Università
di Sassari/Seminario di Diritto Romano/Pubblicazioni-7
Francesco Sini
Sassari,
Libreria Dessì Editrice, 1991
pp.
304
Digesta Iustiniani 1, 8, 6, 5
(Marcian. l. III inst.) ... sicut
testis in ea re est Vergilius.
Capitolo
Quinto
Placida Pax
sommario: 1. Virgilio poeta della
pace. – 2. Pacique imponere morem
di Aen. 6.852 e la nozione romana di
pace. – 3. Foedus e pax.
– 4. Altri impieghi virgiliani di pax in senso giuridico. La pace degli
dèi. – 5. Segue. I rapporti tra
gli uomini. – 6. Placida populos
in pace regebat: pace tra passato e fututo.
[p. 235]
Nella
poesia di Virgilio si è espressa compiutamente la profonda aspirazione
alla pace diffusa fra gli uomini di quella generazione. Rivolgendosi ai
concittadini, provati da persistenti e terribili guerre civili, il poeta ha
cantato i benefici della pace ritrovata, della nuova età dell’oro:
in sintonia con una delle idee portanti della politica di Augusto[1].
[p. 236]
Nell’Eneide,
fin dal primo libro, risaltano la centralità e il carattere
provvidenziale dell’azione di Ottaviano, indicata dallo stesso Iuppiter nello svelare a Venere i fata degli Eneadi quale termine ultimo
degli eventi narrati nel poema[2].
Così dalla profezia del sommo dio, il lettore coevo di Virgilio apprende
il suo presente: che per merito del princeps
diverranno pacifici gli aspera
saecula[3];
che si chiuderanno per sempre le dirae
portae della guerra (il tempio di Giano), dove resterà imprigionato
il furor impius con le sue armi
crudeli finalmente inoffensive[4].
[p. 237]
La
poetica virgiliana sottende una concezione della storia rappresentata
religiosamente come prodotto «eines Wirkens der Gotter», da cui
consegue il governo mondiale dei Romani, da intendere come missione religiosa,
fondata ‑ ha scritto Antonie Wlosok[5]
‑ sulla convinzione che esista «eine theologische Deutung der
römischen Geschichte und Herrschaft». Appaiono, quindi, del tutto
incomprensibili le tesi di quegli studiosi che pretendono di trasformare
Virgilio, da propugnatore della pace e dell’impero, in teorico del
cosiddetto imperialismo romano. Tale è il caso, ad esempio, del grande
[p. 238]
romanista tedesco F. Schulz[6], il quale riteneva «decisamente colorita d’imperialismo giuridico» la missione provvidenziale attribuita a Roma nell’Eneide. Alla stessa stregua Ch. Parain[7] valuta i famosissimi versi 847 ss. del VI libro, quando afferma che nel complesso la concezione religiosa ivi espressa «legittima l’imperialismo e le sue violenze».
Non
è questo il luogo per attardarsí sull’argomento,
basterà appena ricordare che in due recenti saggi, R. Rieks e I. Lana[8]
hanno riaffermato la centralità dell’idea della pace nella poesia
virgiliana: ad avviso del primo, il poeta non può essere considerato
ideologo unilaterale del principato di Augusto e dell’imperialismo
romano, anzi nessun altro autore dell’epoca ha con eguale valore
«den Krieg verurteilt und die Idee eines universalen Fríedens als
Leitthema über alle seine Dichtung gesetzt»[9];
ancora più esplicita la tesi del Lana, il quale, assai opportunamente,
evidenzia che «secondo Virgilio
[p. 239]
il compito
affidato dagli dèi a Roma è
l’instaurazione della pace per tutti gli uomini»[10].
Proprio
un passo virgiliano illumina, forse più di ogni altro testo antico, la
nozione “romana” della pace, intesa nei suoi aspetti essenziali
religiosi e giuridici. Si tratta dei versi 847-853 del libro VI
dell’Eneide:
Excudent
alii spirantia mollius aera
(credo equidem), vivos ducent de marmore voltus,
orabunt causas melius, caelique meatus
describent radio et surgentia sidera dicent:
tu regere imperio populos, Romane, memento
(hae tibi erunt artes) pacique imponere morem,
parcere
subiectis et debellare superbos[11].
[p. 240]
Agli
effetti del nostro discorso non rileva acquisire la certezza su quale sia la
lezione più corretta del v. 852: se cioè debba leggersi paci,
come propone da ultimo E. Paratore[12],
oppure pacis, come già faceva
Servio[13].
Allo stesso modo, non è possibile discutere in questa sede le molteplici
e rilevanti questioni ideologiche insite nei vv. citati, né prendere
partito tra le diverse posizioni presenti nella dottrina: sia che si tratti
della tesi di H. E. Stier[14],
il quale sottolinea piuttosto il debellare
superbos e di conseguenza intende la pace come «bewaffneter
Friede»; oppure di quella di P. Grimal[15],
[p. 241]
secondo cui
Virgilio «a donné la formule de l’Empire, tel
qu’Auguste vient de le fonder à
nouveau»; sia infine che si acceda all’impostazione di V.
Pöschl[16]:
questo studioso dimostra, in maniera assai convincente, come nei versi in
questione, che dal punto di vista più generale «die römischen
Sendung umschreiben», proprio quel paci imponere morem costituisca l’elemento ideologico portante, in
quanto nessuna pace può realizzarsi senza il diritto.
Una
prima evidenza emerge dal passo: quella relativa al carattere bilaterale e
imperativo che nella realtà romana ha la nozione di pax. Al carattere
imperativo rimandano sia il termine mos, connesso con lex dal grammatico Servio nel suo commento al verso: Pacis morem leges pacis[17]; sia il verbo imponere[18]. L’osservanza di questa pax sembra essere condizione
[p. 242]
necessaria per
distinguere subiecti e superbi, assicurando la
legittimità del parcere nei
confronti dei primi[19]
e dello «sterminio con la guerra» nei confronti degli altri[20].
Nella pace,
[p. 243]
e nella sua
conservazione, risiedono dunque per Virgilio le motivazioni teologiche e storiche
dell’espansione "mondiale" dell’imperium populi Romani[21].
[p.
244]
Non
meno evidente risulta il carattere bilaterale della pace alla luce di altri
passi virgiliani:
Tum socios maestique metum solatur Iuli,
fata docens, regique iubet responsa Latino
certa referre viros et pacis dicere leges[22];
cum iam conubiis pacem felicibus (esto)
component, cum iam leges et foedera iungent[23];
Talibus Aeneadae donis dictisque Latini
sublimes in equis redeunt pacemque reportant[24];
perfettamente
aderenti alle definizioni che di pace davano giuristi e antiquari, i quali
sottolineavano la connessione etimologica del termine pax con le parole pactio
e pactum. é il caso della definizione attribuita da Verrio
Flacco all’antiquario augusteo Sinnio Capitone[25]:
Pacem a pactione condicionum putat dictam Sinnius
[p. 245]
Capito, quae utrique inter se populo sit observanda[26];
o di quella che i
compilatori giustinianei trassero dal quarto libro ad edictum di Ulpiano:
Pactum autem a pactione
dicitur (inde etiam pacis nomen appellatum est) et est pactio duorum pluriumve
in idem placitum et consensum[27].
Questa
etimologia, ammessa anche da molti linguisti moderni[28],
ricollega pax alla radice indoeuropea
pak-, alternante con pag-, da cui
anche l’arcaico pacere delle
XII Tavole[29],
[p. 246]
pacisci, pacio, pactio[30].
Pax, nome d’azione femminile,
designa l’atto di stipulare una convenzione, quindi gli atti relativi
alla situazione di pace[31];
in ciò sta anche la differenza tra pax
[p. 247]
e il termine
greco e„r»nh: mentre questo designa «il
contenuto e i frutti del tempo di pace, la pax
latina indica più semplicemente
il presupposto e la premessa di un contenuto, piuttosto che il contenuto
stesso»[32].
Solo in un secondo tempo, pax passerà
ad indicare lo stato di quiete che deriva dalla conclusione della pace[33].
Dato
il significato concreto della radice pak-«rendere
saldo, fermo», si può perfino supporre che in origine pax abbia indicato qualcosa di
materialmente determinato: in questo senso. appare stimolante
l’interpretazione proposta di recente da Marta Sordi[34]
per la quale l’arcaica pax sarebbe
connessa, mediante la pax deorum, al clavum
pangere, il conficcamento rituale
del chiodo attestato da Tito Livio[35].
La definizione
[p. 248]
giuridica di
pace, bilaterale e imperativa al tempo stesso, esprime pienamente il
«significato sacrale originario di pax»[36]:
accordo tra parti in conflitto (“atto” quindi che portava alla pace
e non “situazione di pace" che da esso conseguiva), che tuttavia
prefigurava, a simiglianza della pax
deorum, una gerarchizzazione dei rapporti tra le parti contraenti, pur in
presenza del idem placitum et consensum.
Da
ciò lo strettissimo legame tra guerra e pace, o meglio tra la vittoria
militare e il paci imponere morem[37], di cui più
[p. 249]
tardi in
età imperiale avremo la trasfigurazione religiosa nell’iconografia
e nell’epigrafia: con la rappresentazione della Pace alata come la
Vittoria[38];
con iscrizioni a Mars pacifer o a Mars pacator[39].
Senza
infingimenti ideologici, Virgilio può ben dichiarare nel paci imponere morem l’essenza
della vocazione universalistica seguita dal populus
Romanus, seppure attraverso una
storia di guerre ininterrotte[40];
poiché il poeta è consapevole,
[p. 250]
in adesione alla
concezione giuridica e religiosa della pace, che solo attraverso la vittoria si
perviene allo “stato di pace”: tranquillitas,
quies, otium[41]; il cui momento iniziale consiste
nell’atto di pacem dare,
imponendo ai vinti l’accettazione delle leges pacis. Ma proprio questo atto d’imperio risulta per
Virgilio teologicamente salvifico per l’intera umanità; le guerre
dei Romani, con le innegabili conseguenze di atrocità e sofferenze, sono
tuttavia finalizzate dal volere divino ad un superiore interesse:
l’instaurazione della pax, che consentirà anche agli ex nemici (subiecti) di godere dei benefici insiti nell’osservanza delle leges pacis[42].
Nel
verso 356 del libro XI dell’Eneide, il termine pax appare connesso in rapporto causale con il foedus:
Unum etiam donis istis, quae plurima mitti
Dardanidis dicique iubes, unum, optime regum,
adicias, nec te ullius violentia vincat,
quin gnatam egregio genero dignisque hymenaeis
des, pater, et pacem hanc aeterno foedere iungas[43].
Per
Virgilio, in conformità delle pratiche dello ius fetiale, la fine
della guerra è sanzionata dalla celebrazione di un foedus, solenne cerimonia
religiosa e giuridica, di cui erano competenti, come per la indictio belli, i sacerdotes Fetiales[44],
i quali ne affidavano, col rito, il contenuto alla tutela di Iuppiter. Assai
[p. 252]
opportunamente
perciò il poeta indica fra le funzioni della divinità suprema
quella di foedera fulmine sancire:
Sic prior Aeneas, sequitur sic deinde Latinus
suspiciens caelum tenditque ad sidera dextram:
Haec eadem. Aenea, terram mare sidera iuro
Latonaeque genus duplex Ianumque bifrontem
vimque deum infernam et duri sacraria Ditis;
audiat
haec genitor, qui foedera fulmine sancit[45].
[p. 253]
Si
è discusso sul perché nei due foedera
descritti nell’Eneide con dovizia di particolari, Virgilio ometta la
partecipazione dei feziali. Infatti, sia nel trattato tra Romolo e Tito Tazio
del libro VIII[46],
sia in quello stipulato da Enea e Latino nel libro XII[47],
protagonisti dell’atto appaiono gli stessi re. Questa apparente
contraddizione, rispetto allo ius fetiale,
può risolversi non tanto
ipotizzando, come faceva Th. Mommsen[48],
l’esistenza di foedera conclusi
direttamente dal rex o dal magistrato
repubblicano; quanto, piuttosto, supponendo che Virgilio «volesse rappresentare
un’epoca in cui tutte le funzioni civili e religiose (quindi anche quelle
pertinenti al ius fetiale) erano concentrate nelle mani del rex»[49].
Del
resto, nel contesto virgiliano non mancano, come ha ben dimostrato già
nell’Ottocento L. Lersch[50],
né il sacerdote feziale:
[p. 254]
procedunt
castris, puraque in veste sacerdos
saetigeri
fetum suis intonsamque bidentem
attulit
admovitque pecus fiagrantibus aris[51];
né
riferimenti che rimandano a termini e situazioni dello ius fetiale:
Nunc sinite et placitum laeti componite foedus[52];
Haec omnis regio et celsi plaga pinea montis
cedat amicitiae Teucrorum et foederis aequas
dicamus leges
sociosque in regna vocemus[53];
congredior; fer sacra, pater, et concipe foedus[54];
o la stessa struttura rituale del foedus:
Post idem inter se posito certamine reges
armati Iovis ante aram paterasque tenentes
stabant et caesa
iungebant foedera porca[55].
