ds_gen Università di Sassari/Seminario di Diritto Romano/Pubblicazioni-7

 

Bellum-1Francesco Sini

 

Bellum Nefandum. Virgilio e il problema

del “diritto internazionale antico”

 

Sassari, Libreria Dessì Editrice, 1991

 

pp. 304

 

 

 

Digesta Iustiniani 1, 8, 6, 5

(Marcian. l. III inst.) ... sicut

testis in ea re est Vergilius.

 

 

 

Capitolo Terzo

 

Hostis

 

Sommario: 1. Significato arcaico di hostis. – 2. Hostis nel linguaggio di Virgilio. – 3. Uso generico di hostis in riferimento a divinità, uomini, animali. – 4. Hostis come condizione giuridica. – 5. Riflessi virgiliani della giurisprudenza sacerdotale.

 

 

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1. – Significato arcaico di hostis

 

Sebbene nel latino dell'età virgiliana (soprattutto nel linguaggio poetico) il termine hostis avesse ormai acquisito «le sens d’ennemí en général, de même que inimicus s'emploie pour hostilis»[1]; l'antico significato della parola restava però ben vivo, sia nella cultura giuridica, sia nella scienza antiquaria.

Nel testo delle XII Tavole tradito nel I secolo a. C.[2] la

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parola hostis figurava utilizzata nell'originario significato di "straniero"; come attesta un noto passo del De officiis ciceroniano:

 

Hostis enim apud maiores nostros is dicebatur, quem nunc peregrinum dicimus. Indicant duodecim tabulae: aut status dies cum hoste itemque adversus hostem aeterna auctoritas. Quid ad hanc mansuetudinem addi potest, eum, quicum bellum geras, tam molli nomine appellare? Quamquam id nomen durius effecit iam vetustas; a peregrino enim recessit et proprie in eo, qui arma contra ferret, remansit[3].

 

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Rimanda all'originario significato della parola, oltre il passo di Cicerone, anche l'antica formula del giuramento dei milites, trascritta da Aulo Gellio nel sedicesimo libro delle Noctes Atticae, ma derivata – com'è noto – dal quinto libro del De re militari del giurista L. Cincio[4]:

 

Militibus autem scriptis dies praefinibatur, quo die adessent et citanti consuli responderent; deinde concipiebatur iusiurandum, ut adessent, his additis exceptionibus: nisi harunce quae causa erit: funus familiare feriaeve denicales, quae non eius rei causa in eum diem collatae sint, quo is eo die minus ibi esset, morbus sonticus, auspiciumve, quod sine piaculo praeterire non liceat, sacrificiumve anniversarium, quod recte fieri non possit, nisi ipsius eo die ibi sit, vis hostisve, status condictusve dies cum hoste[5].

 

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Nell'epitome di Paolo Diacono abbiamo un'altra testimonianza assai importante, poiché attraverso il De verborum significatu di Sesto Pompeo Festo[6] può farsi risalire alla scienza antiquaria di Verrio Flacco[7]. Si tratta della formula

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con cui il littore allontanava da alcune cerimonie religiose determinate categorie di persone:

 

Exesto, extra esto. Sic enim lictor in quibusdam sacris clamitabat: hostis, vinctus, mulier, virgo exesto; scilicet interesse prohibebatur[8].

 

Del resto, anche il grande Varrone nel De lingua Latina, per esporre il caso di molte parole che aliud nunc ostendunt, aliud ante significabant, si riferisce all'esempio di hostis:

 

Quae ideo sunt obscuriora, quod neque omnis impositio verborum extat, quod vetustas quasdam delevit, nec quae extat sine mendo omnis imposita, nec quae recte est imposita, cuncta manet (multa enim verba li<t>teris commutatis sunt interpolata), neque omnis origo est nostrae linguae e vernaculis verbis, et multa verba aliud nunc ostendunt, aliud ante significabant, ut hostis: nam tum eo verbo dicebant peregrinum qui suis legibus uteretur, nunc dicunt eum quem tum dicebant perduellem[9].

 

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Il termine, dunque, nella sua accezione originaria, presente ancora nelle commedie di Plauto e quindi desunta senza dubbio dall'uso linguistico corrente[10], indicava lo straniero; più precisamente lo straniero qui suis legibus uteretur, al quale si riconosceva parità di ius col popolo romano:

 

Status dies <cum hoste> vocatur qui iudici causa est constitutus cum peregrino; eius enim generis ab antiquis hostes appellabantur, quod erant pari iure cum populo Romano, atque hostire ponebatur pro aequare[11].

 

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Tale originaria accezione si presentava definitivamente modificata nell'ultimo secolo della Repubblica[12], in relazione peraltro con l'estendersi del valore di peregrinus, che nei primi secoli dell'Impero finì per designare una particolare condizione giuridica[13].

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Come si vedrà nei paragrafi successivi, gli impieghi virgiliani di hostis si presentano uniformi all'uso linguistico corrente della sua epoca. Si può così comprendere quanto errasse N. D. Fustel de Coulanges nel cercare di fondare la sua teoria che a Roma lo straniero «n'ayant aucune part à la religion, n'avait aucun droit»[14], anche sui seguenti versi virgiliani:

 

ne qua inter sanctos ignis in honore deorum

hostilis facies occurrat et omina turbet[15].

 

Scriveva, al riguardo, il grande studioso francese: «Un témoignage de cet antique sentiment de répulsion nous est resté dans un des principaux rites du culte romain; le pontife, lorsqu'il sacrifie en plein air, doit avoir la tête voilée, "parce qu'il ne faut pas que devant les feux sacrés, dans l'acte religieux qui est offert aux dieux nationaux, le visage d'un étranger se montre aux yeux du pontife; les auspices en seraient troublés"»[16]. L'ultima parte del brano corrisponde alla traduzione di Aen. 3, 407 hostilis facies occurrat et omina turbet, con la

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precisazione che «hostilis facies, dans Virgile, signifie le visage d'un étranger»[17]. Orbene, la traduzione proposta dal Fustel sembra assai forzata; mi pare, infatti, indiscutibile che in questo verso Virgilio usi hostilis, non con l'antico significato di "straniero”, bensì seguendo l'uso linguistico corrente del suo tempo: forse anche nel senso di fere i. q. infestus, 'adversarius', 'sinister' (sebbene il verso non sia compreso tra i passi raccolti sotto questa accezione nel Thesaurus Linguae Latinae)[18].

Senza dubbio più aderente al testo si presenta la traduzione proposta da Luca Canali, nell'edizione dell'Eneide pubblicata dalla Fondazione Lorenzo Valla: «vela le chiome coperte d'un manto purpureo, / perché tra i santi fuochi in onore degli dei / non compaia un ostile aspetto e turbi i presagi»[19].

Non trova dunque riscontro in questo verso, né in altri impieghi virgiliani di hostis, la tesi dell'ostilità naturale, dominante – com'è noto – nella dottrina romanistica del secolo scorso[20] e tuttora sostenuta da autorevoli studiosi[21], la quale postula la guerra come condizione naturale delle primordiali relazioni fra popoli, da cui consegue l'assoluta mancanza di diritti per gli stranieri, in assenza di trattati.

 

 

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2. – Hostis nel linguaggio di Virgilio

 

Nelle opere del nostro poeta hostis ricorre circa novanta volte[22], impiegato esclusivamente per esprimere il concetto di "nemico"[23]. Frequente si presenta anche l'uso del singolare[24], che serve nella maggior parte dei casi, come assai bene sottolineava il grammatico Servio nel suo commento dell'Eneide, a dare valore più generale al termine:

 

‘Ex hoste’ autem plus est, quam si 'ex hostibus' diceret, ut diximus supra. 'Ex hoste' enim generaliter dicitur, 'ex hostibus' partem ostendit, sicut dicendo `terram’ significamus elementum, ‘terras’ vero singulas partes, ut Africae, Italiae[25].

 

Tra gli impieghi virgiliani di hostis, seppure tutti carattezzati

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dalla comune accezione di "nemico", va operata una fondamentale distinzione.

Anzi tutto vi è l'uso della parola in senso giuridicamente proprio: con hostes il poeta vuole indicare quei soggetti contro i quali è in atto un legittimo stato di guerra[26]. Da ciò consegue che nei loro confronti non vengono mai del tutto meno i valori essenziali – religiosi e giuridici – delle relazioni fra gli uomini[27]. Questa concezione, profondamente radicata nella giurisprudenza sacerdotale romana, si appalesa soprattutto nell'Eneide, dove la consapevolezza della comune appartenenza di tutti i popoli (quindi anche degli hostes) ad un

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medesimo sistema giuridico-religioso[28] risulta espressa con innegabile convinzione[29].

Ma Virgilio utilizza hostis anche in senso generico o addirittura improprio. Abbiamo, infatti, un certo numero di versi in cui il termine richiama questa genericità di significati, con riferimento a qualsiasi avversario: divinità, uomini, bestie[30].

In un verso dell'Eneide hostis assume perfino valore astratto:

 

mox illos sua fata manent maiore sub hoste[31];

 

che, peraltro, non era sfuggito all'acuto commento di Servio (Maiore sub hoste sub hostilitate: nam sub diversis hostibus pereunt)[32].

 

 

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3. – Uso generico di hostis in riferimento a divinità, uomini, animali

 

Veniamo all'esame delle occorrenze virgiliane di hostis, precisando che l'analisi dei versi muoverà da quelli in cui il termine appare utilizzato in significati generici e impropri, con riferimento a qualsiasi avversario.

Come sinonimo di "nemico personale" hostis ricorre in due versi del libro dell'Eneide dedicato a Didone:

 

I, soror, atque hostem suplex adfare superbum[33].

 

Tu lacrimis evicta meis, tu prima furentem

his, germana, malis oneras atque obicis hosti[34].

 

In questo caso il poeta vuole evidenziare, con l'uso di tale termine, che per la regina cartaginese Enea appartiene ormai «alla categoria di coloro che arrecano male»[35]. Notava già A. S. Pease[36], come nei riferimenti di Didone ad Enea si abbia un'interessante sequenza terminologica (coniunx in Aen. 4, 172; hospes in Aen. 4, 332; hostis nei versi citati[37]), che sembra suggerita a Virgilio dalla reminiscenza dell'antico legame linguistico

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tra hospes e hostis, di cui puntualmente dà conto il Servio Danielino[38].

In altro luogo, sempre dell'Eneide, troviamo un impiego del termine con riferimento alla divinità suprema:

 

Ille caput quassans: non me tua fervida terrent

dicta, ferox; di me terrent et Iuppiter hostis[39].

 

Si tratta dello sconsolato discorso di Turno ormai prossimo all'esito nefasto del duello con Enea, il quale, conscio del suo destino[40], qualifica non senza ragione come hostis lo stesso Iuppiter. I versi costituiscono quasi un epilogo della singolare caratterizzazione di questo personaggio nella poetica virgiliana: per lui sono usati attributi quali audax e violentus, ed è sempre presentato come l'esatto contrario dell'eroe augusteo, animato invece da furor civilis e volto alla realizzazione della pax[41]. Turno espia dunque la colpa di aver voluto una guerra contra omina, contra fata deum[42], da cui consegue chiaramente

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la violazione della pax deorum, che la sua morte serve a ristabilire[43].

