Università
di Sassari/Seminario di Diritto Romano/Pubblicazioni-7
Francesco Sini
Sassari, Libreria
Dessì Editrice, 1991
pp. 304
Digesta
Iustiniani 1, 8, 6,
5
(Marcian. l. III inst.) ... sicut
testis
in ea re est Vergilius.
Capitolo Terzo
Hostis
Sommario: 1. Significato
arcaico di hostis. – 2. Hostis nel linguaggio di Virgilio. – 3. Uso generico di hostis in riferimento a divinità,
uomini, animali. – 4. Hostis come condizione giuridica. – 5.
Riflessi virgiliani della
giurisprudenza sacerdotale.
[p. 145]
Sebbene
nel latino dell'età virgiliana (soprattutto nel linguaggio poetico) il termine hostis avesse ormai acquisito «le sens d’ennemí en
général, de même que inimicus s'emploie pour hostilis»[1]; l'antico significato della parola
restava però ben
vivo, sia nella cultura giuridica, sia nella scienza antiquaria.
Nel testo delle XII Tavole
tradito nel I secolo a. C.[2] la
[p. 146]
parola hostis figurava utilizzata
nell'originario significato di "straniero";
come attesta un noto passo del De officiis ciceroniano:
Hostis enim apud maiores nostros is dicebatur, quem nunc peregrinum dicimus. Indicant duodecim tabulae: aut status dies cum hoste itemque adversus hostem aeterna auctoritas. Quid ad hanc mansuetudinem addi potest, eum, quicum bellum geras, tam molli nomine appellare? Quamquam id nomen durius effecit iam vetustas; a peregrino enim recessit et proprie in eo, qui arma contra ferret, remansit[3].
[p. 147]
Rimanda all'originario significato della parola,
oltre il passo di Cicerone, anche l'antica formula del
giuramento dei milites, trascritta da Aulo Gellio nel sedicesimo
libro delle Noctes Atticae, ma derivata – com'è
noto – dal quinto libro del De re militari del giurista L. Cincio[4]:
Militibus
autem scriptis dies praefinibatur, quo die adessent et citanti consuli responderent;
deinde concipiebatur iusiurandum, ut adessent, his additis exceptionibus: nisi
harunce quae causa erit: funus familiare feriaeve denicales, quae non eius rei
causa in eum diem collatae sint, quo is eo die minus ibi esset, morbus
sonticus, auspiciumve, quod sine piaculo praeterire non liceat, sacrificiumve
anniversarium, quod recte fieri non possit, nisi ipsius eo die ibi sit, vis
hostisve, status condictusve dies cum hoste[5].
[p. 148]
Nell'epitome
di Paolo Diacono abbiamo un'altra testimonianza assai importante, poiché
attraverso il De verborum significatu di Sesto Pompeo Festo[6]
può farsi risalire alla scienza antiquaria di Verrio Flacco[7].
Si tratta della formula
[p. 149]
con cui il littore
allontanava da alcune cerimonie religiose determinate categorie di persone:
Exesto,
extra esto. Sic enim lictor in quibusdam sacris clamitabat: hostis, vinctus,
mulier, virgo exesto; scilicet interesse prohibebatur[8].
Del
resto, anche il grande Varrone nel De lingua Latina, per esporre il caso
di molte parole che aliud nunc ostendunt, aliud ante significabant, si riferisce all'esempio di hostis:
Quae
ideo sunt obscuriora, quod neque omnis impositio verborum extat, quod vetustas
quasdam delevit, nec quae extat sine mendo omnis imposita, nec quae recte est
imposita, cuncta manet (multa enim verba li<t>teris commutatis sunt
interpolata), neque omnis origo est nostrae linguae e vernaculis verbis, et
multa verba aliud nunc ostendunt, aliud ante significabant, ut hostis: nam tum
eo verbo dicebant peregrinum qui suis legibus uteretur, nunc dicunt eum quem
tum dicebant perduellem[9].
[p. 150]
Il
termine, dunque, nella sua accezione originaria, presente ancora nelle commedie
di Plauto e quindi desunta senza dubbio dall'uso linguistico corrente[10],
indicava lo straniero; più precisamente lo straniero qui suis legibus
uteretur, al quale si
riconosceva parità di ius col popolo romano:
Status
dies <cum hoste> vocatur qui iudici causa est constitutus cum peregrino;
eius enim generis ab antiquis hostes appellabantur, quod erant pari iure cum
populo Romano, atque hostire ponebatur pro aequare[11].
[p. 151]
Tale
originaria accezione si presentava definitivamente modificata nell'ultimo
secolo della Repubblica[12],
in relazione peraltro con l'estendersi del valore di peregrinus, che nei primi secoli dell'Impero
finì per designare una particolare condizione giuridica[13].
[p. 152]
Come
si vedrà nei paragrafi successivi, gli impieghi virgiliani di hostis si
presentano uniformi all'uso linguistico corrente della sua epoca. Si può
così comprendere quanto errasse N. D. Fustel de Coulanges nel cercare di
fondare la sua teoria che a Roma lo straniero «n'ayant aucune part
à la religion, n'avait aucun droit»[14],
anche sui seguenti versi virgiliani:
ne qua inter sanctos ignis in honore deorum
hostilis facies occurrat et omina turbet[15].
Scriveva, al riguardo, il grande studioso francese:
«Un témoignage de cet antique sentiment de répulsion nous
est resté dans un des principaux rites du culte romain; le pontife,
lorsqu'il sacrifie en plein air, doit avoir la tête voilée,
"parce qu'il ne faut pas que devant les feux sacrés, dans l'acte
religieux qui est offert aux dieux nationaux, le visage d'un étranger se
montre aux yeux du pontife; les auspices en seraient
troublés"»[16].
L'ultima
parte del brano corrisponde alla traduzione di Aen. 3, 407 hostilis
facies occurrat et omina turbet, con
la
[p. 153]
precisazione che «hostilis facies, dans Virgile, signifie le
visage d'un étranger»[17].
Orbene,
la traduzione proposta dal Fustel sembra assai forzata; mi pare, infatti,
indiscutibile che in questo verso Virgilio usi hostilis, non con l'antico significato di
"straniero”, bensì seguendo l'uso linguistico corrente del
suo tempo: forse anche nel senso di fere i. q. infestus, 'adversarius',
'sinister' (sebbene il verso non sia compreso tra i passi raccolti sotto
questa accezione nel Thesaurus Linguae Latinae)[18].
Senza
dubbio più aderente al testo si presenta la traduzione proposta da Luca
Canali, nell'edizione dell'Eneide pubblicata dalla Fondazione Lorenzo Valla:
«vela le chiome coperte d'un manto purpureo, / perché tra i santi
fuochi in onore degli dei / non compaia un ostile aspetto e turbi i
presagi»[19].
Non
trova dunque riscontro in questo verso, né in altri impieghi virgiliani
di hostis, la tesi
dell'ostilità naturale, dominante – com'è noto –
nella dottrina romanistica del secolo scorso[20]
e tuttora sostenuta da autorevoli studiosi[21],
la quale postula la guerra come condizione naturale delle primordiali relazioni
fra popoli, da cui consegue l'assoluta mancanza di diritti per gli stranieri,
in assenza di trattati.
[p. 154]
Nelle opere del nostro poeta hostis
ricorre circa novanta volte[22],
impiegato esclusivamente per esprimere il concetto di "nemico"[23].
Frequente si presenta anche l'uso del singolare[24],
che serve nella maggior parte dei casi, come assai bene sottolineava il grammatico Servio nel suo commento dell'Eneide, a
dare valore più generale al termine:
‘Ex hoste’ autem plus est, quam si 'ex hostibus' diceret, ut diximus supra. 'Ex hoste' enim generaliter dicitur,
'ex hostibus' partem ostendit, sicut dicendo `terram’ significamus elementum, ‘terras’ vero singulas
partes, ut Africae, Italiae[25].
Tra gli impieghi virgiliani di hostis, seppure tutti
carattezzati
[p. 155]
dalla comune accezione di
"nemico", va operata una fondamentale distinzione.
Anzi tutto vi è l'uso della parola in senso
giuridicamente proprio:
con hostes il poeta vuole indicare quei soggetti contro i quali è
in atto un legittimo stato di guerra[26].