[p. 255]
è noto che, nel
sistema giuridico-religioso romano, con la stipulazione del foedus si poneva termine contemporaneamente agli atti di guerra e al tempo
della guerra. Perciò Virgilio, con fine perizia giuridica, in alcuni
suoi versi associa al foedus sia la
fine della guerra, sia l’instaurazione della pace:
Nec minus interea maternis saevos in armis
Aeneas acuit Martem et se suscitat ira,
oblato
gaudens componi foedere bellum[56];
appena più avanti, in uno dei versi seguenti[57]
il dettare le clausole di questo foedus viene
definito pacis dicere leges; non
è
[p. 256]
poi,
certo, senza significato che anche in riferimento alla pace troviamo utilizzato
il verbo componere[58].
La connessione della pax col foedus risulta,
infine, attestata dalle parole del giuramento prestato da Latino nel corso
della stipulazione del trattato con Enea, prima del duello fatale:
Tango aras, medios ignis et numina testor:
nulla
dies pacem hanc Italis nec foedera rumpet,
quo
res cumque cadent[59].
Ma è nel commento di Servio al verso
266 del libro VII dell’Eneide (pars
mihi pacis erit dextram tetigisse tyranni), che la connessione tra foedus
e pax mostra tutta la sua valenza, spinta, nell’interpretazione del
grammatico, fino all’assorbimento di un termine nella sfera
dell’altro:
Pacis erit id est foederis: ab eo quod
sequitur id quod praecedit[60].
Esamineremo, a questo punto, le occorrenze
virgiliane di pax[61] dove l’utilizzazione del termine
è da intendere in
[p.
257]
senso
giuridicatnente proprio. Tratteremo prima dei versi che riguardano l’uso
di pax nei rapporti tra uomini e
divinità, nel paragrafo seguente di quelli che si riferiscono alle
relazioni tra gli uomini.
Dagli dèi, immensamente potenti
rispetto agli uomini, i Romani aspettano di ricevere pace e perdono[62];
ma sono anche coscienti che le loro colpe possono essere punite da Iuppiter con gravissimi mali:
Hae
Iovis ad solium saevique in limine regis
apparent
acuuntque metum mortalibus aegris,
si
quando letum horrificum morbosque deum rex
molitur,
meritas aut bello territat urbes[63].
Emerge così il concetto di pax deorum[64],
caratterizzato
[p.
258]
da
una situazione di amicizia nel rapporto tra uomini e divinità[65].
Tuttavia, dal punto di vista umano, il “legalismo religioso”[66]
dei sacerdoti romani configura la pax deorum
come una somma di atti e comportamenti, ai quali collettività e
individui
[p.
259]
debbono
necessariamente attenersi per poter conservare il favore degli dèi:
considerato condizione essenziale per la vita del popolo romano[67].
In questa prospettiva può ben comprendersi perché la
conservazione della pax deorum
costituisse il fondamento teologico dell’intero rituale romano[68];
e fosse, al tempo stesso, oggetto dello ius
publicum, non a caso tripartito in sacra,
sacerdotes, magistratus[69].
[p.
260]
Pax
ha nella concezione virgiliana anche precisi contenuti religiosi: anzi, nei
rapporti con gli dèi il poeta presenta la pace quale scopo ultimo di
sacrifici, voti e preghiere.
At sociis subita gelidus formidine sanguis
deriguit; cecidere animi nec iam amplius armis,
sed votis precibusque iubent exposcere pacem,
sive deae seu sint dirae obscenaeque volucres[70]
[p.
261]
Exposcere
pacem significa nella lingua di Virgilio, certo
improntata alle formule solenni dei sacerdoti[71]
placare numina, come spiega Servio:
Sed votis precibusque duplici ratione placantur, numina, aut votis aut
precibus[72].
Al concetto di pax deorum sembrano rimandare altri contesti virgiliani:
Tu munera supplex
tende petens pacem, et facilis venerare Napaeas[73];
Principio delubra adeunt pacemque per aras
exquirunt; mactant lectas de more bidentis
legiferae Cereri Phoeboque patrique Lyaeo,
Iunoni ante omnis, cui vincla iugalia curae[74].
Nel verso 534 del IV libro delle Georgiche interessa notare la parola supplex, impiegata per caratterizzare l’atteggiamento che
l’uomo deve tenere di fronte agli dèi; ma, come già notava
G. Appel, si può chiamare supplex anche
il nemico vinto, che prostrato ai piedi del vincitore tende le mani
[p.
262]
implorando
la vita[75]
e, naturalmente, la pace. In Aen. 4,
56-59 l’azione di exquirere pacem precede il sacrificio e ne costituisce la premessa rituale,
mentre altrove Eleno exorat pacem divom dopo
aver compiuto l’azione sacrificale:
Hic
Helenus caesis primum de more iuvencis
exorat
pacem divom vittasque resolvit
sacrati
capitis, meque ad tua limina, Phoebe,
ipse
manu multo suspensum numine ducit
atque
haec deinde canit divino ex ore sacerdos[76].
Questo è anche l’unico verso
di Virgilio in cui troviamo esplicitamente usata l’espressione pax deorum[77]. Il
contenuto, poi, è di particolare solennità rituale, come
aveva già rilevato il grammatico Servio[78],
spiegando che il verbo exorare nel
linguaggio sacerdotale significa impetrare.
[p. 263]
Mi pare possa intendersi in riferimento al
più generale concetto di pax deorum
anche l’interrogativo rivolto da Venere a Iuppiter:
Si sine pace tua atque invito numine
Troes
Italiam petiere, luant peccata neque
illos
iuveris auxilio; sin tot responsa
secuti,
quae superi Manesque dabant, cur
nunc tua quisquam
vertere iussa potest aut cur nova
condere fata?[79]
Sebbene Servio commenti: ergo ’pace’ benevolentia,
suffragio[80];
la forma di espiazione (luant peccata[81]
sembra far
[p. 264]
riferimento
proprio al fatto che il comportamento dei Troiani potrebbe non essere conforme
alla pax deorum.
Per Virgilio, infìne, gli dèi
sono i custodi della pax aeterna. Da
notare, al riguardo, come il poeta usi questa espressione solo in contesti che
hanno per protagonisti delle divinità[82].
Così in Aen. 4, 99 è Giunone che propone a Venere:
quin potius pacem aeternam pactosque hymenaeos
exercemus?;
mentre in Aen.
12.503-504:
tanton placuit concurrere motu,
Iuppiter,
aeterna gentis in pace futuras?[83]
è
lo stesso poeta che si rivolge direttamente al dio supremo. In questi ultimi
versi, l’esaltazione dell’aeterna
pax costituisce anche, come ben coglie E. Paratore, «un preannuncio
della pax Augusta, motivo d’attualità che da coerenza a tutta
l’ideologia che anima l’opera»[84].
[p.
265]
Nel
libro VII dell’Eneide, la furia Alletto, assunte le sembianze della
vecchia: sacerdotessa Calibe[85],
appare in sogno a Turno per esortarlo alla guerra, rivolgendosi a lui come
segue:
Turne,
tot in cassum fusos patiere labores
et tua Dardaniis transcribi sceptra colonis?
rex tibi coniugium et quaesitas sanguine dotes
abnegat externusque in regnum quaeritur heres.
I nunc, ingratis offer te, inrise, periclis;
Tyrrhenas,
i, sterne acies; tege pace Latinos[86].
Nelle
parole di Alletto si percepisce assai chiaramente la conformità del
testo virgiliano alla concezione religiosa e giuridica di pax, che postula la
guerra e la vittoria finalizzate all’instaurazione di una pace sicura.
[p.
266]
La
testimonianza del grande poeta illumina, anche, a proposito di quali differenti
ruoli competano nelle procedure di pace ai vincitori e ai vinti. Così
Enea risponde agli oratores latini:
Quaenam
vos tanto fortuna indigna, Latini,
implicuit bello, qui nos fugiatis amicos?
pacem me exanimis et Martis sorte peremptis
oratis? equidem et vivis concedere vellem[87].
Orare e
concedere, verbi che qualificano una gerarchia nel rapporto: da una parte
chi ha il dovere (e la necessità) di chiedere pregando, dall’altra
chi ha il potere discrezionale di concedere, dettando precise condizioni: leges pacis[88].
Ancora
alle leges pacis si fa riferimento nel già
citato Aen. 12.822, mentre
l’augurio di sottostare a leges
pacis iniquae è parte
dell’esecrazione di Didone contro Enea:
nec, cum se sub leges pacis iniquae
tradiderit,
regno aut optata luce fruatur,
sed cadat ante diem mediaque
inhumatus harena[89].
[p. 267]
In
maniera del tutto singolare si parla di una pace paribus legibus nel giuramento prestato da Enea, prima
del duello con Turno:
Sin nostrum adnuerit nobis Victoria Martem
(ut potius reor et potius di numine firment),
non ego nec
Teucris Italos parere iubebo
nec mihi regna
peto: paribus se legibus ambae
invictae gentes
aeterna in foedera mittant[90].
Questi
versi, mentre lasciano intravvedere la categoria del foedus aequum così come è stata teorizzata da Livio e
dai giuristi[91],
assolvono nel contempo ad una funzione del tutto eccezionale:
[p. 268]
Enea prefigura,
in caso di vittoria, la futura unione di Troiani e Latini; agli occhi del
poeta, conscio del destino imperiale di quell’unione, nessuno dei due
popoli poteva perciò essere vinto.
La
posizione di inferiorità insita nel chiedere la pace trova ulteriore
riscontro in Aen. 11.362 (nulla salus bello: pacem te poscimus omnes) ed appare quasi
sempre motivata dall’andamento disastroso della guerra, come in questo
caso e in Aen. 11.414:
Si
nullam nostris ultra spem ponis in armis,
si tam deserti sumus et semel agmine verso
funditus occidimus neque habet Fortuna regressum,
oremus pacem et dextras tendamus inertis[92];
[p. 269]
oppure dalla
coscienza della propria inferiorità:
Tum satus Anchisa delectos ordine ab omni
centum oratores augusta ad moenia regis
ire iubet, ramis velatos Palladis omnis,
donaque ferre viro pacemque exposcere Teucris[93].
Tale condizione di inferiorità costituisce, a ben vedere, lo schema su cui i Romani improntavano la stessa simbologia della pace. Cioè, quel pace orare manu[94], che spesso si avvale dell’utilizzazione di ramoscelli d’ulivo[95] e che costituisce il tipico atteggiamento dei supplici e dei vinti.
Nei
versi del libro VIII dell’Eneide, dove il poeta canta gli aurea saecula e
il regno di Saturno nell’antichissimo Lazio, si appalesano chiaramente
l’indubbio senso religioso e le implicazioni giuridiche del concetto
virgiliano di pace. Ma leggiamo i versi in questione:
[p. 270]
Haec
nemora indigenae Fauni nymphaeque tenebant
gensque virum truncis et duro robore nata,
quis neque mos neque cultus erat, nec iungere tauros
aut componere opes norant aut parcere parto,
sed rami atque asper victu venatus alebat.
Primus ab aetherio venit Saturnus Olympo,
arma Iovis fugiens et regnis exsul ademptis.
Is genus indocile ac dispersum montibus altis
composuit legesque dedit Latiumque vocari
maluit, his quoniam latuisset tutus in oris.
Aurea quae perhibent illo sub rege fuere
saecula: sic placida populos in pace regebat,
deterior
donec paulatim ac decolor aetas
et
belli rabies et amor successit habendi[96].
Mi
pare che la descrizione virgiliana si presti ad una duplice interpretazione.
Anzi tutto, si rileva una profonda connessione tra mos, cultus, leges
e pax[97],
nel senso che
[p. 271]
questa è
presentata dal poeta come risultato dell’opera civilizzatrice e
legislativa di Saturno[98];
infatti, il dare leges del dio
precede e determina la placida pax degli
aurea saecula. Ne consegue che per
Virgilio, fin dall’origine della memoria storica del popolo romano, non
esiste pace senza precise regole giuridiche, determinate dalle leges. In secondo luogo, soprattutto
dalla lettura dei versi 324-327, emerge la convinzione di uno stretto rapporto
(quasi di identificazione) tra pace e stato di
[p. 272]
natura,
rappresentato appunto dagli aurea saecula
in cui Saturno placida populos in
pace regebat[99].
è stato già
rilevato[100],
al riguardo, il fatto che nel testo si manifesti, al tempo stesso, la
consapevolezza del poeta circa la storicità della violenza della guerra
e dell’egoismo della proprietà, prodotti nella ricostruzione
virgiliana dalla deterior ac decolor
aetas[101]:
quindi, storicamente datati e sostanzialmente estranei all’essenza
primordiale della natura umana.
Questa visione dinamica dello sviluppo storico, accompagnata dalla coscienza che le istituzioni politiche e giuridiche,
[p. 273]
anche del popolo
romano, si plasmano nel divenire della storia, non è peraltro estranea alla
cultura giuridica romana. Motivazioni simili hanno determinato, in età
imperiale, l’elaborazione da parte dei giuristi degli istituti di ius naturale[102]
e la contrapposizione di essi agli istituti di ius gentium e di ius civile[103].
