N° 1 - Maggio 2002 -
Tradizione - Lavori in corso -
Contributi
Per lo Statuto del Popolo e della Repubblica sardi:
un ragionamento introduttivo
(*) Testo, corretto e integrato con alcuni riferimenti di dottrina,
della comunicazione presentata ad Olbia, il 18 gennaio 2002, in occasione del
convegno sulla riforma dello Statuto della Regione Autonoma della Sardegna,
organizzato dal Comitato per la Costituente sarda.
A. Elementi
essenziali di metodo; I. La Assemblea Costituente e i contenuti dello
Statuto; 1. Una contrapposizione che non esiste; 2. L’impegno
per la Costituente ha imposto in Sardegna il dibattito sui contenuti; 3.
La proposta della Costituente dopo aver proposto inutilmente la riforma
municipale–federativa al Consiglio regionale; II. Come entrare nei
contenuti; 1. Formulare idee e soluzioni istituzionali grandi e
chiare per un dibattito diffuso in vista dei lavori della Costituente e
un Referendum sui lavori della Costituente; 2. Avere la capacità e il
coraggio di “inventare formule con fantasia istituzionale”; 3. Rigore e
razionalità: concetti chiari, principi univoci, ordinamenti coerenti;
B. Elementi
essenziali di contenuto; I. Il concetto giuridico
di popolo; 1. Società democratica ...; 2. ... aperta e
centripeta: dal Municipio alla Universalità; II. Il principio della
“Sovranità popolare”; 1. Il postulato: costituire il Popolo e la
Repubblica dei Sardi nella sequenza dal Municipio alla Universalità; 2.
I corollari; a. Iniziare dal federalismo ‘interno’ ...; b. ... ma non separare
federalismo ‘interno’ e federalismo ‘esterno’; III. L’ordinamento
del federalismo interno (per il federalismo esterno); 1.
Riforma della “Forma di Regione” nei suoi elementi essenziali; 2.
Riforma dei processi di formazione della volontà pubblica regionale (chi
comanda): partecipazione e federazione; a. Una prima serie di proposte:
riforma federale della Programmazione e Camera delle Autonomie in luogo
del Consiglio odierno; ±. Le proposte; ². Il loro senso
complessivo; b. Una seconda serie di proposte: distinzione /
non-confusione tra Legislativo ed Esecutivo; 2. Riforma dei “mezzi di
difesa della libertà dal potere”: il Difensore civico eletto dai Cittadini; IV.
Prime proiezioni sul federalismo esterno.
stesura provvisoria
A.
I.
La Assemblea Costituente
e i contenuti dello Statuto
1. Una contrapposizione che non esiste
E’ certamente giusto non
fermarsi al dibattito “Costituente sì / Costituente no” ed affrontare la
questione dei contenuti che lo Statuto sardo deve avere.
Non è, però, accettabile la
sollecitazione, che da alcune pari si sente, ora, ripetere, a non insistere
oltre sulla Costituente per parlare, finalmente, dei contenuti del nuovo
Statuto.
Affermare che la richiesta
della Costituente è stata o (anche soltanto) è diventata –a questo
punto–inutile è, in realtà ed oggettivamente, un modo per (tentare di)
sostituire la contrapposizione vera tra chi vuole la Costituente e chi non
vuole la Costituente (contrapposizione che si sta risolvendo a favore della
Costituente) con la contrapposizione falsa –perché inesistente– tra chi
parlerebbe soltanto di Costituente e chi parlerebbe soltanto dei contenuti (che
lo Statuto deve avere).
Questa seconda, inesistente
contrapposizione è, inoltre, funzionale ai fautori della conservazione (contro,
si dice, le “derive populistiche e plebiscitarie”) di quelle “prerogative” le
quali proprio dalla Costituente sono minacciate; ovverosia è funzionale agli
avversari veri di ogni riforma vera dello Statuto ed è, quindi, doppiamente
falsa.
L’impegno per la
Costituente e l’impegno per contenuti democraticamente innovativi dello Statuto
sono, in realtà, un impegno unico e inscindibile.
2. L’impegno per la
Costituente ha imposto il dibattito sui contenuti
Infatti, se
oggi, finalmente, il dibattito sulla riforma dello Statuto inizia a
farsi in Sardegna ed a farsi fuori del ‘palazzo’, tra i cittadini, nella
cosiddetta società civile, ciò è avvenuto proprio e soltanto perché molti in
Sardegna, nonostante le resistenze diffuse ed il boicottaggio sistematico
(fatto di silenzi e calunnie) da parte dei mezzi di comunicazione, hanno
finalmente avuto il coraggio di affermare che non si può e non si deve lasciare al ‘palazzo’ e ai suoi
dintorni il potere/dovere di riscrivere lo Statuto e che questo potere/dovere
può e deve essere riconsegnato ai cittadini, per mezzo della Assemblea
costituente.
E nel
dibattito finalmente pubblico, i contenuti che vanno delineandosi appaiono
aperti alla partecipazione dei cittadini e, in ciò, assolutamente diversi dai
contenuti dei disegni di legge di riforma secondo l’iter tradizionale ed
anti–Costituente, depositati presso il Parlamento. Allora, non è vero che “Il
vero problema non è più la Costituente”. La Costituente resta il vero problema.