Da ciò consegue che nei loro
confronti non vengono mai del tutto meno
i valori essenziali – religiosi e giuridici – delle relazioni fra
gli uomini[27].
Questa concezione, profondamente radicata nella
giurisprudenza sacerdotale romana, si appalesa soprattutto nell'Eneide, dove la consapevolezza della comune
appartenenza di tutti i popoli
(quindi anche degli hostes) ad un
[p. 156]
medesimo
sistema giuridico-religioso[28]
risulta espressa con innegabile
convinzione[29].
Ma Virgilio utilizza hostis anche in
senso generico o addirittura
improprio. Abbiamo, infatti, un certo numero di versi in cui
il termine richiama questa genericità di significati, con
riferimento a qualsiasi avversario: divinità, uomini, bestie[30].
In un verso dell'Eneide hostis assume
perfino valore astratto:
mox illos sua fata manent maiore sub hoste[31];
che, peraltro, non era sfuggito all'acuto commento di
Servio (Maiore sub hoste sub hostilitate: nam sub diversis hostibus pereunt)[32].
[p. 157]
Veniamo all'esame delle occorrenze virgiliane di hostis, precisando che l'analisi dei versi muoverà da quelli in cui il termine appare utilizzato in significati generici e impropri, con riferimento a qualsiasi avversario.
Come sinonimo di "nemico personale" hostis ricorre in due versi del libro dell'Eneide dedicato a Didone:
I, soror, atque hostem suplex adfare
superbum[33].
Tu lacrimis evicta meis, tu prima furentem
his, germana, malis oneras atque obicis
hosti[34].
In
questo caso il poeta vuole evidenziare, con l'uso di tale termine,
che per la regina cartaginese Enea appartiene ormai «alla
categoria di coloro che arrecano male»[35].
Notava già A. S. Pease[36],
come nei riferimenti di Didone ad Enea si abbia un'interessante sequenza terminologica (coniunx in Aen.
4, 172; hospes in Aen. 4, 332; hostis nei versi citati[37]),
che sembra suggerita a Virgilio dalla
reminiscenza dell'antico legame linguistico
[p. 158]
tra hospes e hostis, di cui puntualmente
dà conto il Servio Danielino[38].
In altro luogo, sempre dell'Eneide, troviamo
un impiego del termine con riferimento alla divinità suprema:
Ille caput quassans: non
me tua fervida terrent
dicta, ferox; di me terrent et Iuppiter
hostis[39].
Si tratta dello sconsolato discorso di Turno
ormai prossimo all'esito nefasto del duello con Enea, il
quale, conscio del suo destino[40],
qualifica non senza ragione come hostis lo stesso Iuppiter. I versi costituiscono quasi un
epilogo della singolare caratterizzazione di questo personaggio nella poetica virgiliana: per lui sono usati attributi quali audax
e violentus, ed è
sempre presentato come l'esatto contrario dell'eroe augusteo, animato invece da furor civilis e volto
alla realizzazione della pax[41].
Turno espia dunque la colpa di aver voluto una guerra contra omina, contra fata deum[42], da cui consegue chiaramente
[p. 159]
la violazione della pax deorum, che la sua morte serve a ristabilire[43].
Abbiamo infine tre passi in cui l'impiego di
hostis si presenta riferito al mondo animale[44].
Ad un combattimento di cigni contro un'aquila:
Arrexere animos Itali, cunctaeque volucres
convertunt clamore fugam (mirabile visu)
aetheraque obscurant
pinnis hostemque per auras
facta nube
premunt, donec vi victus et ipso
pondere
defecit praedamque ex unguibus ales
proiecit fluvio penitusque in nubila fugit[45];
[p. 160]
ad una lotta tra tori:
signo movet praecepsque oblitum fertur in hostem[46];
ai
preparativi di guerra delle api:
tum
trepidae inter se coeunt, pinnisque coruscant
spiculaque exacuunt rostris aptantque lacertos
et circa regem atque ipsa ad praetoria
densae
miscentur
magnisque vocant clamoribus hostem[47].
Una pur breve riflessione meritano gli ultimi
versi. Nel cantare l'organizzazione sociale delle api, mirabile per lo
spirito comunistico che la anima[48],
Virgilio perseguiva un duplice scopo:
esaltare l'ultimo residuo contemporaneo dell'età dell’oro[49]
e proporlo al tempo stesso come modello di organizzazione
[p. 161]
politica[50].
Questo spiega, sia la frequente umanizzazione delle situazioni in tutto il
libro[51],
sia il ricorso nei versi
[p. 162]
citati a parole
tratte dal linguaggio della politica e dell’arte della guerra[52].
Passiamo ora ad esaminare
quei versi in cui il termine hostis è impiegato da Virgilio in
senso giuridico: per indicare, cioè, il "nemico" col quale
esiste un legittimo stato di guerra [53].
A tal senso
rimandano senza dubbio i versi citati di seguito:
Addam
urbes Asiae domitas pulsumque Niphaten
fidentemque
fuga Parthum versisque sagittis
et duo
rapta manu diverso ex hoste tropaea bisque
triumphatas utroque ab litore gentis[54].
In questo caso il
valore giuridico di hostis è assicurato dall'espressione triumphatas
gentes, poiché come attesta Gellio, ma il passo con molta
probabilità è tratto dai Memorialium libri di Masurio
Sabino[55],
fra i requisiti necessari per poter ottenere l'onore del trionfo vi erano
quelli di aver combattuto
[p. 163]
bella rite indicta e contro un nemico
qualificabile come iustus hostis:
Ovandi
ac non triumphandi causa est, cum aut bella non rite indicta neque cum iusto
hoste gesta sunt, aut hostium nomen humile et non idoneum est, ut servorum
piratarumque, aut, deditione repente facta, inpulverea, ut dici solet,
incruentaque victoria obvenit[56].
Nel primo libro
dell'Eneide l'eroe troiano implicitamente riconosce la legittimità del
“nemico” quando presenta sè stesso come colui che ha salvato
ex hoste i Penati di Troia:
Sum pius Aeneas,
raptos qui ex hoste penatis
classe veho mecum,
fama super aethera notus.
Italiam quaero
patriam et genus ab Iove magno[57].
[p. 164]
Con la salvezza dei
Penati[58]
Enea ha impedito, al tempo stesso, l'estinzione religiosa e giuridica del
popolo troiano,
[p. 165]
minacciata proprio dalla condizione di iusti
et legitimi hostes[59]
degli avversari: solo tale condizione dava, infatti, la facoltà di
conquistare con pieno diritto una città o un popolo e di porre fine alla
loro esistenza giuridica[60].
[p. 166]
Altrove
si ha l’impiego del termine
hostis
per descrivere vere e proprie scene
di guerra:
Heu fuge, nate dea, teque
his ait erige flammis.
Hostis habet muros, ruit alto a culmine Troia[61].
Ergo ersi conferre manum pudor iraque
monstrat,
obiciunt portas tamen et praecepta facessunt
armatique cavis exspectant turribus hostem[62].
Sic ait et paribus Messapum in proelia dictis
hortatur sociosque duces et pergit in hostem[63].
Infine hostis appare utilizzato con precisa valenza
giuridica nell'esortazione che il poeta attribuisce a Turno:
Ergo iter ad regem polluta pace Latinum
[p. 167]
indicit primis iuvenum et
iubet arma parari,
tutari Italiani, detrudere finibus hostem:
se satin ambobus Teucrisque venire Latinisque[64].
La
terminologia giuridica risulta evidente nel riferimento al concetto di terra
Italia e alla intangibilità religiosa dei fines[65].
è noto, peraltro,
che l'esistenza della condizione giuridica di hostes non poteva
prescindere, per i giuristi romani, dal bellum publice decretum:
Pomponio
(Lib. II ad Q. Mucium): ‘Hostes’ hi sunt, qui nobis aut
quibus nos publice bellum decrevimus: ceteri latrones aut praedones sunt[66];
Gaio (Libr.
II ad leg. XII tab.): Quos nos hostes appellamus, eos veteres 'perduelles'
appellabant, per eam adiectionem indicantes, cum quibus bellum esset[67].
