L. SOLIDORO MARUOTTI*
ONERE PROBATORIO
DI RIVENDICA
1. – In un precedente contributo[1], pubblicato recentemente su questa
rivista, ho tentato di illustrare alcuni profili storico-comparatistici
Nell’ambito della scienza
processualistica e comparatistica moderna, si qualifica come ‘rivendica romana’,
o ‘modello romanistico di rivendica’, l’azione con cui il proprietario
spossessato chiede il riconoscimento del suo diritto nei confronti del
possessore illegittimo e, per conseguenza, la restituzione del bene[2]. In questo tipo di azione il
possessore convenuto in giudizio assume una posizione privilegiata,
efficacemente sintetizzata nella formula commodum
possessionis (richiamata, ad es., in D. 40. 12. 12. 3). Egli non ha nulla
da provare, in quanto sussiste – secondo l’insegnamento della
dottrina francese[3]– una presunzione di
titolarità, legata al possesso
L’estrema difficoltà della prova
del diritto cui il rivendicante viene chiamato -non a caso definita, in
età medioevale, probatio diabolica[5] – è
ben nota; e infatti, nessuno può ritenersi sicuro di essere proprietario
se non lo era il suo autore, l’autore del suo autore e così via
all’infinito, fino a risalire a un acquisto a titolo originario.
Tuttavia, questa estensione dell’oggetto della prova (logica
teoricamente, ma assurda sul piano pratico, almeno a partire
dall’età giustinianea) già presso gli antichi Romani aveva
trovato un rimedio nell’istituto dell’usucapione. L’acquisto
Ma il momento rimediale non poteva, in
età romana -così come non può oggigiorno- restare confinato
nel solo campo della procedura, dal momento che il rimedio processuale non
è che uno strumento idoneo a proteggere l’interesse o il bene
giuridico[8]. In altri termini, la struttura
della rivendica appena descritta presupponeva – e ancora oggi presuppone-
qualcosa di preciso e di ben definito sul piano
Sussiste dunque, per antica tradizione, un nesso di interdipendenza tra nozione assoluta
della proprietà cd. romanistica (nell’ambito
Nell’ambito
Coerentemente con questa scelta, in Italia
(art. 948 c.c.) e in
In Francia, invece, alla solenne declamazione
sul piano
2. – Difatti, l’applicazione della
cd. rivendica romanistica e della nozione assoluta della proprietà, come
ben sappiamo, non costituiscono affatto l’unica soluzione possibile in
materia di rapporti proprietari. Nel sistema giuridico di common law tanto i rapporti proprietari, tanto la loro tutela processuale,
si sono sviluppati secondo schemi radicalmente diversi dai nostri, in quanto
mutuati dai concetti franco-germanici della Gewere
e della saisine[14]. Se il cd. modello franco-germanico
dei rimedi reipersecutori presenta considerevoli differenze rispetto alla
rivendica romana, ciò si deve al fatto che gli antichi diritti
franco-germanici e il common law
attuale, attraverso un processo evolutivo plurisecolare, hanno orientato il
loro sistema di azioni a tutela dell’appartenenza dei beni non intorno
all’idea (romano-classica) astratta e assoluta di proprietà, ben
distinta dal possesso, bensì sul fondamento della Gewere e della saisine,
forme di appartenenza non esattamente riconducibili alla coppia romana
proprietà-possesso[15]. Volendo utilizzare categorie a noi
familiari, potremmo definire l’appartenenza franco-germanica come un uso
e un godimento della cosa tutelati dall’ordinamento, oppure come uno
stato di fatto possessorio elevato a titolo, o ancora come un ‘diritto di
possedere’ in forza di una concessione feudale.
Data questa antica configurazione
dell’appartenenza dei beni, nel sistema franco-germanico non è mai
esistita un’azione unica a tutela della ‘proprietà’,
ben distinta dai rimedi volti al recupero del possesso: da un’antica
azione preposta alla tutela generica dell’appartenenza si è poi
articolata una pluralità di rimedi reipersecutori, una sorta di scala di
azioni, ordinata gerarchicamente in ragione della situazioni più o meno
dense dell’appartenenza, cui si intendeva apprestare tutela[16]. Una serie di documenti processuali
relativi al diritto medioevale dimostra che le parti in contesa riguardo a un
immobile (Land) potevano avere
entrambe un qualche genere di saisine,
sicché la questione si incentrava su quale dei due contendenti aveva la saisine ‘migliore’[17]. Così, il giudizio che si
instaurava con l’esercizio di questi rimedi assumeva la struttura
Attualmente, nell’area di common law la situazione non è
molto cambiata. A distanza di secoli, qualcosa della
‘relatività’ dei diritti sulla terra e della connessa tutela
processuale è sopravvissuto al feudalesimo. Secondo quanto ancora
attualmente si insegna, ciò che l’attore invoca in un’azione
volta al recupero
Oggi, come allora, nel giudizio comparativo non
spetta alla sola parte attrice fornire la prova di un titolo assoluto,
perché le parti competono nella prova
In sostanza, la dottrina inglese del
XIX secolo si è dimostrata ben consapevole
L’approfondimento, sul piano
storico, di questi differenti assetti dogmatici, caratterizzanti i Paesi di civil law e di common law, ci sembra sollecitato da due ordini di ragioni. In
primo luogo, attualmente, il dogma dottrinale (in qualche caso recepito,
più o meno esplicitamente, anche a livello normativo, come in Italia e
in Germania), per cui alla proprietà assoluta in ambito sostanziale
debba corrispondere sul piano processuale la rivendica romana, e, viceversa,
all’appartenenza di tipo franco-germanico debbano corrispondere i giudizi
comparativi, è un assunto che si è seriamente incrinato di fronte
all’imporsi di numerose regole operative, affermatesi innanzitutto in
Francia, come già si è accennato, poi anche in Italia (per
l’attenuazione del tradizionale rigore probatorio addossato
all’attore nelle frequenti ipotesi di ammissioni del convenuto[22]) e –in direzione opposta- in
Inghilterra. Secondariamente, l’osservazione analitica delle origini
storiche di queste differenti esperienze giuridiche non corrisponde in pieno al
quadro piuttosto sommario che viene generalmente rappresentato in materia dai
cultori
Tenterò di chiarire
innanzitutto tale ultima problematica. Benché possa dirsi
senz’altro corretta l’identificazione, effettuata da civilisti,
processualisti e comparatisti, della tutela romana delle forme più dense
dell’appartenenza con la rivendica, caratterizzata dall’onere
probatorio gravante sul solo attore e vertente sul titolo assoluto della proprietà,
tuttavia occorre ricordare che il diritto romano conobbe e praticò,
oltre a questo tipo di rivendica (collegata, sul piano del diritto sostanziale,
a una nozione assoluta di proprietà), anche un rimedio sfociante in un
giudizio comparativo, nel corso del quale ambedue le parti processuali venivano
chiamate a fornire la prova del loro titolo (‘relativo’), per
vedersi riconoscere dal giudicante un diritto poziore (ma non necessariamente
‘assoluto’) al possesso, rispetto alla controparte[23].
3. – A questo
meccanismo sembra che si rapportasse appunto, nell’età arcaica di
Roma, il carattere indifferenziato della rivendica[24]:
originariamente, nell’antica legis
actio sacramenti in rem, la solenne affermazione di potere -trasfusa nel meum esse aio- oltre ad adattarsi
indistintamente alla tutela di tutte le situazioni potestative facenti capo al pater familias, valeva a connotare la posizione
processuale di ambedue i contendenti, dunque non soltanto della parte attrice[25]:
Gai 4.16 (con PSI XI 1182): Si in rem agebatur,
mobilia quidem et moventia, quae modo in ius adferri adducive possent, in iure
vindicabantur ad hunc modum: qui vindicabat, festucam tenebat: deinde ipsam rem
adprehendebat, veluti hominem, et ita dicebat: HUNC EGO HOMINEM EX IURE
QUIRITIUM MEUM ESSE AIO SECUNDUM SUAM CAUSAM. SICUT DIXI, ECCE TIBI VINDICTAM
IMPOSUI, et simul homini festucam imponebat. Adversarius eadem similiter
dicebat et faciebat. Cum uterque vindicasset, praetor dicebat: MITTITE AMBO
HOMINEM; illi mittebant. Qui prior vindica <verat, ita alterum interroga>bat: POSTULO ANNE DICAS, QUA EX
CAUSA VINDICAVERIS. Ille rispondebat: IUS FECI SICUT VINDICTAM IMPOSUI. Deinde
qui prior vindicaverat dicebat: QUANDO TU INIURIA VINDICAVISTI, D AERIS
SACRAMENTO TE PROVOCO; adversarius quoque dicebat similiter: ET EGO TE
(…); postea praetor secundum alterum eorum vindicias dicebat, id est
interim aliquem possessorem constituebat, eumque iubebat praedes adversario
dare litis et vindiciarum, id est rei et fructuum (…). Festuca autem
utebatur quasi hastae loco, signo quodam iusti dominii; quod maxime sua esse
credebant quae ex hostibus cepissent rell.
Dalla descrizione contenuta nelle Istituzioni
gaiane (4.16), apprendiamo che nell’antica procedura le parti erano
(almeno nella fase iniziale) collocate sullo stesso piano, senza essere
inquadrate rigidamente nei precisi ruoli di attore e di convenuto: ambedue
effettuavano dichiarazioni solenni e identiche, nella forma e nel contenuto,
con cui affermavano la titolarità del medesimo diritto (aio hanc rem meam esse ex iure Quiritium).
La bilateralità della più antica actio in rem[26] è chiaramente attestata
anche in:
Gell. 20.10.9: … in ius in urbem ad
praetorem deferrent et in ea gleba tamquam in toto agro vindicarent.
Plaut. Rud. 4.3.90: Gr.: nescio neque ego istas vestras leges
urbanas scio, nisi quia hunc meum
esse dico.
Tr.: et ego item esse aio meum.
Cic. pro Mur. 12.26: Cum hoc
fieri bellissime posset: «Fundus Sabinus meus est ».
«Immo meus », deinde iudicium, noluerunt rell.
Boet. ad Cic. top. 3.5.28:
deinde, postquam hic vindicaverit, praetor interrogat eum qui cedit an contravindicet.
Probabilmente, l’effettuazione
del sacramentum-sfida (attraverso cui
si perveniva alla decisione, nel contrasto tra i litiganti) si può
interpretare come il residuo storico dell’ordalia relativa a un
‘duello’, sul quale si fondava la sentenza nei tempi più
antichi[27]. In ogni caso, era inevitabile che
questa struttura dell’azione si riflettesse sulla posizione delle parti
in ordine alla dimostrazione da fornire. Sarebbe certamente improprio e
anacronistico presupporre, con riferimento alla fase più arcaica della
procedura sacramentale, l’esistenza di una vera e propria regola
sull’attribuzione dell’onere probatorio[28]; ciononostante, la struttura
dell’azione lascia presumere che il giudicante dovesse valutare gli
argomenti addotti in ordine ad ambedue le affermazioni di meum esse aio, indipendentemente da una eventuale assegnazione
interinale
Sembra difficilmente contestabile che in questo
meccanismo procedurale sia dato ravvisare una ‘tutela relativa’
della proprietà[30]. Secondo quanto inequivocabilmente
attesta Gai 4.16, le parti processuali pronunciavano dichiarazioni uguali e
contrarie (…cum uterque vindicasset…);
che la posizione dei litiganti fosse assai poco differenziata risulta anche dal
fatto che Gaio non qualifica le parti come attore e convenuto[31], distinguendo piuttosto solo colui qui prior vindicaverat dall’adversarius. Se ne è pertanto
dedotto –e, a mio avviso, correttamente- che la duplicità delle
affermazioni di meum esse aio
(nonché la reciproca sfida al sacramentum
circa la ‘conformità al diritto’ di tali simmetriche
affermazioni) dovesse comportare una duplicità
Ignoriamo, però, non solo chi, tra i due
contendenti, fosse il primo a pronunciare solennemente la sua pretesa, ma anche
quale parte processuale venisse per prima chiamata dal giudice alla
dimostrazione. Un indizio in favore della tesi, sostenuta dal Pugliese[33], che a procedere per primo alla
solenne rivendicazione della res
litigiosa fosse il soggetto privo
Per corroborare l’ipotesi che la
posizione
In ogni caso, anche gli elementi addotti dal
Cannata[37] al fine di dimostrare che il
soggetto indicato da Gaio (4.16) come qui
prior vindicaverat era piuttosto il convenuto, come si illustrerà
più avanti, non sembrano pienamente convincenti[38]. E infine, pure la congettura,
astrattamente plausibile, elaborata da Arangio-Ruiz[39], secondo cui i litiganti
pronunciavano contemporaneamente i verba
sollemnia della vindicatio,
accompagnati dagli atti rituali corrispondenti, pare trovare una smentita nel
resoconto delle fonti sopra citate, che invece attestano il succedersi delle
due affermazioni in momenti distinti.
Quanto poi all’oggetto e all’onere
della dimostrazione, il Kaser[40] ha congetturato (sotto la suggestione
esercitata dallo svolgimento del giudizio comparativo franco-germanico,
improntato sull’Anefang[41]) che anticamente la difesa
dell’appartenenza fosse caratterizzata dalla maggiore difficoltà
della posizione processuale del possessore convenuto in giudizio, rispetto alla
posizione di qui prior vindicaverat:
nel senso che il convenuto, in quanto sospettato di furto, prima ancora di
potere fornire la prova della legittimità del suo rapporto materiale con
la res litigiosa, avrebbe dovuto
dimostrare di non essere un ladro, perché, in caso contrario, sarebbe
stato considerato responsabile dell’illecito penale. Si tratta
però di una supposizione non suffragabile da robuste prove testuali (se
si eccettua il possibile riferimento contenuto nella locuzione solenne quando tu iniuria vindicavisti D aeris
Ciò che invece le fonti sembrano
autorizzarci ad ipotizzare è che il giudice dovesse procedere a una valutazione comparativa delle prove addotte dai due contendenti, aggiudicando
infine la res al titolare
Si è già segnalata la scarsa
consistenza degli elementi sulla cui base il Kaser ha avanzato l’ipotesi che l’onere probatorio,
nell’antica rivendica romana, gravasse -esclusivamente, o almeno in prima
battuta- sul convenuto (il quale avrebbe dovuto dimostrare di essere
proprietario, per scagionarsi dal sospetto di furto). Appare invece difficilmente
superabile un’altra considerazione, di carattere più generale:
negli ordinamenti giuridici poco sviluppati[45], il compito di
provare la proprietà viene costantemente attribuito ad ambedue i
contendenti. La ripartizione dell’onere probatorio, nelle più
antiche azioni a tutela dell’appartenenza, si è infatti
riscontrata, oltre che nei precedenti storici dell’Anefang germanica, anche nella diadikasìa
dei diritti greci[46] e negli
istituti processuali egizi, babilonesi, russi, sassoni e danesi[47]. Tale
constatazione rende verosimile l’ipotesi che anche nella romana l.a.s.i.r, in quanto contesa incentrata
su di un ‘diritto al possesso poziore’ (qualificabile, con Kaser,
‘proprietà relativa’[48]), non si richiedesse
a nessuno dei due contendenti di fornire la prova assoluta
Sul piano
Alla luce di
queste linee ricostruttive, si profilano due conclusioni tra loro parzialmente
interdipendenti: innanzitutto, con riguardo alla fase arcaica, sono
effettivamente individuabili (anche se in linea largamente ipotetica) gli
elementi di una corrispondenza tra l’assenza di una chiara tricotomia
possesso-proprietà-diritti reali limitati, sul piano del diritto
sostanziale, e, sul piano processuale, la configurazione di un rimedio posto a
tutela dell’appartenenza implicante un giudizio comparativo, nel corso
del quale ambedue i contendenti erano, verosimilmente, chiamati alla prova
delle loro affermazioni. In secondo luogo, sulla base delle considerazioni
appena svolte, si dovrebbe senz’altro asserire –con Kaser-
l’antica esistenza di una ‘proprietà relativa’[51], sussistendo,
però, una condizione: la chiara attestazione, nelle fonti romane,
dell’inopponibilità della sententia
(favorevole alla parte che avesse dimostrato il titolo poziore,
nell’ambito di un giudizio comparativo) nei confronti del vero
proprietario, rimasto estraneo alla contesa. Ma l’ambiguità dei
testi non consente conclusioni pienamente affidabili sul punto[52]. D’altra
parte, va sottolineata la debolezza delle argomentazioni da taluno addotte
contro l’esistenza di una ‘proprietà relativa’
nell’età romana arcaica: l’ “exclusive character”[53] della solenne
dichiarazione del meum esse aio,
effettuata dai litiganti nel corso della l.a.s.i.r,
quale affermazione di un potere esclusivo sulla cosa, a nostro avviso era solo
incompatibile con la configurazione dell’appartenenza come
‘proprietà divisa’ (c.d. geteiltes
Eigentum, in cui le facoltà connesse allo sfruttamento di un bene
sono distribuite tra più soggetti), ma non certo con la
‘proprietà relativa’, in ordine alla quale titolare del
diritto (in via esclusiva) è colui che ha posseduto il bene per un periodo di tempo (relativamente)
più lungo (rispetto all’avversario[54]), o in base a un titolo
(relativamente) poziore (in confronto a quello vantato dalla controparte)[55].