3. Chiediamo la Costituente per la riforma
dopo aver proposto inutilmente la riforma
municipale–federativa al Consiglio regionale
Inoltre, proprio noi,
sostenitori della Assemblea costituente, abbiamo prodotto per primi progetti di
riforma sostanziale degli assetti istituzionali della Regione sarda.
Noi abbiamo scelto la strada
della Costituente proprio perché sino dal 1994, nelle sedi istituzionali più
elevate del Governo e del Consiglio sardi (mentre altri discettavano se dovesse
farsi l’autonomia oppure il federalismo), abbiamo operato scelte e
avanzato proposte chiarissime di riforma, nel senso del federalismo interno
(ovverosia: dei municipi nella Regione) in funzione esplicita della conquista
del federalismo esterno (ovverosia delle Regioni nello Stato italiano e nella
Unione Europea): scelte e proposte di riforma le quali –proprio per i loro
contenuti– non sono state accolte dal Consiglio regionale né mai avrebbero
trovato udienza alcuna senza l’impegno attuale per la Costituente.
8 anni fa, essendo io stesso
Assessore regionale degli AA.GG. del Personale e della Riforma della Regione
nella prima Giunta di Federico Palomba, noi, di intesa con tutti i Sindacati
territoriali (e particolarmente con la CISL), con il sostegno delle Autonomie
locali ANCI, UNCEM ed UPI e trascinando invece interlocutori accademici recalcitranti
ad uscire dalla formula della delega al Consiglio, noi abbiamo prodotto un
progetto di riforma nella materia fondamentale della programmazione, che
(dichiaratamente in vista della realizzazione del federalismo esterno)
introduceva fortemente il federalismo interno, cioè l’ingresso decisivo dei
Comuni, delle Comunità/Associazioni di Comuni e delle Province nei processi di
formazione della volontà pubblica regionale, sino ad allora ed ancora oggi
chiusi dentro il ‘palazzo’.
Tutto ciò è documentato
puntualmente.
Abbiamo, però, dovuto
verificare, negli anni successivi, tra il 1995 ed il 1999, la scomparsa
progressiva di tale progetto nel ventre del Consiglio regionale sardo. Ed anche
questo è documentato puntualmente.
La ragione ne è
evidente: i contenuti di quel progetto di riforma minacciavano e minacciano le
“prerogative” istituzionalmente oligarchiche/centralistiche del
Consiglio regionale[1].
Quelle stesse “prerogative” la cui tutela, infatti, viene oggi invocata contro
la Costituente.
Contestualmente,
esattamente in quegli stessi anni, lavorava in parallelo una Commissione
consiliare istituita ad hoc, la Commissione n.0 per la riforma dello
Statuto: dei suoi lavori si è persa la memoria senza che nessuno di coloro che
oggi criticano la soluzione della Costituente per i tempi necessari abbia mai i
ritardi e il tempo perso. Dal 1995 al 1999, per cinque anni, il Consiglio ha
avuto il potere ed il dovere giuridici e tutto il tempo ma non la volontà
politica di affrontare, nei contenuti, quelle riforme che noi
avevamo proposto sin dal 1994.
Il 6 dicembre 2001, in un
convegno a Cagliari sul Federalismo sardo, l’economista prof. Giuseppe Usai ha
concluso il proprio intervento chiedendo accoratamente e polemicamente (in
riferimento a questa duplice, parallela vicenda): “Perché, perché, perché?”. La
domanda del prof. Usai non ha avuto risposta.
II.
Come entrare nei
contenuti
1. Formulare idee e
proporre soluzioni istituzionali grandi e chiare: per un dibattito
diffuso in vista dei lavori della Costituente, e un Referendum sui lavori della
Costituente
Se il
nuovo Statuto vuole essere nel futuro lo strumento della espressione della
volontà dei Cittadini sardi deve essere nel presente il frutto della
espressione della volontà dei Cittadini sardi. Questo è il senso più profondo e
più intimo della Assemblea costituente. E’, infatti, esigenza vitale la
attivazione nella nostra Regione di un dibattito diffuso sulle linee di riforma
dello Statuto per l’affidamento della loro traduzione in una Carta statutaria
ad una Assemblea scelta appositamente e e in conseguenza di quel dibattito, e i
cui lavori siano quindi soggetti, nel loro esito, al giudizio dei Cittadini,
mediante referendum.
Allora, i ‘tecnici’, gli
‘intellettuali’, anche quando entrano nel merito dei contenuti dello Statuto,
devono elaborare idee e proporre soluzioni non per altri tecnici ed altri
intellettuali in parrucca e redingote, ma per cittadini fortemente sanculotti.
In altri termini: non dobbiamo
produrre (non ancora) testi tecnicamente ‘articolati’, dettagliati
minuziosamente e leggibili soltanto dagli addetti ai lavori, ma elaborare le
grandi idee politiche e proporre soluzioni giuridiche chiare, cioè indicare la
traduzione istituzionale delle scelte politiche che i cittadini, tutti i
cittadini (“le massaie”, diceva genialmente Vladimir Ilic Lenin) possano
vagliare e valutare per rifiutarle, combatterle e sconfiggerle oppure per farle
proprie, difenderle ed imporle.
C’è il rischio, altrimenti,
se non il disegno malizioso, di escludere i cittadini dal processo di formazione dello Statuto, con il risultato
di uno Statuto che continuerebbe quindi a escludere i cittadini dal
processo di formazione della volontà regionale.