[p. 274]
Ma
nei versi citati vi è anche un altro motivo, che merita di essere
attentamente valutato. Nella prospettiva storiografìca di Virgilio, il
regno di Saturno costituisce il vero punto d’inizio della storia
"nazionale" romana, la quale poi si sviluppa attraverso il re Latino[104],
di cui come per Saturno si dice:
Rex arva Latinus et urbes
iam
senior longa placidas in pace regebat[105],
[p. 275]
e la discendenza
di Enea, ancora presente a Roma nella persona di Cesare Augusto: il Troianus
Caesar, profetizzato da Iuppiter nel libro I del poema:
Nascetur pulchra Troianus origine Caesar,
imperium Oceano, famam qui terminet astris,
Iulius, a magno demissum nomen Iulo.
[p. 276]
Hunc
tu olim caelo spoliis Orientis onusturn
accipies
secura; vocabitur hic quoque votis[106].
Anzi,
proprio con Ottaviano il passato si fonde col presente
[p.
277]
e si proietta nel
futuro: solo per lui, fra gli uomini dei tempi storici, è proposto in maniera esplicita, nei fata svelati da
Anchise, il raffronto con Saturno:
Huc
geminas nunc flecte ades, hanc aspice gentem
Romanosque
tuos. Hic Caesar et omnis Iuli
progenies,
magnum caeli ventura sub axem.
Hic vir, hic est, tibi quem promitti saepius audis,
Augustus Caesar, Divi genus, aurea condet
saecula qui rursus Latio regnata per arva
Saturno quondam; super et Garamantas et Indos
proferet imperium[107].
[p. 278]
Questi
ultimi versi evidenziano, ancora una volta, l’aderenza della concezione
virgiliana alla nozione giuridica di pax. Seppure finalizzata alla
restaurazione fra gli uomini degli aurea saecula, la pace romana
si presenta, nella concreta dinamica della storia, necessariamente legata
all’espansione dell’imperium[108].
Ecco, allora, che quel verso
tu
regere imperio populos, Romane, memento[109],
depurato di ogni
connotazione di violenza e di sopraffazione verso i popoli sottomessi, si
carica di forti implicazioni religiose e giuridiche[110].
[p. 279]
In
tal modo si adempiono, per Virgilio e per la sua generazione, i fata
degli Eneadi: le vicende storiche dell’imperium dei Romani sono
state determinate dagli dèi al fine di instaurare nell’età
presente, tramite Augusto, un nuovo secolo d’oro, forse per
stabilità anche superiore agli antichi aurea saecula di
Saturno. Ciò spiega il canto del poeta nella profezia di Iuppiter:
Aspera tum positis mitescent saecula bellis;
cana Fides et Vesta, Remo cum fratre Quirinus
iura dabunt; dirae ferro et compagibus artis
claudentur Belli portae; Furor impius intus
saeva sedens super arma et centum vinctus aënis
post tergum nodis fremet horridus ore cruento[111].
[p. 280]
Grazie
alla pace e alla giustizia assicurate al mondo da Ottaviano, appare
defìnitivamente superata quella deterior
ac decolor aetas, che con
la rabies belli e l’amor habendi aveva corrotto l’umanità del passato.
Sia
consentito concludere queste note sulla pace virgiliana con un riferimento al
presente: al pensiero di Giorgio La Pira e a quel suo costante richiamo
all’età di Augusto (età della pace virgiliana realizzata),
che costituisce nella visione “profetica” lapiriana[112]
«un momento privilegiato nella storia del
[p.
281]
mondo»[113].
Non è certo senza significato, infatti, che il “giurista
fiorentino”[114]
nel corso del suo inesauribile peregrinare per la pace, abbia guardato insistentemente
proprio a quell’epoca così «ricca d’ispirazione anche
per oggi» e a quella pace «strutturata dal diritto»[115],
come al modello insuperato di
[p. 282]
convivenza tra i
popoli da additare agli uomini di questo tormentato secolo ventesimo. Convinto
di poterli persuadere a ripudiare la guerra e a realizzare, come Augusto,
«l’unità e la pace di tutte le genti»[116].
[1]
Vedi, in tal senso, l’osservazione di G.
Funaioli, Virgilio poeta della
pace, in AA.VV., Conferenze
virgiliane, Milano 1931, pp. 136 s.: «non la guerra per la guerra
potrà cantare Virgilio, che sarebbe contro la spiritualità sua e
dei suoi tempi, ma la guerra riguardata come strumento della pax romana finalmente conquistata o
prossima a conquistarsi dopo mille vicissitudini di secoli [...] la guerra in
funzione di una rinnovellata età dell’oro,
dell’ímpero di Cesare Augusto, della sua pace, della sua
giustizia, della fraternítà, della simpatia umana
dell’impero apportata sulla terra».
Sul tema Virgilio e Augusto la letteratura è
vastissima, anche perché come sottolinea V. Pöschl, Virgil
und Augustus, in Aufstieg und
Niedergang der römischen Welt, II.31.2, Berlin-New York 1981, p. 709:
«Das Thema betrifft einen Teilaspekt des komplexen und schwierigen
Problems: Dichtung und Politik im augusteischen Rom». Al saggio del
Pöschl rimando per la bibliografia anteriore al 1981 (op. cit., n. 1); cfr. anche W.
Suerbaum, Hundert Jahre
Vergi-Forschung: eine systematische Arbeitsbibliographie mit besonderer
Berüchsichtigung der Aeneis, in Aufstieg
und Niedergang der römischen Welt, Il.31.1, Berlin-New York 1980, pp.
47 ss. (bibliogr. fino al 1975). Fra gli scritti più recenti vedi P. Grimal, Virgile artisan de l’Empire romain, in Comptes rendus de l’Académie des inscriptions, 1982,
pp. 748 ss. (ora in Id., Rome. La littérature et l’histoire, II, Rome 1986, pp.
903 ss.); Id., Virgile ou la seconde naissance de Rome,
Paris 1985, pp. 169 ss. (= trad. it.: Virgilio.
La seconda nascita di Roma, Milano 1986, pp. 188 ss.); V. Pöschl, Vergil als augusteischer Dichter, in Humanismus und Politik = Humanistische Bildung, Heft 7, 1983, pp. 1
ss.; M.A. Levi, Augusto e il suo tempo, Milano 1986, pp.
315 ss.
All’analísi
della presenza e del ruolo di Augusto nel poema virgiliano ha dedicato alcune belle
pagine di un suo recente libro J.-L.
Pomathios, Le pouvoir politique et
sa représentation dans l’énéide
de Virgile, Bruxelles 1987, pp. 240 ss.
[2]
Aen. 1.286-290; cfr. più in
generale 1.257-
[3]
Aen. 1.291: Aspera tum positis mitescent saecula belli; cfr. Servio, Ad Aen. 1.291. Sul verso citato, vedi A. Wlosok, Die Göttin Venus in Vergils Aeneis, Heidelberg 1967, pp. 70
ss.; E. Paratore, Virgilio, Eneide, I (Libri I-II), Milano
1978, pp. 176 s.; V. Pöschl,
Virgil und Augustus, cit., p. 715.
[4]
Aen. 1.293-296: dirae ferro et compagibus artis / claudentur Belli portae; Furor impius
intus / saeva sedens super arma et centum vinctus aënis / post tergum
nodis fremet horridus ore cruento. R.
S. Conway, P. Vergili Maronis
Aeneidos liber primus, Cambridge 1935, pp. 66 s., pensa che in questi versi
Virgilio potrebbe essersi ispirato ad un dipinto di Apelle, che rappresentava
la Guerra con le mani legate dietro la schiena, fatto sistemare da Augusto nel
suo foro; così anche E. Paratore,
Virgilio, Eneide, I, cit., p. 177.
Sulle chiusure del tempio di Giano operate da Augusto nel 29 e nel
[5] A. WLOSOK, Römischer
Religions- und Gottesbegriff in heidnischer und christlicher Zeit, in Antike und Abendland 16, 1970, p. 44:
«Diese Auffassung der Geschichte als eines Wirkens der Götter, in
dem sie sich fordernd, lohnend und strafend offenbaren, ist die einzige Form
von Theologie, die Rom aufweisen kann. Denn zu einer theoretischen Entfaltung
ihres Religions- und Gottesbegriffs sind die Römer nie gekommen. Ihr
grösster und nahezu einziger Theologe ist ein Dichter: Vergil. Seine Aenis
gibt nicht nur eine theologische Deutung der römischen Geschichte und
Herrschaft in dem umrissenen Sinn». Nello stesso
senso, da ultimo, M.A. Levi, Augusto e il suo tempo, cit., p. 327:
«Qualunque fosse l’atteggiamento individuale rispetto ai problemi
religiosi e metafìsici, per gli antichi era impossibile spiegare grandi
fenomeni storici, come la vicenda di Roma nei secoli, senza ammettervi la
collaborazione di forze trascendenti. Una poesia epica sulla storia di Roma o
sulle sue origini doveva affrontare il problema: e, implicitamente, doveva dire
se la potenza di Roma fosse “giusta”, cioè fosse stata
voluta dagli dèi e dal fato».
[8] R.
Rieks, Vergils
Dichtung als Zeugnis und Deutung der römischen Geschichte, in Aufstieg und Niedergang der römischen
Welt, II.31.2, cit., pp. 728 ss.;
I. Lana, Studi sull’idea della pace nel mondo antico, in Memorie dell’Accademia delle Scienze
di Torino (Classe di Scienze Morali, Storicbe e Filologiche), ser. V, 13, fasc. 1-2, Gennaio-Giugno 1989.
[9] R. Rieks, Op. cit., in n. precedente, p. 852: «Vergil ist kein einseitiger
Ideologe des augusteischen Prinzipates und des römischen Imperialismus.
Wie kein anderer Autor jener Epoche hat er rückhaltlose Zeitkritik
geübt, hat er den Elenden, Leidenden, Besiegten seine Stimme geliehen, hat
er die Utopie der saturnischen Zeit an die Leistungsanforderungen des
bäuerlichen Arbeitswelt geknüpft, hat er den Krieg verurteilt und die
Idee eines universalen Friedens als Leitthema über alle seine Dichtungen
gesetzt».
[10]
I.
Lana, Studi sull’idea
della pace nel mondo antico, cit.,
pp. 6 s. dell’estratto.
[11] Commenti in E. Norden, P. Vergilius Maro, Aeneis, Bucb VI, 8. unveränd. Aufl. (rist. 4a ed. 1957), Stuttgart 1984, pp. 334 ss.; R.
G. Austin, P. Vergili Maronis
Aeneidos liber sextus, Oxford 1977, pp. 260 ss.; E. Paratore, Virgilio,
Eneide, III (Libri V‑VI), Milano
1979, pp. 358 s.; cfr.anche K.
Büchner, Virgilio, 2a ed., Brescia 1986, p. 482. Per un inquadramento più generale, vedi, fra gli altri: F. Christ,
Die römische Weltherrschaft in der
antiken Dicktung, Stuttgart 1938,
pp. 145 ss.; E. Beckemann, Der Friede des Augustus, 2aed.,
Münster im Westf. 1954, pp. 37 s.; W. P. Basson, Virgil, Roman bistory and the Romans’ destiny. Notes on Aen. VI
836‑853, in Akroterion 20, 4, 1975, pp. 83 ss.; S. Riccobono jr., Roma nella poesia di Virgilio,
in Studi Biscardi, V,
Milano 1984, pp. 15 ss.; J.-L. Pomathios, Le pouvoir politique et sa représentation dans
l’Énéide de Virgile,
cit., pp. 135 s.
[12] Virgilio, Eneide, III, cit., p. 359; ma in tal senso, vedi già E. Norden, P. Vergilius Maro, Aeneis, Buch VI, cit., p. 335: «pacique
imponere morem ... pacis ‑ morem Servius, was er leges pacis erklärt. Aber die Richtigkeit unserer Überlieferung wird
durch Aristeides 92 ff. garantiert:
dort spricht er von den Segnungen der Ordnung und Sitte, die nun, da der Friede
gesichert sei, im ganzen Reiche herrschten»; cfr. anche E. Fränkel, Zum Text von Aenels VI,
[13]
Ad Aen. 6.852. Questa lezione
è stata adottata anche in molte edizioni moderne: esempi, con relativa
critica, in E. Paratore, Virgilio,
Eneide, III, cit., p. 359.
[14] H.E.Stier, Augustusfriede und
römische Klassik, in Aufstiegund
Niedergang der römiscben Welt, II.
2, Berlin‑New York 1975, p. 21: «Die Pax Romana stellt sich als bewaffneter Friede dar, nicht etwa weil
hiermit eine römische Tradition aufrechterhalten werden sollte, die man
gern in Vergils Mahnung: debellare
superbos! wirksam sieht».
[15] P. Grimal, Virgile ou la seconde naissance
de Rome, cit., p. 213: «Les Romains, grâce
à Virgile, et par lui,
prenaient conscience de leur place dans l’univers et de la mission que
leur avait confiée
[16]
V.
Pöschl, Virgil und
Augustus, cit., p. 717: «das
paci imponere morem das wichtigste
ist. Ohne Recht und Sitte, ohne
Erneuerung von innen her kann es keinen Frieden geben»; cfr. Id.,
Vergil als augustetscher Dickter, cit., p. 12.
[17] Servio, Ad Aen. 6.852.
[18] In questo senso, cfr. F.