Ciò non escludeva la possibilità
dell’esistenza, accanto a forme di appartenenza relativa, di alcuni diritti
assoluti: particolari modi di acquisto, quali l’uso acquisitivo (originato
dall’usus auctoritas),
l’acquisto per in iure cessio,
o l’occupatio costituirono
probabilmente il prototipo della ‘proprietà assoluta’[56]. Nella fase più risalente,
però, tali situazioni costituivano certamente una eccezione, e non va
trascurata la possibilità –altamente verosimile- che in età
predecemvirale l’ usus auctoritas
non fosse ancora configurato come un uso acquisitivo rigidamente ancorato ai termini
annuale e biennale, ma che corrispondesse solo ad un rapporto materiale con il
bene, soggetto a progressiva consolidazione con il decorso del tempo[57]. Comunque, in ipotesi di
titolarità di un diritto di proprietà in senso assoluto (per uso
acquisitivo annuale o biennale, per acquisto tramite in iure cessio, o per occupazione), il soggetto avrebbe ricevuto
tutela nei confronti di chiunque altro, pur mantenendosi inalterata la
struttura della l.a.s.i.r. come giudizio
comparativo[58]: semplicemente, il ‘proprietario
assoluto’ sarebbe sempre stato in grado di fornire una dimostrazione
più soddisfacente rispetto a quella dell’avversario in giudizio e
di qualunque altro terzo.
4. – Nel corso dei secoli
successivi, l’assetto ora illustrato subì modifiche di considerevole
portata. Agli albori del II sec. a.C. cominciò a delinearsi con maggiore
precisione, e a generalizzarsi, quella nuova nozione della proprietà,
esclusiva, unitaria e assoluta (sconosciuta agli altri diritti coevi, tra cui i
diritti greci) che poi è passata alla storia
Dell’affermazione di
una nozione di proprietà assoluta, ben distinta dalla possessio, abbiamo un chiaro riscontro
nel campo della tutela processuale[60]:
l’introduzione di un’azione specifica per la protezione della
proprietà dei beni (dominium ex
iure Quiritium), e cioè l’actio
in rem per sponsionem[61] prima, e poi, nell’ambito
della procedura formulare, la formula
petitoria[62].
Ho già altrove segnalato[63] che i due nuovi procedimenti
comportavano l’unicità
E’
comunque innegabile che la nuova disciplina tendeva a rendere difficile, o
quanto meno impegnativa, la posizione della parte attrice e a privilegiare, per
contro, il convenuto-possessore (il quale, non dovendo provare il proprio titolo, sarebbe stato
esclusivamente tenuto a contestare la validità della dimostrazione
fornita dall’attore). Ma lo ‘sbilanciamento’ (tale,
ovviamente, rispetto all’asserita perfetta bilateralità
dell’antica l.a.s.i.r.),
contrariamente alle apparenze, non si rivelava favorevole sempre e comunque al
presunto usurpatore (quello, cioè, che nella ricostruzione del Kaser,
doveva anticamente dimostrare di non essere fur),
bensì, per lo più, alla sua vittima. Comparvero ben presto,
infatti, alcuni meccanismi processuali atti a compensare la scomoda posizione
dell’attore-non possessore, o, più precisamente, idonei ad attribuire
la gravosa necessitas probandi alla
parte processuale che appariva prima
facie meno meritevole di tutela. Secondo quanto attestano Gaio (4.148) e
Ulpiano (D. 43.17.1.3), con l’introduzione dell’ interdictum uti possidetis e dell’interdictum utrubi, oltre a risolversi
preliminarmente la controversia possessoria tra i litiganti, si stabilivano i
ruoli delle parti nella successiva azione di rivendica: colui che, dimostratosi
vittima delle turbative, usciva vittorioso dal procedimento interdittale, avendo
conseguito il possesso della res
litigiosa risultava legittimato passivo alla rivendica, in cui assumeva la
comoda posizione di convenuto (c.d. commodum
possessionis). Così, l’ ‘attore’-non possessore
dell’antica l.a.s.i.r. nei
nuovi meccanismi della rivendica formulare si ritrovava ora, dopo
l’esercizio
Al riguardo, va osservato come una
tale evoluzione del rimedio posto a tutela della proprietà –che
sostanzialmente riconosceva il commodum
possessionis con maggiore frequenza non al presunto ladro, bensì
alla presunta vittima dell’usurpazione- si ponga perfettamente in linea
con quanto ipotizzato dal Kaser, circa l’antica attribuzione
dell’onere probatorio al possessore-presunto fur. Corrobora questa ricostruzione un ulteriore dato: nella
rivendica formulare, la distinzione dei ruoli delle parti si determinava sulla
base dell’assegnazione del possesso interinale (vindiciae), da parte del magistrato, ad uno dei due contendenti
(Gai 4.16: … postea praetor
secundum alterum eorum vindicias dicebat, id est interim aliquem possessorem
constituebat rell.), indipendentemente dalla situazione possessoria
antecedente la lite (Gai 4.16: …
mittite ambo hominem [rem] rell.)[71]. L’esposizione gaiana sembra
non lasciare dubbi sul fatto che la res
litigiosa potesse essere affidata dal praetor
ad uno qualunque dei contendenti (probabilmente a colui che avesse offerto
migliori garanzie, ma non si può escludere che ai fini
dell’assegnazione il magistrato tenesse invece conto della migliore
apparenza di diritto); comunque, nell’ipotesi in cui le vindiciae fossero state assegnate
all’attore, costui, assumendo il ruolo di convenuto, si sarebbe avvalso
del commodum possessionis, sgravandosi
dell’onere probatorio.
In definitiva, per quanto concerne
la fase storica corrispondente agli ultimi due secoli della Repubblica romana,
si può riscontrare un nesso tra l’affermazione di una nozione
unitaria e assoluta della proprietà, sul piano del diritto sostanziale,
e la comparsa di meccanismi processuali finalizzati a una tutela specifica
della proprietà assoluta dei beni; tale protezione risulta incentrata
sulla netta differenziazione delle posizioni processuali di attore e convenuto
e sulla attribuzione dell’onere probatorio al solo rivendicante-non
possessore.
Questo assetto, che tanto successo
ha poi riscosso nell’evoluzione
5. – Della vicenda legata alla comparsa
della c.d. proprietà pretoria, si può dire che il momento rimediale
ha chiaramente preceduto i mutamenti poi verificatisi sul piano del diritto
sostanziale: infatti, fu l’introduzione dell’actio Publiciana, modellata sullo schema della rei vindicatio, a fare assurgere al rango di situazione
proprietaria (piuttosto che di semplice situazione possessoria ad usucapionem) in un primo momento la
condizione dell’acquirente di res
mancipi, cui la cosa fosse stata trasferita senza le formalità della
mancipatio, e poi il possesso di chi
avesse acquistato in buona fede, anche se a
non domino[72]. Oggetto della prova in Publiciana
non era ovviamente il titolo assoluto, ma la traditio e il giusto titolo
Dunque, come attesta Gaio[74], il dominium, che per un breve periodo di tempo era stato unitario, si
era nuovamente scisso (divisionem accepit
dominium) ed era così divenuto duplex,
potendosi articolare in dominium ex iure
Quiritium e in bonis esse. Ma se,
da un lato, il dominio era divenuto ‘doppio’ (nel senso che la
duplicità delle forme di appartenenza non si era sviluppata internamente
al medesimo sistema giuridico, ma costituiva la proiezione di due sistemi
giuridici diversi, lo ius civile e lo
ius honorarium[75]), per altro verso è anche
vero che la tutela processuale publiciana aveva indirettamente introdotto un sistema
di proprietà funzionalmente divisa
(cd. geteiltes Eigentum). Infatti, la
divisio
Inoltre, osservando questa vicenda da una
diversa angolazione, si può affermare che l’ingresso
nell’ordinamento giuridico romano dell’in bonis esse quale rapporto parallelo e concorrente con il dominium ex iure Quiritium aveva anche
connotato la proprietà in genere come una situazione potenzialmente solo
‘relativa’[77]. Infatti, per il caso in cui fosse
stata trasferita una res mancipi con
semplice traditio, il dominus ex iure Quiritium non sarebbe
stato processualmente tutelato nei confronti di tutti i terzi, in quanto la sua
condizione di proprietario civilistico sarebbe risultata opponibile a chiunque,
tranne che all’in bonis habens.
Viceversa, nell’ipotesi (ammessa probabilmente in un momento successivo)
di acquisto in buona fede a non domino,
l’in bonis habens sarebbe stato
tutelato nei confronti di tutti, ma non nei confronti del dominus ex iure Quiritium (il quale avrebbe efficacemente opposto
la replicatio iusti dominii, in
quanto rimasto estraneo all’atto traslativo): in questa fattispecie, il dominium ex iure Quiritium si
prospettava come ‘proprietà assoluta’, l’in bonis esse, invece, come
‘proprietà relativa’.
Sotto tale profilo, perciò, se è
vero che la Publiciana, contrapponendosi alla formula petitoria (strumento di tutela della
‘proprietà assoluta’), assumeva il ruolo e la struttura che
avevano caratterizzato la l.a.s.i.r.[78], è pure vero che
l’indiretto riconoscimento dell’in
bonis esse come rapporto proprietario aveva reso anche la formula petitoria un mezzo di tutela
solo ‘relativo’ della proprietà, in quanto inidoneo a far
prevalere il proprietario civilistico, in ipotesi di lite tra
quest’ultimo e un in bonis habens
(divenuto tale a seguito di acquisto informale a domino).
La conclusione che si può trarre da
queste sintetiche considerazioni è che con riguardo all’età
del Principato, in linea di massima, sembra riproporsi il rapporto simmetrico
(già osservato per l’età arcaica, seppure con
caratterizzazioni ben diverse) tra pluralità di forme proprietarie e
relatività della tutela processuale, incentrata sulla prova non
necessariamente rigorosa
6. – Veniamo ora all’età
Tanto l’area ellenistica,
quanto l’area franco-germanica non avevano mai praticato una netta distinzione
tra possesso e proprietà. Si è già accennato che numerosi
diritti dell’antichità conoscevano soltanto una generica nozione
di godimento dei beni (che nella Gewere era
peraltro frazionabile tra più soggetti, in relazione alle utilità
offerte dal bene: geteiltes Eigentum)
e che tale stato di godimento, suscettibile di rafforzamento con il decorso
L’ambigua figura giuridica
della Gewere era certamente
consistente nell’uso e nel godimento
Sul piano processuale, quando la
controversia sulla Gewere verteva non
sulla titolarità della medesima facoltà di godimento del bene, ma
sulla durata del rapporto materiale con la cosa (dal momento che
l’ordinamento germanico non prevedeva termini ai fini dell’uso
acquisitivo, come era invece per il diritto romano), il giudicante doveva
addivenire a valutazioni di tipo comparativo, apprestando una tutela solo
‘relativa’[85].
Benché per l’età più
risalente ci si possa basare quasi esclusivamente sulle esigue testimonianze contenute
a tal riguardo nelle fonti letterarie romane[86], data la ben nota avversione dei
barbari per la scrittura, da documenti risalenti ai secoli VII-XI d.C. risulta
che nei giudizi susseguenti alla violazione della Gewere ambedue le parti processuali -cioè colui che
lamentava lo spoglio e l’attuale possessore- dovevano fornire le prove
del titolo che le abilitava al godimento del bene[87]. La Gewere sottostava alle regole comuni a tutte le controversie
Anche quando il duello non avvenne più
nella forma dello scontro fisico, la prova ordalica mantenne alcune delle sue
antiche caratteristiche. Sicché, dal momento che la dimostrazione
costituiva, al tempo stesso, lo strumento di difesa e la decisione della lite,
non veniva espletato nessun processo di cognizione: il regolamento si
effettuava non attraverso la conoscenza
dei fatti, bensì sulla sola base di un confronto disciplinato normativamente, che avrebbe consentito alle
parti in lite di affermare la propria superiorità fisica o morale non in assoluto, ma solo relativamente,
cioè solo nei confronti dell’avversario[89].
7. – Gli influssi esercitati dal diritto
romano su parte
La particolare struttura dell’azione
processuale in materia di appartenenza dipendeva strettamente dalla originaria
confusione
Come si è già segnalato, mancano
elementi per asserire la diffusione in area romana delle concezioni
ellenistiche e franco-germaniche in materia di appartenenza. E’
però innegabile che in età
tardo-imperiale ricomparvero forme di ‘proprietà divisa’ e
di ‘proprietà relativa’: ne fu conseguenza, in ambito processuale,
l’abbandono di quegli aspetti della tutela giudiziaria
dell’appartenenza che risultavano inscindibilmente legati alla nozione
assoluta di dominium e alla sua netta
diversificazione rispetto agli altri iura
in re e al possesso. Di fatto, questi cambiamenti realizzarono
un’assimilazione alle strutture processuali in uso presso i Greci e i
Germani.
Mi limito qui a ricordare come anche nella
prassi romana dell’età
A prescindere da questa eventualità,
comunque, il quadro offerto dalle fonti sembra consentire la conclusione che
fosse stato soprattutto il progressivo sfaldamento della linea di confine tra possessio, dominium e iura in re, in
atto tra IV e V sec., ad avere reintrodotto forme di tutela relativa della
proprietà, sfocianti nei giudizi comparativi.
E’ difficile dire se tale soluzione
fosse di matrice genuinamente romana, o derivata da modelli provenienti dal
mondo provinciale: in particolare, un provvedimento di Arcadio, da me già altrove esaminato (CTh.
11.39.12[95]), relativo alla prassi,
probabilmente invalsa nei tribunali orientali, di costringere il
convenuto-possessore all’immediata enunciazione del proprio titolo, sembra
rispecchiare (casualmente?) la struttura processuale in uso presso i popoli
franco-germanici.
Proprietà relativa e giudizi comparativi
scomparvero, poi, con l’avvento di Giustiniano e con il conseguente
ritorno al binomio classico proprietà/possesso e agli strumenti di
tutela processuale ad esso relativi[96]. Nel ripristino del sistema
proprietario classico non mancò, tuttavia, una macroscopica smagliatura:
benché l’abolizione di ogni differenza tra dominium ex iure Quiritium e in
bonis esse avesse dovuto comportare la soppressione dell’azione
Publiciana e la sopravvivenza della sola
rivendica, i bizantini scelsero di conservare entrambe le azioni (D.
6.1; D. 6.2), circoscrivendo però il ricorso alla Publiciana
all’ipotesi di acquisto in buona fede a
non domino (D. 6.2.1 pr.). Schema, questo, che si è poi mantenuto
pressoché inalterato fino all’età moderna[97].