Abbiamo infine tre passi in cui l'impiego di hostis si presenta riferito al mondo animale[44].

Ad un combattimento di cigni contro un'aquila:

 

Arrexere animos Itali, cunctaeque volucres

convertunt clamore fugam (mirabile visu)

aetheraque obscurant pinnis hostemque per auras

facta nube premunt, donec vi victus et ipso

pondere defecit praedamque ex unguibus ales

proiecit fluvio penitusque in nubila fugit[45];

 

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ad una lotta tra tori:

 

signo movet praecepsque oblitum fertur in hostem[46];

 

ai preparativi di guerra delle api:

 

tum trepidae inter se coeunt, pinnisque coruscant

spiculaque exacuunt rostris aptantque lacertos

et circa regem atque ipsa ad praetoria densae

miscentur magnisque vocant clamoribus hostem[47].

 

Una pur breve riflessione meritano gli ultimi versi. Nel cantare l'organizzazione sociale delle api, mirabile per lo spirito comunistico che la anima[48], Virgilio perseguiva un duplice scopo: esaltare l'ultimo residuo contemporaneo dell'età dell’oro[49] e proporlo al tempo stesso come modello di organizzazione

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politica[50]. Questo spiega, sia la frequente umanizzazione delle situazioni in tutto il libro[51], sia il ricorso nei versi

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citati a parole tratte dal linguaggio della politica e dell’arte della guerra[52].

 

 

4. – Hostis come condizione giuridica

 

Passiamo ora ad esaminare quei versi in cui il termine hostis è impiegato da Virgilio in senso giuridico: per indicare, cioè, il "nemico" col quale esiste un legittimo stato di guerra [53].

A tal senso rimandano senza dubbio i versi citati di seguito:

 

Addam urbes Asiae domitas pulsumque Niphaten

fidentemque fuga Parthum versisque sagittis

et duo rapta manu diverso ex hoste tropaea bisque

triumphatas utroque ab litore gentis[54].

 

In questo caso il valore giuridico di hostis è assicurato dall'espressione triumphatas gentes, poiché come attesta Gellio, ma il passo con molta probabilità è tratto dai Memorialium libri di Masurio Sabino[55], fra i requisiti necessari per poter ottenere l'onore del trionfo vi erano quelli di aver combattuto

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bella rite indicta e contro un nemico qualificabile come iustus hostis:

 

Ovandi ac non triumphandi causa est, cum aut bella non rite indicta neque cum iusto hoste gesta sunt, aut hostium nomen humile et non idoneum est, ut servorum piratarumque, aut, deditione repente facta, inpulverea, ut dici solet, incruentaque victoria obvenit[56].

 

Nel primo libro dell'Eneide l'eroe troiano implicitamente riconosce la legittimità del “nemico” quando presenta sè stesso come colui che ha salvato ex hoste i Penati di Troia:

 

Sum pius Aeneas, raptos qui ex hoste penatis

classe veho mecum, fama super aethera notus.

Italiam quaero patriam et genus ab Iove magno[57].

 

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Con la salvezza dei Penati[58] Enea ha impedito, al tempo stesso, l'estinzione religiosa e giuridica del popolo troiano,

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minacciata proprio dalla condizione di iusti et legitimi hostes[59] degli avversari: solo tale condizione dava, infatti, la facoltà di conquistare con pieno diritto una città o un popolo e di porre fine alla loro esistenza giuridica[60].

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Altrove si ha l’impiego del termine hostis per descrivere vere e proprie scene di guerra:

 

Heu fuge, nate dea, teque his ait erige flammis.

Hostis habet muros, ruit alto a culmine Troia[61].

 

Ergo ersi conferre manum pudor iraque monstrat,

obiciunt portas tamen et praecepta facessunt

armatique cavis exspectant turribus hostem[62].

 

Sic ait et paribus Messapum in proelia dictis

hortatur sociosque duces et pergit in hostem[63].

 

Infine hostis appare utilizzato con precisa valenza giuridica nell'esortazione che il poeta attribuisce a Turno:

 

Ergo iter ad regem polluta pace Latinum

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indicit primis iuvenum et iubet arma parari,

tutari Italiani, detrudere finibus hostem:

se satin ambobus Teucrisque venire Latinisque[64].

 

La terminologia giuridica risulta evidente nel riferimento al concetto di terra Italia e alla intangibilità religiosa dei fines[65].

è noto, peraltro, che l'esistenza della condizione giuridica di hostes non poteva prescindere, per i giuristi romani, dal bellum publice decretum:

 

Pomponio (Lib. II ad Q. Mucium): ‘Hostes’ hi sunt, qui nobis aut quibus nos publice bellum decrevimus: ceteri latrones aut praedones sunt[66];

Gaio (Libr. II ad leg. XII tab.): Quos nos hostes appellamus, eos veteres 'perduelles' appellabant, per eam adiectionem indicantes, cum quibus bellum esset[67].

 

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La mancanza di questa condizione qualificava i latrones e i praedones e le conseguenze della distinzione erano, invero, assai rilevanti dal punto di vista giuridico; basterà ricordare a questo punto il solo caso del postliminium[68]:

 

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Ulpiano (Libr. I inst.): Hostes sunt, quibus bellum publice populus Romanus decrevi vel ipsi populo Romano: ceteri latrunculi vel praedones appellantur. Et ideo qui a latronibus captus est, servus latronum non est, nec postliminium illi necessarium est: ab hostibus autem captus, ut puta a Germanis et Parthis, et servus est hostium et postliminio statum pristinum recuperat[69].

 

Un rapido esame dell'uso virgiliano dei termini latro e praedo dimostra, in maniera inequivocabile, che il poeta ha ben presente la situazione giuridica che li differenzia dagli hostes.

Praedo ricorre tre volte nell'Eneide[70], sempre riferito a troiani. Due volte riferito allo stesso Enea: nelle parole della regina Amata[71]:

 

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Exulibusne datur ducenda Lavinia Teucris,

o genitor, nec te miseret gnataeque tuique?

nec matris miseret, quam primo aquilone relinquet

perfidus alta petens abducta virgine praedo?[72]

 

e in bocca all'etrusco Mezenzio:

 

Dextra mihi deus et telum, quod missile libro,

nunc adsint! voveo praedonis corpore raptis

indutum spoliis ipsum te, Lause, tropaeum

Aeneae[73].

 

Una, in senso generico, nella preghiera che le matrone latine indirizzano a Minerva:

 

Armipotens, praeses belli, Tritonia virgo,

frange manu telum Phrygii praedonis et ipsum

pronum sterne solo portisque effunde sub altis[74].

 

[p. 171]

Si trattava dunque di personaggi, ai quali ripugnava dover riconoscere a Enea e ai Troiani la condizione di hostes. Meno probante l'unica citazione di latro[75]:

 

Poenorum qualis in arvis

saucius ille gravi venantum volnere pectus

sum demum movet arma leo gaudetque comantis

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excutiens cervice toros fixumque latronis

inpavidus frangit telum et fremit ore cruento[76];

 

ma certo appare innegabile l'intonazione dispregiativa dell'impiego virgiliano[77].

Resta infine da esaminare il valore di hostis in Aen. 11, 80:

 

Addis equos et tela, quibus spoliaverat hoste.

 

è noto che la spoliazione degli hostes uccisi assumeva per i Romani particolari connotazioni religiose nel caso si trattasse della spoliazione del comandante nemico, la cui uccisione (e spoliazione) determinava gli spolia opima[78]. Di tali spolia si ha esplicita menzione in Virgilio, a proposito del grande console Marcello:

 

Aspice, ut insignis spoliis Marcellus opimis

ingreditur victorque viros supereminet omnis.

Hic rem Romanam magno turbante tumultu

sistet eques, sternet Poenos Gallumque rebellem

tertiaque arma patri suspendet capta Quirino[79].

 

[p. 173]

Qui il poeta sembra aderire, per quanto riguarda la sua definizione di tertia, all'impostazione annalistica tradizionale che ricordava tre spolia opima: prima sono quelli che Romolo strappò dal corpo dello sconfitto re di Cenina Acrone[80]; secunda sono gli spolia di Tolumnio, il re di Veio ucciso da Cornelio Cosso[81]; tertia quelli offerti da Claudio Marcello, vincitore in duello del re del Galli Insubri Viridomaro[82]. Secondo questa versione dell'annalistica, anche la dedica a Iuppiter Feretrius, Mars e Quirinus sarebbe stata determinata da una sorta di ordine cronologico[83]. In realtà l'esatta determinazione

[p. 174]

del rituale legato all'offerta di spolia opima appare tuttora problematica, in quanto nelle testimonianze degli scrittori antichi si presenta controversa la stessa nozione di spolia opima. Alcuni definiscono opima solo quegli spolia, quae dux populi Romani duci hostium detraxit[84]; per altri si determinerebbero spolia opima ogni volta che soccomba nella battaglia il capo dell’esercito nemico, anche se ad ucciderlo non sia stato il comandante romano[85].

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Tuttavia, nel verso Aen. 11, 80, Virgilio sembra sottendere, attraverso la spoliazione degli hostes, l’istituto della occupatio delle res hostiles (86)[86], modo di acquisto originario della proprietà in diritto romano, di cui ancora si interessavano i

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giuristi classici; come attestano i due frammenti inclusi nei Digesta di Giustiniano, riportati qui di seguito. Il primo è un testo attribuito a Celso:

 

Libr. II digest.: Transfugam iure belli recipimus. Et quae res hostiles apud nos sunt, non publicae, sed occupantium fiunt[87],

 

che O. Lenel[88] nella sua "palingenesia" ascrive alla rubrica dal titolo: «Ex quibus causis maiores XXV annis in integrum restituuntur»[89].

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Il secondo è un notissimo passo delle istituzioni gaiane:

 

Festuca autem utebantur (sott. i Veteres) quasi hastae loco, signo quodam iusti dominii; quod maxime sua esse credebant quae ex hostibus cepissent; unde in centumviralibus iudiciis hasta praeponitur[90];

 

su cui la dottrina romanistica ha discusso a lungo, sia per quanto riguarda il principio ivi affermato quod maxime sua esse credebant quae ex hostibus cepissent[91]; sia riguardo al valore della festuca: se cioè questa rappresentasse veramente la riduzione simbolica, a fini rituali, della hasta, signum iusti dominii[92].

 

 

[p. 178]

5. – Riflessi virgiliani della giurisprudenza sacerdotale

 

Si è già detto come per Virgilio alcuni fondamentali valori giuridico-religiosi delle relazioni tra gli uomini si estendano anche ai rapporti con gli hostes. Per questa ragione il poeta, in diversi episodi dell'Eneide, non esita a porre l'accento sul dovere di umanità verso i nemici.

