettorato attivo e passivo - costituiscono
il fulcro attorno a cui ruota la logica funzionale di un sistema che
attribuisce ai cittadini la libertà-potere di scegliersi i governanti e che
vincola questi ad essere politicamente responsabili («rispondenti») nei
confronti dell’elettorato. Le elezioni rivestono infatti il significato di
un’investitura, perché autorizzano a prendere decisioni vincolanti su
e per gli altri sulla base di un programma di
[p. 30]
governo
che viene sottoposto al giudizio degli elettori e che dovrebbe tradurre ed
esplicitare una delle possibili ipotesi normative circa l’interesse generale da
perseguire. Ma, il principio sotteso della selezione della leadership,
se, da un lato, fonda la legittimità per gli eletti del diritto di ‘comandare’,
dall’altro fonda l’obbligo politico, il dovere di ‘ubbidire’, l’impegno alla
lealtà costituzionale e al rispetto della legalità. In questo senso, poiché il
processo di costituzione dell’autorità (del potere legittimo) avviene
attraverso la selezione dei programmi e della leadership incaricata di
realizzarli, l’esercizio delle attività di governo non può non essere che ad
indirizzo vincolato, oltre che naturalmente limitato dalle norme che
tutelano i diritti costituzionalmente garantiti. Ecco perché la democrazia è
l’unico sistema politico conosciuto il cui (buon) funzionamento dipende non
solo dalla qualità dei governanti, ma anche, per non dire soprattutto, dalla
qualità dei cittadini[50].
E questo particolare, aggiunto al fatto che è il sistema politico più inclusivo
che si conosca, fa della democrazia non l’ordinamento politico-costituzionale
che privilegia il ruolo del cittadino, ma l’unico che lo rende, nel senso pieno
del termine, effettivamente possibile. Per questa ragione i diritti di
cittadinanza sono una prerogativa della democrazia liberale, cioè di quei
sistemi politici «pregiati» che rappresentano, stando agli standards
definitori dei politologi, meno della metà degli Stati esistenti. Per
contrasto, in un panorama mondiale in cui la categoria, ampia e generica, dei
sistemi non-democratici comprende - ‘confondendoli’ nel genere dei regimi
autoritari e semi-autoritari - teocrazie, monarchie e ‘repubbliche’ ereditarie,
dittature militari, para-militari, carismatiche e partitiche, sultanati, dispotismi
‘illuminati’ e tradizionali (orientali), nonché ogni residua forma statuale
negatrice dei diritti individuali di libertà, diventa comprensibile perché la
cittadinanza occidentale possa essere considerata una condizione privilegiata.
5. – Risolvere la figura
del cittadino nello status che attribuisce la titolarità dei diritti
politici, intesi come parte integrante di quei diritti di libertà che trovano
la loro massima espansione nei sistemi democratici, equivale a proporre una
concezione della cittadinanza indubbiamente ristretta. D’altra parte i diritti
civili, come l’esperienza storica ha dimostrato, possono coesistere con la
condizione di semi-cittadino o di non-cittadino, con regimi
oligarchico-censitari, di dispotismo illuminato o paternalistico e perfino con
regimi di tipo assolutistico. Come del resto i diritti sociali, la cui prima
embrionale formulazione è addirittura rinvenibile nelle politiche bismarkiane
del tardo Ottocento, possono essere ‘graziosamente’ concessi dall’alto. Ciò,
ovviamente, non riduce la loro rilevanza: sia gli uni sia gli altri completano
di fatto il corredo dei diritti ‘irrinunciabili’ del cittadino nelle democrazie
contemporanee, anzi rappresentano ormai condizioni indispensabili (nel senso di
strettamente funzionali) per l’effettivo esercizio dei diritti politici. I
diritti civili perché sono costitutivi della personalità giuridica; i diritti
sociali perché, contribuendo a rimuovere gli ostacoli che limitano il godimento
dell’uguale libertà,
[p. 31]
facilitano
l’accesso ai canali della partecipazione politica[51].
Ma né gli uni né gli altri sono ‘essenziali’ per definire la cittadinanza, che
traduce la condizione del cittadino, cioè del titolare del diritto-potere di
partecipare, in forma diretta o indiretta, ai processi che conducono a prendere
decisioni vincolanti per sé nonché per e su gli altri nell’ambito
del sistema politico d’appartenenza.
La definizione esplicativa
di cittadinanza, qui proposta, nell’associare, in modo inscindibile, il
concetto di cittadino a quello di democrazia, lascia implicitamente intendere
che la ‘conquista’ dei diritti politici da parte di tutte le persone adulte, in
condizioni di assoluta uguaglianza formale, è relativamente recente e limitata
ai paesi retti da regimi non-autoritari. E’ una definizione, dunque, che coglie
i tratti caratteristici di un’elaborazione teorica che è specifica della
cultura politica occidentale, di cui costituisce, se è lecito esprimere un
giudizio di valore, uno dei momenti più alti della sua plurimillenaria storia.