Ma la riorganizzazione giustinianea dei
rapporti proprietari secondo il modello romano-classico si dimostrò
effimera. Nell’Alto Medioevo, l’organizzazione terriera feudale
debellò quasi ovunque la forma proprietaria
8. – Nel frattempo, i Paesi più
marcatamente permeati dalle esperienze franco-germaniche della saisine e della Gewere continuavano a ignorare in modo radicale la netta
distinzione tra possesso, diritti reali limitati e proprietà, e, con
essa, anche la protezione processuale dell’appartenenza nella forma della
rivendica romano-classica, caratterizzata dalla imposizione dell’onere
probatorio alla sola parte attrice.
Così, il giudizio comparativo ha
continuato a trovare applicazione in Inghilterra, nella giurisdizione in Equity e nel common law tradizionale, dove è tuttora applicato con la
designazione di criterio del better title[99]. Va
considerato che il diritto inglese è rimasto sensibile, fino a tempi
recenti, alle concezioni feudali del regime immobiliare ed ha quindi praticato
la scissione dei rapporti proprietari in domini diretti e domini utili; in un
simile contesto, non poteva trovare alcuna giustificazione la netta distinzione
tra possesso (stato di fatto), diritti reali limitati e proprietà, che
invece contraddistingue gli ordinamenti a base romanistica. Ne consegue che,
per antica tradizione, al rivendicante non si è chiesta la prova
Corollario di questa particolare configurazione
sostanziale e processuale dell’appartenenza dei beni è
l’assenza, nel common law, di
una distinzione dicotomica tra azioni possessorie e petitorie. Perciò,
tuttora si insegna che ciò che l’attore invoca in un’azione
per il recupero
Eppure, negli orientamenti anglosassoni non
mancano punti di contatto con il sistema adottato dai Paesi romanisti. Secondo
un detto che si fa risalire al Chief
Justice Lee[103], nell’azione di ejectment (in cui la parte attrice
è priva dell’ actual
possession
L’impostazione di Holdsworth risulta
apparentemente contraddittoria con le tradizionali concezioni del common law; ma essa, in realtà,
va collegata, oltre che con l’innegabile suggestione esercitata dal
modello romanistico della rivendica, anche con recenti problematiche giuridiche
proprie del mondo anglosassone; mi riferisco in particolare alle regole
concernenti quella specie di Real
property che prende il nome di Registered
Land e che riguarda gli immobili per i quali sia stata effettuata
l’iscrizione nell’apposito Register.
La nuova disciplina ha preso l’avvio a partire dal 1862[110], con l’emanazione di alcuni
provvedimenti legislativi[111] che hanno riordinato la
proprietà fondiaria attraverso un sistema di registrazione facoltativa o
obbligatoria (compulsory registration).
Benché la registrazione non abbia efficacia né costitutiva,
né dichiarativa[112], l’importanza e
l’incidenza di questa ‘nuova proprietà’ si è
andata accrescendo rapidamente. Inizialmente, i manuali inglesi hanno trattato
questo fenomeno alla stregua di una eccezione rispetto alla disciplina generale.
D’altronde, la registrazione con absolute
title rende il proprietario sicuro solo se il Register non subisce rettifiche contro di lui. E, considerata anche
l’ampia discrezionalità
Tornando ora alle
summenzionate divergenze tra sostenitori e avversari dell’esistenza, nel
diritto inglese, di forme di ‘tutela assoluta’ dell’appartenenza,
va ricordato come sia invece pacificamente ammesso da ambedue gli indirizzi che
nell’azione di ejectment valga
la formula “possession is prima
facie evidence of legal title”[115]; essa comporta
che, ove l’attore dimostri di avere posseduto in precedenza, si presume
che egli sia legittimato a possedere. Pertanto, spetta al convenuto rovesciare
la presunzione, provando per sé e per il suo predecessore un valido
titolo di acquisto, oppure (e qui si verifica una nuova divergenza tra gli
autori inglesi) un possesso che generi una presunzione più forte,
cioè un possesso di più lunga durata rispetto all’attore[116].
Secondo la giurisprudenza prevalente e la
dottrina tradizionale, qualsiasi possesso preterito dell’attore
(purché protrattosi tra i dodici mesi circa e i 15–16 anni al
massimo) prevale sul possesso
9. – Tra il XIX e il XX
secolo, nell’area europea si è diffusa l’idea di una
proprietà unitaria e assoluta, ricalcata sullo schema
Occorre ora verificare come la
struttura dalla rivendica e il diritto probatorio si rapportino alle concezioni
contemporanee dell’appartenenza.
In Europa, il problema della struttura della
rivendica, con particolare riguardo alla legittimazione attiva e alla
ripartizione dell’onere della prova, costituisce un aspetto alquanto
problematico della materia proprietaria. In teoria, le caratteristiche dei
rimedi processuali posti a tutela della proprietà dovrebbero
corrispondere in maniera simmetrica alla natura
Così, è logico che in
Viceversa, in Francia, in Germania e
in Italia – cioè, in Paesi che hanno optato per il ‘modello
romanistico’ della proprietà, intesa in senso unitario e assoluto-
l’azione di rivendica dovrebbe essere unica, riconosciuta al solo
proprietario spossessato, ben distinta dai rimedi possessori, e, infine,
l’oggetto della prova richiesta all’attore dovrebbe essere
costituito dal titolo assoluto (c.d. probatio
diabolica).
Di fatto, questa lineare corrispondenza
è ravvisabile solo in
Le ragioni della
semplicità e della coerenza
10. – La Francia è il Paese in cui
vige il sistema più confuso, complesso e contraddittorio. La ragione
principale
Sul piano
Posta questa premessa piuttosto teorica (e
simmetrica, rispetto alla nozione assoluta di proprietà introdotta, sul
piano
In definitiva, vince chi prova di
avere il titolo migliore, cioè un possesso meglio qualificato di quello
dell’avversario[143]. Quanto ai criteri adottati al riguardo,
nel silenzio
La mancanza di un sistema di prove
assolute (per l’imperfetto meccanismo di registrazione immobiliare) ha
fatto sì che tutta l’attenzione degli interpreti francesi in
materia di rivendicazione si subordinasse al discorso sulla prova; e tutto il
discorso sulla prova si è necessariamente orientato verso la ricerca
Attraverso siffatti argomenti e
attraverso il gioco degli oneri probatori gravanti sulle parti, l’antica
soluzione franco-germanica, poi fatta propria dal common law, si è introdotta nel sistema di civil law francese. Questo risultato
finale è stato razionalizzato a
posteriori dalla dottrina francese, richiamando il principio per cui il
processo civile non è concepito per scoprire e proclamare una
verità assoluta, ma solo per indicare la verità migliore tra
quelle offerte dalle parti[147]. Non sono mancati neppure tentativi
di dare a questo schema processuale un inquadramento dogmatico autonomo. Sulle orme delle ricerche romanistiche di
R. von Jhering, nel 1896 Em. Lévy, immediatamente seguito nelle sue conclusione fondamentali
da R. Saleilles, nel 1907, ha pensato di trasfondere questa particolare
struttura della rivendica francese nell’ambito
E’ evidente come questa pur
esatta conclusione in ordine alla tutela dell’appartenenza in Francia risulti
Un influsso significativo
su tali orientamenti dottrinali e giurisprudenziali francesi è stato
senza dubbio esercitato dalla soluzione adottata con il Codice civile austriaco
Senza rilevare che lo schema processuale
sancito dal legislatore austriaco era strettamente legato alla nozione di
‘proprietà divisa’, accolta sul piano sostanziale
nell’ABGB, anche la dottrina prevalente francese, sulla scia dei Dottori
medioevali e della dottrina francese precodicistica[151], si è adoperata per dimostrare
l’ammissibilità dell’actio
Publiciana nel proprio ordinamento, ammantando di
‘romanità’ una soluzione che aveva invece prevalenti matrici
franco-germaniche: così, al fine di giustificare l’alleggerimento
dell’onere probatorio, tipico del giudizio comparativo, numerosi giuristi
francesi, tra i quali spiccano i nomi di Duranton[152], Troplong[153], Demolombe[154], Aubry e Rau[155], hanno asserito la sopravvivenza
dell’antica azione Publiciana, ammettendone il ricorso. Ma nel sistema
francese -come già per l’età medioevale- il richiamo alla
Publiciana è stato “una pura copertura”[156], utile per giustificare che
all’attore venisse richiesta esclusivamente la prova di un ‘diritto
migliore o più probabile’. In sostanza, la dottrina si richiamava
solo all’idea-base della
Publiciana, senza richiederne affatto i requisiti romano-classici (cosa
suscettibile di essere usucapita, iusta
causa traditionis, buona fede) o giustinianei (acquisto in buona fede a non domino); i giuristi francesi,
insomma, invocavano la Publiciana al precipuo scopo “di attenuare il
rigore della prova imposta all’attore in rivendicazione”[157], citando l’autorità
del Corpus iuris civilis.
La ‘finzione’ sottesa a questa
dottrina è stata presto evidenziata da alcuni romanisti-civilisti, primo
tra tutti il Laurent[158], convinto assertore della nozione
romanistica (assoluta e astratta) della proprietà. La necessità
di assoggettare l’attore in rivendica ad una prova piena
Questa evoluzione dottrinale sembrava destinata
a segnare un nuovo percorso; e invece, nella settima edizione del trattato di
Aubry e Rau[159] si tornava ad affermare
l’esistenza, nel sistema francese, di una specie particolare di azione
“che non è esattamente la Publiciana”, ma che, come quella,
consente di evitare ingiustizie, in quanto ammette l’attore a provare un
diritto migliore del convenuto. I francesi sono pertanto addivenuti a questo
assetto: “in difetto della prova irrefutabile desunta dalla usucapione,
le presunzioni si graduano così: il titolo, il possesso, alcune
circostanze di fatto”[160]. Se, dunque, l’attore produce
un titolo di proprietà, si deve ritenere che egli fornisca una prova
sufficiente
Il dibattito suscitato da queste tematiche ha
infine indotto, sullo scorcio del XIX secolo, a configurare la Publiciana (da
parte di quanti ancora ne ammettono l’applicazione nel sistema
codicistico) non più alla stregua di azione autonoma[166] (come invece era stato nel diritto
romano e comune), ma come tutela petitoria garantita alla parte attrice che, in
difetto del titolarità del dante causa, agisse nei confronti del possessore
prima del compimento dei termini dell’usucapione, fornendo una prova
‘minore’ o ‘semipiena’ del proprio diritto;
l’attore in Publiciana sarebbe uscito vittorioso dalla lite se la
controparte non avesse vantato alcun titolo, o se avesse affermato o dimostrato
(nell’ambito di un giudizio comparativo) un titolo meno forte del suo.
Con la negazione
dell’ammissibilità della Publiciana quale azione indipendente, si
è generalmente abbandonata l’opinione per cui l’attenuazione
dell’onere probatorio si dovrebbe ricondurre all’applicazione
dell’antica tutela romana; ma ciò non ha impedito che il ricorso
alla ripartizione della necessitas
probandi e, quindi, al giudizio comparativo divenisse una prassi
consolidata e accettata anche in ambito dottrinale. Solo su profili marginali,
dunque, si è dato ascolto a quella corrente minoritaria, capeggiata dal
Laurent, che negli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore
del Codice Napoleone aveva segnalato la discrasia tra una nozione codicistica
di proprietà (compatta e assoluta) e un meccanismo processuale che si
era invece plasmato sull’esperienza ormai sorpassata del dominio diviso.
Il Laurent rimproverava in sostanza alla dottrina di essersi rifatta, nel
silenzio
11. – L’Italia è stata
caratterizzata da vicende per certi aspetti simili. Nel vigore dell’abr.
c.c.
Anche la giurisprudenza aveva espresso un
orientamento pressoché unanime per l’inammissibilità
dell’azione Publiciana, affermando anche, in ordine alla legittimazione
attiva al rimedio reipersecutorio, che lo stretto legame sussistente tra
nozione assoluta della proprietà e struttura della rivendica imponeva di
individuare il soggetto cui compete l’esercizio della rivendica, ex art.
439 c.c. abr., nel solo proprietario[171].
Tuttavia, il tema della prova della
proprietà continuava a presentarsi problematico: a fronte della ribadita
necessità di produrre una prova rigorosa
Poi, con l’entrata in vigore
Sembrerebbe dunque sussistere, attualmente, una
netta contrapposizione tra il sistema francese (in cui la revendication è concordemente attribuita anche a soggetti
meno qualificati
E invece, nonostante lo stretto legame
accortamente posto dal legislatore italiano tra nozione assoluta della
proprietà e ‘modello romanistico’ della rivendica, le prime
discrasie si sono evidenziate in tema di legittimazione attiva al rimedio, con
la questione dell’attribuibilità della rivendicazione
all’enfiteuta, al superficiario, all’usufruttuario, nonché
al nudo proprietario[180].
Per altro verso, sulla delicata questione della
prova, gli stessi autori e la medesima giurisprudenza che declamano la vigenza
delle regole probatorie connesse con la rivendica romano-classica ammettono,
marginalmente, l’operatività di alcuni
‘accomodamenti’, che tuttavia non sembrano –almeno
all’apparenza- affatto inconciliabili con il concetto codicistico di
proprietà unitaria e assoluta: un’ attenuazione del rigore
probatorio può accettarsi nell’ipotesi in cui il convenuto ammetta
in tutto o in parte il diritto di proprietà del rivendicante,
riconoscendo l’esistenza del diritto stesso fino a un dato momento e a un
determinato acquisto[181]. Le ammissioni
12. –
Esiste un cospicuo filone giurisprudenziale sulla cd. attenuazione
dell’onere probatorio per la provenienza
La casistica in merito è poi divenuta
imponente, anche perché le fattispecie in cui l’onere probatorio
va alleviato sono state progressivamente dilatate dalla Cassazione, che
è passata dalla ipotesi di ammissione espressa della provenienza da un
comune dante causa[185], all’ammissione implicita[186] o presunta[187], alla mancata contestazione[188] (nel 1984) e persino alla ipotesi
in cui l’unicità del dante causa venga contestata in modo
generico, immotivato, o senza il conforto di prove specifiche e pertinenti[189].
Uno strappo ancora più deciso – ma
non direttamente lesivo del concetto unitario e assoluto della nozione italiana
della proprietà- è provenuto dalla decisione della S.C. del 1969,
nella parte in cui si è affermato che “l’intensità e
l’estensione dell’onere probatorio del rivendicante devono esser
commisurate alle peculiarità di ogni singola controversia (…) e
subire opportuni temperamenti a seconda della linea difensiva del
convenuto”[190]. Si nota in questa, come in quasi
tutte le altre pronunce allineate su tale indirizzo, che l’attenuazione
dell’onere probatorio viene costantemente riguardata come una eccezione
rispetto alla regola declamata, della prova rigorosa della proprietà a
carico dell’attore[191]. Tuttavia, la portata e la
quantità delle eccezioni ammesse alla regola hanno finito per
evidenziare un sostanzioso divario tra il principio enunciato e la regola
applicata[192].
La breccia che, sul piano operativo, è
stata aperta nella regola declamata risulta particolarmente evidente
nell’asserzione della Cassazione, secondo cui “il principio che
nella rivendicazione l’onere della prova
L’accentuata tendenza
espressa dalla giurisprudenza ad attribuire al giudicante il compito di effettuare
una comparazione tra i titoli addotti dalle parti in rivendica, producendo una
ripartizione dell’onere probatorio, legittima il dubbio che la vecchia
regola del commodum possessionis, a
vantaggio del convenuto, trovi ormai solo sporadica applicazione; ciò
benché non siano mancati isolati tentativi di dimostrare –sulla
scia della dottrina francese- che il possesso esercitato dal convenuto faccia
sorgere a suo vantaggio una presunzione di proprietà, che spetta all’attore
di rovesciare[196]. Il convenuto,
insomma, è costretto sempre più spesso ad attivarsi, mentre
all’attore si chiede con frequenza sempre maggiore una prova
‘minore’.