Nel secondo libro, ad esempio, abbiamo l'espressione miserebitur hostis attribuita al vecchio Anchise, nel discorso con cui motiva il suo rifiuto di abbandonare la città di Troia ormai in fiamme: egli desidera soltanto la morte, certo che «il nemico proverà compassione» e porrà fine alla sua esistenza, ormai invisa alle divinità:

 

Me si caelicolae voluissent ducere vitam,

has mihi servassent sedes. Satis una superque

vidimus excidia et captae superavimus urbi.

Sic o sic positum adfati discedite corpus.

[p. 179]

Ipse manu mortem inveniam: miserebitur hostis

exuviasque petet, facilis iactura sepulcri[93].

 

Nel decimo libro è invece Mezenzio, a chiedere rispetto per il proprio cadavere ed una sepoltura accanto al figlio già morto, appellandosi in special modo alla pietà che è dovuta victis hostibus:

 

Unum hoc, per si qua est victis venia hostibus, oro:

corpus humo patiare tegi. Scio acerba meorum

circumstare odia: hunc, oro, defende furorem

et me consortem nati concede sepulchro[94].

 

Altrove si ha un implicito riconoscimento della comunanza di ius anche con gli hostes:

 

O Maeoniae delecta iuventus,

flos veterum virtusque virum, quos iustus in hostem

fert dolor et merita accendit Mezentius ira[95];

 

comunanza di ius che viene esplicitamente proclamata dal morente Priamo nella vibrata invettiva contro Pirro, la cui smodata violenza appare una cosciente violazione degli iura e della fides, che pure sono dovuti ai nemici:

 

At non ille, satum quo te mentiris, Achilles

talis in hoste fuit Priamo; sed iura fidemque

[p. 180]

supplicis erubuit corpusque exsangue sepulcro

reddidit Hectoreum meque in mea regna remisit[96].

 

In Aen. 12, 579-582, Enea chiama gli dèi a testimoni contro gli Italici, due volte nemici, per la duplice violazione di foedera[97]:

 

Ipse inter primos dextram sub moenia tendit

Aeneas magnaque incusat voce Latinum

testaturque deos, iterum se ad proelia cogi,

his iam Italos hostis, haec altera foedera rumpi.

 

Da notare l'espressione testaturque deos, che ricorda in maniera significativa la detestatio contenuta nella formula solenne pronunciata dai sacerdoti feziali nel ritus foederis feriendi:

 

Legibus deinde recitatis Audi inquit, Iuppiter, audi, pater patrate populi Albani, audi tu, populus Albanus: ut illa palam prima postrema ex illis tabulis cerave recitata sunt sine dolo malo, utique ea hic hodie rectissime intellecta sunt, illis legibus populus Romanus prior non deficiet. Si prior defexit publico consilio dolo malo,

[p. 181]

tum tu illo die, Iuppiter, populum Romanum sic ferito, ut ego hunc porcum hic hodie feriam; tantoque magis ferito, quanto magis potes pollesque[98].

 

Ma i versi virgiliani si prestano anche ad una ulteriore considerazione: in essi è sottesa, infatti, la piena adesione alla concezione tipica della giurisprudenza sacerdotale, che postula la vigenza anche nei confronti degli hostes di totum ius fetiale e di multa iura communia. Su tale concezione abbiamo l'importante testimonianza ciceroniana:

 

Regulus vero non debuit condiciones pactionesque bel­licas et hostiles perturbare periurio; cum fusto enim et legitimo hoste res gerebatur, adversus quem et totum ius feriale et multa sunt iura communia. Quod ni ira esser, numquam claros víros senatus vinctos hostibus dedidisset[99].

 

Ulteriore conferma del fatto che i Romani e gli stranieri

[p. 182]

sono considerati soggetti entro lo stesso sistema giuridico-religioso è offerta dal rito della indictio belli[100], che aveva come presupposto legittimante la violazione dello ius da parte del popolo nemico[101], qualificato in regione di ciò iniustus di fronte agli dèi.

Pur mancando espliciti riferimenti alla indictio belli, in alcuni versi dell'Eneide il poeta si sarebbe ispirato, secondo il Lersch[102], proprio a questo rito:

 

Ecquis erit, mecum, iuvenes, qui primus in hostem?

en ait et iaculum attorquens emittit in auras,

principium pugnae, et campo sese arduus inferi[103].

 

Dixit et adversos telum contorsit in hostis[104].

 

Lo scagliare l'asta contro il nemico, nel modo descritto da Virgilio, ricorda l'atto conclusivo della indictio belli: il feziale,

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recitata la formula solenne, gettava una lancia nel territorio nemico[105], quasi a simboleggiare l'inizio del combattimento. Interessante anche la corrispondenza, non certo casuale, dei venti equites che accompagnavano Turno col numero dei sacerdoti feziali[106].

Per concludere, ancora una considerazione sul verso Georg. 3, 513:

di meliora piis erroremque hostibus illum!

 

da cui traspare con maggiore evidenza il valore negativo del termine, presente del resto in tutte le accezioni virgiliane: contrapposto a pius, infatti, hostis testimonia anche la connotazione religiosa dell'esecrazione contro il nemico[107].

 

 



 

[1] Così A. ERNOUT - A. MEILLET, Dictionnaire étymologique de la langue latine, 4a ed., Paris, 1967, p. 301. Cfr. H. EHLERS, v. Hostis, in Thesaurus Linguae Latinae, VI. 2, 1934, coll. 3061 ss.; A. WALDE - J. B. HOFMANN, Lateinisches etymologisches Wörterbuch, 1, dritte Auflage, Heidelberg 1938, pp. 662 s.; É. BENVENISTE, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, 1.  Economie, parente, société, Paris 1969, p. 95.

 

[2] Sui  problemi relativi alla trasmissione delle norme decemvirali, vedi per tutti: F. WIEACKER, Die XII Tafeln in ihrem Jahrhundert, in AA.VV., Les origines de la République romaine, Entretiens sur l'antiquité classique XIII, Vandoeuvres - Genève 1966 (ma 1967), pp. 293 ss.; ID., Römische Rechtsgeschichte, I, München 1988, pp. 287 ss.; S. TONDO, Profilo di storia costituzionale romana, I, Milano 1981, pp. 275 ss.; M. TALAMANCA, in AA.VV., Lineamenti di storia del diritto romano, 2a ed., Milano 1989, pp. 99 ss. Il riesame della tradizione annalistica e della storiografia moderna sul controverso episodio del decemvirato legislativo è stato di recente affrontato da G. POMA, Tra legislatori e tiranni. Problemi storici e storiografici sull'età delle XII Tavole, Bologna 1984. Quanto poi alle caratteristiche e ai contenuti di quella arcaica "codificazione", da l'ultimo, vedi AA.VV., Società e diritto nell'epoca decemvirale, Atti del convegno di diritto romano, Copanello 3-7 giugno 1984, Napoli 1989; con saggi di S. Boscherini, L. Amirante, F. Serrao, G. Franciosi, E. Cantarelli, B. Santalucia, A. Guarino.

 

[3] Cicerone, De off. 1, 37. I due frammenti delle XII Tavole (= Tab. II, 2; VI, 4 in Fontes iuris romani anteiustiniani, I. Leges, ed. S. RICCOBONO, Florentiae 1941, pp. 31, 44) si presentano di non facile interpretazione: per l'esegesi critico-ricostruttiva del primo rimando al lavoro di G. NICOSIA, Il processo privato romano, II. La regolamentazione decemvirale, Torino 1986 (rist. dell'ed. 1984), pp. 129 ss. Riguardo al precetto adversus hostem aeterna auctoritas, la dottrina dominante ritiene che esso indicasse la garanzia del mancipante a fronte dell'impossibilità di usucapire per gli stranieri: cfr. in tal senso, P. Voci, Modi di acquisto della proprietà, Milano 1952, pp. 47 ss.; V. ARANGio-Ruiz, La compravendita in diritto romano, Napoli 1954, pp. 313 ss.; M. KASER, Eigentum und Besitz im älteren römischen Recht, 2a ed., Köln-Graz 1956, pp. 92 ss.; ID., Das römische Privatrecht, I, 2a ed., München 1971, p. 136; F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, II, 2a ed., Napoli 1973, p. 18; A. BURDESE, Manuale di diritto privato romano, 3a ed., Torino 1975, p. 303; O. BEHRENDS, La mancipatio nelle XII Tavole, in Iura 33, 1982 (ma 1985), p. 92; F. SERRAO, Diritto privato, economia e società nella storia di Roma, 1 (Parte prima), Napoli 1984, p. 349 n. 66; G. PUGLIESE, Istituzioni di diritto romano, Padova 1986, pp. 140, 143.

 

[4] Di L. Cincio, vissuto presumibilmente in età ciceroniana (G. WISSOWA, v. L. Cincius, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft 3,2, Stuttgart 1899, coll. 2555 s.), si discute perfino se possa considerarsi un giurista: in senso negativo, P. KRÜGER, Geschichte der Quellen und Litteratur des römischen Rechts, Leipzig 1888, p. 69 n. 83 (= trad. franc.: Histoire des sources du droit romain, Paris 1894, p. 92 n. 2); H. PETER, Historicorum Romanorum reliquiae, 2a ed., Stutgardiae 1914 (rist. 1967), p. CV; M. SCHANZ - C. Hosius, Geschichte der römischen Literatur, I, 4a ed., München 1927 (rist. 1966), pp. 175 s.; non così F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, Lipsiae 1896, pp. 252 ss.; M. BRETONE, Tecniche e ideologie dei giuristi romani, Napoli 1971, pp. 17 s. (= 2a ed., Napoli 1982, p. 16), infine V. GiuFFRÈ, La letteratura "de re militari". Appunti per una storia degli ordinamenti militari, Napoli 1974, pp. 38 ss., il quale afferma esplicitamente che «L. Cincius fu il primo giurista ad introdurre come materia nuova d'indagine la res militaris».

 

[5] Gellio, Noct. Att. 16, 4, 4; PH.E. HusCHKE, Iurisprudentiae anteiustinianae quae supersunt, editio quinta, Lipsiae 1886, p. 87 fragm. 13; F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae, 1, cit., p. 254 fragm. 2; V. GIUFFRè, Il “diritto militare" dei Romani, Bologna 1980, pp. 33 s., con traduzione italiana del testo gelliano; infine F. D'IPPOLITO, XII Tab. 2.2, in Index 18, 1990, pp. 438 s.

Più in generale, sul giuramento militare vedi, fra gli altri, S. TONDO, Il “sacramentum militiae” nell'ambiente culturale romano-italico, in Studia et documenta historiae et iuris 29, 1963, pp. 1 ss.; ID., Sacramentum militiae”, ibidem 34, 1968, pp. 376 ss.; H. LE BONNIEC, Aspects religieux de la guerre à Rome, in AA-VV., Problémes de la guerre à Rome, a cura di J.-P. Brisson, Paris 1969, pp. 105 s.; C. NICOLET, Il mestiere di cittadino nell'antica Roma, trad. it., Roma 1980, pp. 131 ss.