Un modello da suggerire e fors’anche da esportare, a condizione di non
ricorrere a violenze missionarie o di non incorrere in forme di imperialismo
culturale. Ma un modello ancora perfettibile.
Se la definizione di
cittadino, quale soggetto titolare di diritti politici, contempla
necessariamente il riferimento ad un ambito di appartenenza, cioè ad una ‘sede
istituzionale’ di tipo territoriale entro la quale l’esercizio di tali diritti
è reso possibile, allora che il significato di cittadinanza contenga in sé,
come suo connotato intrinseco, la logica dell’inclusione-esclusione è
assolutamente pacifico, nel senso che non si possono dare definizioni di
cittadinanza che ne prescindano. E poiché neanche un millimetro quadrato del
mondo abitato è sottratto alla giurisdizione di un qualche Stato, una
prospettiva realistica non può non prendere atto che l’ambito dell’appartenenza
è delimitato dai confini fra gli Stati. Ma la cittadinanza statuale la si
acquista, salvo sporadiche eccezioni, per un ‘accidente di nascita’, è, cioè,
per un verso, una acquisizione casualmente selettiva e, per un altro,
rigidamente ascrittiva. Questo duplice carattere mal si concilia con
la tesi che i diritti politici rappresentino la massima espansione della classe
dei diritti di libertà. Il cittadino è, come avrebbe detto Kant, un soggetto sui
iuris e, tuttavia, non ha la libertà di scegliere il proprio ambito di
appartenenza statuale. La combinazione dei principi dello ius soli e
dello ius sanguinis, che continua ad ispirare la maggior parte delle
legislazioni nazionali in tema di cittadinanza, prevede che l’acquisizione
dello status civitatis sia di norma un effetto automatico di circostanze
(nascita, filiazione, adozioni, ecc.) che prescindono totalmente dalla volontà
del soggetto interessato. L’unica eccezione in materia è rappresentata
dall’istituto dell’acquisizione per opzione peraltro limitato, ove
ammesso, a pochi casi rigidamente circoscritti[52]
(Bariatti). Questo è un limite che, in una prospettiva de iure condendo,
potrebbe
[p. 32]
essere
in teoria superato. Se non c’è ragione – come in effetti non c’è - di
subordinare l’appartenenza al possesso di caratteri, spesso vaghi e
artificiosi, di matrice etnica o nazionalitaria, allora non c’è neppure alcuna
ragione per escludere in via di principio che la l’acquisizione della
cittadinanza possa essere il frutto di una libera scelta individuale. Se si
ammette che il sentimento d’appartenenza, laicamente inteso, possa essere
indirizzato verso i valori etico-politici che sorreggono e innervano il sistema
politico al quale si da la propria preferenza, allora, per davvero, niente
impedisce che l’acquisizione della cittadinanza possa avere un carattere
‘elettivo’, nel senso etimologico del termine (elìgere equivale a
scegliere).
Una tale soluzione
probabilmente non risolve - ma forse potrebbe contribuire ad attenuarla - la
«crescente incompatibilità» che Danilo Zolo segnala fra «i diritti di
cittadinanza e i cosiddetti ‘diritti cosmopolitici’», «un’antinomia che
riguarda anzitutto la tensione tra il particolarismo delle cittadinanze
nazionali e i processi di globalizzazione in atto»[53]
e che viene espressa «dalla lotta per l‘acquisto delle cittadinanze ‘pregiate’
dell’Occidente da parte di masse sterminate di soggetti appartenenti ad aree continentali
senza sviluppo e con un elevato tasso demografico»[54].
Una situazione che dovrebbe indurre, secondo Zolo, ad aggiornare il
paradigma delle teoria della democrazia in direzione della prospettiva del
«federalismo democratico», sganciato «dalla retorica della globalizzazione e
della ‘cittadinanza cosmopolitica’», secondo un disegno che, nel rimodellare il
quadro delle competenze e delle funzioni politiche da ripartire fra centro e
periferia, «non dia per scontato il superamento dello Stato nazionale e non
sottovaluti la forza coesiva delle radici etniche e nazionali, ma tenti
pazientemente di disarticolare, in linea con la più alta tradizione liberale,
il sistema delle libertà garantite dallo Stato di diritto dai particolarismi
‘prepolitici’ dell’appartenenza e dell’identità collettiva»[55].
Si tratta di una prospettiva realistica largamente condivisibile, salvo, forse,
per l’eccessivo riguardo mostrato nei confronti delle cosiddette «radici
etniche e nazionali», più èlitistiche e meno profonde di quanto la loro
roboante propaganda tende a mostrare e che, comunque, possono essere lette – e
la documentazione storico- empirica non manca – anche in un'altra chiave.