Una notevole semplificazione dell’onere
probatorio opera anche in un ambito più marginalmente attinente al tema
in esame, quello delle azioni di mero accertamento, in cui l’attore
-già in possesso del bene di cui è controversa
l’appartenenza- chiede solo la dichiarazione giudiziale, con efficacia erga omnes, che una determinata cosa gli
appartiene[197]: in considerazione della
“rilevanza giuridica del possesso di cui l’attore è
già investito”[198], in queste azioni si richiede un
minore rigore della dimostrazione, sicché l’attore –che non
intende modificare lo stato di fatto- è tenuto solo ad esibire un valido
titolo d’acquisto[199]. Qualora invece l’azione di
accertamento sia promossa da chi non è in possesso
Va però considerato che
l’ammissione della possibilità di proporre una azione di mero
accertamento a tutela della proprietà (e non dunque restitutoria), ove
sussista un interesse concreto a tale accertamento, ha anche un’altra
significativa implicazione: lo spossessamento non è più
considerato un elemento necessario per agire a difesa della proprietà
(ove questa venga contestata e ciò arrechi pregiudizio al proprietario)[201]. Eppure, all’art. 948 c.c. si
è accolta la regola romana della legittimazione alla rivendica
(riconosciuta dalle fonti romane esclusivamente al proprietario spossessato,
salvo un misterioso unus casus[202]): ove non vi sia spossessamento, ma
solo turbativa o molestia, si è tradizionalmente ritenuto che non
esistano i presupposti per agire a difesa della proprietà; né
sarebbe possibile agire in negatoria, i cui presupposti sono, ex art. 949 c.c.,
che taluno affermi di avere sulla proprietà altrui un qualche diritto (
D’altronde, anche sul terreno
dell’azione negatoria (art. 949 c.c.) si sono affermati i nuovi
indirizzi: in considerazione del fatto che l’attore ha già il
possesso del bene, non si richiede più che il proprietario fornisca la
prova rigorosa della titolarità del proprio diritto, ma è
sufficiente che egli dimostri (con ogni mezzo, comprese le presunzioni)
l’esistenza, a proprio favore, di un titolo derivativo. Spetta al convenuto
dimostrare che egli è titolare dei diritti vantati sulla cosa[203]. Insomma, “l’attore
deve provare la sua situazione ‘prevalente’, mentre il convenuto
deve dimostrare che la sua situazione è a sua
Attraverso queste ‘eccezioni alla regola’
torna a farsi strada il fenomeno di ‘relativizzazione’ della rivendica,
ma nel senso,
13. – Di fronte ai molteplici tentativi
effettuati da dottrina e giurisprudenza italiane per superare l’assetto
tradizionale della tutela della proprietà, ci si interroga su quale
portata pratica, e su quale apprezzabile funzione ancora rivestano,
attualmente, la regola secondo cui il proprietario può agire a difesa
della proprietà solo in caso di spossessamento (art. 948 c.c.) e il
precetto, tuttora considerato ‘precetto generale’, sulla prova
rigorosa dell’acquisto della proprietà. Destano
perplessità, inoltre, i riflessi che potrebbero derivare, sul piano
Per lungo tempo, i civilisti italiani hanno in
massima parte ostentato indifferenza nei confronti di questa problematica, ma
negli ultimi decenni si sono registrati alcuni interventi particolarmente
significativi. Un atteggiamento fortemente critico nei confronti
Così, nel 1971, Proto Pisani[207], ponendosi anche sulle orme della
dottrina francese[208], ha rilevato che con la
terminologia ‘azione di rivendica’ la giurisprudenza italiana non
fa più necessariamente riferimento allo schema romano-classico
dell’azione: già nel corso del XIX secolo sarebbe stata
introdotta, “in via pretoria, una nuova specie di azione (…) la quale (…) sul
piano funzionale mira a fornire una difesa petitoria –non possessoria-
contro chi possiede un titolo ‘meno valido’ di quello
dell’attore (…) ciò deriva (…) dal fatto che
l’esperienza giurisprudenziale mostra l’esistenza di casi nei quali
l’attore deve provare non già che il suo affermato diritto di
proprietà si fonda su un acquisto a titolo originario, ma solo di
possedere in ordine al bene in questione un ‘titolo’ (anche e
soprattutto derivativo) prevalente rispetto a quello eventualmente vantato dal
convenuto”. Per altro verso, l’attenuazione dell’onere probatorio,
secondo l’a., non investirebbe esclusivamente i profili tecnici
dell’onus probandi, ma
opererebbe direttamente sul terreno
Ecco il punto: si può davvero affermare
che le nuove regole operative hanno irrimediabilmente intaccato
l’assolutezza della proprietà, sancita all’art. 832 c.c.it.?
Oppure sono intervenuti mutamenti, rispetto all’assetto tradizionale, che
hanno soltanto alterato il rapporto tra un persistente concetto sostanziale di
proprietà assoluta e la relativa tutela processuale di stampo
romanistico?
Da un lato, va osservato che, indubbiamente,
una alterazione del collegamento tra situazione inattiva (pretesa) e situazione
attiva (facoltà di godimento) si è verificata nel momento in cui
la situazione attiva è venuta in rilievo in dimensione solo
‘relativa’, e non più ‘assoluta’: “oggetto
del processo di rivendicazione non è la condanna alla restituzione della
cosa e l’accertamento del diritto di proprietà tout court, ma la condanna predetta e
l’accertamento del diritto considerato nei suoi riflessi nei confronti
del solo convenuto in rivendicazione”[209]. Ne consegue
l’inidoneità della sentenza passata in giudicato a fare stato
“nei confronti di chi non sia stato parte o non ne sia erede o avente
causa”[210].
Tuttavia, questo assetto, se implica certamente
una ‘relativizzazione’ della tutela della proprietà, non
sempre e non necessariamente comporta anche la trasformazione in senso
sostanziale della proprietà da ‘assoluta’ in
‘relativa’[211]: Si pensi all’ipotesi che due
soggetti istituiti eredi in disposizioni testamentarie recanti date differenti
siano in lite tra loro per la proprietà di un cespite: una volta
riconosciuto il diritto poziore sul bene a favore del soggetto istituito erede
nella disposizione recante la data più recente, nulla impedisce a un
terzo di farsi avanti e prevalere a sua volta, adducendo un testamento redatto
in un momento ancora successivo. E’ chiaro che, in un caso
In ambito europeo, un elemento che ha invece
profondamente modificato non solo la materia della prova della
proprietà, ma anche il modo stesso di concepire ‘assolutezza’
e ‘relatività’ dei rapporti proprietari e della loto tutela
è stato costituito dalla introduzione dei registri immobiliari e dall’obbligo di trascrizione degli atti di
disposizione. Questo sistema ha introdotto elementi di ‘proprietà
assoluta’ nel sistema di common
law, dove la tradizione conosceva
esclusivamente forme di appartenenza ‘relative’, e, viceversa,
elementi di relatività nei sistemi romanisti, in cui la proprietà
si connota per tradizione come assoluta (si pensi alla fattispecie della doppia
alienazione immobiliare, con riguardo alla quale si verificano forme di
‘tutela relativa’ della proprietà)[212]. Inoltre, a
incrinare ulteriormente il dogma della prova assoluta della proprietà
è intervenuta la
regola, già ricordata, della inopponibilità
Certamente, le nuove regole operative non
consentono più di riconoscere, nel nostro sistema di civil law, l’antica distinzione di
tipo dicotomico tra azioni a tutela della proprietà e azioni a tutela
del possesso; ciò si deve al superamento, realizzato dalla
giurisprudenza, di quella situazione -reputata
troppo “restrittiva” per una efficace tutela giurisdizionale della
proprietà- che ci è stata consegnata dal diritto romano e dalla
tradizione romanistica e che appariva basata su di una assai rigida
individuazione dei presupposti per agire a difesa dell’appartenenza,
attraverso una pluralità di rimedi tipici, tra di loro ben differenziati[214]. La
contrapposizione tradizionale rivendica-azione possessoria ha lasciato
così il posto alla operatività di un ampia gamma di rimedi,
ordinati all’interno di una ‘scala’, degradante dal mero
possessorio al petitorio.
14. – Resta da chiedersi se gli indirizzi
dottrinali e giurisprudenziali che hanno irrobustito questa trasformazione si
possono considerare legittimi, cioè conformi alla situazione normativa.
Sul punto, le opinioni non possono che divergere. Per quanto concerne
l’Italia, da un lato si deve rilevare l’assenza di previsioni
esplicite, da parte
L’allontanamento dalla
configurazione tradizionale dell’onere probatorio in materia di tutela
dei diritti reali e, almeno marginalmente, dal dato normativo in materia di legittimazione
attiva all’azione, è stato ritenuto altresì legittimo, in
Italia, in quanto valutabile alla luce della situazione sistematica,
che non prevede più azioni tipiche a difesa dei diritti. E di fronte ai
dubbi avanzati, con frequenza sempre crescente, circa l’esistenza
“di un fondamento razionale” della regola romana sulla
tipicità delle azioni, è necessario ammettere che le condizioni
su cui tale soluzione si era anticamente basata oggi non sono più
attuali[215]. La disciplina della cd.
‘rivendica romana’, nella sua contrapposizione ai rimedi
possessori, rispondeva alla logica di un sistema (quello romano
dell’età repubblicana e classica[216]) dominato dalla tipicità
delle azioni processuali (sistema in cui ogni azione è
E’ appunto in tale contesto
che le nuove tendenze vanno valutate. Il principio cui gli indirizzi giurisprudenziali
illustrati si ispirano è che, anche con riguardo ai conflitti
proprietari, “oggetto di accertamento non è l’astratta
titolarità del diritto (di proprietà), ma il concreto interesse del proprietario a vedersi riconosciuto un
titolo ‘prevalente’ e/o migliore rispetto a quello del convenuto e
ciò sul modello dell’actio
publiciana di romana memoria”[218].
Nell’ambito della tutela
processuale, tra le possibili conseguenze di questo indirizzo se ne profila
oggi una particolarmente significativa, anche perché già
verificatasi nell’esperienza giuridica della Roma tardo-imperiale, tra IV
e V sec. d.C., in concomitanza con la temporanea caduta del principio della
tipicità delle azioni[219]: e cioè,
l’accessibilità, al proprietario, dell’azione reale
reipersecutoria anche nei confronti del soggetto cui abbia volontariamente
consegnato la cosa[220]. In tal modo, la tutela reale si verrebbe
ad assommare alla tutela dei diritti derivanti dai contratti[221].
Sul piano
Л. СОЛИДОРО МАРУОТТИ
БРЕМЯ
ДОКАЗЫВАНИЯ
И СУДЕБНЫЕ
ПРОЦЕССЫ РИВЕНДИКАЦИИ
(РЕЗЮМЕ)
«Римская
ривендикация»
(иск, все еще
принятый во
многих
европейских
странах,
посредством
которого
лишенный
владения
собственник
требует
признания
своего
абсолютного
права на вещь,
а
следовательно,
и ее
реституции) характеризуется
трудностью
доказательства,
требующегося
от истца: probatio diabolica,
состоящая в
демонстрации
права возбудившего
тяжбу вплоть
до
приобретения
от
первоначального
титула.
Значительному
бремени,
возложенному
на истца,
противостоит
инертная
позиция ответчика-владельца
(commodum possessionis).
Такая
структура
иска
предполагала
в римском
правопорядке,
а в какой-то
мере еще и сегодня,
некое
понятие
абсолютной,
унитарной и
абстрактной
собственности
(так называемой
«римской
собственности»).
Связь между абсолютным
понятием
собственности
и виндикационным
иском с
бременем
доказательства,
лежащим
только на
стороне
истца, встречается
и в
современном
праве,
например, в Италии
и Германии. В
Австрии,
наоборот,
параллельно
с принятием
понятия
принадлежности,
свойственного
франко-германскому
опыту разделенного
доминия,
виндикационный
иск структурируется
как
состязательный
суд с бременем
доказательства,
лежащим на
обеих сторонах
тяжбы.
Также и
область common law
осталась связанной
с концепцией
«относительности»
прав на
землю, а
следовательно,
на процессуальном
заседании
судья должен
оценивать доказательства,
представленные
обеими сторонами,
и из двух
спорящих
утверждать
во владении
того, у кого
«лучший
титул владения»
(better title).
Однако
в реальности
в
правопорядках
указанных
выше стран в
определенной
мере существует
«контаминация»
двух столь
очевидно
противоположных
моделей:
моделей римского
и
франко-германского
происхождения.
Впрочем, и в
римском
юридическом
опыте выявляется
противопоставление
между биномом
«относительная
собственность»
/ «состязательный
суд» и
биномом
«абсолютная собственность»
/
«ривендикация»
с ее лежащем
только на
истце
бременем
доказательства.
Что касается
современной
эпохи, то в некоторых
зонах
применения common law,
применяющих
систему
регистрации
земельной
собственности
(Registered Land),
введены
элементы
абсолютной
собственности.
Во Франции,
хотя и
принято
понятие абсолютности
собственности,
суд
ривендикации
структурируется
как
состязательный,
требуя от
судьи только
определения
«лучшего
права» (droit meilleur); в
Италии же
облегчение
бремени
доказательства,
возложенного
на истца,
проявляется в
предположении
согласия с
этим со
стороны
ответчика, и
таким
образом
получается,
что
ривендикация
превращается
в
состязательный
суд (даже
принимая во
внимание
невозможность
оппонировать
суждениям
третьих лиц),
в
значительной
мере
осваиваясь в
том, что
титул, на
базе которого
истец
предъявляет
виндикационный
иск, хотя и не
совершенен,
однако
превалирует
над тем,
которым
пользуется
ответчик.
* Лаура Солидоро Маруотти – профессор кафедры римского права юридического факультета Университета г. Салерно (Италия).
[1] L. SOLIDORO MARUOTTI, ‘Proprietà assoluta’ e
‘proprietà relativa’ nella storia giuridica europea, in Ius Antiquum № 14. 2004. P.
7–50.
[2] V. al riguardo le considerazioni di
A. GAMBARO, nella Presentazione a S.
FERRERI, Le azioni reipersecutorie in
diritto comparato (Milano 1988) V ss.
[3] Sul punto, M. PLANIOL – G.
RIPERT – M. PICARD, Les biens,
in Traité pratique de droit civil
français, 2° ed., III (Paris 1952) 348 ss., 353.
[4] Sulle origini romanistiche di tale
struttura della rivendica, è tuttora fondamentale la lucida trattazione
di P. BONFANTE, Corso di diritto romano
II. La proprietà, pt. 2 (Roma
1926, rist. della I° ed. [da cui cito], Milano 1968) 395 ss.; approfondita
trattazione, con fonti e bibl., in M. MARRONE, s.v. Rivendicazione (dir. rom.),
in E.D. XLI (Milano 1989) 1 ss.
Sull’accoglimento, negli ordinamenti ‘romanisti’,
dell’impostazione che vede nella rivendica un rimedio generale, fondato
sulla proprietà, v. in giurisprudenza, ad es., Cass. 25 novembre 1978,
n.