 

[6] R. HELM, v. Pompeius Festus, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft 21, 2, Stuttgart 1952, coll. 2316 ss.; cfr. anche A. MoscADi, Verrio, Festo e Paolo, in Giornale Italiano di Filologia 31, 1978, pp. 17 ss., seppure criticabile in molte conclusioni.

 

[7] Sui problemi relativi alla biografia e alla molteplice produzione di Verrio Flacco vedi, per tutti, M. SCHANZ - C. Hosius, Geschichte der römischen Literatur, II, 4a ed., München 1935 (rist. an. 1959), pp. 361 ss. (ivi ampiamente citata la letteratura precedente); A. DIhlE, v. Verrius, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft 8 A 2, Stuttgart 1958, coll. 1636 ss. Intorno al metodo di composizione delle glosse verriane e alle probabili fonti di esse, sono veramente fondamentali gli studi di R. REITZENSTEIN, Verrianische Forschungen, Breslau 1887, e di L. STRZELECKI, Quaestiones Verrianae, Warszawa 1932; mentre resta per molti versi ancora valida la prefazione di C.O. MÜLLER, Sexti Pompei Festi De verborum significatione quae supersunt cum Pauli epitome, Lipsiae 1839. Questi temi sono stati riaffrontati, con penetrante intuizione, in un lavoro significativo di F. BONA, Contributo allo studio della composizione del “de verborum significatu” di Verrio Flacco, Milano 1964; cfr. anche ID., Opusculum Festinum, Ticini 1982.

 

[8] Paolo, Fest. ep., p. 72 L. Riguardo a questo procedimento menzionato da Festo, risulta assai difficoltoso per la dottrina romanistica determinare quali sacra ne fossero interessati: K. LATTE, v. Immolatio, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft 9, 1, Stuttgart 1914, coll. 1121; allo stesso tempo assai poco convicenti appaiono i tentativi di spiegazione finora proposti: vedi, con sostanziali differenze, G. WissowA, Religion und Kultus der Römer, 2a ed., München 1912 (rist. 1971), p. 397 n. 5; W. W. FOWLER, The religious experience of the Roman people, London 1911, p. 37. Cfr. infine, E. NORDEN, Aus altrömischen Priesterbüchern, Lund - Leipzig 1939, p. 263; S. TONDO, Il “sacramentum milítiae” nell'ambiente culturale romano-italico, cit., p. 68 n. 32.

[9] De ling. Lat. 5, 3; sul passo C. G. BRUNS, Fontes iuris romani antiqui, pars posterior, 6a ed. (a cura di Th. Mommsen e O. Gradenwitz), Friburgi in Brisg. et Lipsiae 1893, p. 53; A. Cenderelli, Varroniana. Istituti e terminologia giuridica nelle opere di M. Terenzio Varrone, Milano 1973, pp. 29, 113. Nello stesso senso anche Servio Dan., Ad Aen. 4, 424: Inde nostri ‘hostes’ pro hospitibus dixerunt: nam inimici perduelles dicebantur; e Paolo, Fest. ep., p. 91 L.: Hostis apud antiquos peregrinus dicebatur, et qui nunc hostis, perduellio.

 

[10] Plauto, Curculio 1, 1, 4-6: si media nox est sive est prima vespera, / si status condictus cum hoste intercedit dies, / tamen est eundum quo imperant ingratiis. Cfr. Servio Dan., Ad Aen. 4, 424; Macrobio, Sat. 1, 16, 4. Sull'attendibilità delle commedie plautine come fonti di diritto, sono ancora validi gli studi di E. Costa, Il diritto privato romano nelle commedie di Plauto, Torino 1890, pp. 21 ss.; adde C.S. Tomulescu, Observations sur la terminologie juridique de Plaute, in Sodalitas. Scritti in onore di Antonio Guarino, VI, Napoli 1984, pp. 2771 ss. Per la bibliografia più generale si vedano le rassegne curate da F. BERTINI, Vent'anni di studi plautini in Italia (1950-1970), in Bollettino di studi latini 1, 1971, pp. 22 ss., e da D. FOGAZZA, Plauto 1935-1975, in Lustrum 19, 1976, pp. 79 ss.

 

[11] Festo, pp. 414-416 L.; cfr. C. G. BRuNs, Fontes iuris romani antiqui, II, cit., p. 42. A commento del passo del de verborum significatu, vedi quanto ha scritto P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, cit., pp. 71-72: «Lascio da parte per un momento il problema se lo status dies cum hoste di cui parlavano le Dodici Tavole si riferisse a tutti gli stranieri o solo a quelli con cui sussistevano particolari rapporti (hospitium, foedus); qui interessa rilevare che la spiegazione data da Festo al termine hostes, con evidente riferimento agli stranieri in genere, indica nella parità, una compartecipazione allo ius. Tale idea di compartecipazione pone in nuova luce la definizione di hostis (e peregrinus) come “qui suis legibus uteretur”: l'appartenenza a una comunità diversa con proprie leggi non toglieva la compartecipazione a una più generale sfera di ius considerato valido, virtualmente, per tutti i popoli». Cfr. Id., Populus Romanus Quirites, Torino 1974, p. 140. Del resto, rileva ancora il CATALANO, Linee, cit., p. 71 n. 14, l'idea di compartecipazione è implicata dall'espressíone par ius; in senso conforme vedi Giuliano, Libr. VII digest. = D. 8, 3, 27: Si communi fundo meo et tuo serviat fundus Sempronianus et eundem in commune redemerimus, servitus extinguitur, quia par utriusque domini ius in utroque fundo esse incipit. At si proprio meo fundo et proprio tuo idem serviat, manebit servitus, quia proprio fundo per communem servitus deberi potest; e Pauli Sent. 4, 10, 1: Filii vulgo quaesiti ad legitimam matris hereditatem adspirare non prohibentur, quia pari iure, ut ipsorum hereditates matribus, ita ipsis matrum delerri debuerunt.

 

[12] Sulla probabile epoca in cui si produsse il mutamento di significato del termine hostis si legga F. De Martino, Storia della costituzione romana, II, cit., p. 20: «Più tardi, dopo l’età delle XII tavole e probabilmente nell’età delle guerre d’espansione in Italia, si dovette determinare il mutamento di valore del termine; come ciò accadde e per quali cause non siamo in grado di stabilire, ma è chiaro che la nuova concezione espansionistica delle classi dirigenti romane nel corso del IV-III secolo indusse a considerare l’hostis nemico e non più il peregrinus, qui suis legibus utitur»; cfr. anche F. Serrao, Diritto privato, economia e società nella storia di Roma, cit., p. 344.

 

[13] E. Cuq, v. Hostis, in Dictionnaire des antiquités grecques et romaines 3, 1, Paris 1900, p. 303: «Aux derniers siècles de la République, l’acception du mot hostis s’est modifiée, en même temps que celle du mot peregrinus a été étendue. Désormais, le mot peregrinus désigne une condition juridique». Cfr. Gaio, Inst. 1.128: nec enim ratio patitur, ut peregrinae condicionis homo civem Romanum in potestate habeat. Pari ratione et si ei, qui in potestate parentis sit, aqua et igni interdictum luerit, desinit in poteste parentis esse, quia aeque ratio non patitur, ut peregrinae condicionis homo in potestate sit civis Romani parentis; ma anche Gai epit. 1.6.1; Tituli ex corp. Ulp. 10.3.

 

[14] N. D. FUSTEL DE COULANGES, La cité antique, ed. Paris 1927, p. 230 (= trad. it. di G. Perrota, La città antica, Firenze 1972, p. 234).

 

[15] Aen. 3, 406-407.

 

[16] N. D. FuSTEL DE COULANGES, La cité antique, cit., p. 228 (= La città antica, cit., p. 232).

 

[17] La cité antique, loc. cit. n. 1 (= La città antica, loc. cit. n. 10). Nello stesso senso, ma senza riferimento al Fustel, interpreta i vv. P. DE FraNcisci, Primordia civitatis, Roma 1959, pp. 273 s.

 

[18] H. EHLERS, v. Hostilis, in Thesaurus Linguae Latinae VI, 2, 1934, coll. 3052 s.

 

[19] L. CANALI, in E. PARATORE (a c. di), Virgilio, Eneide, II (Libri III-IV), Milano 1978, p. 33.

 

[20] Bibliografia supra, nell’introduzione, p. 29 n. 38.

 

[21] Cfr. ad esempio É. BENVENIsTE, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, 1. Économie, parenté, société, cit., p. 361.

 

[22] Cfr. H. MERGUET, Lexikon zu Vergilius, Leipzig 1912 (rist. an. Hildesheim - New York 1969), pp. 302 ss.; D. FASCIANO, Virgile Concordance, I. Églogues, Géorgiques, Énéide, Roma - Montréal 1982, pp. 414 ss.

 

[23] Così in Aen. 5, 671-672 (heu miserae cives? non hostem inimicaque castra / Argivom, vestras spes uritis) troviamo il temine hostis, concettualmente contrapposto a civis, usato in un significativo accostamento con inimicus.

 

[24] Cfr. ad esempio Aen. 1, 378 (Sum pius Aeneas, raptos qui ex hoste penatis / classe veho mecum); 2, 390 (Dolus an virtus, quis in hoste requirat?); 3, 123 (hoste vacare domum sedesque adstare relictas); 7, 469 (tutari Italiani, detrudere finibus hostem); 9, 38 (hostis adest, heia!); 9, 676 (freti armis, ultroque invitant moenibus hostem); 11, 80 (addit equos et tela, quibus spoliaverat hostem).

 

[25] Servio, Ad Aen. 6, 111. Nello stesso senso vedi anche Ad Aen. 1, 378: Ex hoste penates optima locutio est, plusque significai de pluralitate ad singularitatem transire, ut 'venor multis canibus' et 'multa cane'.

 

[26] Per i giuristi romani era necessaria la dichiarazione di guerra per determinare la condizione giuridica di hostis: cfr. Pomponio in D. 50, 16, 118; Gaio in D. 50, 16, 234 pr.; Ulpiano in D. 49, 15, 24.

 

[27] È nota, in tal senso, l'affermazione di Cicerone, De off. 3, 106: Est autem ius etiam bellicum fidesque iuris iurandi saepe cum hoste servanda. In ciò la posizione dell'hostis si presenta nettamente differenziata rispetto a quello del praedo e del pirata (ibid. 107): Quod enim ita iuratum est, ut mens conciperet fieri oportere, id servandum est; quod aliter, id si non fecerit, nullum est periurium. Ut, si praedonibus pactum pro capite pretium non attuleris, nulla fraus est, ne si iuratus quidem id non feceris; nam pirata non est ex perduellium numero definitus, sed communis hostis omnium; cum hoc nec fides debet nec ius iurandum esse commune.