Elementi di coesione sociale, certo, l’etnicismo e il nazionalismo, peraltro,
in quanto tali, sapientemente sfruttati, nell’epoca del loro massimo fulgore,
dai ceti dominanti in funzione del controllo sociale; ma, anche, varianti
edulcorate dei pregiudizi razziali, traduzioni allargate delle identità tribali
e versioni secolarizzate delle appartenenze religiose, e perciò, come quelle,
idoli in nome dei quali si sono consumate le più terrificanti tragedie di cui è
costellata la storia dell’umanità.
Simile per quanto riguarda
l’individuazione del punto dolens, ma assai più estrema nelle soluzioni
radicali che prospetta, è invece la posizione di Luigi Ferrajoli. Movendo da
un’acuta critica della concezione di Marshall, che tiene insieme ciò che
andrebbe distinto sul piano analitico, e dalla rigorosa ricostruzione della
teoria
[p. 33]
dei
diritti umani come diritti fondamentali, da cui discende una complessa
tipologia imperniata su due distinte classificazioni, l’una che riguarda la
struttura logica dei diritti e l’altra la sfera dei loro titolari, Ferrajoli
individua una «antinomia regressiva» fra il carattere universale dei diritti
fondamentali e il loro confinamento entro gli angusti spazi della cittadinanza
statuale[56].
L’antinomia risulta più acuta se messa in relazione con il diritto di residenza
e con il diritto di circolazione, riservati oggi ai cittadini e, quindi,
condizionati nel loro godimento dall’accidentale appartenenza allo Stato
nazionale[57].
L’effettività di questi due diritti, che in quanto diritti di libertà
dovrebbero essere considerati diritti della persona e avere quindi un carattere
universale, è compromessa, come il dramma dell’immigrazione mostra, dal
persistere delle cittadinanze nazionali e, dunque, dall’esistenza degli Stati.
La cittadinanza, in altre parole, impedisce l’uguale esercizio dei diritti di
libertà e perciò, secondo Ferrajoli, più che superata, va «negata» e
«soppressa»[58]
in quanto «rappresenta l’ultimo privilegio di status, l’ultimo fattore di
esclusione e discriminazione anziché – come fu all’origine dello stato
nazionale - di inclusione e parificazione, l’ultimo relitto premoderno delle
differenziazioni personali, l’ultima contraddizione irrisolta con l’affermata
universalità ed uguaglianza dei diritti fondamentali»[59].
Ne deriva che solo con l’istituzione di una “cittadinanza universale” si può
superare la dicotomia fra diritti dell’uomo e diritti del cittadino,
«riconoscendo a tutti gli uomini e le donne del mondo, in quanto semplicemente
persone, i medesimi diritti fondamentali»[60].
Naturalmente, l’ipotesi della ‘cittadinanza universale’ presuppone la
costruzione di un ordine politico internazionale in grado di garantire
l’effettività dei diritti fondamentali che la declinante sovranità degli Stati
nazionali oggi non solo non è più capace di assicurare ma di cui, addirittura,
costituisce il principale impedimento. Ferrajoli non si nasconde che questa
proposta ha il sapore di «un’utopia giuridica», ma ricorda che «la storia del
diritto è anche una storia di utopie (bene o male) realizzate» e che, comunque,
esistono ormai i presupposti, costituiti dal «costituzionalismo mondiale già
formalmente instaurato con le ricordate convenzioni universali», affinché le
«forze democratiche» e «l’intera cultura giuridica e politica» raccolgano la
sfida e comincino ad operare in questa direzione[61]
(1,75; 2, 291).
La posizione di Ferrajoli,
suggestiva e argomentata con la consueta lucidità, si presta ad alcune
considerazioni, che riguardano non tanto il carattere utopistico
[p. 34]
dell’obiettivo
finale, anche perché non c’è nulla di più irrealistico che il sottovalutare la
forza delle idee, quanto l’ottimistica sopravalutazione dell’autonomia della
dimensione internazionale rispetto al ruolo fondamentale svolto in essa dagli
Stati. Il che rende nel complesso debole l’intera proposta. Che gli Stati
nazionali soffrano, oggi, di un deficit di sovranità è uno dei luoghi
comuni più diffusi nella strabocchevole letteratura critica che si è venuta
accumulando sul fenomeno della globalizzazione, ben compendiato dalla
fortunatissima formula - ma si tratta, appunto, più che altro di uno slogan,
di una frase ad effetto - di Daniel Bell secondo cui gli Stati sarebbero
diventati entità troppo grandi per alcuni scopi e troppo piccole per altri[62].
Troppo grandi per poter governare con successo l’accentuata frammentazione
degli interessi e delle spinte centrifughe a livello locale e regionale; troppo
piccole per poter gestire le dinamiche, che ormai sfuggono al loro controllo,
relative alla dimensione globale dell’economia e delle comunicazioni. Di qui la
crisi, per alcuni autori, irreversibile dello Stato nazionale come modello
organizzativo della convivenza su basi territoriali[63].