[p. 168]
La mancanza di
questa condizione qualificava i latrones e i praedones e le
conseguenze della distinzione erano, invero, assai rilevanti dal punto di vista
giuridico; basterà ricordare a questo punto il solo caso del postliminium[68]:
[p. 169]
Ulpiano
(Libr. I inst.): Hostes sunt, quibus bellum publice populus Romanus
decrevi vel ipsi populo Romano: ceteri latrunculi vel praedones appellantur. Et
ideo qui a latronibus captus est, servus latronum non est, nec postliminium
illi necessarium est: ab hostibus autem captus, ut puta a Germanis et Parthis,
et servus est hostium et postliminio statum pristinum recuperat[69].
Un rapido esame dell'uso virgiliano dei
termini latro e praedo dimostra, in maniera
inequivocabile, che il poeta ha ben presente la situazione giuridica che li
differenzia dagli hostes.
Praedo ricorre
tre volte nell'Eneide[70],
sempre riferito a troiani. Due volte
riferito allo stesso Enea: nelle parole della regina Amata[71]:
[p. 170]
Exulibusne datur ducenda Lavinia Teucris,
o
genitor, nec te miseret gnataeque tuique?
nec
matris miseret, quam primo aquilone relinquet
perfidus
alta petens abducta virgine praedo?[72]
e in bocca all'etrusco
Mezenzio:
Dextra mihi deus et telum, quod missile libro,
nunc
adsint! voveo praedonis corpore raptis
indutum
spoliis ipsum te, Lause, tropaeum
Aeneae[73].
Una, in senso generico, nella preghiera che le matrone latine
indirizzano a Minerva:
Armipotens,
praeses belli, Tritonia virgo,
frange manu telum Phrygii praedonis et ipsum
pronum
sterne solo portisque effunde sub altis[74].
[p. 171]
Si trattava dunque di personaggi, ai quali ripugnava dover riconoscere a Enea e ai Troiani la condizione di hostes.
Meno probante l'unica citazione di latro[75]:
Poenorum qualis in arvis
saucius ille gravi venantum volnere pectus
sum demum movet arma leo gaudetque comantis
[p. 172]
excutiens cervice toros fixumque latronis
inpavidus frangit telum et fremit ore cruento[76];
ma certo appare
innegabile l'intonazione dispregiativa dell'impiego virgiliano[77].
Resta
infine da esaminare il valore di hostis
in Aen. 11, 80:
Addis equos et tela, quibus spoliaverat hoste.
è noto che la spoliazione degli hostes uccisi
assumeva per i Romani particolari connotazioni religiose nel caso si trattasse
della spoliazione del comandante nemico, la cui uccisione (e spoliazione)
determinava gli spolia opima[78].
Di tali spolia si ha esplicita menzione in Virgilio, a
proposito del grande console Marcello:
Aspice, ut insignis spoliis Marcellus opimis
ingreditur
victorque viros supereminet omnis.
Hic rem Romanam magno turbante tumultu
sistet
eques, sternet Poenos Gallumque rebellem
tertiaque
arma patri suspendet capta Quirino[79].
[p. 173]
Qui il
poeta sembra aderire, per quanto riguarda la sua definizione di tertia, all'impostazione annalistica tradizionale che ricordava tre spolia opima: prima
sono quelli che Romolo strappò dal corpo dello sconfitto re di Cenina
Acrone[80]; secunda
sono gli spolia
di Tolumnio, il re di Veio
ucciso da Cornelio Cosso[81]; tertia quelli offerti da Claudio
Marcello, vincitore in duello del re del Galli Insubri Viridomaro[82]. Secondo
questa versione dell'annalistica, anche la dedica a Iuppiter Feretrius, Mars e Quirinus sarebbe stata determinata
da una sorta di ordine cronologico[83].
In realtà l'esatta determinazione
[p. 174]
del rituale legato all'offerta di spolia
opima appare tuttora problematica, in quanto nelle testimonianze degli
scrittori antichi si presenta controversa la stessa nozione di spolia opima.
Alcuni definiscono opima solo quegli spolia, quae dux populi
Romani duci hostium detraxit[84];
per altri si determinerebbero spolia opima ogni volta che soccomba nella
battaglia il capo dell’esercito nemico, anche se ad ucciderlo non sia
stato il comandante romano[85].
[p. 175]
Tuttavia, nel verso Aen. 11, 80, Virgilio sembra
sottendere, attraverso la spoliazione degli hostes, l’istituto della occupatio delle res hostiles (86)[86],
modo di acquisto originario della proprietà in
diritto romano, di cui ancora si interessavano i
[p. 176]
giuristi classici; come attestano i due
frammenti inclusi nei Digesta di
Giustiniano, riportati qui di seguito. Il primo è un testo
attribuito a Celso:
Libr. II digest.: Transfugam iure belli
recipimus. Et quae res
hostiles apud nos sunt, non publicae, sed occupantium fiunt[87],
che O. Lenel[88]
nella sua "palingenesia" ascrive alla rubrica dal titolo: «Ex quibus causis maiores XXV annis
in integrum restituuntur»[89].
[p. 177]
Il secondo è un notissimo passo delle istituzioni gaiane:
Festuca autem utebantur (sott. i Veteres) quasi hastae loco,
signo quodam iusti dominii; quod maxime sua esse credebant quae ex hostibus
cepissent; unde in centumviralibus iudiciis hasta praeponitur[90];
su cui
la dottrina romanistica ha discusso a lungo, sia per quanto riguarda il principio ivi affermato quod maxime
sua esse credebant quae ex hostibus cepissent[91]; sia riguardo al valore della festuca: se cioè questa rappresentasse
veramente la riduzione simbolica, a fini rituali, della hasta, signum iusti
dominii[92].
[p. 178]
Si è già detto come per Virgilio alcuni fondamentali
valori giuridico-religiosi delle relazioni tra gli uomini si estendano anche ai rapporti con gli hostes. Per questa ragione il poeta,
in diversi
episodi dell'Eneide, non esita a porre l'accento sul dovere di
umanità verso i nemici.
Nel secondo libro, ad esempio, abbiamo
l'espressione miserebitur hostis attribuita
al vecchio Anchise, nel discorso con cui motiva il suo rifiuto di
abbandonare la città di Troia ormai in fiamme: egli desidera soltanto la morte, certo che «il
nemico proverà compassione» e porrà fine alla sua
esistenza, ormai invisa alle
divinità:
Me si caelicolae voluissent ducere vitam,
has mihi servassent sedes. Satis una superque
vidimus excidia et captae superavimus urbi.
Sic o sic positum adfati discedite corpus.
[p. 179]
Ipse manu mortem inveniam: miserebitur hostis
exuviasque petet, facilis iactura sepulcri[93].
Nel decimo libro è invece Mezenzio, a chiedere rispetto per
il proprio cadavere ed una sepoltura accanto al figlio già morto, appellandosi
in special modo alla pietà che è dovuta victis
hostibus:
Unum hoc, per si qua est victis venia hostibus, oro:
corpus humo patiare tegi. Scio acerba meorum
circumstare odia: hunc, oro, defende furorem
et me consortem nati concede sepulchro[94].
Altrove si ha un implicito riconoscimento della comunanza di ius anche con gli hostes:
O Maeoniae delecta iuventus,
flos veterum
virtusque virum, quos iustus in hostem
fert dolor et merita accendit Mezentius ira[95];
comunanza di ius che viene esplicitamente proclamata dal morente Priamo nella vibrata invettiva contro
Pirro, la cui smodata
violenza appare una cosciente violazione degli iura e della fides, che pure sono dovuti ai nemici:
At non ille, satum quo
te mentiris, Achilles
talis in hoste fuit Priamo; sed iura fidemque
[p. 180]
supplicis erubuit
corpusque exsangue sepulcro
reddidit Hectoreum meque in mea regna remisit[96].
In Aen. 12, 579-582, Enea chiama gli dèi a testimoni contro gli Italici, due volte nemici, per la duplice
violazione di foedera[97]:
Ipse inter primos dextram sub moenia tendit
Aeneas magnaque incusat voce Latinum
testaturque deos, iterum se ad proelia cogi,
his iam Italos hostis, haec altera foedera rumpi.