La problematica relativa alla posizione del pirata, col quale a detta di Cicerone «nec fides debet nec ius iurandum esse commune», è stata di recente riesaminata nel lavoro di K.-H. ZIEGLER, Pirata communis hostis omnium, in De iustitia et iure. Festgabe für U. von Lübtow, Berlin 1980, pp. 93 ss.

In una diversa prospettiva si era occupato del passo anche M. BRUTTI, La problematica del dolo processuale nell'esperienza romana, I, Milano 1973, p. 290 n.; allo studioso non interessavano, infatti, in quella sede i rapporti con gli hostes, ma la concezione ciceroniana sul carattere vincolante del giuramento.

 

[28] Sull'universalità di tale "sistema" vedi la riflessione conclusiva di P. CATALANO, Linee del sistema sovrannazionale romano, cit., p. 289: «Il sistema giuridico-religioso romano ha il suo centro in Iuppiter, ed è, proprio per questo, virtualmente universale. La virtuale universalità è attuata in una sfera di rapporti (con reges, populi o singoli stranieri) la cui esistenza è indipendente vuoi da particolari accordi vuoi da comunanza etnica». Cfr. ID., Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II. 16, 1, Berlin - New York 1978, pp. 445 s.

 

[29] Cfr. Aen. 2, 645-646; 10, 903-906; 2, 540-543. Sulla tensione universalistica del poema virgiliane, vedi, fra gli altri: G. BOISSIER, La religion romaine d'Auguste aux Antonins, 3a ed., 1, Paris 1884, pp. 230 sa.; P. BOYANCÉ, La religion de Virgile, Paris 1963, pp. 17 ss.; K. BÜCHNER, Virgilio. Il poeta dei Romani, trad. ít., 2a ed., Brescia 1986, pp. 560 ss.

 

[30] Aen. 4, 424; 4, 549; 12, 895; 12, 253; Georg. 3, 236; 4, 76.

 

[31] Aen. 10, 438.

 

[32] Servio, Ad Aen. 10, 438.

 

[33] Aen. 4, 424.

 

[34] Aen. 4, 548-549.

 

[35] La frase è di E. PARATORE, Virgilio, Eneide, II, cit., p. 223.

 

[36] Publi Vergili Maronis Aeneidos Liber Quartus, Cambridge, Mass. 1935 (rist. an. Darmstadt 1967), p. 352.

 

[37] Sulla comune etimologia degli ultimi due termini, cfr. per tutti: F. DE VISSCHER, La condition des pérégrins à Rome iusqu'à la Constitution antonine de l'an 212, in L'étranger (Recueíls de la Socíété Jean Bodin, IX), I, Bruxelles 1958, p. 195; P. BIERZANEK, Sur les origines du droit de la guerre et de la paix, in Revue historique de droit français et étranger 38, 1960, p. 110 n. 72; É. BENVENISTE, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, 1, cit., p. 87.

 

[38] Ad Aen. 4, 424: Non nulli autem iuxta veteres ‘hostem’ pro hospite dictum accipiunt.

 

[39] Aen. 12, 894-895.

 

[40] Vedi, in questo senso, l’interpretazione dei versi proposta da B. OTIS, Virgil. A study in civilized poetry, Oxford 1963, p. 379; G. DUMÉZIL, Mythe et épopée, I. L'idéologie des trois fonctions dans les épopées des peuples indo-européens, Paris 1968, p. 339; cfr. anche C. RENGER, Aeneas und Turnus. Analyse einer Feindschaft, Frankfurt am Main 1985, p. 85.

 

[41] W. EHLERS, v. Turnus, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenscbaft 7 A, Stuttgart 1948, coll. 1409 ss.

 

[42] Aen. 7, 583-584: Ilicet infandum cuncti contra omina bellum, / contra fata deum perverso numine poscunt; 7, 594-596: Frangimur heu fatis inquit ferimurque procella! / ipsi has sacrilego pendetis sanguine poenas, / o miseri; 11, 232-233: fatalem Aenean manifesto numine ferri / admonet ira deum tumulique ante ora recentes. Sul carattere "fratricida" e "civile" della guerra scatenata da Turno, insiste V. PÖSCHL, Die Dichtkunst Virgils. Bild und Symbol in der Aneis, 2a ed., Darmstadt 1964, p. 177.

 

[43] Così A. WLOSOK, Vergil als Theologe: Iuppiter-pater onnipotens, in Gymnasium 90, 1983, pp. 201 = EAD., Virgilio teologo: Iuppiter-pater onnipotens, in Atti del Convegno mondiale scientifico di studi su Virgilio (Mantova, Roma, Napoli 19-24 settembre 1981), II, Milano 1984, p. 98.

 

[44] In generale, sul ruolo degli animali nella poesia virgiliana, vedi fra gli altri: M. RUCH, Virgile et le monde des animaux, in AA.VV., Vergiliana, Leiden 1971, pp. 322 ss.; P. BOYANCÉ, La religione des «Géorgiques', in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II. 31, 1, Berlin-New York 1980, pp. 561 s.; S. ROCCA, Etologia virgiliana, Genova 1983 (su cui critiche e riserve di P. TORDEUR, in L'antiquité classique 53, 1984, pp. 408 ss.; W. RICHTER, in Gnomon 57, 1985, pp. 221 ss.; H. BARDON, in Latomus 44, 1985, pp. 666 ss.); EAD., v. Animali, in Enciclopedia Virgiliana, I, Roma 1984, pp. 173 ss.

 

[45] Aen. 12, 251-256. Il presagio è, peraltro, male interpretato dall'augure Tolumnio nei successivi versi 257-265: Tum vero augurium Rutuli clamore salutant / expediuntque manus; primusque Tolumnius augur / «Hoc erat, hoc, votis» inquit «quod saepe petivi: / accipio adgnoscoque deos; me, me duce ferrum / corripite, o miseri, quos improbus advena bello / territat invalidar ut avis et litora vestra / vi populat. Petet ille fugam penitusque profundo / vela dabit; vos unanimi densete catervas / et regem vobis pugna defendite raptum». Cfr. E. LIECHTENHAN, Nochmals Vergil, Aeneis IX, 324-328, in Museum Helveticum 14, 1957, pp. 56 s.; B. GRASSMANN-FISCHER, Die Prodigien in Vergils Aeneis, München 1966, pp. 97 ss., 118; e da ultimo P. CATALANO, v. Augur, in Enciclopedia Virgiliana, I, cit., pp. 399 s.

 

[46] Georg. 3, 236.

 

[47] Georg. 4, 73-76. Il raffronto tra uomini ed api costituisce un tema tipico della letteratura antica: fra gli scrittori di lingua latina che si interessavano di agricultura, ne aveva trattato anche M. Terenzio Varrone, De re rust. 3, 16, 4-9. I passi in questione sono stati raccolti da A. CENDERELLI, Varroniana. Istituti e terminologia giuridica nelle opere di M. Terenzio Varrone, cit., pp. 66 ss.

 

[48] Georg. 4, 153 ss., 236 ss.

 

[49] Sui risvolti ideologici legati al mito dell'età dell'oro, vedi fra gli altri: J. S. RYBERG, Vergil's golden age, in Transactions and Proceeding of the American Philological Association 89, 1958, p. 112 ss.; H. REYNEN, Ewiger Frühling und goldene Zeit. Zum Mythos des goldenen Zeitalters bei Ovid und Vergil, in Gymnasium 72, 1965, pp. 415 ss.; E. CASTORINA, Sull'età dell'oro in Lucrezio e Virgilio, in Studi di storiografia antica dedicati a L. Ferrero, Torino 1971, pp. 99 ss.; G. BARRA, Le Georgiche di Virgilio e il mito dell'età dell'oro, in Atti del Convegno sul bimillenario delle Georgiche (Napoli 17-19 dicembre 1973), Napoli 1977, pp. 149 ss.; M. PAVAN, v. Aurea, in Enciclopedia Virgiliana, I, cit., pp. 412 ss; J.-P. BRISSON, Rome et l'âge d'or. Fable ou idéologie?, in Poikilia. Études Vernant, Paris 1987, pp. 123 ss.; ID., Rome et l'âge d'or: Dionysos ou Saturne?, in Mélanges de l'Ecole française de Rome 100, 1988, pp. 917 ss.

 

[50] E. DE  SAINT DENIS, Introduction, in Virgile, Géorgiques, trois. tirage, Paris 1963, p. XXXV: «Car voici la leçon que les abailles donnent aux hommes: pour que le rendement soi parfait, il faut que le travail soit réparti entre les membres de la collectivité, que ceux-ci soient étroitement et docilement groupés sous l'autorité d'un chef politique. Il y a loin des rêveries de la quatrième bucolique aux certitudes de la quatrième géorgique, au communisme monarchique. Cette progression s'explique sans doute par les circonstances et par l'autorité croissante du princeps Octave-Auguste, plutôt que par une évolution philosophique, de l'épicurisme au stoïcisme». Cfr. inoltre J. BAYET, L'expérience sociale de Virgile, ora in ID., Mélanges de litterature latine, Roma 1967, pp. 293 s.; R. JOUDEOUX, La philosophie politique des Géorgiques d'après de livre IV (vers 149 à 169), in Bullettin de l'Association G. Budé 30, 1971, pp. 67 ss. Per la monarchia come forma ideale di governo, vedi H. DAHLMANN, Der Bienenstaat in Vergils Georgica, in Abhandlungen der Akademie der Wissenschaft und Literatur in Mainz, 1954, n. 10, pp. 547 ss.; e da ultimo, P. GRIMAL, Virgile ou la seconde naissance de Rome, Paris 1985, pp. 101 ss. (trad. it.: Virgilio. La seconda nascita di Roma, Milano 1986, pp. 109 ss.). Una rassegna bibliografica completa fino al 1975 è stata messa a punto da W. SUERBAUM, Spezialbibliographie zu Vergils Georgica, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II. 31, 1, cit., pp. 395 ss., in part. 470 ss.

 

[51] Cfr. S. ROCCA, Etologia virgiliana, cit., pp. 129 ss.

 

[52] Vedi, in tal senso, K. Büchner, Virgilio, cit., pp. 371 s.

 

[53] Così è da intendere il termine hostis in Georg. 3, 32; Aen. 1, 378; 2,43.290.358.377.390.632; 3,283; 5,632; 6,880; 7,469; 9,38.46.51. 556; 10, 26. 372. 729; 11, 304. 521; 12, 266. 426. 465. 901.

 

[54] Georg. 3, 30-33. Sul significato "politico" del proemio del terzo libro delle Georgiche, cfr. K. BüCHNER, Virgilio, cit., pp. 355 ss.; da ultimo J.-L. POMATHIOS, Le pouvoir politique et sa représentation dans l’énéide de Virgile, Bruxelles 1987, pp. 240 s.

 

[55] F. P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, II, 1, Lipsiae 1898, p. 371 fragm. 10.