Può darsi che ciò sia vero, che l’attuale configurazione dello Stato sia
destinata a scomparire e che, con essa, l‘intero quadro delle relazioni
internazionali subisca profonde trasformazioni. Ma può darsi, invece, che non
ci sia niente di particolarmente nuovo sotto il sole, se non il proliferare di
istanze legate all’antico fenomeno del localismo e la straordinaria
velocizzazione di alcuni vecchi (e ben noti) processi. In fondo le pressioni
regionalistiche e le rivendicazioni neo-nazionalistiche, che all’origine hanno
per lo più esigenze di affermazione di tipo identitario, più che ad abbattere
lo Stato nazionale, puntano a riprodurlo attraverso processi di secessione o di
gemmazione più o meno copnsensuale. E la stessa globalizzazione può darsi che
abbia semplicemente reso più visibili, da un lato, sia il carattere espansivo
del mercato, che è connaturato al modo di produzione capitalistico, sia il
problema (cronico) della sua regolamentazione; e, dall’altro, il fenomeno del
reciproco condizionamento fra i principali attori della scena internazionale
che ha sempre prodotto, dal Trattato di Westfalia in poi, un’incidenza non
irrilevante anche nelle politiche interne dei singoli Stati.
Se quest’ipotesi ha un
minimo di plausibilità, allora diventa prematuro decretare la fine dello Stato
e imprudente impostare discorsi e ragionamenti nella prospettiva che questa sia
imminente. E diventa irrealistico enfatizzare il nascente ‘costituzionalismo mondiale’[64], quasi fosse una
spontanea manifestazione della sapienza giuridica, o sopravalutare il ruolo
del diritto internazionale, come se si trattasse di un prodotto che scaturisce
da una fonte sovrastatale o che comunque possa emanciparsi, riguardo alla
garanzia della sua effettività, dall’azione degli Stati. Pensare che il sistema
internazionale sia qualcosa di diverso da un sistema di relazioni interstatuali, significa scambiare l’essere
con il dover essere, la realtà effettuale con le definizioni dottrinali o le ipotesi normative
della scienza
[p. 35]
giuridica. I patti, i trattati, gli accordi e i
protocolli che costituiscono l’oggetto del diritto positivo internazionale sono
il frutto di intese intercorse fra gli Stati e, dunque, non sono atti
che si collocano (se non in senso figurato o ideologico) sopra gli
Stati. Tant’è che la loro effettività dipende
interamente dalla disponibilità degli Stati firmatari ad applicarli e le eventuali
sanzioni per l’inadempienza sono anch’esse comminate da insiemi di Stati,
qualunque sia la sigla sotto la quale di volta in volta operano. Il
funzionamento (e non solo il finanziamento) degli stessi organismi
internazionali e anche di quelli sopranazionali dipende, in ultima analisi,
dalla volontà degli Stati membri o promotori. Ne deriva che l’ordinamento
politico-giuridico internazionale, che dovrebbe costituire l’ambito di
appartenenza e, dunque, sorreggere l’istituto della ‘cittadinanza universale’,
non potrebbe essere altro che una confederazione o federazione di Stati,
esattamente come Kant, l’ideatore della repubblica cosmopolitica, aveva
ipotizzato[65].
In modo
analogo, l’internazionalizzazione (e l’universalità) dei
solenni documenti che proclamano il riconoscimento e la tutela dei diritti
umani non vanno prese troppo alla lettera. Come
Benché possa apparire paradossale o logicamente
incongruente, l’effettività dei diritti umani (o universali o fondamentali)
dipende in primo luogo dagli atteggiamenti e dagli interventi degli Stati,
senza la cui azione le denuncie e l’impegno delle agenzie specializzate e dei
movimenti umanitari, così come la mobilitazione dell’opinione pubblica,
rimarrebbero senza esito. E, in proposito, non è irrilevante la forma del
regime politico. E’ un caso che i sistemi democratici, i soli sistemi in cui i
diritti politici sono garantiti a tutti, siano anche quelli che registrano il
minor numero di violazioni dei diritti umani ? Così come non è irrilevante che
il regime sia democratico o autoritario rispetto alla questione delle
migrazioni di massa o in relazione alla soluzione del problema dell’estensione
del diritto di residenza e di circolazione, che non è tanto un problema teorico
(o filosofico), quanto, più semplicemente, di diritto positivo o di politica
del diritto E’, inoltre, una constatazione di fatto che nel secolo XX non sia
intercorsa una guerra fra paesi retti da governi democratici. Anche per questa
ragione, analoga importanza riveste la forma degli
[p. 36]
Stati
nell’ambito delle relazioni internazionali. L’ipotesi della ‘democrazia
internazionale’, entro la quale dovrebbe iscriversi l’ipotesi della
‘cittadinanza universale’, è un obiettivo che può essere realizzato passando
per la fase intermedia della democratizzazione degli Stati, quale presupposto
della democratizzazione delle loro relazioni[67].