Da
notare l'espressione testaturque
deos, che ricorda in maniera significativa la detestatio contenuta nella formula solenne pronunciata dai sacerdoti feziali nel ritus foederis
feriendi:
Legibus deinde
recitatis Audi inquit, Iuppiter, audi, pater patrate populi Albani, audi tu, populus Albanus: ut illa palam prima postrema ex illis tabulis
cerave recitata sunt
sine dolo malo, utique ea hic hodie rectissime intellecta sunt, illis
legibus populus Romanus prior non
deficiet. Si prior defexit publico
consilio dolo malo,
[p. 181]
tum tu illo die, Iuppiter, populum Romanum sic
ferito, ut ego hunc porcum hic hodie feriam; tantoque
magis ferito, quanto magis potes
pollesque[98].
Ma i versi virgiliani si prestano anche ad una ulteriore considerazione: in essi è sottesa,
infatti, la piena adesione alla concezione tipica della giurisprudenza
sacerdotale, che postula la vigenza anche nei confronti degli hostes
di totum ius fetiale e di multa iura communia. Su tale concezione abbiamo l'importante testimonianza ciceroniana:
Regulus vero non debuit condiciones
pactionesque bellicas et hostiles perturbare periurio; cum fusto enim et legitimo
hoste res gerebatur, adversus quem et totum ius feriale et multa sunt iura
communia. Quod
ni ira esser, numquam claros víros
senatus vinctos hostibus dedidisset[99].
Ulteriore conferma del fatto che i Romani e gli stranieri
[p. 182]
sono considerati soggetti entro lo stesso sistema
giuridico-religioso è offerta dal rito della indictio belli[100],
che aveva come presupposto legittimante la violazione dello ius da parte del popolo nemico[101],
qualificato in regione di ciò iniustus di fronte agli
dèi.
Pur
mancando espliciti riferimenti alla indictio
belli, in alcuni versi dell'Eneide il poeta si sarebbe ispirato,
secondo il
Lersch[102], proprio a questo rito:
Ecquis erit, mecum,
iuvenes, qui primus in hostem?
en ait et iaculum attorquens emittit in
auras,
principium pugnae, et campo sese arduus
inferi[103].
Dixit et adversos telum contorsit in hostis[104].
Lo scagliare l'asta contro il nemico, nel modo descritto da Virgilio, ricorda l'atto conclusivo della indictio belli: il feziale,
[p. 183]
recitata la formula solenne, gettava una lancia nel
territorio nemico[105],
quasi a simboleggiare l'inizio del combattimento. Interessante anche la
corrispondenza, non certo casuale, dei
venti equites che accompagnavano Turno col numero dei sacerdoti feziali[106].
Per
concludere, ancora una considerazione sul verso Georg.
3, 513:
di meliora piis erroremque hostibus illum!
da cui traspare con maggiore evidenza il valore negativo
del termine, presente
del resto in tutte le accezioni virgiliane:
contrapposto a pius, infatti,
hostis testimonia anche la connotazione religiosa
dell'esecrazione contro il nemico[107].
[1] Così
A. ERNOUT
- A. MEILLET,
Dictionnaire étymologique de la langue latine, 4a ed., Paris, 1967, p. 301. Cfr. H. EHLERS, v. Hostis, in Thesaurus Linguae Latinae, VI. 2, 1934, coll. 3061 ss.; A. WALDE - J. B. HOFMANN, Lateinisches etymologisches Wörterbuch, 1, dritte
Auflage, Heidelberg 1938, pp. 662 s.;
É. BENVENISTE, Le vocabulaire des
institutions indo-européennes, 1. Economie, parente,
société, Paris 1969, p. 95.
[2] Sui problemi relativi alla trasmissione delle norme
decemvirali, vedi per tutti: F. WIEACKER, Die XII
Tafeln in ihrem Jahrhundert, in AA.VV., Les origines de la
République romaine, Entretiens sur l'antiquité classique XIII,
Vandoeuvres - Genève 1966 (ma 1967), pp. 293 ss.; ID., Römische Rechtsgeschichte, I,
München 1988, pp. 287 ss.; S. TONDO, Profilo di storia costituzionale romana, I, Milano 1981, pp. 275 ss.; M. TALAMANCA, in AA.VV., Lineamenti
di storia del diritto romano, 2a ed., Milano 1989, pp. 99 ss. Il riesame della tradizione
annalistica e della storiografia moderna sul controverso
episodio del decemvirato legislativo è stato di recente affrontato
da G. POMA, Tra legislatori e tiranni. Problemi storici e
storiografici sull'età delle XII Tavole, Bologna 1984. Quanto poi alle caratteristiche e ai
contenuti di quella arcaica
"codificazione", da l'ultimo, vedi AA.VV., Società e diritto nell'epoca
decemvirale,
Atti del convegno di diritto romano, Copanello 3-7 giugno 1984, Napoli 1989;
con saggi di S. Boscherini, L. Amirante, F. Serrao, G. Franciosi, E.
Cantarelli, B. Santalucia, A. Guarino.
[3] Cicerone, De off. 1, 37.
I due frammenti delle XII Tavole (= Tab. II,
2; VI,
[4] Di L.
Cincio, vissuto presumibilmente in età ciceroniana (G. WISSOWA,
v. L. Cincius, in Real-Encyclopädie
der classischen Altertumswissenschaft 3,2,
Stuttgart 1899, coll. 2555 s.), si discute
perfino se possa considerarsi
un giurista: in senso negativo, P. KRÜGER, Geschichte der Quellen und Litteratur des
römischen Rechts, Leipzig 1888, p. 69 n. 83 (= trad. franc.: Histoire des sources du droit romain, Paris 1894, p. 92 n. 2); H. PETER, Historicorum Romanorum reliquiae, 2a ed.,
Stutgardiae 1914 (rist. 1967), p. CV; M. SCHANZ - C. Hosius, Geschichte der römischen
Literatur, I, 4a ed., München 1927
(rist. 1966),
pp. 175 s.; non così F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, Lipsiae 1896, pp. 252 ss.; M. BRETONE, Tecniche e ideologie dei giuristi romani, Napoli 1971, pp. 17 s. (= 2a ed., Napoli 1982, p. 16), infine V. GiuFFRÈ, La letteratura "de re militari". Appunti per una storia degli ordinamenti militari, Napoli 1974,
pp. 38 ss., il quale afferma esplicitamente che «L. Cincius fu il primo
giurista ad introdurre come materia nuova d'indagine la res militaris».
[5] Gellio, Noct. Att. 16, 4, 4; PH.E. HusCHKE, Iurisprudentiae anteiustinianae
quae supersunt, editio
quinta, Lipsiae 1886, p. 87 fragm. 13; F.P. BREMER, Iurisprudentiae
antehadrianae, 1, cit.,
p. 254 fragm. 2; V. GIUFFRè,
Il “diritto militare" dei Romani, Bologna 1980, pp. 33 s., con traduzione italiana del testo gelliano;
infine F. D'IPPOLITO, XII Tab. 2.2,
in Index 18, 1990, pp. 438 s.
Più in
generale, sul giuramento militare vedi, fra gli altri, S. TONDO, Il
“sacramentum militiae” nell'ambiente culturale romano-italico, in Studia et documenta historiae et
iuris 29, 1963, pp. 1 ss.; ID., Sacramentum militiae”, ibidem
34, 1968, pp. 376 ss.; H. LE BONNIEC, Aspects religieux de la guerre
à Rome, in AA-VV., Problémes de la guerre à Rome, a cura di J.-P. Brisson,
Paris 1969, pp. 105 s.; C. NICOLET, Il mestiere di cittadino nell'antica
Roma, trad. it., Roma 1980,
pp. 131 ss.
[6] R. HELM, v. Pompeius Festus,
in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft 21, 2,
Stuttgart 1952, coll. 2316
ss.; cfr. anche A. MoscADi, Verrio,
Festo e Paolo, in Giornale
Italiano di Filologia 31, 1978, pp. 17 ss., seppure criticabile in
molte conclusioni.