Affrontiamo dunque, con
il concorso generale, le grandi scelte politiche e giuridiche; la loro
applicazione in ‘articolati’ sarà, invece, lavoro esecutivo, da tecnici,
appigionati o meno.
2. Avere la capacità e il coraggio di “inventare
formule con fantasia istituzionale”
Se il nuovo Statuto deve
essere fortemente innovativo e rovesciare la situazione e le tendenze
centralistiche/oligarchiche e conservative odierne, è assolutamente
insufficiente ri-copiare diligentemente le ricette ‘governative’: occorre,
invece, “inventare formule con fantasia istituzionale”.
Non lo affermo oggi io, lo
affermava, nel 1980, oltre venti anni fa, Luigi Berlinguer, in un contributo di
straordinaria lucidità al convegno di studi (organizzato a Sassari e a Tempio
da Pietro Soddu, in onore di Paolo Dettori) su “Le dimensioni dell’autonomismo
e l’esperienza sarda”. Ritorno su questa citazione perché la considero
particolarmente utile, nel contesto regionale odierno.
Il professore
universitario di diritto e parlamentare sassarese affermava la esigenza di
“inventare formule con fantasia istituzionale” dopo aver detto che: «i Comuni
sono stati soffocati da una seconda forma di accentramento successiva a quella
statuale ... [in] una politica di accentramento regionale perseguita in forte
dispregio di quanto è scritto nella Costituzione». E ancora Berlinguer
auspicava allora «una riforma che parta dal Comune ... associazioni di Comuni
... nelle quali i Comuni ... possano essere soggetti ... di capacità
programmatoria ... oggettivamente coinvolti nei processi di indirizzo» perché
la «rifondazione della democrazia dal basso ... oggi bisogno ineludibile del
nostro Paese passa attraverso due canali: uno è quello dell’articolazione
autonomistica, prima di tutto con dei Comuni che ... possono avere un rapporto
con la popolazione diverso da quello che è stato nel passato ...; l’altro è
quello di sperimentare la partecipazione». E, quindi, sempre Berlinguer
indicava «nel coinvolgimento dei Comuni e delle regioni nel processo
programmatorio nazionale ... una delle materie su cui lavorare nello scrivere
la legge sulle autonomie» lamentando, tuttavia, che «Anche gli studiosi [oltre
i politici], lo vedo, sono molto ostili a inventare formule con fantasia
istituzionale».
A quel convegno
parteciparono con contributi significativi anche il Ministro Giuseppe Pisanu
(che ricordava la esigenza della dimensione mediterranea della Autonomia sarda)
e il mio maestro, il prof. Pierangelo Catalano, il quale sintetizzava i
contributi di Berlinguer e di Pisanu nella formula (che mi appare
attualissima): “autonomismo municipale e mediterraneo”.
Negli anni ’90, due
altri grandi esponenti della politica sarda, e professori della mia Università
(anzi, lo dico con orgoglio di Preside, della mia Facoltà): il Presidente
Francesco Cossiga e il parlamentare europeo Mario Segni, a livello nazionale ed
in maniera anche fortemente provocatoria, hanno –rispettivamente– denunciato la
crisi costituzionale della sovranità popolare (affermando anzi ‘urlando’ la
esigenza di ripristinarla) e predicato la esigenza vitale di una “nuova
Repubblica”.
Bene, è giunto il
momento di affermare il nuovo contro il vecchio, di costruire la nuova
Repubblica della sovranità del popolo, di praticare, contro il centralismo
nazionale e regionale, la inventiva e la fantasia istituzionali. Non dobbiamo
copiare dalla ‘capitale’, dobbiamo noi inventare soluzioni e proporle alla
Capitale e –perché no?– al resto degli
Italiani.
3. Rigore e
razionalità: concetti chiari, principi univoci, ordinamenti coerenti
Per
fare ciò, insieme alla inventiva ed alla fantasia occorrono rigore e
razionalità estremi, vale a dire: a) concetti chiari, b) principi univoci, c)
ordinamenti coerenti.
Credo che possiamo essere
d’accordo se affermo che il concetto da cui vogliamo partire, il principio che
vogliamo affermare e l’ordinamento che vogliamo realizzare sono il concetto, il
principio e l’ordinamento del Popolo sardo.
Se la Regione sarda –che noi
vogliamo– deve essere la Repubblica sarda, cioè la “cosa del popolo” sardo,
dobbiamo avere chiaro il concetto di ‘popolo’ e dobbiamo decidere di porre nel
popolo il principio dal quale fare discendere –con l’aiuto della scientia
iuris– il nostro ordinamento.
B.
I.
Il concetto giuridico di
popolo
1. Società democratica ...
Il concetto di popolo è
un concetto giuridico ed esso ci è dato esclusivamente dalla scienza giuridica
romana.
Non è antiquariato, è la
grande civiltà mediterranea del popolo di Abramo e del demos di Pericle,
nella sapiente sintesi giuridica fatta dagli inventori del Municipio, della
Repubblica e del Foedus socialis [“Federalismo societario”][2]).