[5] Sull’attribuzione ai
Glossatori del dogma della probatio
diabolica, v. R. FEENSTRA, Action
Publicienne et preuve de la propriété, principalement
d’apres quelques romanistes du Moyen Age, in ID., ‘Fata iuris Romani’. Études d’histoire du droit
(
[6] Cic. Caecin. 26.74 ; v. anche, nello stesso senso, Gai 2.44; D. 41.3.1; Nerat. D. 41.10.5 pr.;
I. 2.6; per ulteriori approfondimenti si rinvia a L. VACCA, s.v. Usucapione (dir. rom.), in ED. XLV (
[7] CI. 7.31.1 (a. 531);
[8] Così A. GAMBARO, Presentazione cit., XI. Sul concetto e
sulla funzione dei ‘rimedi’ (intesi come protezione assicurata
dall’ordinamento giuridico a un interesse) e sul legame sussistente,
nella nostra tradizione giuridica di civil
law, tra diritto soggettivo e rimedio giurisdizionale, v. A. DI MAJO, La tutela civile dei diritti III (Milano
1987) V ss. e passim. Come mette bene
in evidenza questo a., attualmente, nel nostro sistema, a seguito del fenomeno
di codificazione, si postula la corrispondenza tra diritto soggettivo e tutela
giurisdizionale, nel senso che ad ogni diritto deve corrispondere un rimedio
(cfr. art. 2907 c.c., secondo cui “chi vuol far valere un diritto deve
proporre domanda al giudice competente”), come è indicato dal
celebre brocardo ubi ius ibi remedium;
viceversa in alcuni ordinamenti antichi (in particolare nel diritto romano),
nonché nel sistema di common law,
nei quali è ignorata la categoria del diritto soggettivo, vale piuttosto
il principio ubi remedium ibi ius,
nel senso che i diritti si formano “in via di derivazione” (p. 58)
dai rimedi posti a tutela di determinati interessi: il fatto che la tutela
giurisdizionale risulti svincolata dalla titolarità di un diritto
soggettivo consente, sul piano pratico, “di cogliere i nuovi bisogni di
tutela via via emergenti nella realtà economico-sociale” (p. VI),
ma si tratta di un meccanismo pressoché incompatibile con un diritto
codificato. Nel campo dei rapporti proprietari, la stretta rispondenza tra
diritto soggettivo e relativo strumento di tutela processuale è stata
ben evidenziata già dal TOULLIER (Le
droit civil français suivant l’ordre du Code II, § 73
[Bruxelles 1845]), il quale descriveva l’azione di rivendicazione come
ornamento e complemento indispensabile
[9] Su cui rinvio a quanto da me
già considerato in ‘Proprietà
assoluta’ e ‘proprietà relativa’ cit.; v. anche
l’articolata trattazione di A. CANDIAN – A. GAMBARO – B.
POZZO, Property-Propriété-Eigentum.
Corso di diritto privato comparato (Padova 1992). In ambito strettamente
romanistico, il nesso di interdipendenza tra la concezione della
proprietà in senso sostanziale e la struttura dell’azione di
rivendica è già stato ben evidenziato da M. KASER, Zur ‘legis actio sacramenti in
rem’, in Estudios de derecho
romano en honore de Alvaro D’Ors II (
[10] Fa eccezione l’Austria, che
ha invece accolto la figura medioevale
[11] Qualifica che costituisce la causa petendi della domanda e che
perciò differenzia la rivendica da altre azioni (in particolare, le
azioni personali di restituzione, di ripetizione dell’indebito, di
arricchimento ingiustificato) che pure potrebbero realizzare lo stesso fine; e
proprio per il fatto che la rivendica si fonda solo sul diritto di
proprietà, indipendentemente dal fatto che ha cagionato la perdita del
possesso, si giustifica la permanenza di tale azione nel nostro sistema
attuale, caratterizzato dalla atipicità delle azioni processuali: lo
rilevano S. PUGLIATTI, Rivendica
cit., 1532; S. FERRERI, s.v. Rivendicazione
cit., 51, ove altra lett.
[12] Per la cui disamina rinvio a quanto
già esposto in Ripartizione e
attenuazione cit.
[13] In questo senso, cfr. soprattutto
C. AUBRY- F.-C. RAU, Cours de droit civil
français d’après
la méthode de Zachariae, 4° ed. (Paris 1869–1878) §
219; M. PLANIOL- G. RIPERT – M. PICARD, Traité pratique cit., 360 s. ; per una esposizione
più dettagliata rinvio al mio studio su Ripartizione e attenuazione cit.
[14] Cfr. al riguardo quanto già
esposto in ‘Proprietà
assoluta’ e ‘proprietà relativa’ cit.; tra la
sconfinata lett. in materia, oltre agli aa. citt. alla nt. successiva, v. G.
PUGLIESE, Property nei sistemi di common
law, in Scritti giuridici scelti
IV. Problemi di diritto vigente (
[15] Per il resoconto delle fonti, v.
Caes. de bell Gall. 4.1.3–7;
6.21.1–2; Tac. Germ. 26.2;
Orat. carm. 3.24. A causa della
scarsa propensione degli antichi popoli germanici per la scrittura, la
ricostruzione della Gewere è
avvenuta in via largamente ipotetica, procedendo a ritroso dalle risultanze
delle fonti medioevali; tra le ricerche più significative sul tema, si
segnalano in partic. L.
HEUSLER, Die Gewere (Weimar 1972);
ID., Institutionen des deutschen Privatrechts
II (Leipzig 1885) 1 ss.; A. PERTILE, Storia
del diritto italiano dalla caduta dell’Impero romano alla codificazione
IV. Storia del diritto privato (Torino 1893) 170 ss.; O. von GIERKE, Die Bedeutung des Fahrnisbesitzes für
streitiges Rechts (Jena 1897)
specialm. 45 ss.; ID., Deutsches
Privatrecht II. Sachenrecht
(Leipzig 1905) § 113, 187; F. SCHUPFER, Il diritto privato dei popoli germanici con speciale riguardo
all’Italia. Possessi e domini II, 2° ed. (Città di
Castello 1915) 7 ss.; G. DIURNI, Le
situazioni possessorie nel Medioevo. Età longobardo-franca (Milano
1988) 57 ss. Sulla Gewere e sulla sua
tutela processuale si v. le
considerazioni già esposte in ‘Proprietà
assoluta’ e ‘proprietà relativa’ cit., § 6.
[16] Ampia trattazione in S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie in diritto
comparato (Milano 1988) 12 ss.
[17] Dimostrazione in W.W. BUCKLAND
– A.D. Mc NAIR, Roman law and
common law. A comparison in outline (
[18] Sulla relatività dei diritti
sulla terra in età medioevale, v. M. BLOCH, La società feudale (tr. it.
[19] Così F.H. LAWSON – B.
RUDDEN, The law of property, 2°
ed. (
[20] F. POLLOCK – F.W. MAITLAND, History of english law II (L. 1895) 67.
[21] Lo segnala S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 10 ss.,
144. Tuttavia, non sono affatto mancati influssi romanistici sulla dottrina
anglossassone dell’appartenenza dei beni: i concetti romani di dominium e possessio e le forme romane di tutela del possesso e della
proprietà, per la mediazione del Bracton e, più tardi, del
Blackstone (il quale alquanto contraddittoriamente coltivava, in parallelo con
Pothier, un concetto assoluto di proprietà), per un certo periodo furono
‘prese in prestito’ e applicate dalla scienza giuridica inglese.
Ciononostante, nel complesso il common
law finì per rifiutare l’impianto romanistico, elaborando una dottrina autonoma e originale, ispirata alla
tradizione giuridica franco-germanica (cfr. W. HOLDSWORTH, o.c. 83; G. PUGLIESE, Property cit., 496 ss.; A. GAMBARO, La proprietà nel common law cit.,
37 ss., 60 ss., 123 ss.).
[22] Già nel 1956 la Corte di
Cassazione italiana ha affermato che il principio per cui nella rivendicazione
l’onere di provare il diritto di proprietà spetta all’attore
non è assoluto, ma va adeguato alle concrete particolarità delle
singole situazioni, dovendosi tenere conto delle ammissioni del convenuto,
nonché del valore del titolo che egli deduce in suo favore: Cass., 9
febbraio 1956, n.
[23] Dimostrazione in R. von JHERING, Geist des römischen Rechts auf den
verschiedenen Stufen seiner Entwicklung III, t. 1, 8° ed. (
[24] Per vero,
l’attribuzione interinale del possesso del bene controverso (addictio vindiciarum: Gai 4.16) da parte
del magistrato in favore della parte processuale che desse maggiori garanzie
potrebbe fare ipotizzare una assunzione, da parte dei contendenti, di precisi
ruoli, soprattutto ai fini dell’onere probatorio, facendo venire meno
anche la natura di iudicium duplex
della rivendica; ma tale eventualità viene respinta -sulla scia di E.
ECK (Die sogenannten doppelseitigen
Klagen des römischen und gemeinen Deutschen Rechts [B. 1870] 9 ss.), e
di R. von JHERING (oluc., specialm. 104, nt. 129c), da
numerosi AA., tra cui si v. in partic. G. FRANCIOSI, Il processo di libertà cit., 52
ss., 67, con prec. lett. in questo senso, e C.A. CANNATA, ‘Qui prior
vindicaverat’: la posizione delle parti
nella ‘legis actio sacramenti in rem’, in Mélanges F. Wubbe [Fribourg 1993] 88-, per la considerazione che le ripercussioni
dell’addictio vindiciarum sull’onere
probatorio non si produssero che nella procedura formulare, in connessione con
la comparsa degli interdetti possessori: le vindiciae
sarebbero pertanto ininfluenti sull’onere probatorio. D’altronde,
va ricordato che l’ addictio
vindiciarum si colloca più verosimilmente in una fase storica
già lontana dalle origini della procedura sacramentale, e dunque
prodromica, se non addirittura successiva, all’affermarsi della legis actio per sponsionem e forse della
formula petitoria; nell’antica l.a.s.i.r., occorreva vagliare la
veridicità di ambedue i sacramenta
e la pronuncia del giudice sul punto era inscindibilmente connessa alla
questione della proprietà del bene controverso, affermata da entrambi
(così E. ECK, o.l.u.c.).
[25] Approfondimenti in C. A. CANNATA, ‘Qui prior vindicaverat’
cit., 83 ss., il quale dimostra che nell’età arcaica le parti
processuali potevano effettuare la rivendica contemporaneamente (cioè
pronunciando la formula solenne nel medesimo momento), oppure poteva
rivendicare per primo il possessore del bene controverso, o, al contrario, il
soggetto che asseriva di essere stato spossessato del bene; v. anche M.
MARRONE, s.v. Rivendicazione (dir. rom.), in E.D., XLI (Milano 1989) 2 ss., 7 ss. e nt. 30 s.
[26] Su cui restano fondamentali le
trattazioni di E. ECK, Die sogenannten
doppelseitigen Klagen cit., 7 ss., e di R. von JHERING, oluc., il quale modificò
sostanzialmente buona parte della esposizione svolta nella prima edizione del Geist, alla luce delle obiezioni
mossegli da Eck; tra la lett. successiva, orientata nello stesso senso, v.
soprattutto V. ARANGIO-RUIZ, Istituzioni
di diritto romano, 14° ed. (
[27] In tal senso, con puntuale esame critico delle
fonti, cfr. E. BETTI, La
‘vindicatio’ romana primitiva e il suo svolgimento storico nel
diritto romano e nel processo, in Il
Filangieri 39. 3 (1915) 321 ss.; H.
LéVY-BRUHL, Le simulacre de combat
dans le ‘sacramentum in rem’, in Quelques problèmes du très ancien droit romain. Essai de
solutions sociologiques (
[28] La regola che imponeva
all’attore l’onere probatorio si affermò contestualmente
alla procedura della legis actio
sacramenti in personam, per poi estendersi alle azioni reali nell’agere per sponsionem; tanto risulta da
Gai 4.93, su cui v. G. BROGGINI, La prova
cit., 133 ss.; U. BRASIELLO, s.v. Istruzione
del processo (dir. rom.), in E.D. XXIII (Milano 1973) 131 ss.,
specialm. 133. La generalizzazione
[29] Reputo totalmente condivisibili,
sul punto, le conclusioni di E. ECK, Die
sogennanten doppelseitigen Klagen cit., 9 s., di R. von JHERING, Geist cit., 104, nt. 129c; e di G.
FRANCIOSI, Il processo di libertà
cit., 58. Il CANNATA (‘Qui prior
vindicaverat’ cit., 83 ss.), invece, sulla base della convinzione che
a dovere dichiarare la ‘giusta causa’ della rivendica fosse sempre
ed esclusivamente l’attore-non possessore, ha sostenuto che la struttura
dell’antica l.a.s.i.r
costituì la “radice prima della regola che, nella rei vindicatio, addossa all’attore
l’onere della prova della proprietà” (p. 91). Tuttavia, la
ricostruzione del Cannata presuppone che il soggetto indicato da Gaio come qui prior vindicaverat fosse sempre il
convenuto-possessore, al quale, secondo lo schema gaiano, sarebbe poi spettato
invitare l’attore-non possessore alla specificazione (e poi alla
dimostrazione) della causa; tale
termine –la cui presenza è confermata da Val. Prob. 4.6- è
peraltro assai oscuro, e su di esso molto si è discusso: A. CORBINO, La struttura dell’affermazione
contenziosa nell’ ‘agere sacramento in rem’, in Studi C. Sanfilippo VII (Milano 1987)
152 s.; M. MARRONE, La formula della
rivendica: astratta o causale?, in ‘Cunabula iuris’. Scritti
storico giuridici per G. Broggini (Milano 2002) 229 ss. Al riguardo, mi
sembra non solo tutt’altro che certo che il primo rivendicante fosse
sempre il convenuto-possessore (Cannata ammette, del resto, che nella fase
più antica uno qualunque dei due contendenti poteva procedere per primo
alla rivendica, effettuabile persino contestualmente), ma addirittura
insostenibile che l’onere probatorio gravasse sempre e comunque sul solo
attore: infatti, la successiva sfida al sacramento implicava che ambedue i
contendenti ‘gareggiassero’ nel dimostrare l’uno la
‘giuridicità’ della rivendica, l’altro, invece, la sua
‘antigiuridicità’ (il destinatario del sacramentum replicava con analoga sfida, ed è stato anzi
ipotizzato che la formula gaiana ‘adversarius
quoque dicebat similiter ET EGO TE’ non sia che la sintesi di una
locuzione originaria più articolata: J. ZLINSKY, Gedanken zur ‘legis actio sacramenti in rem’, in ZSS., 106 [1989] 106 ss., specialm. 129
s.; C.A. CANNATA, ‘Qui prior
vindicaverat’ cit., 87 nt. 8). Per certo si può affermare solo
che la dichiarazione della causa
(benché non si sappia esattamente cosa si volesse indicare anticamente
con questo termine, ritengo più verosimile il significato di
‘titolo d’acquisto’, come sembra suggerito da Liv. 3.45 s.),
o quanto meno della ‘conformità al diritto’ della rivendica,
poteva sortire l’effetto di individuare e circoscrivere, in qualche
misura, l’oggetto della dimostrazione da fornire: significativo Plaut. Curc. 4.2.12 (nec vobis autor ullus est nec vosmet estis ulli). Ma le fonti, a nostro parere, non offrono elementi
per determinare la parte processuale che stabilmente dovesse addivenire a tale
specificazione. Anche la più tarda assegnazione interinale del possesso
(su cui, amplius supra, nt. 24),
secondo quanto appare aderente al dettato delle fonti, era decisa
discrezionalmente dal magistrato, non in considerazione della posizione
processuale dell’assegnatario (lo ribadisce C. A. CANNATA, ‘Qui prior vinidicaverat’
cit., 88), ma in base alla qualità delle garanzie offerte dai
contendenti (non soddisfa la congettura formulata da G. PUGLIESE, Il processo civile romano I cit., 296,
per cui a guidare il magistrato nell’assegnazione interinale del possesso
sarebbe stata la valutazione delle “probabilità di vittoria
finale” della parte: si controbatte, da parte di C. A. CANNATA, ‘Qui prior vindicaverat’
cit., 88 nt. 11, che in questa fase del vetusto procedimento il magistrato non
aveva ancora appreso altro, se non l’esistenza di una lite).