[7] Sui problemi
relativi alla biografia e alla molteplice produzione di Verrio Flacco vedi, per
tutti, M. SCHANZ - C. Hosius, Geschichte
der römischen Literatur, II,
4a ed., München 1935 (rist. an. 1959), pp. 361 ss. (ivi ampiamente citata
la letteratura precedente); A. DIhlE,
v. Verrius, in
Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft
[8] Paolo, Fest. ep., p.
[9] De ling. Lat. 5, 3; sul passo C. G. BRUNS, Fontes
iuris romani antiqui, pars posterior,
6a ed. (a cura di Th. Mommsen e O. Gradenwitz), Friburgi in Brisg. et
Lipsiae 1893, p. 53; A. Cenderelli,
Varroniana. Istituti e terminologia giuridica nelle opere di M. Terenzio Varrone,
Milano 1973, pp. 29, 113. Nello stesso senso anche Servio Dan., Ad Aen. 4,
424: Inde nostri ‘hostes’ pro hospitibus dixerunt: nam inimici
perduelles dicebantur; e Paolo, Fest. ep., p.
[10] Plauto, Curculio
1, 1, 4-6: si media nox est sive est prima
vespera, / si status condictus cum hoste intercedit dies, / tamen est eundum
quo imperant ingratiis. Cfr. Servio Dan., Ad Aen. 4, 424;
Macrobio, Sat. 1, 16, 4. Sull'attendibilità delle commedie
plautine come fonti di diritto, sono ancora validi gli studi di E. Costa, Il diritto privato romano
nelle commedie di Plauto, Torino 1890, pp. 21 ss.; adde C.S. Tomulescu, Observations sur la
terminologie juridique de Plaute, in Sodalitas. Scritti in onore
di Antonio Guarino, VI, Napoli 1984, pp. 2771 ss. Per la bibliografia
più generale si vedano le rassegne curate da F. BERTINI, Vent'anni di
studi plautini in Italia (1950-1970),
in Bollettino di studi latini 1, 1971, pp. 22 ss., e da D. FOGAZZA, Plauto 1935-1975, in Lustrum 19, 1976, pp. 79
ss.
[11] Festo, pp. 414-
[12] Sulla probabile
epoca in cui si produsse il mutamento di significato del termine hostis si
legga F. De Martino, Storia
della costituzione romana, II, cit., p. 20: «Più tardi, dopo
l’età delle XII tavole e probabilmente nell’età delle
guerre d’espansione in Italia, si dovette determinare il mutamento di
valore del termine; come ciò accadde e per quali cause non siamo in
grado di stabilire, ma è chiaro che la nuova concezione espansionistica
delle classi dirigenti romane nel corso del IV-III secolo indusse a considerare
l’hostis nemico e non più il peregrinus, qui suis legibus
utitur»; cfr. anche F. Serrao,
Diritto privato, economia e società nella storia di Roma, cit.,
p. 344.
[13] E. Cuq,
v. Hostis, in Dictionnaire des antiquités grecques et romaines
3, 1, Paris 1900, p. 303: «Aux derniers siècles de
[14] N. D. FUSTEL DE COULANGES, La
cité antique, ed. Paris 1927, p. 230
(= trad. it. di G. Perrota, La città antica, Firenze 1972, p. 234).
[17] La cité
antique, loc. cit. n. 1
(= La città antica, loc.
cit. n. 10). Nello stesso senso, ma senza riferimento al
Fustel, interpreta i vv. P. DE FraNcisci,
Primordia civitatis, Roma
1959, pp. 273 s.
[20] Bibliografia supra, nell’introduzione, p. 29 n.
38.
[21] Cfr. ad esempio É. BENVENIsTE,
Le vocabulaire des institutions indo-européennes, 1. Économie,
parenté, société,
cit., p. 361.
[22] Cfr. H. MERGUET, Lexikon zu Vergilius, Leipzig 1912
(rist. an. Hildesheim - New York 1969), pp.
302 ss.; D. FASCIANO, Virgile Concordance, I. Églogues,
Géorgiques, Énéide, Roma -
Montréal 1982, pp. 414 ss.
[23] Così in Aen.
5, 671-672
(heu miserae cives? non hostem inimicaque
castra / Argivom, vestras spes uritis) troviamo il temine hostis, concettualmente
contrapposto a civis, usato in
un significativo accostamento con inimicus.
[24] Cfr. ad esempio Aen.
1, 378
(Sum pius Aeneas, raptos qui ex hoste penatis /
classe veho mecum);
2, 390
(Dolus an virtus, quis in hoste requirat?); 3, 123 (hoste vacare domum sedesque adstare relictas); 7, 469 (tutari Italiani, detrudere
finibus hostem); 9, 38 (hostis adest, heia!); 9, 676 (freti armis, ultroque
invitant moenibus hostem); 11, 80 (addit equos et tela, quibus spoliaverat hostem).
[25] Servio,
Ad
Aen. 6, 111. Nello stesso senso vedi
anche Ad
Aen. 1, 378: Ex hoste penates optima locutio est, plusque significai de pluralitate
ad singularitatem transire, ut 'venor multis canibus' et 'multa cane'.
[26] Per i giuristi romani era necessaria
la dichiarazione di guerra per
determinare la condizione giuridica di hostis: cfr. Pomponio in D. 50, 16, 118;
Gaio in D. 50, 16, 234 pr.; Ulpiano
in D. 49, 15, 24.
[27] È nota, in tal senso, l'affermazione di Cicerone, De off. 3, 106: Est
autem ius etiam bellicum fidesque iuris iurandi saepe cum hoste servanda. In ciò la posizione dell'hostis si presenta nettamente differenziata
rispetto a quello del praedo
e del pirata
(ibid. 107): Quod
enim ita iuratum est, ut mens conciperet
fieri oportere, id servandum est; quod aliter, id si non fecerit, nullum
est periurium. Ut, si praedonibus pactum
pro capite pretium non attuleris, nulla fraus est, ne si iuratus quidem id non feceris; nam pirata non est ex
perduellium numero definitus, sed
communis hostis omnium; cum hoc nec fides debet nec ius iurandum esse
commune.
La problematica relativa
alla posizione del pirata, col quale a detta di Cicerone «nec
fides debet nec ius iurandum esse commune», è stata di recente riesaminata
nel lavoro di K.-H. ZIEGLER, Pirata communis hostis omnium, in De
iustitia et iure. Festgabe für U. von Lübtow, Berlin 1980, pp. 93 ss.
In una diversa prospettiva si era occupato del passo anche M. BRUTTI, La problematica del dolo processuale nell'esperienza romana, I, Milano 1973, p. 290 n.; allo studioso non interessavano, infatti, in quella sede i rapporti con gli hostes, ma la concezione ciceroniana sul carattere vincolante del giuramento.
[28] Sull'universalità di tale "sistema" vedi la
riflessione conclusiva di P. CATALANO, Linee del sistema sovrannazionale romano, cit., p. 289: «Il sistema giuridico-religioso romano ha
il suo centro in Iuppiter,
ed
è, proprio per questo, virtualmente universale. La virtuale
universalità è attuata in una sfera di rapporti (con reges, populi o singoli stranieri) la cui esistenza è indipendente vuoi da particolari
accordi vuoi da comunanza etnica». Cfr. ID.,
Aspetti spaziali del
sistema giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II. 16,
1, Berlin - New York 1978, pp. 445 s.
[29] Cfr. Aen. 2, 645-646; 10, 903-906; 2, 540-543. Sulla
tensione universalistica del poema
virgiliane, vedi, fra gli altri: G. BOISSIER, La religion romaine d'Auguste aux Antonins, 3a ed., 1, Paris 1884, pp. 230
sa.; P. BOYANCÉ, La religion de Virgile, Paris 1963, pp. 17 ss.; K. BÜCHNER, Virgilio. Il poeta dei Romani, trad. ít., 2a ed.,
Brescia 1986, pp. 560 ss.
[36] Publi Vergili
Maronis Aeneidos Liber Quartus, Cambridge, Mass. 1935 (rist. an. Darmstadt 1967), p. 352.
[37] Sulla comune
etimologia degli ultimi due termini, cfr. per tutti: F. DE VISSCHER, La condition des
pérégrins à Rome iusqu'à
[39] Aen. 12, 894-895.