Prima di Gaio e di
Giustiniano, in un passo famosissimo del de republica, Cicerone ci
spiega che “popolo” è la collettività democratica (cioè il coetus
multitudinis, non la “sanior pars”, non la “élite”) associata [=
federata] dal consensus iuris e dalla communio utilitatis. Come
autorevolissimi politologi hanno osservato, questo passo ha ammaestrato
generazioni di uomini alla ricerca della democrazia, nel Mediterraneo, in
Europa e nel Mondo, dalla Antichità, al Medioevo, all’Evo moderno sino
all’Illuminismo. Contro questo concetto si sono accaniti i giuristi
solo–privatisti dell’Ottocento e del Novecento, al servizio della borghesia.
A partire da questo
concetto, Cicerone e i giuristi romani ci spiegano che il popolo o è il
titolare esclusivo e vero del potere o non è[3].
Se noi Sardi vogliamo costruire
giuridicamente il Popolo sardo, dobbiamo abbeverarci alle grandi fonti del
Diritto romano, anziché con le pozioni che ci vengono propinate dagli epigoni
dei giuristi dimezzati dell’Ottocento.
Allora, noi Sardi
potremo inserirci da maestri tra i maestri, anziché collocarci tra gli allievi
ultimi, timidi, ripetenti e, infine, ancora una volta gabbati.
2. ... aperta e
centripeta: dal Municipio alla Universalità
Cicerone e
i giuristi romani, che forniscono oggi a noi Sardi, come già ha fornito a
Marsilio da Padova (1275 – 1343, Defensor Pacis), a Jean Bodin (Six
livres de la République, 1576), a Johannes Althusius (Politica methodice
digesta, 1604), a Jean-Jacques Rousseau (Contrat social, 1764) a
Simón Bolívar (Discorso costituzionale ‘di Angostura’, 1819) ma anche al
grande monarcomaco sardo Giovanni Battista Tuveri (Del dritto dell’uomo alla
distruzione dei cattivi governi, 1851) gli strumenti per costruire
scientificamente la nozione di popolo, ci dicono anche (come peraltro tutti noi
già intuiamo, perché è scritto nel Diritto naturale) che la prima e decisiva
società democratica è il popolo dei cittadini della Città/Municipio e che il
Municipio è la prima e decisiva Repubblica[4].
Ed il popolo “società democratica
e aperta”, che costituisce il Municipio, è soltanto il “primo” popolo di una
sequenza di popoli via via più ampi; sequenza che ho definito altre volte
‘ascendente’ ma che chiamerei ora meglio ‘crescente’ (“augescens”[5])
e insieme ‘centripeta’. E’ straordinaria la logica del meccanismo federativo e
societario alla base del popolo: semplice e complesso, duttile e poderoso,
capace di esaltare la identità e –al contempo– la diversità, di coniugare la
apertura continua ad altri con la produzione continua della unità.
Il Popolo di ogni più
piccolo Municipio romano è esso stesso una federazione tra cittadini (e tra
‘classi’ sociali di cittadini) ed ogni più piccolo Municipio romano è una
Repubblica (perché non esiste popolo senza la sua repubblica) ed il
grande Popolo romano universale (quello che ha prodotto l’Editto di Caracalla
del III secolo dopo Cristo) è una federazione di Popoli municipali e la grande
Repubblica romana universale (i cui confini comprendevano Asia, Africa ed
Europa sino al Reno e sino a Londra) è una federazione di Repubbliche
municipali.
A ennesima, locale
conferma della impronta municipale del federalismo ‘vero’ (romano), è stata
recentemente rilevata, anche nella storia dell’Italia contemporanea, la
presenza di due "componenti" federalistiche: una definita
"territoriale", volta alla divisione, di cui è osservata la
"debolezza ideologica" e gli "obiettivi prevalentemente polemici
e tattici", ed un’altra "dotata di maggiore spessore teorico e ideale,
che mirava, invece, a costruire, partendo dal basso e dalla periferia, il
rapporto tra lo Stato–Nazione e i cittadini". Ora, la componente unitaria
tipo di questo ‘federalismo della unione’ è costantemente il municipio o
comune, il quale talvolta viene contrapposto alla Regione ma il più delle volte
ne è considerato il necessario generatore: Regione come consorzio di Comuni[6].
Allora, ogni
collettività (ivi compresa la nostra Collettività regionale) potrà veramente e
pienamente, politicamente e giuridicamente, moralmente ed istituzionalmente
costituirsi in Popolo soltanto dentro e secondo questa sequenza istituzionale,
che va dal Municipio alla Universalità[7].
II.
1. Il postulato:
costituire il Popolo e la Repubblica dei Sardi nella sequenza dal Municipio
alla Universalità
Anche il
Popolo sardo potrà costituirsi in popolo in senso pienamente giuridico (e
questo è il compito dello Statuto) se vorrà e se saprà collocarsi, senza
smentirsi e senza traviarsi, in questa scala della sovranità popolare, che
parte dalla Città/Municipio e tende alla Universalità.
La Regione Sarda deve
riconoscersi, al proprio interno, costituita dai Municipi e dalle Province per
imporsi, al proprio esterno, come parte costitutiva dello Stato italiano e
della Unione Europea.
In altri termini, il Popolo
sardo potrà e saprà rivendicare il riconoscimento ed il rispetto del suo essere
popolo nei confronti del Popolo italiano e potrà e saprà rivendicare il
riconoscimento ed il rispetto della Repubblica sarda nei confronti della Repubblica
italiana soltanto se vorrà e se saprà riconoscere i Popoli e le Repubbliche dei
suoi 400 Municipi, attraverso le loro Comunità, Associazioni e Province.