In questo contesto non è la cittadinanza statuale
a costituire impedimento alla realizzazione dei diritti umani, ma, al
contrario, la limitata diffusione dei diritti politici, il cui esercizio è in
pratica circoscritto ai sistemi democratici. Certo, la cittadinanza pregiata
del mondo occidentale appare una condizione privilegiata. Ma i privilegi si
eliminano, non cancellando i diritti, bensì estendendoli. In altre parole, non
è la cittadinanza che va soppressa, bensì la sudditanza. Ma per far questo
occorre sposare un’altra utopia ed operare per favorire la democratizzazione
dei regimi autoritari, fino alla loro totale scomparsa. L’obiettivo di
eliminare la settecentesca distinzione fra i diritti dell’uomo e i diritti
del cittadino, peraltro enunciato a chiare lettere dalla Dichiarazione
del ’48, non lo si realizza, dunque, negando i diritti di cittadinanza a chi li
possiede, ma conferendoli effettivamente a chi non li ha. Prima di augurarsi
che l’uomo diventi cittadino del mondo, bisognerebbe, perciò, augurarsi che
tutti gli abitanti del mondo abbiano la possibilità di diventare cittadini.
(*) Estratto di: V. Mura
(a cura di), Il cittadino e lo Stato,
Milano, Franco Angeli, 2002, pp. 13-36.
[1] Per una panoramica di tali problemi e delle loro implicazioni,
sotto il profilo teorico e pratico, cfr.: R.
Dahrendorf, The Modern Social Conflict, Wedenfeld & Nicolson,
New York 1988 (tr.it., Il conflitto sociale nella modernità, Laterza,
Roma-Bari 1989);. W.R. Brubaker, (ed.), Immigration and the
Politics of the Citizenship in Europe and North America, University Press
of America, New York 1989; D. Held
(ed.), Political Theory Today, Polity Press, Cambridge 1991; C. Taylor, Multiculturalism and the
Politics of Recognition, Princeton University Press, Princeton 1992 (tr. it
Multiculturalismo. La politica del riconoscimento, Anabasi, Milano 1993); J.
Habermas, Staatsbürgerschaft und nazionale Identität. Überlegungen zur europäischen Zukunft, Erker Verlag, St. Gallen 1991 (tr. it., Cittadinanza
politica e identità nazionale. Riflessioni sul futuro dell’Europa, in Morale, diritto, politica,
Einaudi, Torino 1992); D. Held, Democracy
and the Global Order, Polity Press, London 1995; W. Kymlicka, Multicultural Citizenship, Oxford
University Press, Oxford 1995; M. Albrow,
The Global Age: State and Society Beyond Modernity, Polity Press,
Cambridge 1996; F. Cerutti (a
cura di), Identità e politica, Laterza, Roma-Bari 1996; B. Holden (ed.), The Ethical
Dimensions of Global Change, Macmillan Press, London 1996; P.Q. Hirst, G. Thompson, Globalisation
in Question. The Internazional Economy and the Possibilities of Governance,
Polity Press, Cambridge 1996 (tr. it., La globalizzazione dell’economia,
Editori Riuniti, Roma 1997; D.
Archibugi, D. Held, D. Koehler, Re-imagining Political Community:
Studies in Cosmopolitan Democracy, Polity Press,Cambridge 1998; Z. Bauman, Globalisation. The Human Consequences, Cambridge-Oxford,
1998 (tr. it., Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone,
Laterza, Roma-Bari 1999); U. Beck,
Was ist Globalisierung?, Suhrkamp, Frankfurt a/M 1997 (tr.it., Che
cos’è la globalizzazione: rischi e prospettive della società planetaria, Carocci,
Roma 1999); D. Held, A. Mc Grew, D.
Goldblatt, J. Perraton, Global Transformations. Politics, Economics and Culture, Polity Press, Cambridge 1999 (tr. it.,
Che cos’è la globalizzazione?, Asterios ed., Trieste 1999); B. Holden, Global Democracy: Key
Debates, Routledge, New-York-London 2000.
[2] Sul nazionalismo a base etnica è ancora
molto attuale A.D. Smith, The
Ethnic Revival, Cambridge University Press, Cambridge 1981 (tr. it., Il
Revival etnico, Il Mulino, Bologna 1984); Id.,
The Ethnical Origins of Nations, Basil Blakwell, Oxford 1986 (Le
Origini etniche delle nazioni, Il Mulino, Bologna 1992). Ma cfr. pure E. Gellner, Nations and Nationalism,
Basil Blakwell, Oxford 1983; E. Hobsbawm,
Nations and Nationalism since 1780, Cambridge University Press,
Cambridge 1990 (tr.it., Nazioni e nazionalisi dal 1780, Einaudi, Torino,
1991); D. Miller, On Nationality,
Clarendon Press, Oxford 1995.
