N° 2 - Marzo 2003 – Lavori in corso – Contributi
E' GIUNTA L'ORA DI UNA
LEGGE SUI PARTITI POLITICI?
Università di Sassari
1. Il tema riguardante la disciplina giuridica dei partiti politici
è antico ma sempre attuale. Affonda le sue radici nel dibattito all’Assemblea
Costituente, perché fu in quella sede che si prospettò l’ipotesi – respinta
prima ancora di essere seriamente discussa – di aggiungere, nell’articolo della
Costituzione riguardante i partiti politici, un comma in cui venisse
esplicitamente affermato l’obbligo di previsione della regolamentazione
giuridica dei partiti e della pubblicità delle fonti di finanziamento degli
stessi. Se fosse stata approvata, si sarebbe così introdotta una norma ritenuta
«consona a tutto lo spirito della Costituzione», come ebbe a dichiarare l’on.
Costantino Mortati. Il risultato finale fu invece quello di un articolo, il 49,
fin troppo essenziale nella sua formulazione costituzionale, perché si limita a
dichiarare che: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in
partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica
nazionale». E non è certo casuale la stessa collocazione dell’art.49 nella
parte relativa ai diritti dei cittadini piuttosto che in quella relativa
all’organizzazione costituzionale dello Stato, in cui i partiti, pur
riconosciuti, non sono inclusi. Il loro operare, allora, non dipende da norme
scritte ma esclusivamente sul piano della costituzione materiale, ed incide in
maniera rilevante sulla dinamica della forma di governo.
Certo, la scelta che
volle compiere il Costituente, approvando un articolo dedicato ai partiti assai
poco analitico e privo di strumentari giuridici, aveva la sua ragione d’essere
nel momento storico in cui venne compiuta: non è questa adesso la sede per
rievocare il clima di allora, che era comunque condizionato dalla necessità che
i partiti avessero un ampio spazio d’azione nel sistema politico, affinché si
consentisse per il loro tramite alla società di farsi Stato, per dirla con
un’espressione famosa. La nuova democrazia italiana doveva nascere e
consolidarsi attraverso quegli strumenti di raccordo tra i cittadini e le
istituzioni, tra il corpo elettorale e le Assemblee rappresentative, che sono i
partiti politici; anche al fine di rendere concreta una altrimenti indistinta
volontà popolare. Infatti, una democrazia senza partiti è un non senso, è come
un liberalismo senza libertà. La funzionalità democratica e la stessa
democraticità di un sistema politico sono garantite dall’esistenza di un
pluralismo di partiti e dalla loro competizione. Con il riconoscimento
costituzionale dei partiti si avviava così in Italia il superamento delle basi
individualistiche della rappresentanza, sulle quali poggiava il regime
parlamentare ottocentesco, per sostituirvi una nuova democrazia organizzata
attraverso i partiti.
Non si volle però
determinare un obbligo giuridico, per il tramite del quale si potesse venire a
fondare anche una democrazia nei
partiti; ovvero, non vi fu una previsione costituzionale né legislativa, con
cui imporre una disciplina interna dei partiti fondata su regole democratiche
stabilite da statuti. E la stessa nozione costituzionale del “concorso con
metodo democratico” di cui all’art.49, piuttosto che riferita anche
all’attività interna dei partiti, venne ad essere prevalentemente intesa come
attività di pluralismo politico esterno, cioè come competizione fra partiti al
gioco elettorale nel rispetto dell’eguaglianza delle opportunità. In tal modo
però non si tenne nel giusto conto il fatto che il soggetto della proposizione
dell’art.49 è “Tutti i cittadini”, e
pertanto riferire il “metodo democratico” al solo concorso fra partiti
porterebbe a ritenere che proprio i cittadini siano estraniati dal concorrere
con metodo democratico a determinare la politica nazionale. Il che sarebbe
paradossale.