La logica è per sua
natura inflessibilmente unitaria: non è neppure pensabile alcun
federalismo esterno se non a partire dal federalismo interno.
Allora, per quanto possa
apparire paradossale: non sono i vincoli esterni a condizionare il nostro
assetto interno ma è il nostro assetto interno a condizionare i nostri vincoli
esterni.
Principium potissima
pars rerum est, come ammonisce il giurista romano Gaio (Dig. 1.2.1).
2. I corollari
a. Iniziare dal federalismo ‘interno’ ...
Ciò significa che non abbiamo né il titolo per
lamentarci dei “condizionamenti esterni” alla Sardegna (che pure ci sono e sono
pesantissimi) né la capacità per affrontare la questione del federalismo
esterno mentre lasciamo che dentro la Sardegna, come diceva nel 1980 Luigi
Berlinguer, «i Comuni sono soffocati da una seconda forma di accentramento
successiva a quella statuale ... [in] una politica di accentramento regionale
perseguita in forte dispregio di quanto è scritto nella Costituzione».
Lamentarsi dei condizionamenti esterni e parlare di federalismo esterno mentre
si tengono o si lasciano i Comuni soffocati dal centralismo regionale è la vera
fuga dai problemi veri e dalle responsabilità connesse.
b. ... ma
non separare federalismo ‘interno’ e federalismo ‘esterno’
Ciò significa, inoltre,
che non possiamo separare le due facce del federalismo da costruire, quello interno
e quello esterno, anche se –in teoria– la distinzione è possibile e, anzi, la
competenza delle due costruzioni potrebbe spettare a soggetti diversi.
Attenzione. C’è, ora, un ragionamento interessante, formulato ancora da un
docente della mia Facoltà (il costituzionalista Pietro Pinna) e che mi pare sia
stato adottato dai già presidenti della Regione sarda Mario Melis e Pietro
Soddu. Il ragionamento parte precisamente da queste nostre proposizioni, che vi
sto ri-esponendo per la ennesima volta (e me ne scuso) e con le quali il
collega costituzionalista Pietro Pinna dichiara di concordare[8]
(ciò che è già un risultato non disprezzabile). Vi è, però, il rischio di una
loro sottile vanificazione. Il rischio è che il ragionamento, il quale inizia
con la osservazione che lo Statuto vero è quello che riguarda i rapporti
interni alla Sardegna e che questo, vero Statuto, noi Sardi, possiamo farcelo
subito, anche nei termini da noi auspicati di federalismo interno, senza
bisogno di legge costituzionale, porti a concludere che la Assemblea
costituente debba/possa servire solamente per “contrattare” con lo Stato il
federalismo esterno, mentre, intanto, altri fanno la riforma e lo Statuto veri,
quelli interni. Mi sembra evidente il rischio, proprio per quei contenuti che
noi vogliamo e sui quali Pinna dichiara di concordare, di una trappola mortale,
precisamente in forza del nesso, mai troppo ribadito, tra metodo e contenuti.
Se, infatti, è certo che la riforma nel senso del federalismo interno è già
alla nostra portata giuridica (anzi, lo è sempre stata) e se è
altrettanto certo che è questa riforma il vero prius logico di tutta
la riforma, interna ed esterna, proprio per ciò anche questa riforma deve
essere affidata alla Assemblea costituente.
III.
L’ordinamento del
federalismo interno
(per il
federalismo esterno)
1. Riforma della
“Forma di Regione” nei suoi elementi essenziali
Mi
attengo (come ho sempre fatto) alla distinzione tra ‘forma di Stato’ e ‘forma
di governo’ ovverosia, in materia di Statuto regionale, alla distinzione
–corrispondente– tra forma di Regione e forma di governo della Regione, perché
considero tale distinzione (di origine e natura gius-romanistiche) conseguente
al concetto di popolo ed al principio della sovranità del popolo.
Per le stesse ragioni,
tra le due ‘forme’ considero (con Rousseau e contro Kant) decisiva la prima: la
forma di Regione. Gli elementi che caratterizzano la forma di Regione (come la
forma di Stato) sono quattro: i processi di formazione della volontà pubblica
(chi comanda), i “mezzi di difesa della libertà dal potere”, la questione
morale (che è parte integrante dell’ordinamento) e lo stato di eccezione (nel
caso della Regione: la questione dello scioglimento anticipato delle
istituzioni lato sensu di governo).
Su questi elementi si
fanno le scelte decisive dei contenuti statutari (ma anche della Costituzione
statale e di quella europea). In questo momento, limito il mio intervento ai
primi due.
2. Riforma dei processi di formazione della
volontà pubblica regionale (chi comanda): partecipazione e federazione
a. Una prima serie di proposte: riforma federale
della Programmazione e Camera delle Autonomie in luogo del Consiglio odierno
±. Le proposte
Oggi, quando parliamo di
processi di formazione della volontà pubblica, noi pensiamo ovviamente all’iter
interno–parlamentare. Ciò corrisponde allo stato non brillante (si legga
Costantino Mortati [citato infra]) delle istituzioni e dottrina
costituzionali contemporanee. Inizierò, pertanto, il discorso, sulla riforma di
questi processi, dalla considerazione della istituzione parlamentare, ovverosia
–nel nostro caso– della istituzione consiliare.