[3] T.H. Marshall, Citizenship and Social
Class [1950], ora in Class, Citizenship and Social Development, The
University of Chicago Press, Chicago 1964 (tr. it. Cittadinanza e classe
sociale, Utet, Torino 1976).
[4] Cfr. A.
Giddens, Class Division, Class Confict and Citizenship Rights, in
Id.,Profiles and Critique in
Social Theory, Macmillan, London 1982; J.M.
Barbalet, Citizenship, Open University Press, Milton Keynes 1988
(tr.it, Cittadinanza, Liviana, Padova 1992); D. Held, Citizenship and Autonomy, in Id., Political Theory and the Modern
State, Stranford University Press, Stanford 1989. Sulla concenzione marshalliana, cfr. anche D. Zolo, La strategia della
cittadinanza, in Id., La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti,
Laterza, Roma-Bari 1994, p. 5 e sgg; E.
Santoro, Le antinomie della cittadinanza: libertà negativa, diritti
sociali e autonomia individuale, Ivi, pp. 93-128.
[5] In questo senso cfr. L.
Ferrajoli, Cittadinanza e diritti fondamentali, in “Teoria politica”,
IX, 3, 1993, pp. 63-69; Id., Dai
diritti del cittadino ai diritti della persona, in D. Zolo (a cura di), La cittadinanza. Appartenenza,
identità, diritti, cit., pp. 263-76; e M.
Bovero, Contro il governo dei peggiori. Una grammatica della democrazia,
Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 107-24.
[6] Coglie il punto G.E.
Rusconi, La questione della cittadinanza europea, in “Teoria
politica”, XVI, 1, 2000, p. 26, il quale, nel commentare la posizione di
Marshall, sottolinea che «la sua vulgata rischia di eludere la specificità e la
priorità logica della cittadinanza politica rispetto a quella civile e
sociale».
[7] L’altro significato, quello del linguaggio comune, indica
semplicemente l’insieme della popolazione di un determinato luogo.
[8] La citazione è tratta da Aristotele, Politica e costituzione di
Atene, a cura di C.A. Viano, Utet, Torino 1955, pp. 129-30.
[12] «Ma il miglior criterio per definire il cittadino in quanto tale è
la partecipazione ai tribunali e alle magistrature» (ivi, p. 130); «Per
amore di distinzione potremo escogitare il termine ‘carica a tempo determinato’
e stabilire poi che i cittadini siano quelli che possono adire a queste
magistrature» (ivi, p. 131); «da ciò è chiaro chi si debba considerare
come cittadino: tale è quello che ha la possibilità di adire alle cariche
deliberative e giudiziarie» (ivi, p. 132)
[13] «Perciò il cittadino quale noi l’abbiamo definito si trova
essenzialmente nella democrazia, sebbene possa anche trovarsi nelle altre forme
di governo, nelle quali,però, può mancare» ( ivi, p. 131).
[15] Sul funzionamento dei comitia curiata, centuriata e tributa,
il terzo elemento della costituzione repubblicana, dopo le magistrature
e il senato , cfr. G. Grosso, Lezioni
di storia del diritto romano, Giappichelli, Torino 1960, pp. 214-48.
[16] Sulla cittadinanza romana, cfr. G.
Crifò, Cittadinanza (diritto romano), in Enciclopedia del
diritto, Giuffrè, Milano 1960, vol. VII, p. 127 e sgg.; C. Nicolet, Citoyenneté française
et citoyenneté romaine:essai de mise en perspective, in AA.VV, La
nozione di « Romano » tra cittadinanza e universalità, Esi,
Napoli, 1984, p. 145 e sgg.; E. Grosso,
Le vie della cittadinanza. Le grandi radici. I modelli storici di
riferimento, Cedam, Padova 1997, p. 94 e sgg.
[17] P. Costa,
Civitas. Storia della cittadinanza in Europa. 1. Dalla civiltà comunale al
Settecento, Laterza, Roma-Bari, 1999, p. 19.
[21] Sulla rappresentanza medievale, cfr. i
“classici” M.V. Clarke, Medieval
Representation and Consent, Longman, London 1936; C.H. McIlwain, Consitutionalism: Ancient and Modern,
Cornell University Press, Ithaca- New York 1947; A. Marongiu, Il parlamento in Italia nel medioevo e
nell’età moderna, Giuffrè, Milano 1962.
[23] Così M. Isnardi Parente,
Introduzione, in J. Bodin, I
sei libri dello Stato, Utet, Torino 1964, vol.1, p. 49.