[30] La costruzione di M. KASER
(illustrata nella sua versione definitiva in Über ‘relatives Eigentum’ im altrömischen Recht,
in ZSS. 102 [1985] 1 ss., ove si
osserva un notevole ridimensionamento della teoria in oggetto, rispetto agli
scritti precedenti, citt. infra, alla
nt. 40) – in cui si deduceva dalle peculiarità procedurali in
esame l’esistenza, nella Roma arcaica, di una ‘proprietà
relativa’- ha sollevato vivaci critiche (che in massima parte non
ritengo, peraltro, condivisibili: v. quanto espongo in ‘Proprietà assoluta’ e
‘proprietà relativa’ cit.); le obiezioni mosse al Kaser
non paiono comunque applicabili al più circoscritto ambito di una tutela relativa della proprietà:
cfr. K.F. THORMANN, ‘Auctoritas’,
in Iura, 5 (1954) 1 ss., il quale
rifiuta la teoria dell’esistenza in Roma arcaica di una proprietà
relativa in senso sostanziale, ma sostiene che la proprietà (assoluta)
diveniva relativa in sede processuale.
[31] Si cfr. la terminologia (actor, petitor / possessor, is cum
quo agitur,
[32] Così, tra glia altri, F.
GIRARD, Histoire de l’organisation
judiciaire des Romains I (Paris 1901) 193, nt.1; R. von JHERING, Geist cit., 90 ss. ; ARANGIO-RUIZ, Istituzioni cit., 115 ; G.
FRANCIOSI, Il processo di libertà
cit., 52 ss.; G. PUGLIESE, Il processo
civile romano I cit., 406 ss.
[33] Il processo civile
romano I cit., 230.
[34] C.A. CANNATA, ‘Qui prior vindicaverat’ cit., 92.
[35] V. in proposito M. KASER, Das römische Privatrecht I, 2°
ed. (München 1971)
48.
[36] Così C.A. CANNATA, ‘Qui prior vindicaverat’ cit.,
92 ss.
[37] Qui prior
vindicaverat’
cit., 85 ss.
[38] La tesi del Cannata si fonda sulla
considerazione che il primo rivendicante si rivolgeva all’avversario
dicendo “postulo anne dicas, qua ex
causa vindicaveris” (Gai 4.16); ne è discutibile presupposto il
convincimento che alla verifica
[39] Istituzioni cit., 115.
[40] M. KASER, Eigentum und Besitz im älteren römischen Recht, 2°
ed. (Köln-Graz
1956) 6 ss., 68 ss.; ID., Neue Studien
zum altrömischen Eigentum, in ZSS. 68 (1951) 135 ss.; V. Anche R.
MAYR, Das sacramentum der ‘ legis
actio’, in Mél F.P.
Girard II (Paris 1912) 200, e, con qualche variante, G. DIÒSDI, Ownership in ancient and preclassical roman law (Budapest 1970) 102 ss.;
afferma invece l’originaria incombenza dell’onere probatorio
sull’attore F. DE SARLO, ‘Onus
probandi incumbit ei qui dicit’, in AG. 114 (1935) 189 ss.
[41] Sull’Anefang v. ‘Proprietà
assoluta’ e ‘proprietà relativa’ cit., § 7.
Secondo M. KASER (Zur
‘l.a.s.i.r.’, cit., 701 ss.), l’Anefang germanica e la legis
actio sacramenti in rem furono istituti
[42] Gai 4.16, dove tuttavia
non vi è alcuna allusione al furto, ma, genericamente, ad una condotta
antigiuridica. L’assimilazione tra Anefang e l.a.s.i.r.
è stata puntualmente confutata da C. KUNDEREWICZ, The problem of
‘Anefang’ in certain ancient and medieval laws, in JJP. 9/10 (1955/56) 401 ss., e respinta
anche da P. VOCI, Modi di acquisto della
proprietà (Milano 1952) 281.
[43] V. infra, nel testo, § 4, sull’effettivo funzionamento
[44] R. von JHERING, o.l.c.; V. ARANGIO-RUIZ, Istituzioni cit., 115 nt. 2; con ulteriori
considerazioni e dati testuali, G. FRANCIOSI, Il processo di libertà cit., 68 s., il quale precisa che,
nel caso in cui il giudice avesse deciso di esimersi dalla decisione
dichiarando ‘non liquet’,
si sarebbe dovuto procedere alla nomina di un altro giudice.
[45] Per esperienze giuridiche simili in
tempi non lontani, si v. G. LEPOINTE, Une
ordalie privée en pays Malgache, in Mélanges H. Lévy-Bruhl (Paris 1959) 431 ss.
[46] Ampia discussione del problema e delle contrapposte
opinioni soprattutto in E. ECK, Die
sogenannten doppelseitegen Klagen cit., 9 ss. (per i più antichi
processi germanici); M. KASER, Der
altgriechische Eigentumsschutz, in ZSS.
64 (1944) 134 ss.; A. KRÄNZLEIN, Eigentum
und Besitz im griechischen Recht des fünften und vierten Jahrhunderts v.
Chr. (B. 1963) 138
ss.; A.R.W. HARRISON, The law of Hathens
(Oxford 1968) 214 ss.; A. MAFFI, Processo
di ‘status’ e rivendicazione in proprietà nel codice di
Gortina: ‘diadikasìa’ o azione delittuale?, in Dike 5 (2002) 111 ss., con fonti e altra
lett.
[47] Lo dimostrano M. SAN NICOLO’, Die Schlussklauseln der altbabylonischen
Kauf-und Tauschverträge (München 1922) 23 s., 106, 165 ss.; e, per le affinità con gli
antichi diritti danese e anglosassone, R. von JHERING, Geist cit., 92 ss., nott. 114, 129a, 129d., con lett. ivi cit.
[48] A tale riguardo occorre precisare
che non sempre è riscontrabile la corrispondenza tra
‘relatività’ della tutela
processuale e ‘relatività’
[49] Il tema è stato oggetto di
ampio e vivace dibattito in ambito romanistico; per una descrizione sintetica, ma estremamente completa ed efficace del quadro a
nostro avviso più verosimile delle forme di appartenenza nella
Roma arcaica, v. G. DIÒSDI, Ownership,
cit., 19 ss., 60 s.; A. CORBINO, Schemi
giuridici dell’appartenenza
nell’esperienza romana arcaica, in La proprietà e le
proprietà. Pontignano, 30 settembre – 3 ottobre 1985. Atti
[50] Come è noto, ai Romani fu
sempre estranea non solo la terminologia di iura
in re aliena, ma anche la consapevolezza di tale categoria; sulle origini
medioevali e sull’evoluzione moderna della nozione di ‘diritto
reale su cosa altrui’, v. soprattutto R. FEENSTRA, ‘Dominium’ and ‘ius in re aliena’:
the origins of a civil law distinction,
in New perspectives in the roman law of
property. Essays for B. Nicholas (
[51] L’impiego di questa categoria
con riferimento all’esperienza giuridica romana è tutt’altro
che pacifico: sulla storia della nozione di ‘proprietà
relativa’ e sul dibattito storiografico che su di essa si è
sviluppato, rinvio a quanto ho già esposto in ‘Proprietà assoluta’ e ‘proprietà relativa’
cit., nt. 12 e passim.
[52] Il noto principio romano
‘res inter alios iudicata aliis non
praeiudicat’ sembrerebbe deporre chiaramente nel senso della
inopponibilità
[53] G. DIÒSDI, Ownership cit., 105.
[54] Ritengo verosimile che anteriormente
alla trasformazione dell’ usus
auctoritas in uso acquisitivo la maggior parte delle controversie
sull’appartenenza dei beni vertesse appunto su questo aspetto.
[55] V. sul punto M. KASER, Eigentum und Besitz, cit., 117; F.
WUBBE, Quelques remarques sur la fonction
et l’origine de l’action Publicienne, in RIDA. 8 (1961) 417 ss.
[56] Lo ammette M. KASER, Neue Studien cit., 165.
[57] Era questa una ovvia implicazione della originaria assenza di demarcazione
tra possesso e proprietà: G. DIÒSDI, Ownership cit., 124.
[58] Non si vede perché si
dovrebbe escludere l’idoneità -così come sostiene G.
DIÒSDI (Ownership cit., 106)-
di una stessa procedura (nella specie, la l.a.s.i.r.)
ai fini di apprestare tutela a diritti di carattere sia assoluto, sia relativo.
E’ però vero che se una rivendica strutturata come giudizio
comparativo (cioè con attribuzione dell’onere probatorio ad
ambedue i litiganti) può adattarsi alla tutela di una
‘proprietà assoluta’, oltre che di una
‘proprietà relativa’ (v. le considerazioni svolte al
riguardo infra, nel testo, con
riferimento al fenomeno della registrazione della proprietà fondiaria
nel common law), viceversa una
rivendica che preveda l’onus
probandi a carico della sola parte attrice risulterebbe inadeguata ai fini
della protezione di una ‘proprietà relativa’ (non
consentendo al giudicante una valutazione comparativa delle due dimostrazioni).
[59] Il tema è stato trattato
più dettagliatamente in ‘Proprietà
assoluta e ‘proprietà relativa’ cit.; mi limito a
esporre, in questa sede, gli aspetti più strettamente attinenti alla
tutela processuale
[60] M. KASER, Eigentum und Besitz cit., 307, ritiene che la scomparsa della
proprietà relativa e l’affermazione della proprietà
assoluta siano state dovute ad un mutamento della tutela processuale delle forme proprietarie, in senso più confacente
alle nuove tendenze individualiste. Secondo altra impostazione, la
definizione di una nozione di proprietà (assoluta), autonoma rispetto ad
altre forme di appartenenza, sarebbe piuttosto conseguente alla emersione della
categoria della servitus
(copiosamente attestata da Cicerone) e alla comparsa dell’istituto dell’
usufructus: v. G. DIÒSDI, Ownership cit., 133 s., con altra bibl. Certamente non trascurabile, per la forte
spinta all’elaborazione di nozioni giuridiche astratte, fu anche
l’apporto della filosofia greca, che intorno al II e I sec. a.C.
condizionò fortemente la nascente scienza giuridica romana: F. SCHULZ, Geschichte der römischen
Rechtswissenschaft (Weimar 1961) 73 ss.
[61] Su cui si v. quanto attesta Gai
4.91, 93–95; tale azione risulta nota a Cicerone (Verr. 2.1.45.115), ma veniva adoperata già in epoca
precedente, come espediente per superare la posizione paritaria dei litiganti e
per addossare al solo attore la necessitas
probandi, anteriormente gravante su entrambe le parti in causa: dettagli in
F. BOZZA, ‘Actio in rem per
sponsionem’, in Studi in onore
di P. Bonfante II (Milano 1930) 591 ss.; M. KASER, Eigentum und Besitz cit., 277 ss.; G. PUGLIESE, Il processo civile I cit.,
357 ss.; G. FRANCIOSI, Il processo
di libertà cit., 59 nt. 31; M. MARRONE, s.v. Rivendicazione cit., 8 ss., con fonti e altra bibl. La creazione
della procedura per sponsionem dovette
essere verosimilmente anteriore alla diffusione della nozione di dominium, perché vi compaiono
espressioni analoghe a quella caratterizzanti l’antica l.a.s.i.r. (Gai 4. 93: … si homo
quo de agitur ex iure
Quiritium meus est …): in tal
senso G. DIÒSDI, Ownership
cit., 152.
[62] Fondamentali, al riguardo,
soprattutto le testimonianze di Cic. Verr.
2.2.12.31 e Gai 4.91, sulle quali non possono gravare sospetti di itp. In
lett., cfr. in partic. G. DIÒSDI, Ownership
cit., 149 ss.; M.
MARRONE, o.u.c. 11 ss. ed AA. ivi
citt. Con la rivendica formulare, la comparsa
[63] ‘Proprietà assoluta’ e ‘proprietà
relativa’ cit., § 6.
[64] Cfr. G. FRANCIOSI, Il processo di libertà cit., 83
ss.
[65] Ci risulta anzi l’assenza,
fino all’età classica avanzata, non solo di regole tassative in
tema di necessitas probandi, ma anche
la mancata fissazione dei criteri di valutazione delle prove: G. PUGLIESE, L’onere della prova nel processo
romano ‘per formulas’, in RIDA.
3 (1956) 349 ss.; ID., La preuve dans le procès romain de
l’époque classique, in La
preuve, Recueils de
[66] Sulle origini medioevali della
teorica sulla probatio diabolica,
cfr. F. FEENSTRA, Action Publicienne et
preuve de la propriété principalement d’après
quelques romanistes du Moyen Age, in Mélanges
P. Meylan I (
[67] Lo sottolinea F. STURM, Zur ursprünglichen Funktion der
‘actio Publiciana’, in RIDA.
9 (1962) 357 ss.
[68] In forza
[69] Tab. 6.3; V. sul punto M. MARRONE, s.v. Rivendicazione cit., 10.
[70] V. in tal senso M. MARRONE, s.v. Rivendicazione cit., 10.
[71] Sulla libertà del magistrato
di concedere le vindiciae
all’uno o all’altro dei contendenti, ampia trattazione in G.
FRANCIOSI, Il processo di libertà
cit., 62 ss., il quale dimostra anche l’inconsistenza dell’ipotesi
–da taluni avanzata- secondo cui l’assegnazione del possesso
interinale della res litigiosa sarebbe
stata prevista dalla struttura originaria della l.a.s.i.r. Per la cautio pro
prede litis et vindiciarum, prevista nell’actio per sponsionem, v. O. LENEL, E.P., 3° ed., § 282; qualora il convenuto avesse rifiutato
di prestare la cautio, si sarebbe
verificata la translatio possessionis
in favore della controparte, e il convenuto, divenuto attore, sarebbe stato
gravato dell’onus probandi.
[72] In ordine ai contenuti
dell’editto, è questa la teoria dominante (per la cui formulazione
v. soprattutto P.
BONFANTE, L’editto Publiciano,
in Scritti giuridici varii. II, Proprietà e servitù
[Torino 1926] 389 ss.), benché non
manchino differenti ricostruzioni, tra cui particolarmente significativa appare
quella di F. WUBBE (Quelques
remarques cit., 417 ss.), il quale ritiene che l’originaria funzione
dell’actio Publiciana non fosse
quella di tutelare quanti avessero acquistato beni senza le formalità
prescritte dallo ius civile, ma
quella, più ampia, di tutelare ogni possesor
bonae fidei. Secondo tale a. –che su questo aspetto segue
l’impostazione di M. KASER- la Publiciana sarebbe stata introdotta
specificamente per ovviare alle difficoltà probatorie connesse con la
struttura della rivendica formulare, a loro
[73] L’ipotesi è stata formulata da F.
WUBBE, Der gutgläubiger Besitzer
cit., 189, e da M. KASER, ‘In bonis
esse’, in ZSS. 78 (1961) 173 ss., specialm. 195, ma occorre ammettere che al riguardo mancano
attestazioni esplicite delle fonti. Si esprime infatti in senso nettamente
contrario F. STURM (Zur
ursprünglichen Funktion cit., 385), il quale sostiene
(anch’egli, però, senza alcuna base testuale), che le
difficoltà probatorie, nelle due azioni, erano praticamente le stesse:
ma si può facilmente obiettare che, pur considerando la brevità
dei termini richiesti all’epoca per l’usucapione, la prova
dell’ultimo acquisto informale doveva risultare comunque più
agevole. Ritiene che la Publiciana fosse concessa solo ai soggetti non
legittimati all’esercizio della rei
vindicatio G. DIÒSDI, Ownership
cit., 160 e nt. 66, sulla base della considerazione che l’azione si
basava sulla finzione del compimento dell’usucapione e dunque,
presumibilmente, il magistrato si rifiutava di concedere la Publiciana a chi
già fosse proprietario; tale A. non ritiene pertanto applicabile alla
fattispecie in esame la massima romana in
eo, quod plus sit, semper inest et minus (Gai D. 50.17.110 pr.), dal
momento che, per quanto risulta dalle fonti, le finzioni non venivano applicate
a favore di soggetti che non ne avessero bisogno.
[74] Gai 1.54; 2.40.