Affermo allora subito
che la sede ed il soggetto istituzionali dei processi di formazione della
volontà pubblica non può e non deve più essere il Consiglio nella sua
strutturazione odierna, caratterizzata da insufficienza sostanziale e grave
di democrazia (in quanto sostanzialmente “oligarchico” o “aristocratico”: F.
Guizot, Histoire du gouvernement représentatif, 1851; J.K. Bluntschli, Allgemeine
Staatslehre, 1852; H. Kelsen, Das
Problem des Parlamentarismus, 1920, M. Weber, Wirtschaft und
Gesellschaft, 1922; R. Carré de Malberg, La Loi expression de la volonté
générale, 1931, J.R. Vanossi, El misterio de la representación política,
1972, C. Mortati, commento all’art. 1 della Costituzione italiana, 1975, H.
Eulau, Changing Views of Representation, 1978 [ripreso da D. Fisichella,
La rappresentanza politica, 1983]; A. Torres del Moral, Crisis del
mandato representativo, 1982, G. Ferrari, Rappresentanza politica,
1991), da insufficienza corrispondentemente sostanziale e grave di moralità
(Mandeville; Sieyés) e dal centralismo (Th. Hobbes).
La soluzione istituzionale al
problema della creazione di un processo democratico di formazione della volontà
pubblica neppure può essere costituita dal ‘bicameralismo federale’, così come
lo conosciamo, vale a dire dall’allineamento di una ‘Camera delle autonomie
(locali)’ nuova accanto al Consiglio odierno. Ciò significherebbe, infatti,
cercare di tradurre in un ordinamento unico due principi tra loro opposti:
quello della partecipazione (che dovrebbe essere introdotto con la ‘Camera
delle Autonomie’) e quello della delega (che resterebbe con il Consiglio
odierno).
Se, invece, vogliamo
–come, lo ricordo, dobbiamo– restare razionalmente fedeli
al principio della sovranità del popolo, attraverso un ordinamento che consenta
la partecipazione, la soluzione è la costituzione di una sola ‘Camera delle
Autonomie’ in luogo del Consiglio odierno, purché con le caratteristiche
seguenti:
– circoscrizioni
elettorali che rispettino le Entità politiche ‘sub-regionali’: le Autonomie
locali dei Comuni, delle Associazioni di Comuni e delle Province, dove si formano
le volontà politiche le quali, per sintesi successive (che abbiamo definito
crescenti e centripete), devono produrre la volontà regionale unica ed
unitaria; si tratta, del resto, della stessa logica già presente nella proposta
di legge di iniziativa popolare per ottenere circoscrizioni elettorali
regionali alle elezioni del Parlamento europeo;
– elezioni su programma, così
come già introdotte dalla legge 1993 n. 81 per le elezioni comunali e
provinciali (cfr. quindi la «Proposta di legge costituzionale n. 5923
d’iniziativa dei deputati Armaroli ... [20 deputati] “Modifica dell’articolo 67
della Costituzione, in materia di divieto di mandato imperativo” presentata il
20 aprile 1999»); il programma dovrà, però, essere ‘vero’ e, come si dice in
gergo giuridico, ‘azionabile’;
– diritto degli elettori
di revocare l’eletto (ab-rogazione);
(– formule elettorali conseguenti: collegi uninominali?
primarie? etc.).
Accanto alla Camera
delle Autonomie occorre, però, la previsione statutaria dell’intervento diretto
delle Autonomie locali nella programmazione regionale. In altri termini, in
luogo del bicameralismo federalista consueto, sostanzialmente strabico in
quanto fatto di due Camere ispirate a principi diversi/opposti, occorre
prevedere una sorta di bicameralismo sui
generis, sostanzialmente coerente in quanto tutto ispirato al medesimo
principio della partecipazione e costituito dalla Camera delle Autonomie locali
e da un iter della Programmazione con concorso diretto delle stesse
Autonomie.
Un esempio sul quale
riflettere esiste già; è l’istituto dell’“Orçamento [= Bilancio]
participativo”. In Brasile, la città di Porto Alegre (un milione e trecentomila
abitanti, capitale dello Stato di Rio Grande do Sul e conseguentemente
capitale mondiale del movimento anti–globalizzazione) ha adottato, dal 1989, un
processo democratico di formazione del proprio bilancio, definito
‘partecipativo’, che esclude il sistema rappresentativo, che la “II Conferenza
Habitat dell’ONU” (Istanbul 3-14 giugno1996) ha giudicato una delle migliori
forme di gestione urbana del mondo e che mi risulta sia studiato –come modello–
da Città quali Barcellona e Bologna.
Per ragioni (come ho
detto) di ordine retorico, ho invertito, nella esposizione, l’ordine logico
delle istituzioni. Secondo l’ordine logico, il punto n. 1 della riforma dei
processi di formazione della volontà regionale deve essere la nuova previsione
statutaria della partecipazione diretta nella programmazione.
Sui modi della
partecipazione delle Autonomie alla Programmazione regionale, rinvio al
progetto di legge formulato nel 1994-1995 e pubblicato quindi in Presenza. Periodico dell CISL sarda,
ottobre 2000, p.26 s.