[33] Sul rapporto fra Bodin e Rousseau in tema di cittadinanza, cfr. D. Quaglioni, I limiti della
sovranità. Il pensiero di Jean Bodin nella cultura giuridica e politica
dell’età moderna, Cedam, Padova, 1992, pp. 277-94.
[35] Ivi, p. 25. Sulla concezione “democratica” di Rousseau, mi
permetto di rinviare a V. Mura, J.-J.
Rousseau: la teoria dell’obbligo politico, in S. Rota Ghibaudi-F. Barcia (
a cura di), Studi politici in onore di Luigi Firpo, Fanco Angeli, Milano
1990, vol, 2, pp. 619-44; Id., Categorie
della politica. Elementi per una teoria generale, Giappichelli, Torino
1997, pp.317-29.
[36] Sul punto cfr. V. Mura,
Diritti dell’uomo e diritti del cittadino, in A. Tarantino (a cura di), Filosofia e politica dei diritti
umani nel terzo millennio, Cedam, Padova 2002.
[37] La considerazione è, per la verità, di B. Constant, Principi di politica, Editori Riuniti,
Roma 1970, p. 99, n.1, il quale nel prendere atto che il suffragio universale
“è esercitato soltanto da una minoranza di cittadini”, conclude che ”ciò prova
all’evidenza che esso è una funzione politica e non un diritto naturale”.
Strano modo di rovesciare i termini della questione, ma illuminante.
[38] I. Kant, Principi metafisici della
dottrina del diritto, in
Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Utet, Torino
1965, p. 501; Id., Sopra il
detto comune: “Questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica”,
Ivi, p. 260.
[40] E’il periodo dell’universalismo “ristretto” e del
cittadino-proprietario, di cui parla D.
Zolo, Cittadinanza. Storia di un concetto teorico-politico, in
“Filosofia politica”, XIV, 1, 2000, pp. 8-9.
[42] Rusconi, La
questione della cittadinanza europea, cit., p. 26, al fine di evidenziare
non l’aspetto soggettivo ma lo status oggettivo della cittadinanza,
suggerisce di utilizzare, al posto della coppia diritti e doveri, i semantemi
“competenze” e “vincoli”.
[43] Una “democrazia post-politica”, come la definisce A. Mastropaolo, Il ceto politico,
[44] L. Ferrajoli, I
fondamenti dei diritti fondamentali, in “Teoria politica”, XVI, 3, 2000, p.
43 e sgg. Ma sullo stesso tema del medesimo autore, cfr. anche: Cittadinanza
e diritti fondamentali, cit., p. 68 e sgg.; Dai diritti del cittadino ai
diritti della persona,cit., p. 272 e sgg.; Diritti fondamentali, in
“Teoria politica”, XIV, 2, 1998, p. 7 e sgg.; I diritti fondamentali nella
teoria del diritto, in “Teoria politica”, XV, 1, 1999, p. 50 e sgg..
[45] Per questa interpretazione della classica dicotomia di I. Berlin,
rinvio a V. Mura, Libertà e
potere, in “Quaderni sardi di filosofia e scienze umane”, 7/10, 1980-81,
pp. 149-65; Id., Categorie
della politica ,cit. p. 212 e sgg.
[46] L’intera classe dei diritti di libertà, che nella tipologia di
Ferrajoli (cfr. nota precedente) appartiene, invece, alla classe dei diritti
fondamentali primari della persona, mentre i diritti politici appartengono alla
classe dei diritti fondamentali secondari del cittadino.
[47] Il carattere “riflessivo” dei diritti politici (ovvio ma spesso
talmente sottinteso da parte di molti autori da apparire addirittura obliato) è
richiamato espressamente da J. Habermas,
Cittadinanza politica e identità nazionale, cit., p. 122. Sottolineano,
opportunamente, tale carattere Zolo,
La strategia della cittadinanza, cit, pp. 14-15 e L. Bacelli, Il particolarismo dei
diritti. Poteri degli individui e paradossi dell’universalismo, Carocci,
Roma, 1999, p. 93.
[48] Sulla concezioni del “ vincolo verticale” e del “vincolo
orizzontale”, cfr. Grosso, Le
vie della cittadinanza, cit. pp.5 e sgg, 17 e sgg.; per un approfondimento,
con ulteriori sottodistinzioni, della differenza fra approcci di tipo statocentrico
e di tipo sociocentrico, cfr. G.
Zincone, Da sudditi a cittadini, Il Mulino, Bologna 1992, pp. 76
e sgg, 116 e sgg., 130 e sgg.