2. Gli anni successivi all’entrata in vigore della Costituzione
furono caratterizzati da una tendenziale diffidenza – manifestata anche negli
studi compiuti dalla dottrina – verso forme di intervento pubblico e di
regolazione legislativa dei partiti; nella convinzione che la democraticità del
sistema partitico veniva ad essere maggiormente garantita da una norma “a
fattispecie aperta” quale era l’art.49, piuttosto che da una disciplina
legislativa che potesse risultare “costringente” per la libertà d’azione dei
partiti. Ad avvalorare ulteriormente questa ricostruzione, concorse la tesi
della concezione strettamente privatistica del partito politico, il quale nel
regime delle associazioni non riconosciute e quindi nel diritto privato comune,
si diceva che trovasse la più alta garanzia di libertà. Certo, non mancarono
voci di dissenso a questa impostazione, come per esempio il progetto di legge
del sen. Sturzo, alcune delle quali sfociarono, per allora, in un’aspra e
minoritaria polemica di alcuni battaglieri studiosi contro la “partitocrazia”
(Maranini) e contro la “autocrazia di partito” (Perticone); in particolare
quest’ultima espressione da intendersi proprio come una sorta di denuncia della
mancanza di regole democratiche all’interno dei partiti.
Successivamente, negli
anni Settanta, vi furono i primi interventi legislativi volti a garantire il
finanziamento pubblico a favore dei partiti, senza però che vi fosse
l’attribuzione di un riconoscimento giuridico per quei soggetti che si andavano
a finanziare. Pertanto, il criterio che stava a fondamento delle scelte
legislative sulla contribuzione economica statale era perciò quello di
finanziare i partiti senza riconoscerli, anziché riconoscerli per finanziarli.
Un ragionare ancora una volta imperniato sul ruolo centrale del partito
nell’ordinamento costituzionale e nella società, e che aveva come conseguenza
quello di evitare che il partito subisse dei meccanismi di “burocratizzazione”,
derivanti dalla sottoposizione a regole giuridiche, che fossero in grado di
rallentarne, o addirittura di frenarne, il naturale dinamismo dei partiti
nell’ambito del sistema politico e nella tenuta della forma di governo
parlamentare.
Nell’ultimo decennio
invece si assiste ad una radicale ricomposizione del quadro partitico italiano,
a seguito sia delle vicende giudiziarie di “Tangentopoli”, sia della
modificazione del sistema elettorale in senso semi-maggioritario, sia delle
reiterate forme di disaffezione politica della cittadinanza manifestatesi con
il crescente astensionismo elettorale da un lato, e con le numerose richieste
di referendum in funzione
antipartitocratica dall’altro. Poi, in questi ultimi anni, si è assistito
all’emergere di un fenomeno politico-istituzionale assai anomalo, che è stato
efficacemente definito della “partitocrazia senza partiti”: cioè la presenza di
un sistema di apparati partitocratico, non più di tipo organizzativo ed
ideologico come lo erano i partiti di prima, ma piuttosto macchine personali al
servizio di questo o quel leader
politico. Partiti personali, che sono dominati, in funzione determinante e
coagulante, dal capo in cui si riconoscono.