 

[56] Gellio, Noct. Att. 5, 6, 21. Importanti considerazioni sul passo, di cui però non rilevano la paternità sabiniana, sono svolte da H. S. VERSNEL, Triumphus. An inquiry into the origin, development and meaning of the roman triumph, Leiden 1970, pp. 166 s.; K.-H. Ziegler, Pirata communis hostis omnium, cit., p. 98.

 

[57] Aen. 1, 378-380. Cfr. Aen. 5, 632-633 (O patria et rapii nequiquam ex hoste penates, / nullane iam Troiae dicentur moenia?). Proprio la salvezza dei Penati giustifica il Sum pius Aeneas, laddove come annotava Servio, Ad Aen. 1, 378: non est hoc loco arrogantia, sed indicium; su possibili modelli omerici del verso 378, vedi le critiche di E. PARATORE, Virgilio, Eneide, I (Libri I-II), Milano 1978, p. 187.

Vale la pena di notare, seguendo la tesi già dimostrata da N. MOSELEY, Pius Aeneas, in Classical Journal 20, 1924-25, pp. 387 ss., come su circa quindici impieghi virgiliani dell'aggettivo pius unito al nome di Enea, nove volte esso si presenti in connessione con comportamenti conformi alla volontà degli dèi o con il compimento di riti religiosi (cfr., da ultimo, A. TRAINA, v. Pietas, in Enciclopedia Virgiliana, IV, Roma 1988, pp. 96 ss.); ciò sembrerebbe confermare quanto aveva sostenuto W. W. Fowler, The religious experience of Roman people, cit., p. 80, circa l’uso virgiliano di pietas per indicare la religione. Der resto già nell’Ottocento G. Boissier, La religion romaine d’Auguste aux Antonins, I, cit., p. 242, accentuava fortemente in senso religioso i caratteri della figura di Enea: «Il travaille pour ses Pénates, auxquels il faut bien donner une demeure sûre, pour son fils qu’il ne doit pas priver de ce royaume que le destin lui promet, pour sa race qu’attend un si glorieux avenir. Sa personnalité s’efface devant ces grands intérêts; il obéit malgré ses répugnances et s’immole aux ordres du ciel. C’est à ces signes que se reconnaît le héros d’une épopée religieuse».

Del verso si occupa anche P. BoyancÉ, La religion de Virgile, cit., pp. 70 s., soffermandosi sulla pietas di Enea: «Bref la piété d’énée est directement, incontestablement piété au sens religieux du mot. Beaucoup plus que l’image d’énée portant son père, c’est l’image d’énée portant les Pénates romains qui s’impose à nous»; consegue da ciò, per lo studioso francese, la piena giustificazione della qualifica attribuitasi da Enea nel v. in questione: «Proclamer qu’il est pieux, ce n’est pas dans ces conditions autre chose qu’affirmer qu’il se sait instrument des dieux».

Sulla pietas di Enea e sull’origine della sua leggenda, vedi G.K. Galinsky, Aeneas, Sicily and Rome, Princeton 1969, pp. 3 ss.; J.-P. Brisson, Le pieux énée!, in Latomus 31, 1972, pp. 379 ss.

 

[58] Gli antichi commentatori discutevano molto sulla natura dei Penates di Enea: esemplare al riguardo si presenta il passo di Servio Dan., Ad Aen. 1, 378, in cui sono registrate varie opinioni di annalisti e antiquari: Cassio Emina, Varrone, Nigidio Figulo, Labeone; degli ultimi due possiamo leggere: nam alii, ut Nigidius et Labeo, deos penates Aeneae Neptunum et Apollinem tradunt, quorum mentio fit taurum Neptuno, taurum tibi, pulcber Apollo. Non è questo, ovviamente, il luogo per approfondire l'argomento, basterà dare alcune referenze bibliografiche. A parte il vecchio lavoro di R. H. KLAUSEN, Aeneas und die Penaten, 2 voll., Hamburg-Gotha 1839-40, cfr., fra gli autori più recenti: F. BöMER, Rom und Troia, Untersuchungen zur Frühgeschichte Roms, Baden-Baden 1951, pp. 50 ss.; A. ALFöLDi, Die trojanischen Urahnen der Römer, Basel 1957; G. PiccALUGA, Penates e Lares, in Studi e materiali di storia delle religioni 32, 1961, pp. 81 ss.; A. ORMANNI, Penus legata. Contributi alla storia dei legati disposti con causa penale in età repubblicana e classica, in Studi Betti, IV, Milano 1962, pp. 579 ss.; P. BoYANcé, Les Pénates et l'ancienne religion romaine, ora in ID., études sur la religion romaine, Rome 1972, pp. 65 ss. (si tratta di un art. del 1952); G. DURY-MOYAERS, Énée et Lavinium. A propos des découvertes archéologiques récentes (avec une préface de F. Castagnoli), Bruxelles 1981, pp. 181 ss.; G. RADKE, v. Penati, in Enciclopedia Virgiliana, IV, cit., pp. 12 ss.; infine A. DUBOURDIEU, Les origines et le développement du culte des Pénates à Rome, Roma 1989, in part. pp. 140 ss. (su Nigidio Figulo), 161 ss. (Enea e i Penati).

 

[59] Utilizzo la terminologia di Cicerone, De off. 3, 108. Sul rapporto tra culto dei Penati e vita della città, vedi N. D. FUSTEL DE COULANGES, La cité antique, cit., p. 164: «La ville de Troie a péri, mais non pas la cité troyenne; grâce à énée, le foyer n'est pas éteint, et les dieux ont encore un culte. La cité et les dieux fuient avec énée; ils parcourent les mers et cherchent une contrée où il leur soit donné de s'arrêter» (= trad. it. di G. Perrotta: La città antica, cit., p. 170).

 

[60] In questo senso mi pare abbia valore pregnante la formula solenne della deditio urbis, conservataci da Livio 1, 38, 1-2, nell'esempio paradigmatico della resa della città di Collazia; cfr. Plauto, Amph. 258-259: deduntque se, divina humanaque omnia, urbem et liberos / in dicionem atque in arbitratum cuncti Thebano poplo.

Del resto, per i giuristi romani, non solo la fine, ma anche l'inizio dell'esistenza di una città riposava nel compimento di un solenne atto giurídico-religioso, il rito di fondazione: Varrone, De ling. Lat. 5, 143: Oppida condebant in Latio Etrusco ritu multi, id est iunctis bobus, tauro et vacca interiore, aratro circumagebant sulcum (hoc faciebant religionis causa die auspicato), ut fossa et muro essent muniti. Terram unde exculpserant, fossam vocabant et introrsum iactam murum. Post ea qui fiebat orbis, urbis pricipium; qui quod erat post murum, postmoerium dictum, eo usque auspicia urbana finiuntur; cfr. anche Festo, p. 358 L.; Ovidio, Fast. 4, 819 ss.; Macrobio, Sat. 5, 19, 13. Questa rilevanza giuridico-religiosa del rito di fondazione non sfugge a R. ORESTANO, I fatti di normazione nell'esperienza romana arcaica, Torino 1967, p. 47: «per tutto il corso dell'esperienza romana s'attribuirà al compimento di tale rito valore costitutivo per l’esistenza giuridica di una città, proprio in quanto determinazione del “punto di riferimento” di situazioni giuridiche».

 

[61] Aen. 2, 289-290.

 

[62] Aen. 9, 44-46.

 

[63] Aen. 11, 520-521. Nello stesso senso anche: Aen. 2, 358: faucibus exspectant siccis, per tela, per hostes / vadimus; 2, 632: Descendo ac ducente deo flammam inter et hostis / expedior; 10, 379: Haec ait et medius densos prorumpit in hostis; 11, 304: non tempore tali / cogere concilium quom muros adsidet hostem; cfr. inoltre Aen. 2, 377. 508. 511. 527. 541. 665; 3, 283; 9, 38. 356. 386. 676; 10, 372. 398. 585; 11, 370. 381. 387. 743. 764. 899; 12, 266. 426.

 

[64] Aen. 7, 467-470.

 

[65] Vedi supra, introduzione, pp. 21 ss.

 

[66] D. 50, 16, 118; cfr. 0. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, Lipsiae 1889, col. 59 fragm. 222: secondo la ricostruzione proposta dallo studioso tedesco, il passo di Pomponio sarebbe da attribuire, nella divisione per materia dei libri ad Quintum Mucium, alla rubrica dedicata all'incapacità di testare del cittadino captus ab hostibus. Che il testo verosimilmente sia da ricollegare alla trattazione del postliminium sostiene invece F. BoNA, "Postliminium in pace", in Studia et documenta historiae et iuris 21, 1955, p. 262 n. 58; seguito da R. MARTINi, Le definizioni dei giuristi romani, Milano 1966, pp. 200 s.

 

[67] D. 50, 16,234 pr. Per 0. LENEL, Palingenesia iuris civilis, I, cit., col. 243 fragm. 428, si tratterebbe del commento a XII tab. 11, 2 (status dies cum boste); cfr. anche F. BONA, Preda di guerra e occupazione privata di “res hostium”, in Studia et documenta historiae et iuris 25, 1959, p. 342; R. MARTIni, Le definizioni dei giuristi romani, cit., p. 245.

 

[68] Per la definizione vedi Gaio, Inst. 1, 129: Quodsi ab hostibus captus fuerit parens, quamvis servus hostium fiat, tamen pendet ius liberorum propter ius postliminii, quo hi qui ab hostibus capti sunt, si reversi fuerint, omnia pristina iura recipiunt; itaque reversus habebit liberos in potestate. Si vero illic mortuus sit, erunt quidem liberi sui iuris; sed utrum ex hoc tempore quo mortuus est apud hostes parens, an ex illo quo ab hostibus captus est, dubitari potest. Ipse quoque filius neposve si ab hostibus captus fuerit, similiter dicimus propter ius postliminii potestatem quoque parentis in suspenso esse; ma anche Pomponio, Libr. XXXVII ad Q. Mucium = D. 49, 15, 5; Trifonino, Libr. IV disput. = D. 49, 15, 12 pr.; Paolo, Libr. XVI ad Sabinum = D. 49, 15, 19 pr.