Klingner, Virgil und die
römische Idee des Friedens, in ID.,
Römische Geisteswelt, 4a ed., München 1961, p. 601: «Die römische pax, dem Gedanken nach ein Rechtsverhältnis
zwischen zwei Partnern, ist in Wirklichkeit eine Herrschaftsordnung, Rom ist
der Partner, der von sich aus das Verhältnis ordnet, die Bedingungen
festsetzt: pacis leges dicit oder imponit lauten die Ausdrücke. Am
Anfang steht ein Sieg Roms oder die freiwillige Unterwerfung eines
Gegners». Più in generale, sull’uso del
verbo imponere vedi J. B. H(offmann), v. Impono, in Thesaurus
Linguae Latinae, VII.1, Lipsiae 1934-1964 (ma 1938), coll. 650
ss.; l’insigne studioso tedesco
colloca il passo virgiliano fra i testi enumerati al paragrafo «imponere
leges, ius sim.» (col. 657). Sul
verbo vedi anche, brevemente, A. Ernout
- A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la
langue latine, 4a ed., rist.
Paris 1979, p. 521.
[19]
Il dovere di parcere i nemici
sottomessi, motivo ricorrente nella riflessione politica e giuridica
dell’età repubblicana, diventa nell’ideologia augustea uno dei cardini dell’azione del princeps: così in Res Gestae I.3.15-16, si legge: Externas gentes,
quibus tuto ignosci potuit, conservare quam excidere malui. Cfr. Cicerone, De off. 1.35: Quare suscipienda quidem bella sunt ob eani causam, ut sine iniuria
in pace vivatur, parta autem victoria conservandi ii, qui non crudeles in
bello, non inmanes fuerunt, ut maiores nostri Tusculanos, Aequos, Volscos,
Sabinos, Hernicos in civitatem etiam acceperunt; Livio 30.42.16-17:
Populum Romanum eo invictum esse, quod in secundis rebus sapere et consulere
meminerit; et hercule mirandum fuisse, si aliter faceret; ex insolentia, quibus
nova bona fortuna sit, impotentis laetitiae insanire; populo Romano usitata ac
propre tam obsoleta ex victorta gaudia esse, ac plus paene parcendo victis quam
vincendo imperium auxisse. Sulle implicazioni del testo virgiliano, vedi
l’approfondita analisi di F.
Eggerding, Parcere subiectis. Ein
Beitrag zur Vergilinterpretation, in
Gymnasium 59, 1952, pp. 31 s.
[20]
Sulle ragioni che giustificano il debellare
superbos, si vedano le penetranti
considerazioni di I. Lana, La concezione della pace a Roma. Lezioni, Torino 1987, p. 84: «Le parole
chiave sono: regere, imperium, populi,
pax, subicere, debellare. Tutte parole cariche di senso e di valore, tra le
quali la pace si presenta, al centro, come lo strumento per governare tutto il
mondo con un potere che va al di là del puro esercizio del potere,
manifestandosi come lo strumento in grado di ristabilire la giustizia, nel
senso che esso esige la sottomissione di tutti i popoli al volere del fato: chi
non lo accetta, si macchia della colpa della superbia, per la quale non
v’è né perdono né clemenza». Per la comprensione del testo virgiliano, vedi anche H. Haffter, Politischen Denken im alten Rom, in Id., Römische
Politik und römische Politiker, Heidelberg
1967, pp. 52 ss., in particolare p. 53: «Der
Kampf gilt Gegnern, deren Wesen und Gebaren eine Herausforderung darstellt. Wer
die durch das imperium Romanum verkörperte
politische, rechtliche, sittliche und kulturelle Ordnung nicht anerkennt, ist ein
Feind aller, ist ein Verächter dessen, was der Völkergemeinschaft
frommt, ist ein superbus»; da ultimo A. Traina, v. Superbia, in Enciclopedia
Virgiliana, IV, Roma 1988, pp. 1072 ss., in partic. p. 1074, il quale
sottolinea come il verso parcere subiectis
et debellare superbos costituisca «la giustificazione etico-politica
dell’imperialismo romano almeno sin dai tempi di Plauto e di
Catone». Più in generale, sulla superbia come categoria della lotta politica vedi, per tutti, j. Helleguarc’h,
Le vocabulaire latin des relations et des
partis politiques sous la République, Paris 1963, pp. 339 ss. Lo studioso francese sottolinea peraltro, proprio con riferimento a Aen. 6.851-853, la profonda avversione
dei Romani per tale concetto: «Cette aversion pour la superbia était même si
familière à Rome qu’elle avait tendance à
l’imputer à ses ennemis et qu’elle se fixa comme l’un
des bouts de sa politique extérieure de triompher des peuples qui s’en
rendraient coupables».
[21] Cfr. in tal senso,
V. Pöschl, Virgil und Augustus, cit., p. 714; J.-L. Pomathios, Le pouvoir politique et sa représentation dans l’énéide de Virgile,
Bruxelles 1987, p. 358. Da ultimo, vedi I. Lana, Rapporto sullo stato degli studi intorno all’idea della pace a
Roma e proposta di alcune linee di ricerca, in Le concezioni della pace.
VIII Seminario Internazionale di Studi Storici “Da Roma alla Terza
Roma”, Relazioni e
comunicazioni, 1, Roma 1988, p. 23, il quale evidenzia, peraltro, una fondamentale
differenza tra Virgilio e Tito Livio:mentre per lo storico patavino il destino
di Roma si concretizza nella superiorità delle armi romane (cfr. Livio
1.16.7), per il poeta invece la missione che gli dèi hanno voluto per i
Romani consiste nell’instaurazione della pace per tutti gli uomini:
«Il discorso di Virgilio ‑ scrive il Lana ‑ più
complesso e più ricco di quello di Livio, pone un nesso, assente nello
storico, fra la guerra e la pace ed introduce una valutazione di ordine morale
nella presentazione di quello che in Livio appare come un puro dato di potenza:
la guerra intesa come funzionale alla pace. è
esplicitamente rifiutata, da Virgilio, la visione corrente, che nella guerra
individua la condizione normale di vita per l’umanità: il tradizionale
rapporto tra guerra e pace viene da lui capovolto. L’ideologia della
guerra in Virgilio si collega, ma restando in subordine, con quella della pace.
Evidentemente quest’idea di pace non intende la pace semplicemente come
cessazione temporanea della guerra: la pace politica da Virglio è
presentata come il punto di arrivo, veramente terminale, di tutta la vicenda di
tutta l’umanità, riassunta nel destino di Roma» (= Id., Studi
sull’idea della pace nel mondo antico, cit., p. 7 dell’estratto).
[22]
Aen. 12.110-112
[25]
Sulla figura e le opere di questo antiquario vedi, per tutti, W. S. Teuffel, Geschichte der römischen Literatur, II, 7. Aufl., Leipzig 1920 (rist. an. Aalen 1965), pp.
137 s.; M. Schanz-C. Hosius, Geschichte der römischen Literatur,
II, vierte neubearb. Aufl., München 1935 (rist. 1967), p. 380; i frammenti sono stati
raccolti in H. Funaioli, Grammaticae Romanae fragmenta, Lipsiae 1907 (rist. Roma
1964), pp. 457 ss.
[26]
Festo, p.
[27]
D. 2.14.1.1-2. Cfr. anche Isidoro, Orig. 5.24.18:
Pactum dicitur inter partes ex pace
conveniens scriptura, legibus ac moribus comprobata: et dictum pactum quasi ex
pace factum, ab eo quod est panco, unde, et pepegit foedus. Sul frammento ulpianeo vedi l.
ceci, Le etimologie dei
giureconsulti romani, Torino
1892, p. 165; F. De Visscher, Pactes et religio, ora in Id., études de droit romain public et
privé, trois. ser., Milano
1966, p. 410; A. Carcaterra, Le definizioni dei giuristi romani. Metodi,
mezzi, fini, Napoli 1966, p. 199,
il quale considera il contenuto del frammento un «esempio di definizione
(etimologica) persuasiva».
[28] Cfr. per tutti, A.
Walde-j.B. Hofmann, Lateinisches etymologisches Wörterbuck, II, Heidelberg 1954, pp. 231 s.; A. Ernout-A. Meillet,
Dictionnaire étymologique de la
langue latine, cit., p. 473.
[29] Il verbo pacere compare
in due frammenti del codice decemvirale. Il primo è XII Tab. I.6-7: Rem ubi
pacunt, orato. Ni
pacunt in comitio aut in foro ante meridiem caussam coiciunto (cfr.
Fontes Iuris Romani Anteiustiniani,
I, 2a ed., Florentiae 1940, p. 28; P.F.
Girard-F. Senn, Les lois des Romains, 7a ed., a cura di V. Giuffrè, Napoli 1977, p. 25); per la discussione di questo testo
vedi, pur nella diversità di interpretazioni: C. Gioffredi, Diritto e processo nelle antiche forme
giuridiche romane, Roma 1955, p. 151; Id., Rem ubi pacunt orato: XII Tab. I, 6-9 (Per la critica del testo decemvirale),
in Bullettino dell’Istituto di
diritto romano 76, 1973, pp. 271 ss.; H.
Lévy-Bruhl, Recherches sur les actions de la loi,
Paris 1960, pp. 206 s.; G. Pugliese, Il processo civile romano, I.
Le legis actiones, Roma 1962, pp. 402 s.; M. Kaser, Das Römische Zivilprozess, München
1966, pp. 83 s:, 0. Behrends, Der
Zwölftafelprozess. Zur Geschichte der römischen Obligationenrecht, Göttingen 1974, pp. 77 ss.; G. G. ARCHI, Ait praetor: «pacta conventa servabo». (Studio sulla genesi e sulla
funzione della clausola nell’"Edictum Perpetuum”), in Id.,
Scritti di diritto romano, I, Milano 1981, p. 493 n. 28; g.
Nicosia, Il processo privato
romano, II. La
regolamentazione decemvirale, Torino 1986 (rist. ed. Catania 1984), pp. 68
ss.; infine a. Manfredini, Rem ubi
pacunt, orato, in AA.VV., Atti del seminario sulla problematica
contrattuale in diritto romano, Milano
1988, pp. 73 ss.
Il
secondo frammento è XII Tab. VIII.2: Si membrum rupsit, ni cum eo pacit, talio
esto (cfr. Fontes, cit., p. 53; Girard-senn, Les lois des Romains, cit., p. 41); su questa norma decemvirale
vedi, da ultimo, J. M. Alburquerque, Historia
del "pactum” antes del “edictum”: “pactum”
como acto de paz en las XII Tablas, in Estudios
en omenaje al profesor juan
Iglesias, III, Madrid 1988, pp. 1110 ss.; e la rapida sintesi di b. Santalucia,
Diritto e processo penale
nell’antica Roma, Milano 1989, p.
40.
[30]
Cfr. C. Milani, Note sulla
terminologia della pace nel mondo antico, in AA.VV., La pace nel mondo
antico, Contributi dell’Istituto di storia antica XI, a cura di m. sordi,
Milano 1985, p. 24; m. L.
Porzio gernia, Considerazioni linguistiche sulla famiglia del lat. “pax”, “paciscor” ecc., in I.
Lana, La concezione della pace a
Roma, cit., Appendice III, pp.
205 s.
[31]
Così Ernout-Meillet, Dictionnaire
étimologique de la langue latine, cit., p. 473; nello stesso senso, vedi C.
Milani, Note sulla terminologia
della pace nel mondo antico, cit., p. 25.
[32]
I Lana, La pace nel mondo antico, in
Studia et documenta historiae et iuris 33,
1967, p. 9; nello stesso senso, vedi
ora Studi sull’idea della pace nel
mondo antico, cit., p. 21 (estratto).
[33]
Si tratterebbe, tuttavia, di un ritorno all’«antico valore sacrale
di pax», come sostiene M. Viano, Contributo alla storia semantica della famiglia latina di
“pax", in Atti dell’Accademia delle Scienze di
Torino 88, 1953-54, p. 15 (estratto):
«In conclusione possiamo quindi affermare che attraverso la rinnovata
vitalità del suo senso religioso, il latino pax ritorna nell’ambiente al quale appartiene originariamente
e in questo modo conferma l’ipotesi di una derivazione analoga per i
concetti giuridici connessi agli altri vocaboli della sua famiglia».
[34]
M. Sordi, ‘Pax deorum’ e libertà religiosa nella storia di
Roma, in AA.VV., La pace nel mondo
antico, cit., pp. 146 ss.
[35]
Livio 7, 3, 3-6: Itaque Cn. Genucio L.
Aemilio Mamerco iterum consulibus, cum piaculorum magis conquisitio animos quam
corpora morbi adficerent, repetitum ex seniorum memoria dicitur pestilentiam
quondam clavo a dictatore fixo sedatam. Ea religione adductus senatus
dictatorem clavi figendi causa dici iussit. Dictus L. Manlius Imperiosus L.
Pinarium magistrum equitum dixit. Lex vetusta est, priscis litteris verbisque
scripta, ut, qui praetor maximus sit, idibus Septembribus clavum pangat; fixa
luit dextro lateri aedis Iovis optimi maximi, ex qua parte Minervae templum
est. Eum clavum, quia rarae per ea tempora litterae erant, notam numeri annorum
fuisse ferunt eoque Minervae templo dicatam legem, quia numerus Minervae
inventum sit. Cfr. 8.18.11-12.