Oggi, dopo la numerose vicende che hanno
e che stanno ancora accompagnando, in positivo e negativo, la storia dei
partiti politici nell’Italia repubblicana, occorre tornare ad affrontare il
problema di una regolamentazione giuridica dei partiti. Per restituire ai
partiti quel ruolo di raccordo fra i cittadini e le istituzioni, che è
fondamentale in una democrazia pluralista, e che, proprio per questo motivo,
non può più essere sottratto ad una regolazione dei partiti in forme
autenticamente democratiche ed aperte al controllo dell’opinione pubblica se
non della legge. Rivitalizzare il patto fra cittadini e partiti, vuol dire
indurre questi ultimi a rinunciare ad una parte del loro arbitrio, subordinandosi
a regole certe e trasparenti, rendendo pubblici i loro statuti oltre che i loro
bilanci, dando più potere ai loro iscritti ed elettori. Inoltre, risolvere
questo problema, nel senso di imporre una disciplina giuridica ai partiti, può
essere di grande ausilio per il concorso del raggiungimento della
stabilizzazione del sistema partitico. Quindi: i partiti per tornare a svolgere
la loro funzione nella democrazia italiana, devono divenire effettivamente ed
autenticamente soggetti democratici. E’ sempre più diffusa ed avvertita una
nuova legalità non solo dei partiti politici, ovvero relativa ai comportamenti
dei soggetti politici, ma anche sui
partiti politici attraverso principi, regole, indirizzi e forme di controllo in
grado di garantire un contesto più trasparente e responsabile all’azione
politica di rilievo pubblicistico. E’ questo un passaggio indispensabile, sia
per rifondare un nuovo patto fra politica e società civile, sia per rilanciare
la funzione costituzionale e sociale dei partiti politici. Si ricorda,
incidentalmente, che
3. Ma la via per disciplinare i partiti politici è solo quella
costituzionale? Certo, procedere attraverso la revisione costituzionale ex art. 138 Cost. comporta un processo
di riforma di non facile realizzazione ma nondimeno impossibile (come lo
dimostrano le recenti modifiche costituzionali sul voto degli italiani
all’estero, sul giusto processo e sulla riforma regionale). La scelta di
procedere attraverso la revisione costituzionale può essere originata dal
seguente motivo: che l’art.49 Cost. nella parte in cui parla di “metodo
democratico” non può essere interpretato nel senso di un’attività interna
democratica dei partiti, ma piuttosto soltanto circoscritto ai rapporti tra partiti
nell’ambito di una competizione ispirata al pluralismo politico. Da qui allora
la necessità di esplicitare nella norma costituzionale il “diritto dei
partiti”, quasi a voler ridare maggiore forza e dignità ai partiti politici
costituzionalizzandoli; salvo poi riservare alla legge il compito di
disciplinarli ulteriormente.
In tal senso, una strada da percorrere
potrebbe essere quella di prevedere che i partiti, al fine di usufruire dei
rimborsi per le spese elettorali e di ogni altro beneficio normativo, si devono
dotare di uno statuto approvato con atto pubblico, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, contenente gli
organi del partito e loro composizione, le procedure e forme di garanzia per le
minoranze, i diritti e doveri degli iscritti, le modalità di selezione dei
candidati alle elezioni. Così facendo non si attuerebbe una pubblicizzazione
dei partiti – che sarebbe incostituzionale – ma piuttosto i partiti
resterebbero associazioni di diritto privato “non riconosciute” regolate
secondo criteri e forme democratiche. L’obbligo di pubblicità degli statuti
costituisce sicuramente un avanzamento rispetto all’arbitrio che ha sempre
caratterizzato il diritto dei partiti, solo temperato da crescenti interventi
giurisdizionali. Ma dal punto di vista della democrazia interna, è sufficiente
che gli statuti prevedano le garanzie e
gli istituti richiamati, o non è necessario determinarne direttamente con legge
alcuni requisiti minimi?
Non si vuole qui, e né si potrebbe,
tracciare ne dettaglio quella che dovrebbe essere una disciplina legislativa in
materia di regolazione giuridica dei partiti politici. Si intende però
sollecitare questa riforma, per le ragioni sopra esposte e perché ritenuta
fondamentale al fine di restituire ai partiti la loro dignità nel sistema politico-istituzionale,
e anche al fine di contribuire al superamento della confusa transizione
italiana. Qualche cosa sembra finalmente muoversi. A dare una scossa, c'è
adesso un recente disegno di legge (AS n.1540), a firma dei senatori Del
Pennino e Compagna, intitolato Norme sul
riconoscimento giuridico e il finanziamento dei partiti, i loro bilanci e le
campagne elettorali. E' il tentativo di dare una risposta organica
all'esigenza di collocare il partito politico nel giusto ruolo del nostro
ordinamento costituzionale, definendone natura giuridica, regole di vita
interna, procedure per la scelta dei candidati, trasparenza dei bilanci. Si
tratta di una proposta che merita di essere attentamente discussa, specialmente
tra i costituzionalisti, e che merita di essere attentamente presa in
considerazione, specialmente tra quanti credono che sia giunta l'ora che si
faccia (anche) in Italia una legge sui partiti politici.
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