Non è ovviamente possibile approfondire qui il dibattito dottrinale sull'istituto, né dar conto in maniera puntuale delle diverse posizioni presenti nella letteratura romanistica attuale. Per la bibliografia precedente rimando ai lavori di H. KRELLER, Juristenarbeit am postliminium, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte 69, 1952, pp. 172 ss.; ID, Postliminium, in Real-Encyclopádie der classischen Altertumswissenschaft 22, 1, Stuttgart 1953, coll. 683 ss.; mentre per la dottrina più recente vedi, fra gli altri: M. BARTOŠEK, Captivus, in Bullettino dell’Istituto di diritto romano 57-58, 1953, pp. 98 ss.; H. KORNHARDT, "Postliminium" in republikanischer Zeit, in Studia et documenta historiae et iuris 19, 1953, pp. 1 ss.; F. BONA, "Postliminium in pace", cit., pp. 249 ss.; ID., Sull'animus remanendi nel postliminio, ibidem 27, 1961, pp. 186 ss., L. AMIRANTE, Ancora sulla "captivitas" ed il "postliminium", in Studi De Francisci, 1, Milano 1956, pp. 517 ss., ID., postliminio, in Novissimo Digesto Italiano, XIII, Torino 1966, pp. 429 ss.; F. DE: VISSCHER, Droit de capture et "postliminium in pace", in Revue internationale des droits de l'antiquité 3 (ser. 3a), 1956, pp. 197 ss. (= ID., Études de droit romain public et privé, Milano 1966, pp. 117 ss.); C. HERRMAN, Le cas d'Atilius Regulus, in Iura 14, 1963, pp. 159 ss.; A. WATSON, The Law of Persons in the Later Roman Republic, Oxford 1967, pp. 237 ss.; F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, II, cit., pp. 46 s.

 

[69] D. 49, 15, 24. Cfr. Paolo, Libr. XVI ad Sabinum = D. 49, 15, 19, 2: A piratis aut latronis capti liberi permanent. Il LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, cit., col. 927 fragm. 1911, colloca il testo ulpianeo sotto la rubrica de iure gentium; così anche R. MARTINi, Le definizioni dei giuristi romani, cit., p. 341; E. NARDi, Istituzioni di diritto romano, A. Testi.1, Milano 1973, pp. 175 s. Non crede, invece, che il frammento «sia stato da Lenel collocato esattamente», G. LOMBARDI, Sul concetto di “ius gentium”, Roma 1947, p. 206 e n. 4: «perché il testo di Ulpiano non riguarda la schiavitù, quale istituto iuris gentium o meno, ma precisa semplicemente chi siano coloro che debbano considerarsi hostes al fine di stabilire se, nei riguardi di colui che è stato eventualmente “catturato”, debba o non debba applicarsi il postliminium». I due testi di Ulpiano e Paolo sono stati riesaminati anche da K.-H. ZIEGLER, Pirata communis hostis omnium, cit., p. 98.

 

[70] Cfr. H. MERGUET, Lexikon zu Vergilius, cit., p. 536.

 

[71] Per una visione più generale sulla figura poetica e sulla psicologia del personaggio: S. PATRIS, Une figure féminine de l'Énéide: Amata, la reine des Latins, in Les études classiques 13, 1945, pp. 40 ss.; A. LA PENNA, Amata e Didone, in Maia 19, 1967, pp. 309 ss.; H. J. SCHWEIZER, Vergil und Italien, Aarau 1967, pp. 22 ss.; J. W. ZARKER, Amata. Vergil's other tragic queen, in Vergilius 15, 1969, pp. 2 ss.; G. ST. WEST, Women in Vergil's Aeneid, Diss. Los Angeles 1975, pp. 190 ss.; J.-L. POMATHIOS, Le pouvoir politique et sa représentation dans l’Énéide de Virgile, cit., pp. 43 s.; E. CARNEY, Reginae in the Aeneid, in Athenaeum 66, 1988, pp. 440 ss. Altra bibliogr. in A. LA PENNA, v. Amata, in Enciclopedia Virgiliana, I, cit., pp. 125 ss.

 

[72] Aen. 7, 359-362.

 

[73] Aen. 10, 773-776. Sul valore simbolico di questo testo, ma più in generale di tutto l'episodio dell'Eneide dedicato a Mezenzío, si vedano le penetranti osservazioni di G. DUMÉZIL, Virgile, Mézence et les "vinalia", in Mélanges Heurgon, I, Roma 1976 = Mariages indo-européens, Paris 1979, pp. 198-209, special. p. 202.

 

[74] Aen. 11, 483-485. Dall'esame del materiale archeologico della antica Lavinio, F. CASTAGNOLI, Lazio virgiliano, in AA.VV., Itinerari virgiliani, Milano 1981, p. 94, trae una suggestiva osservazione: «Un particolare interesse presenta una grande statua di Minerva terribilmente armata (egida, elmo, scudo, spada, mentre un serpente tricipite le avvinghia il braccio) e affiancata alla singolare figura di Tritone: la visione di questa statua fa balzare alla memoria il verso di Virgilio col quale si apre la preghiera delle matrone al tempio di Minerva nella città del re Latino in un momento cruciale della guerra».

Per notizie più approfondite sulla statua lavinate, ricomposta da numerosi frammenti ed esposta al pubblico in occasione della mostra romana su Enea e il Lazio, tenutasi in Campidoglio dal 22 settembre al 31 dicembre 1981 per celebrare il bimillenario virgiliano, vedi nel relativo catalogo (Enea nel Lazio. Archeologia e mito, Roma 1981) F. C(ASTAGNOLI), La statua di Minerva, p. 190 s. Sulla figura della dea nel poema virgiliano, rimando a G. ST. WEST, Women in Vergil's Aeneid, cit., pp. 95 ss.; specificatamente sul culto di Minerva in età augustea, vedi invece J.-L. GIRARD, La place de Minerve dans la religion romaine au temps du principat, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II. 17, 1, Berlin-New York 1981, pp. 203 ss.

 

[75] Un recente apporto all'individuazione della vicenda semantica del termine (da miles conductus in Plauto a homo perditus in Cicerone) è costituito dai lavori di A. MILAN, Ricerche sul "latrocinium" in Livio, I. "Latro" nelle fonti preaugustee, in Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti 138, 1979-1980, pp. 171 ss. (su cui vedi la nota di V. GIUFFRÈ, in Labeo 27, 1981, pp. 250 ss.); Ricerche sul "latrocinium" in Livio. Il "latrocinium" di Perseo, in Sodalitas. Scritti in onore di A. Guarivo, III, Napoli 1984, pp. 1037 ss. Più in generale vedi J. BURIAN, Latrones. Ein Begriff in römischen literarischen und juristiscben Quellen, in Eirene 21, 1984, pp. 17 ss.

 

[76] Aen. 12, 4-8.

 

[77] Non mi pare del tutto adeguato, perciò, il commento di E. PARATORE, Virgilio, Eneide, VI (Libri XI-XII), Milano 1983, p. 208 «latronis: nel senso di "miles assoldato"». Servio, Ad Aen. 12, 7 propendeva invece per il significato di venator.

 

[78] Per una visione d'insieme delle fonti e della dottrina, vedi F. LAMMERT, v. Spolia opima, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft 3.A.2, Stuttgart 1929, coll. 1845 s.; R. M. RAmPELBERG, Les dépouilles opimes à Rome, des débuts de la République à Octave, in Revue historique de droit français et étranger 56, 1978, pp. 191 ss.

 

[79] Aen. 6, 855-859. Cfr. Servio, Ad Aen. 6, 859; commento in E. NORDEN, P. Vergilius Maro Aeneis Buch VI, 8a ed., Stuttgart 1984, pp. 340 s.

 

[80] Livio 1, 10, 5-7: Inde exercitu victore reducto, ipse cum factis vir magnificus tum factorum ostentator haud minor, spolia ducis hostium caesi suspensa fabricato ad id apte ferculo gerens in Capitolium escendit; ibique ea cum ad quercum pastoribus sacram deposuisset, simul cum dono designavit templo Iovis fines cognomenque addidit deo: "Iuppiter Feretri" inquit, "haec tibi victor Romulus rex regia arma fero, templumque his regionibus quas modo animo metatus sum dedico, sedem opimis spoliis quae regibus ducibusque hostium caesis me auctorem sequentes posteri ferent." Haec templi est origo quod primum omnium Romae sacratum est. Ita deinde dis visum nec inritam conditoris templi vocem esse qua laturos eo spolia posteros nuncupavit nec multitudine compotum eius doni volgari laudem. Bina postea, inter tot annos, tot bella, opima parta sunt spolia: adeo rara eius fortuna decoris fuit. Cfr. Plutarco, Romulus 16, 2-7; per quanto riguarda il nome del re ucciso da Romolo, che non compare in Livio né in Dionigi, scrive C. AMPOLO, in Plutarco, Le vite di Teseo e di Romolo, a cura di C. A. e M. Manfredini, Milano 1988, p. 312: «Il nome quindi deve provenire dalla tradizione antiquaria (Varrone, Verrio Flacco e l'ambiente da cui nasce l'elogium del foro di Augusto); comunque è nome greco, e non latino o italico, sicché può risalire alla storiografia in lingua greca».

 

[81] Livio 4, 19, 1-5.

 

[82] Cfr. Livio, Periocha 20; Plutarco, Marc. 8, 5; Eutropio 3, 6; Orosio 4, 13, 15.

 

[83] Una palese assurdità secondo G. C. PICARD, Les trophées romains, Paris 1957, p. 131; nello stesso senso H. S. VERSNELL, Triumphus, cit., pp. 306 ss.

 

[84] Livio 4, 20, 5-6: Omnes ante me auctores secutus, A. Cornelium Cossum tribunum militum secunda spolia opima Iouis Feretri templo intulisse exposui; ceterum, praeterquam quod ea rite opima spolia habentur, quae dux duci detraxit nec ducem novimus nisi cuius auspicio bellum geritur, titulus ipse spoliis inscriptus illos meque arguit consulem ea Cossum cepisse; Festo, p. 202 L.: Unde spolia quoque, quae dux populi Romani duci hostium detraxit; quorum tanta raritas est, ut intra annos paulo... trina contigerint nomini Romano: una, quae Romulus de Acrone; altera, quae [consul] Cossus Cornelius de Tolumnio; tertia, quae M. Marcellus < Iovi Feretrio de > Viridomaro fixerunt.

 

[85] Festo, p. 204 L.: M. Varro ait opima spolia esse, etiam si manipularis miles detraxerit, dummodo duci hostium ... non sint ad aedem Iovis Feretri poni, testimonio esse libros pontificum; in quibus sit: Pro primis spoliis bove, pro secundis solitaurilibus, pro tertiis agno publice fieri debere; esse etiam Pompili regis legem opimorum spoliorum talem: Cuius auspicio classe procincta opima spolia capiuntur, Iovi Feretrio darier oporteat, et bovem caedito, qui cepit aeris CC < C > ... Secunda spolia, in Martis ara in campo solitaurilia utra voluerit caedito... Tertia spolia, Ianui Quirino agnum marem caedito, C qui ceperit ex aere dato. Cuius auspicio capta, dis piaculum dato. In questo caso si parla ugualmente di spolia prima, secunda e tertia, però la classificazione appare fondata, non tanto sul dato temporale, ma su precise esigenze rituali, corrispondenti a parere di G. Dumézil, La religion romaine archaique, cit., pp. 178 ss. (= trad. it., La religione romana arcaica, cit., pp. 158 ss.), alla triade arcaica delle divinità romane; contro A. PARIENTE, "Opimus" y la llamada "lex de spoliis opimis", in Emerita 42, 1974, pp. 233 ss., il quale propone una discutibile ricostruzione della lex: vedi in part. pp. 251 ss., 259. Di questa tripartizione rituale K. LATTE, Römische Religionsgeschichte, cit., pp. 204 s., offre una interpretazione che in parte si discosta dal dato testuale, ritenendo comunque che la regolamentazione del complesso cerimoniale evidenzi «der Einfluss der Pontifices bei der Systematisierung der römischen Religion». Anche S. TONDO, Leges regiae e paricidas, Firenze 1973, pp. 24 s., attribuisce ad ambienti pontificali «l'associazione di Ianus e Quirinus», realizzata mediante l'attrazione del primo nell'orbita del secondo, come testimonia l'offerta dell'agnus mas, mentre si sa che l'animale sacro a Ianus era l'aries; questo adeguamento sarebbe comunque avvenuto in età assai antica, come conferma l'arcaica forma Ianui.