Resta un problema, che
mi limito, qui, ad enunciare: la partecipazione delle OO.SS. ai processi di
formazione della volontà regionale. Credo che vada risolto positivamente. Però:
come e ‘dove’? Nella Camera delle
Autonomie? nella Programmazione? in
entrambe? Occorre riflettervi. Oggi, direi: nella Programmazione (penso alla
esperienza dei Piani Integrati d’Area - PIA).
². Il loro senso complessivo
La caratteristica più
evidentemente innovativa di questa prima serie di proposte di riforma delle
istituzioni autonomistiche è la natura intrinsecamente democratica/federativa
dell’ordinamento che viene proposto. In luogo del carattere
oligarchico/centralistico della istituzione consiliare odierna, il nuovo
ordinamento ‘parte’ dal riconoscimento decisivo della molteplicità delle
volontà pubbliche istituzionalmente rilevanti, collocate nella prima cellula di
società pubblica, il Municipio o Comune, per costruire, quindi, attraverso la
serie delle sintesi federative crescenti/centripete la volontà unica/unitaria
regionale, la quale si trova, quindi, naturalmente proiettata verso la
costruzione di sintesi federali ulteriori: italiana, europea ....
E tuttavia -così facendo- noi inizieremmo semplicemente a realizzare non soltanto
il già menzionato auspicio di riforma formulato da Luigi Berlinguer nel 1980
(che era e resta interno alla parte migliore della Costituzione italiana vigente[9])
ma anche la prospettiva di riforma federale dell’ordinamento della Repubblica
italiana, intravista dall’ultima ‘Bicamerale’ presieduta da D’Alema, riforma
secondo cui il “Parlamento” deve essere sostituito
dalla sequenza crescente/centripeta “Comune, Provincia, Regione, Stato” (la
quale è sviluppo, anche essa, della parte migliore della Costituzione italiana
vigente[10])
e gli orientamenti già presenti nelle leggi quadro nazionali in materia di
autonomia e ordinamento locali (la legge 142 del 1990 e la legge 265 del 1999)[11].
Anzi, recupereremmo le radici romane, democratiche e municipali/federative, del
parlamentarismo europeo e dello stesso Parlamento inglese (la cui ‘Camera dei
Comuni’ così si chiama proprio perché formata dai procuratores delle
Comunità cittadine)[12]
prima della sua deformazione precoce in senso oligarchico e centralista, per
mezzo del principio rappresentativo.
Infine, queste nostre proposte
corrispondono alle istanze che vengono dalla riflessione socio-economica più
avanzata sui sistemi organizzativi[13].
b. Una seconda serie
di proposte: distinzione / non-confusione tra Legislativo ed Esecutivo
Alla logica
del concetto di popolo/società e del principio della sovranità popolare
appartiene anche necessariamente la forte e netta distinzione, ovverosia la
non-confusione tra Legislativo ed Esecutivo: sul piano concettuale e sul piano
dell’ordinamento, di titolarità e di esercizio.
E’ stato, inoltre,
osservato (ed argomentato) che l’esercizio del potere esecutivo è la causa
massima di corruzione del sovrano/legislativo (J.-J.Rousseau, cfr. Friedrich
von Hayeck).
Per affermare la
distinzione ed evitare la interferenza del legislativo nell’esecutivo (e
viceversa) occorrono:
– circoscrizione
rigorosa del potere Legislativo alle leggi intese in senso sostanziale (cioè
alle sole norme generali, ciò che comporta, ipso
facto, la drastica riduzione della stessa attività legislativa, cioè la
cosiddetta “delegificazione”);
– circoscrizione
altrettanto rigorosa del potere Esecutivo ai soli atti di portata particolare
(ciò che non esclude, ovviamente, la capacità di iniziativa legislativa
dell’Esecutivo);
– elezione diretta del
Presidente dell’Esecutivo;
– incompatibilità
personale tra funzioni consiliari e funzioni di Giunta;
– Esecutivo ‘forte’: che
governa con la discrezionalità necessaria.
2. Riforma dei “mezzi di difesa della libertà dal
potere”: il Difensore civico eletto dai Cittadini
Il Consiglio (ovverosia
la futura Camera delle Autonomie) non può, non deve potere entrare nel
merito del Governo: non ne ha, non deve averne –per definizione– competenza. Il
Governo è subordinato al Consiglio, in quanto deve essere l’esecutore delle
norme generali (le leggi in senso sostanziale) dettate da quello, ma –fintanto
che il Governo resta (sia nel fare sia nel non fare) nell’àmbito della
discrezionalità propria– il Consiglio non può intervenire in tale àmbito, pena
il rientro, dalla finestra, di quella confusione perniciosa tra legislativo ed
esecutivo appena cacciata dalla porta..
Occorre, allora, un soggetto
‘terzo’ tra Consiglio e Giunta, ma anche tra Cittadini e Governo. Questo
soggetto si è proposto in qualche modo da solo, tumultuosamente, nel corso
dell’ultimo mezzo secolo post–bellico, investendo i costituzionalismi a livello
mondiale. Si tratta del Difensore civico (o “del popolo”, o “Médiateur”)
Municipale, Provinciale e Regionale (in Italia) ma anche Nazionale (in molti
Paesi) ed Europeo (questo ultimo è stato introdotto dal Trattato di
Maastricht). Sarà necessario pensarlo adeguatamente. Affermo sin d’ora che
requisito irrinunciabile è che esso sia eletto direttamente dai Cittadini.