[40] Vedi, in questo senso, l’interpretazione dei versi
proposta da B. OTIS, Virgil. A study in civilized poetry, Oxford 1963, p. 379; G. DUMÉZIL, Mythe et épopée, I.
L'idéologie des trois fonctions dans les épopées des
peuples indo-européens, Paris 1968, p. 339; cfr. anche C. RENGER, Aeneas und Turnus. Analyse einer Feindschaft, Frankfurt am Main 1985, p. 85.
[41] W. EHLERS, v. Turnus, in Real-Encyclopädie
der classischen Altertumswissenscbaft 7 A, Stuttgart 1948, coll. 1409 ss.
[42] Aen. 7, 583-584: Ilicet infandum cuncti contra omina bellum,
/ contra fata deum perverso numine poscunt; 7, 594-596: Frangimur heu
fatis inquit ferimurque procella! / ipsi has sacrilego pendetis sanguine
poenas, / o miseri; 11,
232-233: fatalem Aenean manifesto numine ferri / admonet ira deum tumulique ante ora recentes. Sul
carattere "fratricida" e "civile" della guerra scatenata da Turno, insiste V. PÖSCHL, Die Dichtkunst Virgils. Bild und Symbol in der Aneis, 2a ed., Darmstadt 1964, p. 177.
[43] Così A. WLOSOK, Vergil als Theologe: Iuppiter-pater onnipotens, in Gymnasium 90, 1983, pp. 201 = EAD., Virgilio teologo: Iuppiter-pater onnipotens, in Atti del Convegno
mondiale scientifico di studi su Virgilio (Mantova,
Roma, Napoli 19-24 settembre 1981), II,
Milano 1984, p. 98.
[44] In generale, sul ruolo degli animali
nella poesia virgiliana, vedi fra gli altri: M. RUCH, Virgile et le monde des
animaux, in AA.VV., Vergiliana, Leiden
1971, pp. 322 ss.; P. BOYANCÉ, La religione des «Géorgiques', in Aufstieg
und Niedergang der römischen Welt, II. 31, 1, Berlin-New York 1980,
pp. 561 s.; S. ROCCA,
Etologia virgiliana, Genova 1983 (su cui critiche e riserve di P. TORDEUR, in L'antiquité classique 53, 1984, pp. 408 ss.; W. RICHTER, in Gnomon 57, 1985, pp. 221 ss.; H. BARDON, in Latomus 44, 1985, pp. 666 ss.); EAD., v. Animali, in Enciclopedia
Virgiliana, I, Roma 1984, pp. 173 ss.
[45] Aen. 12, 251-256. Il presagio è,
peraltro, male interpretato dall'augure Tolumnio nei successivi versi 257-265: Tum vero augurium Rutuli clamore salutant / expediuntque manus; primusque
Tolumnius augur / «Hoc erat, hoc,
votis» inquit «quod saepe petivi: / accipio adgnoscoque deos; me, me
duce ferrum / corripite, o miseri, quos improbus advena bello / territat invalidar ut avis et litora vestra / vi populat.
Petet ille fugam penitusque profundo / vela dabit; vos unanimi densete
catervas / et regem vobis pugna defendite
raptum». Cfr.
E. LIECHTENHAN,
Nochmals Vergil, Aeneis IX, 324-
[47] Georg. 4,
73-76. Il raffronto tra uomini ed api costituisce un tema tipico della letteratura antica: fra gli
scrittori di lingua latina che si interessavano
di agricultura, ne aveva trattato anche M. Terenzio Varrone, De re rust. 3, 16,
4-9. I passi in questione sono stati raccolti da A. CENDERELLI,
Varroniana.
Istituti e terminologia giuridica nelle opere di M. Terenzio Varrone, cit., pp. 66 ss.
[49] Sui risvolti ideologici legati al
mito dell'età dell'oro, vedi fra gli altri: J.
S. RYBERG, Vergil's
golden age, in Transactions and Proceeding of the American
Philological Association 89, 1958, p. 112 ss.; H. REYNEN, Ewiger Frühling und goldene
Zeit. Zum Mythos des goldenen Zeitalters bei Ovid und Vergil, in Gymnasium 72, 1965, pp. 415 ss.; E. CASTORINA, Sull'età dell'oro in Lucrezio e Virgilio, in Studi di storiografia
antica dedicati a L. Ferrero, Torino 1971, pp. 99 ss.; G. BARRA, Le Georgiche di Virgilio e il mito
dell'età dell'oro, in Atti del Convegno sul bimillenario
delle Georgiche (Napoli 17-19 dicembre 1973), Napoli 1977, pp. 149
ss.; M. PAVAN, v. Aurea,
in Enciclopedia Virgiliana, I, cit., pp. 412 ss; J.-P. BRISSON, Rome et l'âge d'or. Fable ou idéologie?, in Poikilia.
Études Vernant, Paris
1987, pp. 123 ss.; ID., Rome et l'âge d'or: Dionysos ou Saturne?, in Mélanges
de l'Ecole française de Rome 100, 1988, pp. 917 ss.
[50] E. DE SAINT DENIS, Introduction, in Virgile, Géorgiques, trois. tirage, Paris 1963, p. XXXV: «Car voici la leçon que les abailles donnent aux hommes: pour que le rendement soi parfait, il
faut que le travail soit réparti
entre les membres de la collectivité, que ceux-ci soient
étroitement et docilement
groupés sous l'autorité d'un chef politique. Il y a loin des rêveries de la quatrième bucolique
aux certitudes de la quatrième géorgique, au communisme monarchique. Cette progression
s'explique sans doute par les
circonstances et par l'autorité croissante du princeps Octave-Auguste, plutôt
que par une évolution philosophique, de l'épicurisme au
stoïcisme». Cfr. inoltre J. BAYET, L'expérience sociale de
Virgile, ora in ID., Mélanges de litterature latine, Roma 1967, pp. 293 s.; R. JOUDEOUX, La philosophie politique des
Géorgiques d'après de livre IV (vers 149 à 169), in Bullettin de l'Association G. Budé 30, 1971, pp. 67 ss. Per la monarchia come forma ideale
di governo, vedi H. DAHLMANN, Der
Bienenstaat in Vergils Georgica, in Abhandlungen
der Akademie der Wissenschaft und Literatur in Mainz, 1954, n. 10, pp. 547 ss.;
e da ultimo, P. GRIMAL, Virgile ou
la seconde naissance de
Rome, Paris 1985, pp. 101 ss. (trad. it.: Virgilio. La seconda nascita di Roma, Milano 1986, pp. 109 ss.). Una
rassegna bibliografica completa fino al 1975 è stata messa a
punto da W. SUERBAUM, Spezialbibliographie zu Vergils Georgica, in
Aufstieg und
Niedergang der römischen Welt, II. 31, 1, cit., pp. 395 ss., in part. 470 ss.
[53] Così
è da intendere il termine hostis in Georg. 3, 32; Aen. 1, 378;
2,43.290.358.377.390.632; 3,283; 5,632; 6,880; 7,469; 9,38.46.51. 556; 10, 26.
372. 729; 11, 304. 521; 12, 266.
426. 465. 901.
[54] Georg. 3,
30-33. Sul significato "politico" del proemio del terzo libro delle
Georgiche, cfr. K. BüCHNER, Virgilio, cit., pp. 355 ss.; da ultimo J.-L.
POMATHIOS, Le pouvoir politique et sa représentation dans l’énéide de Virgile,
Bruxelles 1987, pp. 240 s.
[55] F. P. BREMER, Iurisprudentiae
antehadrianae quae supersunt, II, 1,
Lipsiae 1898, p. 371 fragm. 10.
[56] Gellio, Noct.
Att. 5, 6, 21. Importanti
considerazioni sul passo, di cui però non rilevano la paternità
sabiniana, sono svolte da H. S. VERSNEL, Triumphus. An inquiry into the origin, development and meaning of
the roman triumph, Leiden 1970, pp. 166 s.; K.-H. Ziegler, Pirata communis
hostis omnium, cit., p. 98.
[57] Aen. 1,
378-380. Cfr.
Aen.