[49] Mi riferisco all’espressione “patriottismo costituzionale”
adoperata da J. Habermas, Die
Einbeziehung des Anderen, Suhrkamp, Franfurt a.M. 1996 (tr. it., L’inclusione
dell’altro, Feltrinelli, Milano 1998, p. 131), per indicare il punto di
coagulo della cultura politica di un paese cristallizzata intorno alla
costituzione vigente quale fondamento del sentimento di appartenenza della
cittadinanza “republicana” o comunque di una cittadinanza che prescinda da
presupposti pre-politici di tipo etnico o nazionalitario. L’espressione rimane
enfatica (per colpa dell’aggettivo, non del sostantivo) anche quando è
adoperata da autori poco inclini all’enfasi (e alla retorica) come Rusconi, La
questione della cittadinanza europea, cit, pp. 35-36.
[50] Ho sviluppato più ampiamente questa tematica in V. Mura, Quale democrazia ?, in
“Teoria politica”, XV, 2-3, 1999, pp. 157-90.
[51] L’affermazione sembrerebbe di per se ovvia. Sul rapporto circolare
fra diritti sociali e diritti politici , ossia sull’ apporto che i diritti sociali
forniscono alla democrazia e, viceversa, sulla demorazia come condizione dei
diritti sociali, cfr., comunque, D.
Beetham, Diritti umani e democrazia: una relazione dalla molteplici
facce, in D. Archibugi-D. Beetham, Diritti umani e democrazia cosmopolitica,
Feltrinelli, Milano 1998, pp.25-65; nonché, per le argomentazioni teoriche a
sostegno della tesi della rilevanza dei diritti sociali per la cittadinanza
democratica, A. Brillante, Cittadinanza
e democrazia, in Zolo, La
cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, cit., pp. 203-21.
[52] Cfr. in proposito S.
Bariatti, La disciplina giuridica della cittadinanza italiana,
vol. II, Giuffrè, Milano 1996, pp. 26 ss.
[53] Zolo, La
strategia della cittadinanza, cit., p. 39.
[54] Ivi, p. 42.
[55] Ivi, p. 44.
[56] Ferrajoli, I
fondamenti dei diritti fondamentali, cit., p. 68. Questo giudizio
fortemente negativo sulla cittadinanza «nazionale», intesa come elemento
contradditorio rispetto all’universalità dei diritti fondamentali, è una
costante del pensiero di Ferrajoli negli ultimi anni. In proposito, cfr., pure:
Cittadinanza e diritti fondamentali, cit., pp. 74-75; La sovranità
nel mondo moderno. Nascita e crisi dello Stato nazionale, Laterza,
Roma-Bari 1997, pp. pp. 54-55; Diritti fondamentali, cit., pp. 19-20; I
diritti fondamenatli nella teoria del diritto, cit., pp. 71-76.
[57] Ferrajoli, I
fondamenti dei diritti fondamentali, cit., p. 68; Cittadinanza e diritti
fondamentali, cit., p. 75.
[58] Cittadinanza e diritti fondamentali, cit., p. 75.
[59] Ivi, p. 74. Ma, cfr. anche Dai diritti del cittadino ai
diritti della persona, cit., p. 288.
[61] Ivi, p. 75; ivi, p. 291.
[62] D. Bell, The World and the Unites States
in
[63] Questa, ad esempio, la (frettolosa) sentenza di K. Ohmae, The End of the
Nation-State. The Rise of Regionals Economies, Haper Collins, London 1995
(tr. It. La fine dello Stato-nazione, Baldini e Castaldi, Milano 1996).
[64] Sul costituzionalismo mondiale (o
globale), cfr. R.A. Falk, Human
Rights and State Sovereignty, Holms and Meier, New York 1981.
[65] Kant, Per la pace
perpetua. Progetto filosofico, in Id.,
Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, cit., pp. 273
ss. Sulla differenza tra «confederazione» e «federazione», e, più in generale,
sul pensiero kantiano a proposito del cosmopolitismo politico, cfr. l’esemplare
analisi – per finezza esegetica e scrupolo filologico – di G. Marini, Per una repubblica federale
mondiale: il cosmopolitismo kantiano, in G.M.
Chiodi-G. Marini-R. Gatti (a cura di), La filosofia politica di Kant,
Angeli, Milano 2001, pp. 19-34.
[66] Sul problema del carattere «universale» dei diritti umani, si
vedano le considerazioni di A. Cassese,
I diritti umani nel mondo contemporaneo, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 51
ss.
[67] Sul rapporto circolare fra democrazia interna e democrazia
internazionale, N. Bobbio, La
democrazia dei moderni paragonata a quella degli antichi (e a quella dei
posteri), in “Teoria politica”, III, 1987, p. 16 (ora anche in Id., Teoria generale della politica,
Einaudi, Torino 1999, p. 339), osserva che «gli stati potranno diventare tutti
democratici soltanto in una società internazionale democratizzata. Ma una
società democratizzata presuppone che tutti gli stati che la compongono siano
democratici». Sul punto L. Bonanate,
I doveri degli stati, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 162 ss.