IV.
Prime proiezioni sul
federalismo esterno
Se
vorremo e se sapremo realizzare il federalismo interno, liberandoci dalle
istituzioni feudali e dal corteo dei loro clienti, potremo e avremo infine la
capacità intellettuale, la legittimazione giuridica e la forza morale e
politica di pensare, volere e infine fare il federalismo esterno.
Cioè:
non inserirci dentro uno Stato italiano preesistente ma con-correre, partendo
dal Popolo e dalla Repubblica sardi federali,
a ri-costruire federalmente il Popolo e la Repubblica d’Italia e
–attraverso l’Italia– a costruire federalmente il Popolo e la Repubblica
d’Europa, guardando alla Ecumene.
Potrà essere il grande
contributo della Sardegna alla costruzione federale. Non viceversa. E potrà
essere anche la dimostrazione della nostra vera specialità, la
specialità insulare, perché –come diceva Montesquieu– “I popoli delle Isole
sono i più portati alla libertà”.
L’amore della libertà è
la vera, grande matrice delle Costituzioni.
[1] Cfr., infra, il prgf. B.III.2.a.
±.
[2] Cfr. il mio “Federalismo societario interno ed
esterno alla Regione (la soluzione althusiana nella rilettura di Th. Hüglin” in
Orientamenti sociali sardi, 2000/2 37 ss.
[3] Per la indicazione dei testi di Cicerone, Gaio,
Giuliano, Elio Gallo, Paolo, e Ulpiano e di Adriano e Giustiniano rinvio al mio
studio Res publica res populi. La legge e la limitazione del potere,
Torino 1996.
[4] Sulla natura giuridica del Municipio, vedi
Giovanna Mancini, Cives Romani
municipes Latini, Milano 1996 (ivi, fonti e dottrina).
[5] Maria Pia Baccari,
"Il
concetto giuridico di civitas augescens: origine e continuità" in SDHI,
61, 1995, 759 ss.
[6] Claudia Petraccone,
"Prefazione" a Federalismo e autonomia in Italia dall’unità ad
oggi, Laterza, Roma–Bari 1995
[7] Da non confondere con la ‘globalizzazione’, di cui
è, invece, la vera alternativa (v., infra, al prgf. III.2.a.
±, l’esempio di Porto Alegre).
[8] P. Pinna,
“La crisi dell’autonomia speciale e la riforma dello Statuto”, in Orientamenti
sociali sardi, anno vi n.2, luglio – dicembre 2001, p.21.
[9] Penso soprattutto ai “Principi” (su cui, vedi
Costantino Mortati, cit.) ma non solo; cfr, infra, la nota seguente.
[10] Penso alla previsione costituzionale della
partecipazione delle Regioni alla programmazione nazionale (artt. 115 e 117 della
Costituzione e legge 142 del 1990, secondo la interpretazione della Corte
costituzionale, sentenza n.87 del 28/3/1996) ed alla previsione costituzionale
(integrata ora dal decreto legislativo 363 del 1999) della partecipazione della
Regione Sardegna alla conclusione da parte della Repubblica italiana di
trattati internazionali che la concernono (su cui, vedi P. Fois, “Sulla partecipazione della
Regione Sardegna all’elaborazione dei trattati” in Rivista di diritto
internazionale privato e processuale, 2000/2 p.375 ss.)
[11] L’art. 2 di tale legge afferma che “il comune è
l’ente locale che rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e ne
promuove lo sviluppo” ed altrettanto afferma a proposito della Provincia “ente
locale intermedio tra comune e regione”. Si veda, in proposito, P. Maddalena, “Relazione del Procuratore
Regionale della Corte dei Conti presso la sezione giurisdizionale del Lazio”,
in occasione della cerimonia di apertura dell’anno giudiziario 2000 nel sito
Internet www.amcorteconti.it/relazioni2000.htm,
Roma 13/01/02, il quale (citando Jhering e Rousseau) osserva che “il vero
soggetto, per l’ordinamento giuridico, non è l’ente ma la comunità ... come lo
fu per i Romani”. Cfr. Daniela Bonacina,
La ascesa e il declino della divisione del lavoro e della rappresentanza
politica e il ritorno al Diritto (anche pubblico) romano (titolo
provvisorio), tesi di laurea in corso di perfezionamento, Sassari 2002.
[12] Su cui A.F. Pollard, The evolution of Parliament,
Longmans, Green & Co., 1926 p.107 e N. Wilding
– Ph. Laundy, An Encyclopedia of Parliament, Cassell,
London, 1958, p.354; cfr. Serena Minunno,
Comuni e Parlamento (titolo provvisorio), Tesi di laurea in corso di
perfezionamento, Sassari 2002. Circa la penetrazione del Diritto romano (con la
mediazione del Diritto canonico) nel Common Law, v. J. Martínez-Torrón, Derecho angloamericano y derecho
canónico. Las
raíces canónicas de la "common law", Madrid 1991.
[13] Su cui v. ancora Daniela Bonacina, La ascesa e il declino della divisione del
lavoro e della rappresentanza politica e il ritorno al Diritto (anche
pubblico) romano cit..