Sulla
lex vetusta e sulle implicazioni
giuridiche e religiose connesse al rito della clavifixio, si vedano,
fra gli altri: j. Heurgon, L. Cincius et la loi du "clavus annalis”, in
Athenaeum 42, 1964, pp. 432 ss.; Id.,
Magistratures romaines et magistratures
étrusques, in AA.VV., Les
origines de
[36]
Utilizzo l’espressione di m. Viano,
Contributo alla storia semantica della
famiglia latina di “pax", cit., p. 12 (estratto).
[37]
Cfr. Res Gestae II.13.43: cum per totum imperium populi Romani terra
marique esset parta victoriis pax. Tale situazione è ben colta da i.
Lana, La pace nel mondo antico, cit., p. 9: «Perciò i
Romani, quando sono in guerra e dichiarano che il loro scopo è quello di
pacem dare, leges pacis imponere, ovvero,
come si esprime Virgilio nel famoso passo del libro VI dell’Eneide, paci imponere morem, intendono dire che
con la guerra mirano a realizzare una situazione di superiorità che
consenta loro di dettare all’avversario le condizioni per
l’instaurazione di un certo rapporto fra Roma e il nemico vinto. In
questo senso preciso essi pacem dant ai
vinti». Cfr. Id., Studi sull’idea della pace nel mondo
antico, cit., p. 21 dell’estratto.
[38] j. Eckhel, Doctrina numorum veterum, VI, 236, 321,
372; j. Toutain, v.
Pax, in Dictionnaire des antiquités grecques et romaines, 4.1, Paris
s.d., p. 363; j. Imbert,
Pax Romana, in AA.VV., La paix. Recueils Bodin XIV,
I, Bruxelles 1962, p. 316. Sulla
connessione tra pax e victoria, vedi già Ovidio, Fast.
1.711-712; Trist. 3.1.43-44; Met. 15.591; Plinio, Nat. hist. 15.133. Fra la dottrina più recente,
cfr. per tutti, C. Koch, v. Pax, in Real-Encyclopädie der
classischen Altertumswissenschaft 18.2,
Stuttgart 1949, coll. 2434 s.; K. Latte,
Römische Religionsgeschichte, München 1960, pp. 300 s.
[39]
Per queste iscrizioni al dio Marte, vedi G. Wissowa,
Religion und Kultus der Römer, 2a ed., München 1912, p. 153; C. Koch, v. Pax, cit. in n. precedente, col. 2435; F. Klingner, Virgil und die römische Idee des Friedens, in Id.,
Römische Geisteswelt, cit., p. 601; e da ultimo R. Turcan,
Immages et idées romaines de la
paix, in Concezioni della pace. VIII
Seminario Internazionale di Studi Storici “Da Roma alla Terza Roma”, Relazioni e comunicazioni, 1, cit., p.
69.
[40]
Non vi è in ciò, per l’ideologia romana, alcuna
contraddizione, come coglie assai acutamente D.
Sabbatucci, La religione di Roma antica, cit.,
p. 293: «Niente di sinistro dunque comportava l’apertura del mundus, e niente di negativo, a meno di voler vedere la pace come la
negazione della guerra. In tal senso, però, non dovremmo lasciarci
guidare da un’etica irenista, ma dovremmo intendere il tutto nei termini
della dialettica, più volte rilevata, tra il divenire (espresso soprattutto
dalla guerra) e l’essere. La pax romana
era sostanzialmente un "patto" con gli dèi (pax deorum), tra popoli, tra cittadini; ma un "patto" da conseguire,
e se per conseguirlo con gli dèi bisognava operare ritualmente, per
conseguirlo con i popoli bisognava operare bellicosamente, come pure si doveva
lottare all’interno della città per ottenere il patto civile tra
le sue componenti».
[41]
Su questi termini vedi, per tutti, I.
Lana, La pace nel mondo antico, cit., pp. 10 ss.; Id., La concezione della pace a Roma. Lezioni, cit., pp. 66 ss. (Cicerone), 71 ss.
(Sallustio), 86 ss. (Virgilio). Più specificamente, riguardo alla
concezione virgiliana di otium cfr.
M. André, L’otium dans la vie morale et
intellectuelle romaine, dès
origines à l’epoque augustéenne, Paris 1966, pp. 511
ss.
[42]
Si vedano, in tal senso, g. Funaioli,
Virgilio poeta della pace, in AA.VV., Conferenze virgiliane, cit.,
p. 136; F. Klingner, Virgil und die römische Idee des
Friedens, in Id., Römische
Geisteswelt, cit., p. 616; da
ultimo R. F. Rossi., v. Pace, in Enciclopedia Virgiliana, III, Roma 1987, p. 916. Quanto ai
contenuti della pax, ne abbiamo un esempio in ciò che
scrive, a proposito della fine delle guerre civili, dopo la vittoria ad Azio da
parte di Ottaviano, Velleio Patercolo, Hist.
Rom. 2.89.3-4: Finita vicesimo anno
bella civilia, sepulta externa, revocata pax, sopitus ubique armorum furor,
restituta vis legibus, iudiciis auctoritas, senatui maiestas, imperium
magistratum ad pristinum reductum modum; tantummodo octo praetoribus adlecti
duo. Prisca illa et antiqua rei publicae forma revocata. Rediit cultus agris,
sacris honos, securitas hominibus, certa cuique rerum suarum possessio; leges
emendatae utiliter, latae salubriter, senatus sine asperitate nec sine
severitate lectus.
Col
consolidarsi del principato, l’impero e la stessa civiltà vengono
identificati con la pax Romana; la mancanza di essa determina la
condizione di barbarie per i popoli che non la praticano, come si evince da
Seneca (il quale, peraltro, è stato il primo ad usare
l’espressione pax Romana in
luogo dell’usuale pax Augusta:
così I. Lana, Studi sull’idea della pace nel mondo
antico, cit., p. 34 estratto), De
providentia 4.14: gentes in quibus
pax Romana desinit, Germanos dico et quidquid circa Histrum vagarum gentium
occursat.
[43]
Aen. 11.352-356; cfr. Servio, Ad Aen. 11.356: Aeterno foedere firmes natae scilicet
coniunctione: nam munera et contemni poterant, generis vero coniunctione in
aeternum pacis foedera firmabantur. Hoc autem dicto latentur etiam Latini
pudorem exonerat, qui Turno etiam suam promiserat filiam, dicens causam
reipublicae praeponderare debere et propter pacem civium Turno Aenean esse
praelerendum.
[44]
Cfr. soprattutto Livio 1.24.4-9; 30.43.9;
ma anche Polibio 3.25.6-9; Cicerone,
De leg. 2.21; Varrone, De ling. Lat. 5.86; Dionigi d’Alicarnasso 2.72; Plutarco, Num. 12.4-8; Svetonio, Claud. 25.5; Servio, Ad Aen. 1.62; Paolo, Fest.
ep., p.
[45]
Aen. 12.195-200; cfr. 4.112; 8.640-641; 12.178; 496. Su Aen. 12.200,
oltre l’importante commento di Servio (ad loc.: ‘Qui foedera fulmine sancit’ confirmat,
sancta esse facit, quia cum fiunt foedera, si coruscatio fuerit, confirmantur:
vel certe, quia apud maiores arae non incendebantur, sed ignem divinum precibus
eliciebant, qui incendebat altaria. Sancire autem proprie est sanctum aliquid,
id est consecratum, facere fuso sanguine hostiae: et dictum’
sanctum’ quasi sanguine consecratum), vedi E. Norden, Aus altrömischen Priesterbüchern, Lund-Leipzig
1939, p. 224; P. Boyancé, Fides et serment, ora in Id., Études sur la religion romaine, cit., pp.
100 ss.; R. Santoro, Potere ed azione
nell’antico diritto romano, in Annali del Seminario giuridico dell’Università di Palermo
30,
1967, p. 522; A. Wlosok, Vergil als Theologe: Iuppiter-pater onnipotens, in Gymnasium 90, 1983,
p. 200; G. Luraschi, v. Foedus, in Enciclopedia Virgiliana, II, Roma
1985, p. 547; Id., ’Foedus’ nell’ideologia
virgiliana, cit., p. 289; G.
Freyburger, Fides. Etude
sémantique et religieuse depuis les origines iusqu’à
l’époque augustéenne, Paris
1986, p. 285.
[46]
Aen. 8.639-641.
[47]
Aen. 12.169-215. Dubita che il patto sia stato concluso T. E. Kinsey, Was there a treaty between the Troians and tbe Latins?, in Studi
italiani di filologia classica 2 (3a
ser.), 1984, pp. 240 ss.; per le
diverse interpretazioni di questo foedus da
parte della dottrina più recente, vedi G. Luraschi, ’Foedus’
nell’ideologia virgiliana, cit., pp. 301 ss.
[48]
Th. Mommsen, Römisches
Staatsrecht, 3a ed., Leipzig
1887, I, pp. 246 ss.; III, pp. 340 s., 1158 ss., 1166 s. (= Droit public romain, rist. an. Paris 1984. I, pp. 280 ss.;
VI,1, pp. 389 s.; VII, pp. 378 ss., 386 s.).
[49]
G. Luraschi, v. Foedus, in Enciclopedia Virgiliana, II, cit., p. 548; Id., ‘Foedus‘
nell’ideologia virgiliana,
cit., p. 301.
[51]
Aen. 12.169-171. Cfr. L. Lersch, Antiquitates Vergilianae, cit., p. 118; G. Luraschi, v. Foedus,
cit., p. 548; Id., ’Foedus’ nell’ideologia
virgiliana, cit., p. 300: «Il sacerdote (che Virgilio non chiama fetialis semplicemente perché la
parola non entra nell’esametro), laddove compare, si limita a condurre
all’altare le vittime destinate al sacrificio».
[52]
Aen. 10.15.
[54]
Aen. 12.13. Su questi e altri verba solemnia dello ius fetiale nell’epica virgiliana, si
veda L. Lersch, Antiquitates Vergilianae, cit., p. 116.
Precisi
riferimenti ai riti dei feziali sembra avere anche Aen. 12.120 (Velati lino et
verbena tempora vincti), come osserva Servio nel suo commento al verso (Verbena proprie est herba sacra, sumpta de
loco sacro Capitolii, qua coronabantur fetiales et pater patratus, foedera
facturi vel bella indicturi); cfr.
anche L. Lersch, Op. cit., p. 117.
[55]
Aen. 8.639-641. Cfr. L. Lersch, Antiquitates Vergilianae, cit., p. 118;
G. Luraschi, v. Foedus, cit., p. 548; Id., ‘Foedus’ nell’ideologia virgiliana, cit., p. 300.
È stato già notato che nel testo di Virgilio la vittima immolata
è una porca, in luogo del consueto porcus (cfr. Livio 1.24.9: Id
ubi dixit, porcum saxo silice percussit; 9.5.3: ut eum ita Iuppiter feriat, quemadmodum a fetialibus porcus feriatur; Varrone, De re rust. 2.4.9: et quod
initiis pacis, foedus cum fleritur, porcus occiditur). Gli stessi
commentatori antichi non appaiono unanimi nello spiegare quest’anomalia
virgiliana. Quintiliano, ad esempio, adduce quale motivazione l’eleganza
del discorso: Inst. Orat. 8.3.18-19: Ut autem in oratione nitida notabile
humilius verbum et velut macula, ita a sermone tenui sublime nitidumque
discordat fitque corruptum, quia in plano tumet. Quaedam non tam ratione quam
sensu iudicantur, ut illud “caesa iungebant foedera porca” fecit
elegans fictio nominis, quod si fuisset “porco”, vile erat. Mentre Servio offre una giustificazione
“teologica”: Ad Aen. 8,
64 1: Aut certe illud ostendit, quia in
omnibus sacris feminini generis plus valent victimae. Denique si per marem
litare non possent, succidanea dabatur femina; si autem per feminam non
litassent, succidanea adhiberi non poterat.
[58]
Aen. 7.339: dissice composita pacem, sere crimina belli; 12.821-822: cum tam conubiis
pacem felicibus (esto) / component, cum iam leges et foedera iungent.
[59]
Aen. 12.201-203; cfr. 11.356.
[61]
In Virgilio il termine ricorre 39 volte,
2 nelle Georgiche e 37 nell’Eneide:
cfr. H. Merguet, Lexikon zu Vergilius, Leipzig 1912
(rist. an. Hildesheim-New York 1969), p. 504; per un rapido sguardo d’insieme, vedi ora R.F. Rossi, v. Pace, in Enciclopedia Virgiliana, III, cit., pp.
915 s.
[62]
Cicerone, Pro Rabir. per. 5: ab Iove Optimo Maximo ceterisque dis deabusque immortalibus, quorum ope
et auxilio multo magis haec res publica quam ratione hominum et consilio
gubernatur, pacem ac veniam peto; Livio 39.10.5: pacem veniamque precata deorum dearumque; Ovidio, Amor. 1.2.19: veniam pacemque rogamus. Cfr. inoltre Plauto, Merc. 678: Apollo, quaeso
te ut des pacem propitius; Livio
1.16.3: pacem praecibus exposcunt;
3.7.8: veniam irarum caelestium finemque
pesti exposcunt; 42.2.3: prodigia
expiari pacemque deum peti precationibus, qui editi ex fatalibus libris essent,
placuit; Seneca, Med. 595: Parcite o divi, veniamque precamur. Per
un’ampia raccolta di fonti sul pacem deum petere degli uomini e sul pacem dare degli dèi,
vedi H. Fuchs, Augustinus und der antike Friedensgedanke. Untersuchungen zum neunzehnten Buch der Civitas Dei, Berlin 1926, pp. 186 ss.