5, 632-633 (O patria et rapii nequiquam ex hoste penates, /
nullane iam Troiae dicentur moenia?). Proprio la salvezza dei Penati giustifica
il Sum pius Aeneas, laddove come annotava Servio,
Ad Aen. 1, 378: non est hoc loco arrogantia, sed indicium; su possibili modelli
omerici del verso 378, vedi le critiche di E. PARATORE, Virgilio, Eneide, I (Libri I-II),
Milano
1978, p. 187.
Vale la pena
di notare, seguendo la tesi già dimostrata da N. MOSELEY, Pius Aeneas, in Classical Journal 20, 1924-25,
pp. 387 ss., come su circa quindici impieghi virgiliani
dell'aggettivo pius unito al nome di Enea, nove volte esso
si presenti in connessione con comportamenti conformi alla volontà
degli dèi o con il compimento di riti religiosi (cfr., da ultimo, A. TRAINA, v. Pietas, in Enciclopedia Virgiliana, IV, Roma 1988, pp. 96 ss.);
ciò
sembrerebbe confermare quanto aveva sostenuto W.
W. Fowler, The religious
experience of Roman people, cit., p. 80, circa l’uso virgiliano di
pietas per indicare la religione. Der resto già
nell’Ottocento G. Boissier,
La religion romaine d’Auguste aux Antonins, I, cit., p.
242, accentuava fortemente in senso religioso i caratteri della figura di Enea:
«Il travaille pour ses Pénates, auxquels il faut bien donner une
demeure sûre, pour son fils qu’il ne doit pas priver de ce royaume
que le destin lui promet, pour sa race qu’attend un si glorieux avenir.
Sa personnalité s’efface devant ces grands intérêts;
il obéit malgré ses répugnances et s’immole aux
ordres du ciel. C’est à ces signes que se reconnaît le
héros d’une épopée religieuse».
Del verso si occupa anche P.
BoyancÉ, La religion de Virgile, cit., pp. 70 s.,
soffermandosi sulla pietas di Enea: «Bref la piété
d’énée est
directement, incontestablement piété au sens religieux du mot.
Beaucoup plus que l’image d’énée
portant son père, c’est l’image d’énée portant les
Pénates romains qui s’impose à nous»; consegue da
ciò, per lo studioso francese, la piena giustificazione della qualifica
attribuitasi da Enea nel v. in questione: «Proclamer qu’il est pieux,
ce n’est pas dans ces conditions autre chose qu’affirmer
qu’il se sait instrument des dieux».
Sulla pietas di
Enea e sull’origine della sua leggenda, vedi G.K. Galinsky, Aeneas, Sicily and Rome, Princeton
1969, pp. 3 ss.; J.-P. Brisson, Le
pieux énée!, in
Latomus 31, 1972, pp. 379 ss.
[58] Gli antichi
commentatori discutevano molto sulla natura dei Penates di Enea:
esemplare al riguardo si presenta il passo di Servio Dan., Ad Aen. 1,
[59] Utilizzo la
terminologia di Cicerone, De off. 3, 108. Sul rapporto tra culto dei Penati e vita della città, vedi N. D.
FUSTEL DE COULANGES, La cité antique, cit., p. 164: «La ville de Troie a péri, mais non
pas la cité troyenne; grâce à énée, le foyer n'est pas éteint, et les
dieux ont encore un culte. La cité et les dieux fuient avec énée; ils parcourent les
mers et cherchent une contrée où il leur soit donné de
s'arrêter» (= trad. it. di G. Perrotta: La città antica, cit.,
p. 170).
[60] In questo senso mi
pare abbia valore pregnante la formula solenne della deditio urbis,
conservataci da Livio 1, 38, 1-2, nell'esempio paradigmatico della resa della
città di Collazia; cfr. Plauto, Amph. 258-259: deduntque se, divina humanaque omnia, urbem et liberos /
in dicionem atque in arbitratum cuncti Thebano poplo.
Del resto, per i
giuristi romani, non solo la fine, ma anche l'inizio dell'esistenza di una
città riposava nel compimento di un solenne atto
giurídico-religioso, il rito di fondazione: Varrone, De ling. Lat. 5, 143: Oppida condebant in
Latio Etrusco ritu multi, id est iunctis bobus, tauro et vacca interiore,
aratro circumagebant sulcum (hoc faciebant religionis causa die auspicato), ut
fossa et muro essent muniti. Terram unde exculpserant, fossam vocabant et
introrsum iactam murum. Post ea qui fiebat orbis, urbis pricipium; qui quod
erat post murum, postmoerium dictum, eo usque auspicia urbana finiuntur;
cfr. anche Festo, p.
[63] Aen. 11, 520-521.
Nello stesso senso anche: Aen. 2, 358: faucibus exspectant siccis, per tela, per hostes / vadimus; 2, 632: Descendo ac ducente
deo flammam inter et hostis / expedior; 10, 379: Haec ait et medius densos prorumpit in hostis; 11, 304: non tempore tali / cogere concilium quom muros adsidet hostem; cfr.
inoltre Aen. 2, 377. 508. 511. 527. 541. 665; 3, 283; 9,
38. 356. 386. 676; 10, 372. 398. 585; 11, 370. 381. 387. 743. 764. 899; 12, 266. 426.
[66] D. 50, 16, 118;
cfr. 0. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, Lipsiae 1889, col. 59
fragm. 222: secondo la ricostruzione proposta dallo studioso tedesco, il passo
di Pomponio sarebbe da attribuire, nella divisione per materia dei libri ad
Quintum Mucium, alla
rubrica dedicata all'incapacità di testare del cittadino captus ab
hostibus. Che il testo verosimilmente sia da ricollegare alla trattazione
del postliminium sostiene invece F. BoNA,
"Postliminium in pace", in Studia et documenta historiae et
iuris 21, 1955, p. 262 n. 58; seguito da R. MARTINi, Le definizioni dei giuristi romani, Milano 1966, pp. 200 s.
[67] D. 50, 16,234 pr.
Per 0. LENEL, Palingenesia iuris civilis, I, cit., col. 243 fragm. 428, si tratterebbe del commento a XII
tab. 11, 2 (status dies cum
boste); cfr. anche F. BONA, Preda di guerra e occupazione privata
di “res hostium”, in Studia et documenta historiae et iuris 25, 1959, p. 342; R. MARTIni, Le definizioni dei giuristi
romani, cit., p. 245.
[68] Per la definizione
vedi Gaio, Inst. 1, 129: Quodsi ab hostibus captus fuerit parens,
quamvis servus hostium fiat, tamen pendet ius liberorum propter ius
postliminii, quo hi qui ab hostibus capti sunt, si reversi fuerint, omnia
pristina iura recipiunt; itaque reversus habebit liberos in potestate. Si vero
illic mortuus sit, erunt quidem liberi sui iuris; sed utrum ex hoc tempore quo
mortuus est apud hostes parens, an ex illo quo ab hostibus captus est, dubitari
potest. Ipse quoque filius neposve si ab hostibus captus fuerit, similiter
dicimus propter ius postliminii potestatem quoque parentis in suspenso esse;
ma anche Pomponio, Libr. XXXVII ad Q. Mucium = D. 49, 15, 5; Trifonino, Libr.
IV disput. = D. 49, 15, 12 pr.; Paolo, Libr. XVI ad Sabinum = D. 49,
15, 19 pr.
Non
è ovviamente possibile approfondire qui il dibattito dottrinale sull'istituto, né dar conto in
maniera puntuale delle diverse posizioni presenti nella letteratura romanistica attuale. Per la
bibliografia precedente rimando ai lavori di H.
KRELLER, Juristenarbeit am
postliminium,
in Zeitschrift
der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte 69, 1952, pp. 172 ss.; ID, Postliminium, in Real-Encyclopádie
der classischen Altertumswissenschaft 22,
1, Stuttgart 1953, coll.