 

[86] Numerosi frammenti, oltre i due citati nel testo, confermano il principio secondo cui è il singolo cittadino che acquista la proprietà delle res hostiles: Gaio, Inst. 2, 69; Gaio in D. 41, 1, 5, 7; Paolo (Nerva filius) in D. 41, 2, 1, 1, e in D. 41, 2, 3, 21; Inst. Iust. 2, 1, 17. Il problema, tuttavia, è piuttosto complesso, anche per la presenza di altri frammenti che attribuiscono carattere pubblico alla proprietà della praeda tolta al nemico (Modestino in D. 48, 13, 15; Marciano in D. 49, 14, 31; Pomponio in D. 49, 15, 20, 1; 50, 16, 239, 1): vedi, per tutti, P. DE FRANCISCI, Intorno all'acquisto per occupazione delle "res hostium", in Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti 82, 1923, pp. 967 ss.; M. KASER, v. Occupatio, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, Suppl. 7, Stuttgart 1940, coll. 682 ss. (in part. 686 s.); K. VOGEL, Zur rechtlichen Behandlung der römischen Kriegsgewinne, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte 66, 1948, pp. 394 ss.; ID., Praeda, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft 22, 1, Stuttgart 1953, coll. 1200 ss.; F. BONA, Preda di guerra e occupazione privata di "res hostium", cit., pp. 309 ss.; ID., v. Preda bellica (storia), in Enciclopedia Giuridica 34, Milano 1985, pp. 911 ss.

 

[87] D. 41, 1, 51. Ad un riesame complessivo dell'opera del grande giurista è dedicato il recente saggio di H. HAUSMANINGER, Publius Iuventius Celsus. Persönlichkeit und juristische Argumentation, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II. 15, Berlin-New York 1976, pp. 382 ss. (con i rilievi critici di M. TALAMANCA, Per la storia della giurisprudenza romana, in Bullettino dell'Istituto di diritto romano 80, 1977, pp. 254 ss.); cui adde: V. SCARANO USSANI, Valori e storia nella cultura giuridica tra Nervo e Adriano. Studi su Nerazio e Celso, Napoli 1979, pp. 101 ss.; P. CERAMI, La concezione celsina del ius. Presupposti culturali e implicazioni metodologiche, in Annali del Seminario giuridico dell'Università di Palermo 38, 1985, pp. 5 ss. (sul quale vedi, però, le osservazioni di F. GALLO, Sulla definizione celsina del diritto, in Studia et documenta historiae et iuris 53, 1987, pp. 7 s.).

 

[88] O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, I, cit., col. 130 fragm. 15.

 

[89] Segue la stessa disposizione F. STELLA MARANCA, Intorno ai frammenti di Celso, Roma 1915, p. 11. Per la sostanziale genuinità del passo si pronuncia anche F. BONA, Preda di guerra e occupazione privata di "res hostium”, cit., p. 335, escludendo che l'utilizzazione da parte dei compilatori giustinianei sia avvenuta alterandone il tenore originario: «sia formalmente sia sostanzialmente il passo sembra risalire, nella formulazione conservataci nel Digesto, alle mani del giurista classico». Questo studioso ritiene, anzi, che l'esempio proposto da Celso rappresenti l'unica applicazione concreta, presso i giuristi classici, del principio secondo cui le res hostiles appartengo agli occupanti; conforme F. GNOLI, Ricerche sul crimen peculatus, Milano 1973, pp. 77 s. Ma sul punto, e su tutta la costruzione del Bona, si veda la diversa prospettiva di P. CATALANO, Populus Romanus Quirites, cit., p. 142.

 

[90] Gaio, Inst. 4, 16.

 

[91] Su tale questione si veda in particolar modo F. BONA, Preda di guerra e occupazione privata di “res hostium”, cit., pp. 364 ss., il quale tende a dimostrare che la citata affermazione di Gaio altro non sarebbe che una affermazione di principio, un'enunciazione astratta (non più attuale in quell'epoca) mantenuta nella formulazione teorica per memoria del passato e per esigenze sistematiche (vedi il richiamo alla naturalis ratio in Inst. 2, 69), dietro influsso del pensiero filosofico greco. Per lo studioso anche l'esegesi del passo va rivista: in particolare si sofferma sul valore di maxime, a suo avviso da mettere in relazione con ciò che Gaio ci dice dell'asta: «probabilmente Gaio non tanto ha inteso dire che l'occupazione per causa di guerra sia stata la fonte principale e primigenia della proprietà privata, quanto sottolineare che la proprietà conseguita in questo modo aveva particolari caratteri di certezza» (p. 344). Tale impostazione mi pare accolta nella sostanza da F. GNOLI, Ricerche sul crimen peculatus, cit., p. 77.

 

[92] Quanto al problema del valore della festuca si vedano, fra gli altri, H. LÉVY-BRUHL, Le très ancien procès romain, in Studia et documenta historiae et iuris 18, 1952, pp. 4 ss.; C. GIOFFREDI, Diritto e processo nelle antiche forme giuridiche romane, Roma 1955, pp. 105 ss. Contrario all'interpretazione gaiana si mostra S. TONDO, Aspetti simbolici e magici nella struttura giuridica della manumissio vindicta, Milano 1967, pp. 105 ss.

Sul passo, in diversa prospettiva, torna in un suo recente saggio A. MAGDELAIN, Quirinus et le droit (spolia opima, ius fetiale, ius Quiritium), in Mélanges de l’École française de Rome 96, 1984, p. 225; l'illustre studioso francese, rivalutando la testimonianza gaiana («Gaius indique que la baguette est loco hastae, et il n'a pas tort de voir en elle en procédure civile un signum iusti dominii»), ritiene di poter dimostrare che «Quirinus patronne le ius Quiritium» proprio sulla base della presenza in particolari rituali giuridici della hasta: «Le lien entre Quirinus et le droit quiritaire apparaît clairement à travers le symbole par excellence du dieu, la hasta, qui sous le succédané de la festuca sert à ponctuer d'un geste, devant le magistrat, la formule vindicatoire des plaideurs: ex iure Quiritium meum esse aio (Gaius 4, 16)».

 

[93] Aen. 2, 641-646.

 

[94] Aen. 10, 903-906. Cfr. K. BÜCHNER, Virgilio, cit., p. 512; J. GLENN, The fall of Mezentius, in Vergilius 18, 1972, pp. 10 ss.

 

[95] Aen. 8, 499-501.

 

[96] Aen. 2, 540-543. Con questo episodio secondo E. PARATORE, Virgilio, Eneide, I, cit., p. 337, «l'empietà e la progressiva degradazione degli Achei vincitori per inganno raggiungono il vertice»; sulla figura di Pirro vedi, brevemente, J.-L. POMATHIOS, Le pouvoir politique et sa représentation dans l’Énéide de Virgile, cit., p. 28, e G. ANNIBALDIS, v. Pirro, in Enciclopedia Virgiliana, IV, cit., pp. 121 ss.

 

[97] Aen. 7, 259 ss.; 12, 160 ss. Più in generale, sulla concezione virgiliana dei trattati si vedano: L. LERSCH, Antiquitates Vergilianae ad vitam populi Romani descriptae, Bonnae 1843, pp. 116 ss.; G. LURASCHI, v. Foedus, in Enciclopedia Virgiliana, II, Roma 1985, pp. 546 ss.

 

[98] Livio 1, 24, 7-8. Sul testo liviano cfr. P. PREIBISCH, Fragmenta librorum pontificiorum, Tilsit 1878, p. 5 fragm. 22; G. B. PIGHI, La poesia religiosa romana, Bologna 1958, p. 34; G. DUMÉZIL, La religion romaine archaïque, cit., pp. 106 ss. (= La religione romana arcaica, cit., pp. 95 s.). Sugli aspetti religiosi del rito, vedi G. WISSOWA, Religion und Kultus der Römer, 2a ed., München 1912, pp. 552 ss.; K. LATTE, Römische Religionsgeschichte, cit., pp. 121 ss., il quale però non ritiene autentica la formula liviana: op. cit. p. 5 n.

 

[99] De off. 3, 108. Sull'importante testo ciceroniano, quasi totalmente trascurato dalla dottrina precedente, vedi ora gli studi di P. CATALANO: Cic. de off. 3, 108 e il così detto diritto internazionale antico, in Synteleia Arangio-Ruiz, I, Napoli 1964, pp. 373 ss.; Linee del sistema sovrannazionale romano, cit., pp. 4 ss.

 

[100] Considerazioni sul complesso rituale della indictio belli, supra cap. II, pp. 91 ss. e relative nn.

 

[101] Cfr. Varrone, De vita populi Rom., fragm. 75 ed. Riposati = Nonio, p. 850; D. SABBATUCCi, La religione di Roma antica, Milano 1988, p. 193: «Ora, dato che con la guerra si opera proprio contro la stabilità, era come se si operasse contro Giove; dunque ci si doveva cautelare nei riguardi di questo dio quando si voleva indire una guerra, e i Feziali facevano appunto ciò con la loro azione rituale che, tra l'altro, richiedeva una esplicita giustificazione, dalla quale risultasse che se i Romani entravano in guerra la colpa era dei loro nemici».

 

[102] Antiquitates Vergilianae, cit., pp. 43 s.

 

[103] Aen. 9, 51-53. Il personaggio è Turno, viginti lectis equitum comitatus.

 

[104] Aen. 12, 266: si tratta dell'augure Tolumnio, il quale provoca l'inizio del combattimento, interpretando in maniera erronea l'augurio di Aen. 12, 244-256.

 

[105] Servio Dan. Ad Aen. 9, 52.

 

[106] Corrispondenza già evidenziata da L. LERSCH, Antiquitates Vergilianae, cit., p. 43 s.: «Neque etiam sine ratione poeta Turno viginti equites socios videtur attribuere. Quid? hic numerus omni significatione caret? Nihil de hac re Servius monet alias harum rerum tam curiosus. Sed quum indictio fetialium sit officium, Turnus itaque quasi fetialium princeps vel pater patratus sit existimandus: viginti illos comites fetiales sint opportet».

 

[107] Così H. EHLERS, v. Hostis, in Thesaurus Linguae Latinae, cit., col. 3062.