[64] Tale espressione, nella sua forma arcaica pax divom o deum, risulta attestata in
Plauto, Poen. 253: sunt hic omnia, quae ad deum pacem oportet
adesse?; Lucrezio, De rer. nat. 5.1229: non divom pacis votis adit, ac prece
quaesit; Virgilio, Aen. 3.370: exorat pacem divom; Livio 3.5.14: His avertendis
terroribus in triduum feriae indictae, per quas omnia delubra pacem deum
exposcentium virorum mulierumque turba implebantur; 7.2.2: nisi quod pacis deum exposcendae causa
tertio tum post conditam, urbem lectisternium fuit. Sull’autenticità e risalenza
dell’espressione pax deum, si
veda il recente saggio di M. Sordi, ’Pax deorum’ e la
libertà religiosa nella storia di Roma, in AA.VV., La pace nel mondo antico, cit., pp. 146
ss., in part. p. 147: «L’antichità della formula e la
derivazione di pax dalla radice di pangere, che si ritrova nell’uso
arcaico di pangere clavum, che Livio ricorda tra i piacula destinati, durante la pestilenza
del 364 e del 364 varr., “pacis deum exposcendae causa”
(Liv. VII, 2 e 3), mi induce ad
avanzare l’ipotesi che pax deum sia
addirittura all’origine del concetto romano di pax». Le conclusioni
della studiosa non sono del tutto condivise da E. Montanari, Il
concetto originario di ‘pax’ e la ‘pax deorum’, in Concezioni della pace, cit., p. 56:
«In definitiva, la principale obiezione che riteniamo di muovere
all’interpretazione della Sordi, concerne il suo tentativo di dimostrare
l’anteriorità genetica del concetto religioso di pax deorum rispetto al concetto
politico-giuridico di pax. Ci sembra
più opportuno parlare di concomitanza tra simili valenze: sia
perché si rischierebbe altrimenti di postulare una categoria a-priori di
"religione", anteriore e ben distinta rispetto a quella di
“diritto”, cosa difficilmente proponibile per
[65]
Cfr. P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, in Studia
et documenta historiae et iuris 19, 1953, p. 49: «Pax deorum è
la situazione per cui gli dèi sono in amicitia con gli uomini, ai quali concedono i benefici che essi si
aspettano da loro» (= Id., Scritti di diritto romano, I, Padova
1985, p. 224).
[66]
L’espressione è del Voci,
Diritto sacro romano in età
arcaica, cit., p. 50, per il
quale «Legalismo religioso è l’insieme delle regole che
insegnano a mantenere la pax deorum»
(= Scritti di diritto romano, I,
cit., p. 225).
[67]
Questo spiega, tra l’altro, l’attenzione precisa e minuziosa
dell’annalistica romana, erede diretta dell’attività
“storiografica” del collegio pontificale (su tale attività e
sull’influenza di essa per il formarsi della tradizione annalistica, vedi
da ultimo B. W. Frier, ‘Libri Annales pontificum
Maximorum’: the origins of the
Annalistic Tradition, Papers and
Monographs of the American Academy in Rome, Vol. XXVII, Roma 1979), nel
documentare i fatti suscettibili di turbare la pax deorum, le
conseguenze negative per la vita comunitaria, i rimedi rituali posti in essere
per espiare. Cfr., giusto a titolo d’esempio, Livio 2.36.1; 3.5.14;
3.10.6; 4.9.3; 4.12.6; 4.21.5; 4.30.7; 5.13.4; 6.20.16; 7.2.2; 7.3.3; 7.27.1;
7.28.7; 8.6.9; 8.9.6-12; 8.25.1; 10.47.6; 21.46.1-3; 21.63.13; 22.3.11; 22.9.7;
22.36.6; 23.31.15; 23.36.10; 23.39.5; 24.10.6; 24.44.8-9; 25.7.7-9; 25.16.1;
25.17.3; 26.23.3-6; 26.45.9; 27.4.11; 27.11.1; 28.27.16; 30.2.9-13; 30.38.8.
Sul nutrito elenco di prodigi presenti nell’opera liviana, certo
improntati ‑ direttamente o indirettamente ‑ agli Annales Maximi, vedi E. De Saint-Denis, Les énumerations de prodiges dans l’oeuvre de Tite-Live,
in Revue de Philologie 16, 1942, pp.
126 ss.; J.Ph. Packard, Official notices in Livy’s fourth
decade: style and treatment, Ann Arbor 1970, pp. 125 ss.; E. Rawson,
Prodigy list and the use of Annales
Maximi, in Classical Quarterly 21, 1971, pp. 158 ss.
[68] In questo senso, C.
Bailey, Phases in the religion of ancient
Rome, Berkeley 1932 (rist. Westport, Conn. 1972), p. 76: «Roman
ritual, as it was later formulated in the ius divinum of the State-cult. recognized four means (caerimoniae) for securing and maintaining the pax deorum, the relation
of kindliness between gods and men».
[69]
Tale sistematica giurisprudenziale dello ius
publicum, sebbene citata
esplicitamente solo nel celebre e discusso passo delle Institutiones di Ulpiano in D. 1.1.1.2 (Publicum ius in sacris, in
sacerdotibus, in magistratibus consistit), si trova tuttavia
sottesa anche nel De legibus ciceroniano
(cfr. 2.19 ss.; 3.6 ss.); può perciò sostenersi con buone ragioni
che si tratta «di una suddivisione propria della giurisprudenza
repubblicana, tracciata in spontanea adesione ai documenti sacerdotali e
magistratuali»: così P.
Catalano, La divisione del potere
in Roma (a proposito di Polibio e di Catone), in Studi Grosso, VI,
Torino 1974, p. 676; nello stesso senso C.
Nicolet, Notes
complémentaires, in Polybe, Histotres, Livre VI, a c. di R. Weil, Paris 1977, 149 s.;
cfr. anche F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, I.
Libri e commentarii, Sassari 1983, pp. 213 s.
In
questa prospettiva mi pare debbano essere superate sia affermazioni contrarie
alla genuinità del frammento di Ulpiano, (E Schulz, I principii del
diritto romano, cit., p. 23 n. 33; U.
Von Lübtow, Das römische
Volk, Frankfurt am Main 1955, p. 618), sia dubbi e perplessità (B. Albanese, Premesse allo studio del diritto privato romano, Palermo 1978, p. 192 n. 295); cfr., fra gli altri, G. Nocera, Ius publicum (D.
2, 14, 38). Contributo alla ricostruzione storico-esegetica delle regulae iuris,
Roma 1946, pp. 152 ss.: «Ulpiano è sulla scia della più pura tradizione romana» (p. 161); F. Wieacker, Doppelexemplare der Institutionen
Florentins, Marcians und Ulpians, in Mélanges
De Visscher, II, Bruxelles 1949,
p. 585, il quale sostiene che sacra, sacerdotia e magistratus è
una suddivisione di inconfondibile stampo repubblicano; vedi infine G. Aricò Anselmo, “Ius
publicum-ius privatum” in Ulpiano, Gaio e Cicerone, in Annali
del Seminario giuridico dell’Università di Palermo 37, 1983,
pp. 447 ss., in part. pp. 461 ss.
[70] Aen. 3.259-262.
[71] R. G. Austin, P. Vergili Maronis Aeneidos liber tertius,
Oxford 1962, p. 109: «votis ...
exposcere pacem: this is a religious formula».
[72]
Servio, Ad Aen. 3,261.
[73]
Georg. 4.534-535; da notare che Servio interpreta pax nel senso di beneficium,
benevolentia (Ad Georg. 4, 534).
[74]
Aen. 4.56-59. Anche in questo caso Servio, Ad Aen. 4.56, rende pace con benevolentia: per un esauriente commento del v. 56,
vedi A. S. Pease, P. Vergili Maronis Aeneidos Liber Quartus, cit., p. 132.
[75] G. Appel, De Romanorum precationibus (Religionsgeschichtliche
Versuche und Vorarbeiten, VII, 2), Gissae
1909 (rist. an. New York 1975), p. 200: «Quae praecipue
indicantur supplex vocabulo passim in
scriptoribus invento. Ac supplex
vocari potest hostis victus, qui ad pedes victoris prostratus manibus sublatis
vitam rogat». Quanto poi al rapporto tra supplex e supplizio nella poesia di
Virgilio, vedi ora, brevemente, M.
Massenzio, v. Supplex/supplicium, in Enciclopedia Virgiliana,
IV, Roma 1988, pp. 1085 s.
[78]
Servio, Ad Aen. 3.370: ‘Exorat pacem divum’ aut de sacrificantum more requirit,
utrum tempus consulendì esset; nam et boc vehementer quaeritur, ut in
sexto cum virgo poscere fata tempus ait; aut certe, quod et melius est, de
sacrificantum more ante nefas expiat ab harpyia praedictum, et sic venit ad
vaticinationem. Ut autem hic expiatam famen intellegamus sequens efficit locus,
ut aderitque vocatus Apollo, cum constet, nisi in hoc intellexeris loco, famis
causa nusquam invocatum esse Apollinis numen. Dubitationem autem in hoc loco
‘exorat’ facit; nam ‘orare’ est petere,
‘exorare’ impetrare: ergo impetrat pacem aut ad inquirendum tempus,
aut ad mitigandum famis periculum.
[79]
Aen. 10.31-35. Assai significativo
quanto scrive M. Viano, Contributo alla storia semantica della
famiglia latina di “pax”,
cit., p. 5: «Analogamente il concetto espresso dal termine paśe è vicinissimo a quello
della pax deorum, così frequente in tutta la tradizione letteraria latina. Tra i numerosi
esempi che ci sono forniti in particolare da autori di indiscussa
autorità in materia di tradizione sacrale, basta ricordare Verg. Aen X, 31... che presenta una
costruzione perfettamente analoga a quella della formula umbra» (sulla
formula d’invocazione futu fos
pacer paśe tua, a cui
si riferisce
[80]
Servio, Ad Aen. 10.31: ‘Si sine pace tua’ si sine tua
benevolentia, ut orantes pacem, veniamque precantes, item exorat pacem divum:
ergo ‘pace’ benevolentia, suffragio. Dicendo autem, si ad Italiam sine
deorum voluntatem venerunt, dent poenas, ostendit statum esse absolutum.
[81]
Servio, Ad Aen. 10.32 (Luant
id est absolvant); cfr.
Livio 29.18.9: Quibus, per vos fidemque
vestram, patres conscripti, priusquam eorum scelus expietis, neque in Italia
neque in Africa quicquam rei gesseritis, ne, quod piaculi commiserunt, non suo
solum sanguine, sed etiam publica clade luant. Per gli impieghi virgiliani
del verbo, cfr. R. M. D’angelo,
v. Luo, in Enciclopedia Virgiliana, III, cit., p. 281 s.
[82] Cfr. H. Merguet,
Lexikon zu Vergilius, cit., p. 504.
[83] Sulle implicazioni più generali di questi versi,
si veda G. Dumézil, Mythe et épopée, I.
L’idéologie des trois fonctions dans les épopées des
peuples indo-européens, Paris 1968, p. 357.
[85]
B. Tilly, Vergil’s Latium, Oxford
1947, pp. 46 ss., ritiene che il personaggio fosse sacerdotessa del tempio di
Giunone di Ardea; brevemente, vedi anche T.
Gargiulo, v. Calibe, in Enciclopedia Virgiliana,
I, Roma 1984, p. 616. Fin da Omero, l’apparizione di una
divinità sotto mentite spoglie ad un personaggio che dorme, allo scopo
di comunicare con lui, è un espediente epico abbastanza tradizionale:
per i precedenti omerici e la loro influenza su Virgilio, cfr. h.r. steiner, Der Traum in der Aeneis, (Diss.
Bern), Bern-Stuttgart 1952, pp. 62 ss.
[86]
Aen. 7.421-426. Più in
generale, sul ruolo della furia Alletto nel poema virgiliano si vedano: M. von Duhn, Die Gleichnisse in der Allectoszenen des 7. Buches von Vergils Aeneis, in Gymnasium 64, 1957, pp. 59
ss.; B. Otis, Virgil. A study in civilized poetry, Oxford 1963, pp. 320 ss.; G. Garuti, v. Alletto, in Enciclopedia Virgiliana, I, cit., pp. 112 s.; da ultimo
J.-L. Pomathios, Le pouvoir politique et sa représentation
dans énéide de
Virgile, cit., pp. 270 s.
[89] Aen. 4.618-620. Cfr.
Servio, Ad Aen., 4, 618: Pacis iniquae ut supra diximus, propter perditam linguam, babitum,
nomen, quae solet victor imponere, sicut in XII postulat Iuno; nello stesso senso A. S. PEASE, Publi Vergili Maronis Aeneidos Liber Quartus, cit., p. 490; A.-M. Guillemin,
Virgile, énéide, livre IV, Paris 1935, p. 74; R. G.
Austin, P. Vergili Maronis
Aeneldos liber quartus, 6a ed.,
Oxford 1982, p. 180. Di avviso differente si mostra E. Paratore, Virgilio, Eneide, II
(Libri III‑IV), Milano 1978,
p. 238, per il quale
«forse è meglio ravvisare l’eco delle leggende relative allo
stato ancora incerto in cui Enea morendo avrebbe lasciato la situazione».