[75] V. quanto già considerato al
riguardo in ‘Proprietà
assoluta’ e ‘proprietà relativa’, cit.; sul tema, fondamentali
gli spunti di M. TALAMANCA, Considerazioni
conclusive, in La proprietà e
le proprietà cit., 183 ss.
[76] Sul punto, si v. P. BONFANTE, Sul cosiddetto dominio bonitario e in
particolare sulla denominazione ‘in bonis habere’, in Scritti giuridici varii II cit., 370 ss.
[77] Per la discussione
[78] L’antica legis actio era infatti lo strumento processuale di tutela della
‘proprietà relativa’, caratterizzante l’età
romana arcaica: l’osservazione è di M. KASER, Eigentum und Besitz cit., 298.
[79] Fondamentale, sul tema, E. LEVY, West roman vulgar law. The law of property
(
[80] L’ipotesi di influssi
provinciali sull’affermazione, nell’ordinamento giuridico romano,
di forme di tutela dell’appartenenza estranee al diritto classico,
benché non suffragabile da prove specifiche, appare altamente probabile,
non solo per lo stretto contatto intrecciatosi con i provinciali
all’interno dell’esercito, ma, in materia di regime fondiario,
soprattutto per le massicce concessioni di terre romane ai Germani assoggettati
(Laeti), con l’obbligo di
difendere la provincia (terrae Laeticae).
Reputano determinante l’apporto di esperienze esterne nelle concezioni
del regime proprietario romano A. GAUDENZI, L’antica
procedura germanica e le ‘legis actiones’ del diritto romano
(Bologna 1884); A. BISCARDI, Studi
III cit., 343; B. BRUGI, Della
proprietà, in Il diritto
civile italiano secondo la dottrina e la giurisprudenza, diretto da B.
BRUGI, IV (Napoli-Torino 1923) t. 1, 14 s.; G. LONGO, L’onere della prova nel processo civile romano, in IURA 11 (1960) 149 ss.
[81] Per le oscillazioni degli studiosi sulla
esatta natura delle forme di appartenenza e soprattutto sulla struttura dei relativi
rimedi processuali, cfr. soprattutto G.A. LEIST, Der attische Eigentumsstreit im System der Diadikasien (Jena 1886);
A. KRÄNZLEIN, Eigentum und Besitz im
griechischen Recht des fünften und vierten Jahrhunderts v. Chr. (B.
1963) con altra lett.
[82] Mi riferisco agli studi di G. DIURNI, Le situazioni cit.
[83] Cfr. con quanto già illustrato in ‘Proprietà assoluta’ e ‘proprietà relativa’ cit., § 11, cui rinvio anche per i ragguagli
bibl.; assolutamente fondamentali, L. HEUSLER, Die Gewere cit.; ID., Institutionen
cit., 1 ss.
[84] E’ evidente che il sistema della
‘proprietà divisa’ o ‘appartenenza funzionalmente
divisa’ (Geteiltes Eigentum)
non aveva nulla a che vedere con il ben diverso fenomeno della
contitolarità del diritto di proprietà; ampiamente, sul tema, P.
GROSSI, Le situazioni reali
nell’esperienza giuridica medievale (Padova 1968); ID. Un altro modo di possedere (Milano 1977) con altra bibl.
[85] Tanto risulta dai documenti della
prassi, per il cui esame si rinvia a G. DIURNI, Le situazioni possessorie cit., 46 ss., 196 ss.
[86] Sull’assenza della
proprietà individuale presso i popoli franco-germanici, indifferenti, in
particolare, alla proprietà fondiaria, sono assolutamente esplicite le
attestazioni di Caes. de bell. Gall.
4.1.3–7; 6.21.1–2; e di Tac. Germ. 26.2, riportate per esteso in ‘Proprietà assoluta’ e
‘proprietà relativa’ cit., § 11.
[87] Si rinvia, sul punto, alla dettagliata
esposizione in M. A. BETHMANN-HOLLWEG, Der
Civilprozess des gemeinen Rechts in geschichtlicher Entwicklung. IV, Der germanisch-romanische Civilprozess
(Bonn 1868, rist. 1874); E. ECK, Die
sogenannten doppelseitigen Klagen
cit.; J. GAUDEMET, La preuve
(Bruxelles 1964) 99 ss.; G. DIURNI, Le
situazioni possessorie cit., 46 ss., 97 ss., con altra bibl.
[88] Ciò attesta ed. Rotari
[89] In tal senso, G. ASTUTI, Spirito
[90] V. l’esposizione in ‘Proprietà assoluta’ e
‘proprietà relativa’ cit., § 11. Sulla discussa
interpretazione della formula malo ordine,
cfr. P. OURLIAC – J. DE MALAFOSSE, Histoire
du droit privé. II, Les biens
(
[91] Così P. S. LEICHT, Il diritto privato preirneriano (Bologna
1933) 147 e nt. 1, e da P. OURLIAC – J. DE MALAFOSSE, Histoire cit., II, 332; altri dettagli
in ‘Proprietà
assoluta’ e ‘proprietà relativa’ cit., § 11.
[92] Sul punto, sono assolutamente
espliciti i contenuti della lex ribuaria
33 e della lex salica 49. Altre fonti
e rassegna bibl. in G. DIURNI, Le
situazioni cit., 97 ss. e passim;
L. MENGONI, Gli acquisti cit., 44 s.
[93] Il tema è stato trattato in ‘proprietà assoluta’ e
‘proprietà relativa’ cit., § 12 e soprattutto nei
miei studi su La tutela cit., 155 ss.
Il testo più significativo è un rescritto
[94] Circa un secolo dopo il rescritto
di cui alla nt. prec., in antitesi con l’indirizzo espresso da Caracalla
nel 215, Costantino, con una cost.
[95] La tutela cit., 174 ss.;
‘Proprietà assoluta’ e ‘proprietà
relativa’ cit., § 12. CTh. 11.39.12: Cogi possessorem ad eo qui
expetit titulum suae possessionis edicere, quae
[96] Al riguardo, rinvio alle
considerazioni che ho svolto in ‘Abstraktes
Eigentum’ cit., 180 ss.
[97] Lo sottolineava già P.
BONFANTE, L’editto publiciano,
in Scritti II cit., 389 ss.,
specialm. 406 ss.; ID., L’azione
Publiciana nel diritto civile, ibid.,
439 ss.; v. ora anche C.A. CANNATA, Corso
di Istituzioni di diritto romano I
(Torino 2001) 551 ss.; per altri ragguagli sul punto, rinvio alla seconda parte
[98] Per una trattazione più
approfondita su queste vaste e complesse tematiche, si v. quanto ho già
esposto in ‘Proprietà
assoluta’ e ‘proprietà relativa’ cit.,
§§ 13–15, con bibl.
[99] A tal riguardo, tra la vasta bibl.
già segnalata supra, al §
2, v. soprattutto W.W. BUCKLAND-A.D. Mc NAIR, Roman law and common law cit., 67 ss.; A. GAMBARO, La proprietà cit., 57 e nt. 35.
[100] Ulteriori informazioni su quel tipo
di real property che viene detta
[101] Così F.H. LAWSON – B.
RUDDEN, The law of property cit.,
115.
[102] In tal senso, F. POLLOCK –
F.W. MAITLAND, History cit., 67.
[103] Nel caso Martin d. Tregonwell v. Strachan, (1742) T.R., 107; il principio
è stato accolto dalla House of Lords – Danford v. Mc Anulty, (1883) 8 App. Cas., 456-, nonché dal Privy Council – Emmerson v. Maddison,
[1906] A.C., 569; ulteriori ragguagli in S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 17 ss.
[104] Nell’azione di ejectment “possession is prima facie evidence of legal
title” (per questa formula, e relativa
casistica, cfr. S.A. WIREN, The plea of
‘ius tertii’ in ejectment, in LQR. 41 [1925] 139 ss., specialm. 142). Sui caratteri generali del
rimedio in oggetto, P.H. WINFIELD – J.A. JOLOWICZ, On tort, 10° ed. (L. 1975) 385 ss., e v. infra, nel testo.
[105] E ciò dal momento che i
nessi sussistenti con l’illecito civile (tort) sarebbero di natura puramente storica: F.H. LAWSON, The rational strenght of english law (L.
1951) 125; sulle cause storico-giuridiche
[106] Discussione del problema, con
riferimenti bibl., in S. FERRERI, Le
azioni reipersecutorie cit., 18 s.
[107] Così A.D. HARGREAVES, Terminology and title in ejectment, in LQR. 56 (1940) 378 ss.
[108] W. HOLDSWORD, History of english law, VII (cap. The land law. Trespass and Ejectment) (L. 1909) 62. Tale a.
è definito da A. D. HARGREAVES (Terminology
and title cit., 378) “il più rivoluzionario” tra quanti
hanno studiato la struttura dell’ ejectment.
[109] Questo pensiero è stato
ribadito da W. HOLDSWORTH, nell’articolo Terminology and title in ejectment. A reply, in LQR. 56 (1940) 479 ss., scritto in
replica alle critiche mossegli da Hargreaves.
[110] In forza
[111] Per la cui elencazione, si v. Halsbury’s statutory instruments,
XVIII, Real property, P.I.: Land registration.
[112] L’efficacia della
registrazione consiste nella garanzia per evizione assunta dallo Stato e della
quale può avvalersi l’acquirente qualora l’alienante non sia
owner del legal estate; altra importante funzione della registrazione
è quella della pubblicità (l’acquirente è posto in
grado di conoscere eventuali legal
estates o interests che terzi
vantino sull’immobile), nei confronti della quale, tuttavia, la cultura
giuridica anglosassone continua a manifestare la sua tradizionale insofferenza:
ampia trattazione in M. LUPOI, Appunti
sulla real property e sul trust nel diritto inglese (Milano 1971) 88 e passim.
[113] N. PICARDI, La trascrizione delle domande giudiziali (Milano 1968) 128.
[114] S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 28.
[115] V. al riguardo S.A. WIREN, The plea of ‘ius tertii’
cit., 142.
[116] Sulle ragioni storiche di questo
assetto,
[117] Dati in S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 25 nt.
59.
[118] Il possesso valido come titolo in ejectment sarebbe, secondo Holdsworth,
il rapporto materiale con il bene protratto per il termine indicato negli Statutes of Limitation, che è
generalmente ventennale: dettagli in S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 25 e nt. 60.
[119] Che si muove sulla scia di F.H.
LAWSON, The rational strenght cit.,
99 s.
[120] Così F.H. LAWSON, o.l.u.c.
[121] Gli eventi fondamentali
nell’affermazione
[122] ‘Proprietà
assoluta’ e ‘proprietà relativa’ cit., § 19.
[123] Particolarmente efficace resta, al
riguardo, la trattazione di B. BRUGI, Il
diritto civile italiano secondo la dottrina e la giurisprudenza. IV, Della proprietà, t. 2, 2° ed.
(Napoli-Torino 1923) 58, nt. 2 s.
[124] Queste le parole di B. BRUGI, Della proprietà II cit., 578.
[125] Ulteriori informazioni in
A. AMATI – A. CASTELLI, Manuale
sul codice generale austriaco (Milano 1844) 158; G. BASEVI, Annotazioni pratiche al Codice civile
austriaco (Milano 1847) 118 ss.; B. BRUGI, Della
proprietà cit., 56 ss.; A. SCIUME’, s.v. Rivendicazione cit., 45.
[126] Così A. AMATI – A.
CASTELLI, Manuale cit., 161
[127] Ciò benché nel terzo
libro del BGB (Sachenrecht) sia
tracciata una netta distinzione tra regime della proprietà immobiliare
(§§ 925–928) e mobiliare (§§ 929–936); una
differenziazione nella tutela dei beni sussiste nella previsione di
un’azione di natura ibrida e del tutto particolare (poi imitata anche dal
Codice civile svizzero), che attribuisce ai beni mobili una “protezione
possessoria di natura petitoria”: altri elementi e bibl. in S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 76 s.
[128] Tant’è che la dottrina
tedesca non disdegna di qualificarla occasionalmente come rei vindicatio (cfr. F.
BAUR, Lehrbuch des Sachenrechts
[München 1973] 81) e di definirla come una “Verwirklichung des
Eigentums” (H. WESTERMANN, Sachenrecht
[Karlsruhe 1960] 137).
[129] La necessità di instaurare una relazione
di interdipendenza tra azione processuale e diritto tutelato è ben colta
e sottolineata dagli interpreti (H. WESTWERMANN, Sachenrecht cit., 136: “der Anspruch ist dem Eigentum
gegenüber unselbständig, fällt also mit ihm fort“)
[130] E dal momento che in Germania la
validità degli atti traslativi dei diritti sugli immobili è
subordinata alla registrazione nel libro fondiario, solo in pochi casi (quali,
ad es., la successione a causa di morte, o i provvedimenti giudiziali, per cui
il proprietario non annotato nel libro fondiario può chiedere la
correzione) l’attore è tenuto a una prova più complessa: F.
BAUR, Lehrbuch des Sachenrechts,
2° ed. (München 1985) § 22; S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 78.
[131] V. infra, nel testo; dettagliata trattazione della disciplina tedesca
in L. MENGONI, Gli acquisti ‘a non
domino’ (rist. 3° ed., Milano 1994) 74; S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 78 ss.,
con altra bibl.
[132] Si tratta di un sistema apertamente
‘invidiato’ dagli interpreti francesi, i quali esprimono accorato
rammarico per essere costretti ad accontentarsi di una prova relativa della
proprietà, a causa
[133] S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 145, la quale rileva (p. 203), tuttavia,
che la tutela di cui dispone il proprietario tavolare tedesco è in fondo
solo ‘relativa’, in quanto colui che figura come proprietario sul
libro fondiario soccombe nei confronti dell’acquirente titolare di un
diritto personale (è proprio quest’ultimo, anzi, che il diritto
romano avrebbe qualificato come dominus
ex iure Quiritium). Sotto questo profilo, va quindi esclusa la riproduzione
pedissequa, in Germania,
[134] Scolpisce efficacemente, e in
estrema sintesi, un passaggio di questa vicenda A. GAMBARO (Presentazione cit., VII): “…
l’influenza delle regole romanistiche, dominanti in materia immobiliare,
spinge perché sia adottato il criterio della usucapione trentennale,
niente meno. Ma la reazione
germanistica non si fa attendere: si proclama la regola dell’anno e
giorno. Il possesso per
tal tempo protrattosi si trasmuta in una forma di proprietà”.
[135] Al cui primo comma si enuncia il
celebre principio “En fait de meubles la possession vaut titre”;
esauriente analisi dell’art. 2279 e
delle sue radici storiche in L. MENGONI, Gli
acquisti cit., 34 ss.; S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 58 ss.; v. anche quanto già
esposto in L. SOLIDORO MARUOTTI, La
tradizione romanistica nel diritto europeo. II, Dalla crisi dello ‘ius commune’ alle codificazioni moderne
(Torino 2003) 109 s.
[136] La trattazione insufficiente e
frammentaria della rivendica all’interno di alcuni codici moderni
è stata considerata da B. BRUGI (Della
proprietà II cit., 566) la inevitabile conseguenza dell’approccio
radicalmente differente che caratterizza il sistema codicistico rispetto al
diritto romano: mentre questo era fondato sulle azioni, “la nostra legge
determina dei diritti, rilasciando molto, per le azioni, alla dottrina, salvo
la necessità del Codice di procedura per la competenza, per la forma
degli atti processuali etc.”.