[90]
Aen. 12.187-191. R. Syme, La rivoluzione romana, trad.
it., Torino 1962 (rist. 1974), p. 467,
riferisce i versi ad Augusto: «Il suo trionfo non portava una dominazione
personale, ma l’unità fra Roma e l’Italia, la
riconciliazione finale». Anche J.
Perret, Le serment
d’Enée (Aen. XII, 188-194) et les événements
politiques de janvier
[91]
Livio 34.57.7-9: Esse autem tria genera
foederum, quibus inter se paciscerentur amicitias civitates regesque: unum, cum
bello victis dicerentur leges; ubi enim omnia ei, qui armis plus posset, dedita
essent, quae ex iis habere victos, quibus multari eos velit, ipsius ius atque
arbitrium esse; alterum, cum pares bello aequo foedere in pacem atque amicitiam
venirent; tunc enim repeti reddique per conventionem res et, si quarum turbata
bello possessio sit, eas aut ex formula iuris antiqui aut ex partis utriusque
commodo componi; tertium esse genus, cum, qui numquam hostes fuerint, ad
amicitiam sociali foedere inter se iungendam coeant; eos neque dicere nec
accipere leges; id enim victoris et victi esse (sul testo liviano J.
Briscoe, A commentary on Livy.
Books XXXIV-XXXVII, Oxford 1981, pp. 138 s.); D. 49.15.7.1 (Proculo, Libr. VIII epist.): Liber autem populus est
is, qui nullius alterius populi potestate est subiectus: sive is foederatus est
item, sive aequo foedere in amicitiam venit sive foedere comprehensum est, ut
is populus alterius populi maiestatem comiter conservaret. Cfr. Cicerone, Pro Balbo 35.
La
distinzione tra foedera aequa e iniqua è tradizionalmente accettata dalla dottrina dominante:
cfr., per tutti, P. Bonfante, Storia del diritto romano, rist. della 4a ed., Milano 1958,
pp. 230, 254 ss.; P. De Francisci,
Storia del diritto romano, rist. Milano 1943, p. 339; G. Grosso, Lezioni di storia del diritto romano, 5a ed., Torino 1965, pp. 238 s.; F. De Martino, Storia
della costituzione romana, II, 2a
ed., Napoli 1973, pp. 73, 108 s.; P.
Frezza, Corso di storia del
diritto romano, 2a ed.,
Roma 1974, p. 217; A. Guarino, Storia del diritto romano, 7a ed., Napoli 1987, pp. 105, 223,
225; F. Cassola-L. Labruna, in M. Talamanca (a cura di), Lineamenti di storia del diritto romano, 2a ed., Milano 1989, p. 260.
Tuttavia di recente non sono mancate critiche e rifiuti cfr., in tal senso, K.-H. Ziegler, Das Völkerrecht der römischen Republik, in Aufstieg und Niedergang der römischen
Welt, I.2, Berlin-New York
1972, p. 92 s. (con bibliografia precedente); e da ultimo G. Luraschi, ‘Foedus’ nell’ideologia virgiliana, cit., pp. 295 ss. (ivi altra
bibliografia).
[93]
Aen. 7.152-155; cfr. Aen. 11.227-230: nihil omnibus actum tantorum impensis operum, nil dona neque aurum /
nec magnas valuisse preces, alia arma Latinis / quaerenda aut pacem Troiano ab
rege petendum.
[95]
Aen. 8.114-116: Qui genus? unde
domo? pacemne huc fertis an arma? / Tum pater Aeneas puppi sic fatur ab alta /
paciferaeque manu ramum praetendit olivae (cfr. Servio Dan., Ad Aen. 8.116: Quoniam Pallas
prius de pace quaesierat. Et ideo mox signum pacis ostendit, ut cetera Pallas
securus audiret; K.W. Gransden, Virgil
Aeneid, book VIII, Cambridge
1976, p. 97); Aen. 11.100-101: Iamque
oratores aderant ex urbe Latina, / velati ramis oleae veniamque rogantes. Perciò
la pianta dell’olivo è detta placitam
Paci in Georg. 2.425 (Hoc pinguem et placitam Paci nutritor olivam); più in generale vedi ora G. Maggiulli, v. Olivo, in Enciclopedia Virgiliana,
III, cit., pp. 836 ss.
[96]
Aen. 8.314-327. Per
l’analisi del testo virgiliano e delle relative implicazioni ideologiche,
politiche e religiose si vedano, fra gli altri: I.S. Ryberg, Vergil’s
Golden age, in Transactions and Proceedings of the American
Philological Association 89, 1958,
pp. 112 ss.; H. Reynen, Ewiger Frühling und goldene Zett. Zum Mythos des goldenen Zettalters bei Ovid und Vergil, in Gymnasium 72, 1965, pp. 415 ss.; G. Binder, Aeneas und Augustus. Interpretationen zum 8. Buck der Aeneis, Meisenheim am Glan 1971, pp. 84 ss.; E. Paratore, Virgilio, Eneide, IV (Libri
VII-VIII), Milano 1981, pp. 255 ss.; A. Novara, Poésie virgilienne de la mémoire. Questions sur
l’histoire dans l’énéide
8, Clermont-Ferrand 1986, pp. 72 ss.; K.D. Bracher,
Verfall und Fortschritt in Denken der
frühen römischen Kaiserzeit,
Wien-Köln-Graz 1987, pp.
282 s.
[97] Tale connessione risulta ben compresa da F. Klingner, Virgil und die römische Idee des Friedens, in Id., Römische
Geisteswelt, cit., pp. 621
s., il quale scrive: «mos und cultus, leges, aurea
saecula, placida populos in pace regebat: das sind Grundworte der Rom-Idee
Virgils».
[98]
Per quanto riguarda Saturno, divinità che «anche nell’Eneide, non perde del
tutto le caratteristiche palingenetiche che gli erano attribuite nelle Bucoliche» (E. Montanari, v. Saturno, in Enciclopedia Virgiliana, IV, cit., p. 688), e
l’utilizzazione del suo mito nella poesia virgiliana, vedi: W.S.
Anderson, Iuno and Saturn in the Aeneld, in Studies in Philology 55,
1958, pp. 519 ss.; M. Bollack,
Le retour de Saturne, in Revue des études latines 45, 1967, pp. 304 ss.; A. Brelich, Tre variazioni romane sul tema delle origini, 2a ed., Roma 1976, pp. 92 s.; P.A.
Johnston, Vergil’s Conception of Saturn, in California Studies in Classical Antiquity 10, 1977, pp. 57 ss.; Ead.,
Vergil’s agricultural Golden Age. A
study of tbe Georgics, Leiden
1980, pp. 62 ss.; C. Guittard, Saturnia terra, mythe et réalité, in Caesarodunum 15 bis, 1980,
pp. 177 ss.; M.W. Schiebe,
The Saturn of the Aeneid. Tradition or
innovation?, in Vergilius 32, 1986, pp. 43 ss.
Sul carattere originario della
divinità e sulla sua trasfigurazione teologica, dovuta forse alla
contaminazione col Crono ellenico, vedi invece G. Wissowa, Religion
und Kultus der Römer, cit.,
pp. 204 ss.; E. Manni, A proposito del culto di Saturno, in Athenaeum 16, 1938, pp.
223 ss.; N. Turchi, La religione di Roma antica,
Bologna 1939, pp. 173 ss.; K. Latte, Römische Religionsgeschichte, cit., pp. 254 s.; G.
Dumézil, La religion
romaine archaïque, 2a ed.,
Paris 1974, pp. 281 s. (= La
religione romana arcaica, Milano
1977, pp. 244 s.); C. Guittard, Recherches sur la nature de Saturne dès origines à la
réforme de 217 avant J.-C.,
in R. Bloch e altri, Recherches sur les religions de
l’Italie antique,
Genève 1976, pp. 43 ss.
[99] Cfr. in tal senso V. Buchheit,
Vergil über die Sendung Roms.
Untersuchungen zum Bellum Punicum und zur Aeneis (Gymnasium, Heft 3),
Heidelberg 1963, pp. 92 s.; G. Binder,
Aeneas und Augustus, cit., pp. 95 ss. A ben vedere la placida pax non significa semplicemente l’assenza della guerra,
quanto piuttosto l’instaurazione di un perfetto ordine sociale; è
sostanzialmente questo il motivo per cui nell’ideologia virgiliana (Aen. 8.319 ss.) si configura «la
rappresentazione dell’età di Saturno come successiva a quella
selvaggia dell’uomo, giusta la descrizione del Lazio arcaico fatta da
Evandro»: M. Pavan, v. Aurea, in Enciclopedia
Virgiliana, I, cit. p. 417.
[101]
Il grammatico Servio e il Servio Danielino fanno derivare l’enunciazione
virgiliana dalla dottrina esiodea: Servio, Ad
Aen. 8.326: Decolor aetas vitiosa, quae decoloraret
veteres mores: in omni enim vitioso corpore inest pessimus color. Et adludit ad
naturam metalli, quam cernimus discolorem: nec immerito; supra enim dixerat
‘aurea saecula’, ideo nunc dixit ‘aetas decolor’, (Servio
Dan.) id est aurea et ferrea, sicuti
Hesiodus dicit. Sane ‘decolor aetas’ quis ante hunc? Sulla
successione delle cinque età teorizzata da Esiodo e sulla concezione
della storia umana come processo di degenerazione, vedi lo studio di B. Gatz, Weltalter, goldene Zeit und sinnverwandte Vorstellung (Spudasmata, Band XVI), Hildesheim 1967,
pp. 35 ss.; e ora, brevemente, anche M.
Pavan, v. Aurea, in Enciclopedia Virgiliana,
I, cit., pp. 412 s.
[102]
Proprio riguardo allo ius naturale,
P. Catalano, v. Giustiniano, in Enciclopedia Virgiliana,
II, cit., p. 762, indica nei versi Aen.
8.319 ss. «lo schema argomentativo della teoria dello ius naturale che riconduce tale ius
ad un inizio felice della storia degli uomini, anteriore cioè alle lotte
e alle divisioni prodotte dalla società»; schema che troviamo in
diversi testi giuridici confluiti nella compilazione giustinianea. Cfr. D.
1.1.4 (su cui vedi O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, II, Lipsiae 1889, col. 927 fragm. 1912;
C. A. Maschi, La concezione naturalistica del diritto e
degli istituti giuridici romani, Milano
1937, p. 167; G. Lombardi, Sul concetto di “ius gentium”, Milano 1947, p. 205; A. Carcaterra, Le definizioni dei giuristi romani. Metodo, mezzi e fini, cit., p. 193; R. Martini, Le definizioni dei giuristi romani, Milano 1966, p. 318; Ph.
Didier, Les diverses conceptions
du droit naturel à l’oeuvre dans la iurisprudence romaine des IIe
et IIIe Siècles, in Studia et documenta historiae et iuris 47, 1981, p. 249); D. 40.11.2; Inst. 1.2.2 (sul passo delle istituzioni giustinianee vedi, fra gli
altri: L.
Lantella, Il lavoro sistematico
nel diritto romano, in AA.VV., Prospettive sistematiche nel diritto romano, Torino 1976, p. 219; F. Goria, Schiavi, sistematica delle persone e condizioni economico-sociali del
principato, ibid., pp. 372 ss.); Nov. 74.1; 89.1 (sulle due costituzione
cfr. C.
Castello, Il pensiero giustinianeo
sull’origine degli “status hominum”, in Studi in memoria di E. Albertario, II, Milano 1953, pp. 197 ss.).
[103]
La visione storica che unisce i giuristi classici e Virgilio si coglie
pienamente nel noto frammento del libro I
iuris epitomarum di
Ermogeniano, relativo allo ius gentium: D. 1.1.5: Ex hoc iure gentium introducta bella, discretae gentes, regna condita,
dominia distincta, agris termini positi, aedificia collocata, commercium,
emptiones venditiones, locationes conductiones, obligationes institutae:
exceptis quibusdam quae iure civili introductae sunt. Il nesso causale, sotteso nel testo
del giurista classico, tra lo ius gentium
e la fine dell’età dell’oro è evidenziato da Ph. Didier, Les diverses
conceptions du droit naturel à l’oeuvre dans la jurisprudence
romaine des IIe et IIIe siècles, cit., pp. 248 s.: «Un des derniers jurisconsultes
classiques, Hermogenien, dans un texte très général,
véritable résumé de la dernière philosophie sociale
grecque, qui pour le lecteur du XXe siècle semble surtout annoncer
étrangement le "Contrat social" de Rousseau, présente
l’apparition du ius gentium comme
la fin de l’âge d’or: la guerre, la diversité des
nations, l’existence de l’état, la propriété
divise du sol, la vie des affaires naissent avec le ius gentium, forme première du ius civile».
Contro
l’attendibilità del frammento si schiera G. Lombardi, Il concetto
di “ius gentium”, cit.,
pp. 260 ss., con critica all’interpretazione del Savigny; ma in altro
senso vedi C. Castello, Il pensiero giustinianeo sull’origine
degli “status bominum”, cit., pp. 214 ss.
[104]
Per un rapido inquadramento delle varie tradizioni mitologiche legate alla
figura del re Latino, vedi J.A. Hild,
v. Latinus, in Dictionnaire des
antiquités grecques et romaines 3.2, Paris 1904, pp. 980 ss.; W.