[137] Secondo la definizione di M.PLANIOL
– G. RIPERT- M. PICARD, Traité
pratique cit., III § 351, 318, “la rivendicazione è
l’azione esercitata da una persona che reclama la restituzione di una
cosa, pretendendo di esserne il proprietario”, pertanto, “la
rivendicazione si fonda sull’esistenza
[138] H. MAZEAUD – L. MAZEAUD, Leçons de droit civil II (Paris
1967) 279: “In nessun testo
[139] Si è rilevato (C. AUBRY
– F.C. RAU, Cours de droit
français d’après la méthode de Zachiariae,
4° ed. [Paris 1869–1878] § 219), infatti, che “fuori
dall’usucapione, la prova del diritto di proprietà (…) non
potrebbe, in pura teoria, essere fornita in modo completo che con la produzione
di un titolo traslativo della proprietà, accompagnata dalla
giustificazione del diritto del dante causa immediato e di quello dei
predecessori di quest’ultimo. Ma una prova così rigorosa si
concilierebbe difficilmente con le esigenze pratiche; e sembra, d’altra
parte, che dal punto di vista dell’equità non si possa pretendere
dal rivendicante che la prova di un diritto migliore o più probabile di
quello
[140] Lo sottolineano M. PLANIOL –
G. RIPERT – M. PICARD, Traité
pratique cit., III 354.
[141] Così, in particolare, A.
COLIN – H. CAPITANT, Traité
de droit civil VII cit., § 462, 250.
[142] In tal senso A. COLIN – H.
CAPITANT, Traité de droit civil
VII cit., § 462, 250.
[143] Cfr. A. GAMBARO, Presentazione cit., IX s.
[144] Rinvio a quanto ho già
segnalato ne La tradizione romanistica
II cit., 117.
[145] Sul punto cfr. S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 102 ss.,
con altra bibl., e v. quanto già esposto supra.
[146] In questo senso, v. soprattutto C. AUBRY – F.C. RAU, Cours de droit civil français,
cit., § 219; M. PLANIOL – G. RIPERT – M. PICARD, Traité pratique cit., III 360
s.
[147] Lo ricorda A. GAMBARO, Presentazione cit., X. E’
interessante notare che, al contrario, l’Imperatore Costantino indicava
nel giudizio comparativo lo strumento processuale più idoneo per il
conseguimento della veritas in senso
oggettivo: v. supra, nt. 94.
[148] La nozione di
‘proprietà relativa’, applicata da M. KASER (Eigentum und Besitz cit.)
all’esperienza giuridica romana, era già stata introdotta sul
finire del XIX secolo nell’ambito della romanistica tedesca e della scienza
civilistica francese; si v. quanto già esposto in ‘Proprietà assoluta’ e ‘proprietà
relativa’ cit.
[149] Le critiche –a mio avviso per
lo più non condivisibili- che ha suscitato l’impiego della
categoria ‘proprietà relativa’ hanno indotto di recente gli
studiosi a circoscrivere il concetto della relatività in ambito
strettamente processuale, inquadrando i fenomeni fin qui illustrati come forme
di ‘tutela relativa’ della proprietà (v. ad es. L. MENGONI, Gli acquisti cit., 113 ss., 152 ss.). La
relatività del diritto di proprietà è definita da A.
TABET, s.v. Rivendicazione cit., 227
nt. 1-, in modo piuttosto sbrigativo, un “concetto erroneo”;
è sorprendente che al più convenzionale concetto di
‘proprietà assoluta’ non si rivolga invece, generalmente,
un’attenzione altrettanto critica.
[150] Così A. AMATI – A.
CASTELLI, Manuale cit., 161; A.
SCIUME’, s.v. Rivendicazione
cit., 46.
[151] In questo ambito, ebbe grande peso
la costruzione di R.-J. POTHIER, Traité du droit de la
propriété, in Traités-Oeuvres,
2° ed. (
[152] A. DURANTON, Corso di diritto civile secondo il codice francese IV (
[153] R.T. TROPLONG, Commentaire sur la prescription I (Bruxelles 1843) 230; ID., Le droit civil expliqué suivant
l’ordre du Code Civil. De la vente I (Bruxelles 1841) n.235.
[154] C. DEMOLOMBE, Corso
[155] C. AUBRY – F.C. RAU, Cours de droit civil français, 4° ed., cit., § 219, n.1.
[156] S. FERRERI, Le
azioni reipersecutorie cit., 109.
[157] Questa la strada indicata
da già R.-J. POTHIER, Traité
du droit de la propriété cit., § 292, su cui v. B.
BRUGI, Della proprietà II, cit., 595.
Come si è accennato, all’attore si richiede solo di provare di
avere in passato posseduto, di avere posseduto anteriormente al convenuto e di
avere attuato un possesso “meglio caratterizzato”, anche se non corredato dei requisiti della possessio ad usucapionem: A. COLIN – H. CAPITANT, Traité de droit civil II (Paris
1959) 253; M. PLANIOL – G. RIPERT – M. PICARD, Traité pratique cit., III 354.
[158] F. LAURENT, Principi di diritto civile IV (tr. it. Milano 1910) 155 ss.
[159] Cours de droit
français,
cit., II, 7° ed., (cur. ESMAIN) 507, n.3. L’esigenza di ammettere
l’esistenza di tale rimedio sarebbe in ciò, che “se è
sufficiente aver posseduto per un anno per esercitare la complainte in caso di spossessamento, sarebbe sorprendente che
colui che ha posseduto per ventotto anni non possa, se è stato privato
[160] G. BAUDRY-LACANTINERIE – A.
CHAVEAU, Traité théorique
et pratique de droit civil V. Les
biens (
[161] Così C. AUBRY-
F.C.RAU, Cours de droit français
II. Droits réels, 5° ed., cur. RAU-FALCIMAIGNE (
[162] Traité du droit
de propriété cit., 463, n.323: “... il titolo che produco non mi è di
per sé sufficiente ... a meno che ne produca altri più antichi
che provino che colui il quale ... mi ha venduto o regalato il bene che
è oggetto dell’azione di rivendica ne era effettivamente
proprietario: perché io non posso procurarmi un titolo con una vendita o
una donazione di un immobile che altri possiede, da una persona che non
possiede; il possessore è, per la sua sola qualità di possessore,
presunto essere il proprietario del bene, invece di quello che me l’ha
venduto, che non lo possedeva …”.
[163] Cass. Ch. Civ. 22 juin
[164] S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 114, con altra bibl. e riferimenti
giurisprudenziali.
[165] Dati in S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 118 s.,
con altra bibl.
[166] Lo chiariscono, tra gli altri, C.
AUBRY- F.C. RAU, Cours de droit civil
français II cit., 347, 389; e, in Italia
(v. infra, § 14), E. PACIFICI
MAZZONI, Istituzioni di diritto civile
italiano II (Firenze 1867) 31 ss.; G. LOMONACO, Della distinzione dei beni e del possesso (Napoli 1891) 554 ss.
[167] V., tra gli altri, E. CARUSI, L’azione publiciana è
ammissibile nel diritto civile, in Annuario
critico, 1890, 444; C. FERRINI, L’azione
publiciana nel diritto civile, ibid.,
154; A. DOVERI, Istituzioni di diritto
romano I (Firenze 1866) 541; F. FILOMUSI GUELFI, Diritti reali (Roma 1902) § 43.
[168] In Appendice a G. BAUDRY-LACANTINERIE – A. WAHL, Dei beni, cit., 959; ID., L’azione Publiciana nel diritto civile,
in Scritti giuridici varii II. Proprietà e servitù (
[169] Della proprietà
II cit., 575 ss., specialm.
592 ss.
[170] P. BONFANTE, Appendice, cit., 959; il BRUGI, invece, pur negando vigorosamente
l’ammissibilità della Publiciana per la tutela della
proprietà immobiliare, ne asserì la validità in ordine ai
beni mobili (Della proprietà
II cit., 602). Il rifiuto in toto della
Publiciana è stato espresso anche da G. TISCORNIA, Sulla prova della proprietà nel diritto italiano, in Cassazioni unite civili, 1910, 209; A.
BUTERA, La rivendicazione nel diritto
civile, commerciale e processuale II (Milano 1911) 359 ss.
[171] Nell’affermazione
[172] A. SCIUME’, s.v. Rivendicazione cit., 48, così
sintetizza i rilievi di A. BUTERA, Rivendicazione
cit., 603, e di A. GRANITO, s.v. Rivendicazione
(azione di), in D.it., XX, pt. 2 (Torino 1913/1918) 1400
ss., specialm. 1416.
[173] Su cui cfr. M. NOBILI, Il principio
[174] Così, A. GRANITO, s.v. Rivendicazione cit., 1413, con
giurisprudenza; v. anche A. SCIUME’, s.v. Rivendicazione cit., 48; tra le pronunce giurisprudenziale v.
soprattutto Cass.
[175] S. FERRERI, s.v. Rivendicazione cit., 55;
l’adesione alla dottrina già formulata in Francia da R.-J- POTHIER, Traité du droit de la
propriété cit., §§ 323–337, e poi accolta,
tra gli altri, come già segnalato da AUBRY- RAU e APPLETON, si registra
anche in Italia, ad opera di G. LOMONACO, Istituzioni
di diritto civile italiano III (Napoli 1827) 127; E. PACIFICI MAZZONI, Istituzioni di diritto civile italiano
III, pt. I (
[176] V. per tutti A. TABET –
[177] In giurisprudenza, v. ad es.,
Cass., 25 novembre
[178] Cfr. L. BARASSI, Proprietà e comproprietà
cit., 836; G. RUSSO, Azioni a difesa
della proprietà, in Commentario
al codice civile, diretto da M. D’AMELIO-E. FINZI, III, Libro della proprietà (Firenze 1942) 515; F. DE MARTINO,
[179] Lo sottolinea A. TABET, s.v. Rivendicazione cit., 227.
[180] Il problema fu già posto sul
finire del XIX secolo (approfondimenti in A. SCIUME’, s.v. Rivendicazione cit., 47 s.) e il
dibattito che ne scaturì fece emergere la tendenza –in dottrina e
in giurisprudenza- al riconoscimento all’enfiteuta del diritto di
esercitare la rivendica; attualmente, è opinione comunemente accolta che
ai titolari dei diritti reali limitati spetti l’esercizio di una azione
che taluni qualificano ‘rivendicazione’, altri ‘azione
confessoria’: altri dettagli, con ampio ragguaglio bibl., in S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 6 ss.
E’ invece escluso l’esercizio della rivendica da parte del nudo proprietario, in quanto privo del diritto di
godimento e di possesso della cosa: A. BUTERA, Delle azioni a difesa della proprietà, in Il nuovo codice civile italiano commentato
(Torino 1941) 275; F. SALARIS, L’azione
di rivendicazione, in Trattato di
diritto privato, diretto da P. RESCIGNO, VII, t. 1 (Torino 1982) 676.
[181] Ampi ragguagli
in A. TABET, s.v. Rivendicazione
cit., 227; F. DE MARTINO, Beni cit.,
538; S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie
cit., 122 ss.
[182] La dottrina ha esaminato la
questione soprattutto sotto la spinta di sentenze innovative: F. SCADUTO, Riconoscimento
[183] Cass., 9 febbraio 1956, n.
[184] Lo sottolinea A. DI MAJO, La tutela civile dei diritti III, 3° ed. (Milano 2001) 86.
[185] Cass., 4 luglio 1966, n.
[186] Cass., 6 dicembre 1974, n.
[187] Cass., 9 febbraio 1981, n.
[188] Cass., 21 luglio 1984, n.
[189] V. ancora Cass., 9 febbraio 1981,
n. 816 cit.
[190] Cass., 10 marzo 1969, n. 771.
[191] Esemplare, in tal senso, già
Cass., 18 febbraio 1966, n.
[192] Così S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 124.
[193] Cass., 9 febbraio 1956, n. 392 cit.
[194] V. specialm. GIAMMIRO, Revindica cit., 140.
[195] Molto significativo degli
orientamento in oggetto è anche il principio (confermato dalla
giurisprudenza) della libertà dei mezzi di prova, tema su cui rinvio
alle considerazioni svolte da S. FERRERI, Le azioni
reipersecutorie cit., 126 ss. ove ampio ragguaglio su dottrina e
giurisprudenza.
[196] V. ad es., G. PESCATORE – A.
DI FILIPPO, Rassegna di giurisprudenza
sul codice civile, L. III, t.1, art. 810–977 (Milano 1968) 511, nt.
27; in giurisprudenza, C. App. Milano, 20 giugno
[197] V. tra gli altri L. BARASSI, Proprietà cit., 827;
l’azione di mero accertamento
[198] Così Cass., 5 maggio 1973,
n.
[199] Cass., 25 gennaio 1957, n.
[200] Dottrina e giurisprudenza sono
pressoché concordi nel ritenere che l’azione di accertamento possa
essere proposta anche da chi non è in possesso
[201] Così A. DI MAJO, La tutela III cit., 86.
[202] Nelle Istituzioni giustinianee si afferma che vi è un solo caso in cui
la rivendica spetta a chi possiede, rinviandosi a tal riguardo ai Digesti (
[203] Cass., 16 ottobre 1970, n.
[204] G. VERDE, L’onere della prova nel processo civile (Camerino 1974) 464.
[205] Sulle
conseguenze della configurazione di una ‘rivendica relativa’,
approfondita trattazione in L. MONTESANO, La tutela
giurisdizionale dei diritti (Torino 1985) 220 ss.; cenni in A. DE MAJO, La tutela III cit., 88.
[206] S.v. Rivendicazione cit., 228.
[207] A. PROTO PISANI, Sulla tutela giurisdizionale “del
diritto di proprietà” cit., c. 434; ne condividono
l’impostazione S. FERRERI, Le
azioni reipersecutorie cit., 140 ss.; A. DI MAJO, La tutela III cit., 87 s.
[208] Cfr. soprattutto C. AUBRY- F.C.
RAU, Cours de droit civil français,
7° ed., II cit., 506, nt. 3 ; v. sul punto S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 106 s.,
nt.23.
[209] G. VERDE, L’onere della prova cit., 458 nt. 742.
[210] G. VERDE, L’onere
della prova cit., 459.
[211] Cfr. al riguardo, correttamente, L.
MENGONI, Gli acquisti cit., 113 ss.,
152 ss.
[212] Ampia trattazione in L. MENGONI, Gli acquisti cit., 255 ss.
[213] V. supra, nel testo.
[214] Così A. DI MAJO, La tutela III cit., 86.
[215] In questo senso A. GAMBARO, La proprietà (Milano 1990) 400.
[216] Il principio della tipicità
delle azioni non costituì un’assoluta costante neppure
dell’esperienza giuridica romana: esso cadde nel corso dei secoli IV e V
[217] A. DI MAJO, La tutela III cit., 86 s.
[218] A. DI MAJO, La tutela III cit., 87, e, per il riferimento alla Publiciana, A.
GAMBARO, La proprietà cit.,
400.
[219] Dettagliata dimostrazione
in A. BISCARDI, Studi III cit., 297
ss.; E. LEVY, Property cit., 210 ss.;
C. A. CANNATA, ‘Possessio’ cit., 168 ss.;
M. MARRONE, s.v. Rivendicazione cit.,
26; L. SOLIDORO MARUOTTI, La tutela
cit., 202 ss.
[220] Ho già altrove (La tutela cit., 173 s., 202 ss.) tentato
di dimostrare che la fattispecie illustrata in CTh. 11.39.1, a.325, è
collegata con il problema della dilatazione della rivendica, verificatosi in
epoca postclassica. Intorno al IV sec., infatti, la rivendica era ritenuta
esperibile anche quando il bene di cui si chiedeva la restituzione era stato
antecedentemente consegnato dallo stesso attore al convenuto: la tutela
restitutoria si assommava, dunque, a quella derivante da contratto: per un
precedente storico, si l. CTh. 11.39.1, su cui rinvio a quanto esposto in ‘Proprietà assoluta’ e
‘proprietà relativa’ cit., § 12 e nt. 69.
[221] Amplius, A. GAMBARO, La proprietà cit., 409.
[222] Pioniere, in questo campo, fu senza
dubbio S. PUGLIATTI, di cui si l. soprattutto La proprietà e le proprietà con riguardo particolare alla
proprietà terriera, in Atti
del terzo congresso internazionale di diritto agrario, Palermo, 19–23 ottobre
1952, cur. CASCIO (Milano 1954) 46
ss., anche in La proprietà nel
nuovo diritto (Milano 1954) 145 ss.