Schur, v. Latinus, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft 12.1,
Stuttgart 1924, coll. 928 ss.; R.M.
Ogilvie, A Commentary on Livy.
Books 1-5, Oxford 1965, p.
34 (con particolare riferimento alla “versione” catoniana); A. Alföldi, Die Penaten, Aeneas und Latinus, in Mitteilungen des
deutschen archäologischen Instituts (Röm. Abt.) 78, 1971,
pp. 1 ss.; V.J. Rosivach, The Genealogy of Latinus and the palace of
Picus, in Classical Quarterly 30, 1980, pp. 140
ss.; Id., v. Latino, in Enciclopedia Virgiliana, III, cit., pp. 131 ss.
[105]
Aen. 7.45-46; sui versi vedi il
commento di E. Paratore, Virgilio, Eneide, IV, cit., pp. 132 ss. Alla «Deutung der Gestalt des Latinus in Buch 7» dedica alcune
belle pagine V. Buchheit, Vergil über die Sendung Roms, cit., pp. 86 ss. (per
l’analisi dei vv. citati p. 92), il quale non trascura di evidenziare il
rapporto che Virgilio tende ad instaurare, proprio attraverso la pace, tra
Latino e Augusto: «Das heisst für Vergil, der durch sein ganzes
Lebenswerk hindurch mit den Vorstellungen der aetas aurea arbeitet und ihre Wiederkehr in der aetas Augusta feiert, dass Latinus und
sein Wirken ein Abbild des Augustus und der durch ihn heraufgeführten
Friedenszeit darstellen, dass also ein grosser Bogen gespannt ist, der die
gesamte römische Geschichte zu einer Einheit verschmilzt, an deren Anfang
und Ende der Frieden einer aetas aurea steht.
Es führte hier zu weit zu zeigen, dass Vergil die römische Geschichte
in der Tat in dieser Weise zeichnet: man braucht nur zu beachten, dass die
Bücher 7 und 8 der Aeneis genau diesen Kreis beschreiben: von
Saturn-Latinus, den Friedensfürsten, zu Augustus, dem Befreier des orbis durch den Sieg von Actium, eine
Oberschau über die römische Geschichte, wie sie grossartiger vor und
nach Vergil nicht mehr gestaltet worden ist» (p. 93).
Una diversa interpretazione del testo è offerta da
G. Dumézil, Mythe et épopée, I. L’idéologie des trois fonctions dans les
épopées des peuples indo-européens, cit., p. 360, per il quale il re
Latino e il popolo latino sarebbero nel contesto virgiliano rappresentanti
della terza funzione: «Considérons d’abord Latinus et son
peuple latin. Beaucoup de
traits font d’eux, par-delà leur rôle précis ‑
donner aux Troyens une terre et à Ėnée une femme –,
les représentants généraux de la "troisième
fonction" dans ce qu’elle a
partout de plus apparent, dans ce que la légende romuléenne
attribue aux Sabins: la prospérité, la richesse et aussi,
avant les combats, la paix et le goût de la paix».
[106]
Aen. 1.286-290. Sulla
base del commento di Servio (Ad
Aen. 1.286: Caesar hic est,
qui dictus est Gaius Iulius Caesar. Gaius praenomen est, Iulius ab Iulo, Caesar
vel quod caeso matris ventre natus est, vel quod avus eius in Africa manu
propria occidit elephantem, qui caesa dicitur lingua Poenorum) e del Servio Danielino (Ibid.: Hic sane Gaius Iulius Caesar quattuor
et sexaginta victis Galliarum civitatibus cum a senatu petisset consulatum et
triumphum nec impetrasset adversante Cn. Pompeio magno eiusque amicis, qui
Caesaris processibus invidebant, bellum civile gessit in Farsalia, quo Pompeius
victus Alexandriae occiditur. Caesar Romam compositis rebus et Alexandria
debellata reversus in curia Pompeiana a Cassio et Bruto aliisque Pompeianis
occisus est. Cuius heres Augustus cum intrasset urbem coegit a senatu interfectores
Caesaris parricidas et hostes iudicari, eumque in deorum numerum referri et
divum appellari.) si discute tra gli studiosi
sull’identità del Caesar menzionato
nel verso 1.286. Alcuni
dubitano che si tratti di Augusto e pensano piuttosto a C. Giulio Cesare, come
del resto il testo di Servio sembra suggerire (così, ad esempio, R.S. Conway, P. Vergili Maronis Aeneidos liber primus, cit., pp. 65 s. Favorevole all’identificazione con
Augusto è invece E. Paratore,
Virgilio, Eneide, I, cit., pp. 174 s., il quale
osserva, fra l’altro, che nell’Eneide «l’unica volta in
cui il personaggio di Cesare compare indiscutibilmente è per sentirsi
rimproverare di aver scatenato la guerra civile». Nello stesso senso vedi
J. Perret, Virgile, Enéide, I,
(Livr. I-IV), 2a ed., Paris 1981, p. 146: «En 20 comme déjà en 29, “Caesar” est celui que nous appellons
Auguste»; sarebbe infatti assai sorprendente ‑ a parere dello
studioso francese ‑ che la profezia di Giove menzionasse Cesare, e non
Augusto, come ultimo rappresentante della discendenza troiana. Anche per J.-L.
Pomathios, Le pouvoir politique et
sa représentation dans Énéide
de Virgile, cit., p. 248:
«Auguste apparaît ainsi comme l’heureux aboutissement, et la
justification, des siècles qui le précèdent. En retour, il
est étroitement solidaire et dépendant de toute l’histoire
romaine, dont il hérite, et même de l’histoire du monde.
Virgile reste fidèle ici au principe consistant à immerger
profondément Auguste dans l’histoire et la légende».
[107]
Aen. 6.788-795. è opinione del Paratore, Virgilio, Eneide, III,
cit., pp. 345 s., che fin dal Caesar del
v. 789 il poeta si riferisca ad Ottaviano; solo nei vv. 826 ss., Cesare viene
indicato da Anchise «per la prima volta accanto a Pompeo dopo una lunga
serie di altri personaggi; ciò non sarebbe possibile se Anchise
l’avesse additato ora. Perciò, modificando la nostra esegesi
precedente, proponiamo di scorgere già Augusto in Caesar, collegando Hic
Caesar con Hic vir, hic est... Augustus Caesar dei vv. 791-2». Nello
stesso senso, vedi già E. Norden,
P. Vergilius Maro, Aeneis, Buch VI, cit., pp. 322 ss., il quale
sottolinea anche la valenza religiosa della formula condere saecula, utilizzata
da Virgilio nei vv. 792-93 per qualificare l’azione politica di Augusto.
Sempre
a proposito dei versi citati, R. Syme,
La rivoluzione romana, cit. p. 465, ne rileva il valore
politico in riferimento all’azione di Augusto, raffigurato non tanto
nella sua qualità di conquistatore del mondo, bensì come «il
futuro instauratore della nuova era»; R.G.
Austin, P. Vergili Maronis
Aeneidos liber sextus, cit,
pp. 243 S., ipotizza che la nuova età aurea rimandi alle riforme
sociali, religiose e morali varate da Augusto tra il 28 e il
[108]
Questo aspetto è colto, con felice sintesi, da M. PAVAN, v. Aurea, in Enciclopedia Virgiliana,
I, cit., p. 418: «Ma Augusto, e cioè l’Ottaviano che
in G. 2,171-2 tiene lontano dall’arce romana l’imbelle Indo, ora
è ancora elogiato perché super
et Garamantas et Indos / proferet imperium. Questo restauratore
dell’età a(urea) di pace può essere esaltato per le sue
imprese di guerra solo nel concetto che l’imperium, che egli estenderà, non soltanto salvaguarderà
la sua sussistenza e quindi la pace stessa dei Romani ma solo nella sua massima
estensione potrà assicurare una pace universale, una pace che per essere
tale ha bisogno di un mos».
[110]
Leggono il verso soprattutto come indicazione di “doveri” F. Fabbrini, L’impero di Augusto come ordinamento sovrannazionale, Milano 1974, p. 115 («è questo il senso del “regere imperio populos” virgiliano: non già
un’esortazione imperialistica, bensì l’indicazione dei
doveri che, per vincolo di clientela incombevano sul patrono. Quel regere ha più il significato di
“sostenere” e “difendere” che non quello di
comandare»); S. D’elia,
Lettura del sesto libro dell’Eneide, in M. Gigante, (a cura di), Lecturae
Vergilianae, III. L’Eneide, cit., p. 217 («Il famoso tu regere imperio populos, Romane, memento non è
un’esaltazione, ma la formulazione di una legge morale che è nello
stesso tempo religiosa, eppure si risolve, tutta e integralmente, sul piano
della storia»); da ultimo, G.
Luraschi, ‘Foedus’
nell’ideologia virgiliana,
cit., p. 297 («Trovava così piena realizzazione la profezia
di Anchise che assegnava all’Urbe il destino di regere imperio populos
e di paci imponere mores; anche se bisogna riconoscere che
Virgilio interpreta a suo modo tale destino: quella del poeta non vuole essere
una esortazione imperialistica o una compiaciuta constatazione della
"grandeur" di Roma, ma piuttosto una indicazione dei doveri che
incombono sulla domina gentium, primo
fra tutti quello di creare le condizioni politiche e giuridiche per una pace
duratura ed universale»).
[111]
Aen. 1.291-296. Nella prospettiva
virgiliana l’attività dei nuovi Romolo e Remo (che Servio, Ad Aen. 1.292, intende nel senso di
Augusto e Agrippa: questa interpretazione, già accettata dal Mommsen, Römisches Staatsrecht,
II, cit., p. 745 n. 2 = Droit public
romain, V, cit., p. 2 n. 1, non
appare inverosimile a G. Dumézil,
La religion romaine archaïque, cit., p. 269 = La religione romana arcaica, cit., p. 234; J. Perret, Virgile, Énéide,
I, cit., p. 146; J.-L. Pomathios,
Le pouvoir politique et sa
représentation dans Énéide de Virgile, cit., p. 80 n. 99) si presenta
chiaramente proiettata verso la nuova età dell’oro: A. Novara, Poésie virgilienne de la mémoire. Questions sur l’histoire dans l’Énéide 8, cit., p. 13: «au chant I le poète avait mise
dans la bouche de Jupiter au cours de ses révélations à
Vénus sur les destinées romaines, avec l’annonce des
triomphes d’Auguste et de la domination universelle réalisée,
celle d’un temps de paix, comme seul l’âge d’or en
jouit, toutefois le père des dieux n’avait pas usé du
qualificatif». Cfr. anche A.M.
Guillemin, L’unité de
l’oeuvre virgilienne, in
Revue des études latines 26, 1948, pp. 194 s.; V. Buchheit, Der Anspruch
des Dichters in Vergils Georgika. Dichtertums und Heilsweg, Darmstadt 1972, pp. 178 s.; J. Beaujeu, Le frère de Quirinus (à propos de Virgile,
Énéide I, 292 et de Properce IV, 1, 9), in Mélanges de
philosophie, de littérature et d’histoire ancienne offerts
à P. Boyancé, Roma
1974, pp. 57 ss.; V. Pöschl, Virgil und
Augustus, cit., pp. 715 s.
Quanto
poi alla connessione di Fides e Vesta con Iuppiter, vedi A. Wlosok, Vergil als Theologe: Iuppiter pater onnipotens, cit., pp. 197 ss.; sul significato di dare iura vedi invece G. Binder, Aeneas und
Augustus. Interpretationen zum 8. Bucb der Aeneis, cit., p. 210; P. Catalano,
v. Ius, in Enciclopedia Virgiliana, III, cit., pp. 66 s.
[112]
Ricalco quest’espressione
dal titolo del saggio di P.A. Carnemolla,
Storia e profezia in La Pira e nuova
Europa, in Aggiornamenti sociali 41, n. 11, nov. 1990, pp. 679 ss.; in
questo saggio si discute, fra le altre cose, anche l’intervento a Sofia
del 27 aprile
[113]
G. La Pira, Il
sentiero di Isaia, cit., p. 625
«L’età di Augusto ci appare infatti come un momento
privilegiato nella storia del mondo in cui per la prima volta i popoli si
trovano pacificati e viene stabilito uno stato di cose che Virgilio non
esita a paragonare alla mitica “età dell’oro”.
Nell’ecloga IV c’è la percezione della grandezza di
quest’epoca: “nasce una nuova e grande età”».
[114]
Sugli anni fiorentini più fecondi del La Pira “giurista”,
è possibile ora leggere alcune pagine nel libro di P. Grossi,
Stile fiorentino. Gli studi giuridici nella Firenze italiana, 1859-1950, Firenze 1986, pp. 99 ss., 115 ss., 198
ss., a cui rimando per altra bibliografia.
[115]
G. La Pira,
Il sentiero di Isaia, cit., p. 625: «Cosa ha fatto di grande dunque Augusto? Perché la
sua epoca è ricca d’ispirazione anche per oggi: non nel senso del
ritorno al passato (Perché non ha senso nella storia tornare indietro),
ma per cogliere i valori e gli sforzi che possono essere attuali? Augusto ha
fatto la pace universale. Su tutte le frontiere di quel tempo c’è
la pace: l’Ara Pacis (