683 ss.; mentre per la dottrina più recente vedi, fra gli altri: M. BARTOŠEK,
Captivus, in Bullettino dell’Istituto di diritto romano 57-58, 1953, pp. 98 ss.; H. KORNHARDT, "Postliminium"
in republikanischer Zeit, in Studia
et documenta historiae et iuris 19, 1953, pp. 1 ss.; F. BONA,
"Postliminium in pace", cit., pp. 249 ss.; ID.,
Sull'animus remanendi nel postliminio, ibidem 27, 1961, pp. 186 ss., L. AMIRANTE, Ancora sulla "captivitas" ed il
"postliminium", in Studi De Francisci, 1, Milano 1956, pp. 517 ss., ID., postliminio, in
Novissimo Digesto Italiano, XIII, Torino 1966, pp. 429 ss.; F. DE:
VISSCHER, Droit
de capture et "postliminium in pace", in Revue internationale
des droits de l'antiquité 3 (ser. 3a), 1956, pp. 197 ss. (= ID.,
Études de droit romain public et privé, Milano 1966, pp. 117 ss.); C. HERRMAN, Le
cas d'Atilius Regulus, in Iura 14, 1963, pp. 159 ss.; A. WATSON, The Law of Persons in the Later Roman Republic, Oxford 1967, pp. 237 ss.; F. DE MARTINO, Storia della
costituzione romana, II, cit., pp. 46 s.
[69] D. 49, 15, 24. Cfr.
Paolo, Libr. XVI ad Sabinum = D. 49, 15, 19, 2: A piratis aut
latronis capti liberi permanent. Il LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, cit., col. 927 fragm. 1911,
colloca il testo ulpianeo sotto la rubrica de iure gentium; così anche R. MARTINi, Le definizioni dei giuristi
romani, cit., p. 341; E. NARDi,
Istituzioni di diritto romano, A. Testi.1, Milano 1973, pp. 175 s. Non
crede, invece, che il frammento «sia stato da Lenel collocato
esattamente», G. LOMBARDI, Sul concetto di “ius gentium”, Roma
1947, p. 206 e n. 4: «perché il testo di Ulpiano non riguarda la
schiavitù, quale istituto iuris gentium o meno, ma precisa
semplicemente chi siano coloro che debbano considerarsi hostes al fine
di stabilire se, nei riguardi di colui che è stato eventualmente
“catturato”, debba o non debba applicarsi il postliminium».
I due testi di Ulpiano e Paolo sono stati riesaminati anche da K.-H. ZIEGLER, Pirata
communis hostis omnium, cit., p. 98.
[71] Per
una visione più generale sulla figura poetica e sulla psicologia del
personaggio: S. PATRIS, Une figure féminine de
l'Énéide: Amata, la reine des Latins, in Les études classiques 13, 1945, pp. 40 ss.; A.
[73] Aen. 10,
773-776. Sul valore simbolico di
questo testo, ma più in
generale di tutto l'episodio dell'Eneide dedicato a Mezenzío, si
vedano le penetranti osservazioni di G.
DUMÉZIL, Virgile, Mézence
et les "vinalia", in Mélanges Heurgon, I, Roma
1976 = Mariages indo-européens, Paris
1979, pp. 198-209, special. p. 202.
[74] Aen. 11, 483-485.
Dall'esame del materiale archeologico della antica Lavinio, F. CASTAGNOLI, Lazio virgiliano, in AA.VV., Itinerari virgiliani, Milano 1981, p. 94, trae una
suggestiva osservazione: «Un particolare interesse presenta una grande statua di Minerva terribilmente
armata (egida, elmo,
scudo, spada, mentre un serpente tricipite le avvinghia il braccio) e affiancata alla singolare figura di Tritone: la visione di questa statua fa balzare alla memoria il
verso di Virgilio col quale si apre la preghiera delle matrone al tempio di
Minerva nella città del re Latino in un momento cruciale della guerra».
Per notizie
più approfondite sulla statua lavinate, ricomposta da numerosi
frammenti ed esposta al pubblico in occasione della mostra romana su Enea
e il Lazio, tenutasi in
Campidoglio dal 22 settembre al 31 dicembre
1981 per celebrare il bimillenario virgiliano, vedi nel relativo catalogo (Enea nel Lazio. Archeologia e
mito, Roma 1981)
F. C(ASTAGNOLI), La statua di Minerva, p. 190 s. Sulla figura della dea nel poema
virgiliano, rimando a G. ST. WEST, Women in Vergil's Aeneid, cit., pp. 95
ss.; specificatamente sul culto di Minerva in
età augustea, vedi invece J.-L. GIRARD, La place de Minerve dans la
religion romaine au temps du principat, in Aufstieg und Niedergang der
römischen Welt, II. 17, 1, Berlin-New York 1981, pp. 203 ss.
[75] Un
recente apporto all'individuazione della vicenda semantica del
termine (da miles conductus in Plauto a homo perditus in
Cicerone) è costituito dai lavori di A. MILAN, Ricerche sul
"latrocinium" in Livio, I. "Latro" nelle fonti preaugustee, in Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere e
Arti 138, 1979-1980,
pp. 171 ss. (su cui vedi la nota di V.
GIUFFRÈ, in Labeo 27, 1981, pp. 250 ss.); Ricerche sul "latrocinium" in Livio. Il
"latrocinium" di Perseo, in Sodalitas. Scritti in onore di A. Guarivo, III, Napoli 1984, pp. 1037 ss. Più
in generale
vedi J. BURIAN, Latrones. Ein Begriff in
römischen literarischen und juristiscben Quellen, in Eirene 21, 1984, pp.
17 ss.
[77] Non mi pare del tutto adeguato,
perciò, il commento di E. PARATORE, Virgilio,
Eneide, VI (Libri XI-XII), Milano 1983, p. 208 «latronis: nel senso di "miles
assoldato"». Servio, Ad Aen. 12, 7 propendeva invece per il significato
di venator.
[78] Per una visione
d'insieme delle fonti e della dottrina, vedi F. LAMMERT, v. Spolia opima,
in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft 3.A.2,
Stuttgart 1929, coll. 1845 s.; R. M. RAmPELBERG, Les dépouilles
opimes à Rome, des débuts de
[79] Aen. 6, 855-859. Cfr.
Servio, Ad Aen. 6, 859; commento in E. NORDEN, P. Vergilius Maro Aeneis Buch
VI, 8a ed., Stuttgart 1984, pp. 340
s.
[80] Livio 1, 10, 5-7: Inde exercitu victore reducto, ipse cum factis vir magnificus tum
factorum ostentator haud minor, spolia ducis hostium caesi suspensa fabricato
ad id apte ferculo gerens in Capitolium escendit; ibique ea cum ad quercum
pastoribus sacram deposuisset, simul cum dono designavit templo Iovis fines
cognomenque addidit deo: "Iuppiter Feretri" inquit, "haec tibi
victor Romulus rex regia arma fero, templumque his regionibus quas modo animo
metatus sum dedico, sedem opimis spoliis quae regibus ducibusque hostium caesis
me auctorem sequentes posteri ferent." Haec templi est origo quod primum omnium Romae sacratum
est. Ita deinde dis visum nec inritam
conditoris templi vocem esse qua laturos eo spolia posteros nuncupavit nec
multitudine compotum eius doni volgari laudem. Bina postea, inter tot annos,
tot bella, opima parta sunt spolia: adeo rara eius fortuna decoris fuit. Cfr. Plutarco, Romulus
16, 2-7; per quanto riguarda il nome del re ucciso da Romolo, che non compare in Livio né in
Dionigi, scrive C. AMPOLO, in Plutarco, Le vite di Teseo e di Romolo, a cura di C. A. e M. Manfredini, Milano 1988, p. 312: «Il nome quindi deve provenire
dalla tradizione antiquaria (Varrone, Verrio Flacco e
l'ambiente da cui nasce l'elogium del
foro di Augusto); comunque è nome greco, e non latino o
italico, sicché può risalire alla storiografia in lingua
greca».
[83] Una palese assurdità secondo G. C. PICARD,
Les trophées romains, Paris 1957, p. 131;
nello stesso senso H. S. VERSNELL, Triumphus, cit., pp. 306 ss.
[84] Livio 4, 20, 5-6: Omnes ante me auctores secutus, A. Cornelium Cossum tribunum militum
secunda spolia opima Iouis Feretri templo intulisse exposui; ceterum,
praeterquam quod ea rite opima spolia habentur, quae dux duci detraxit nec
ducem novimus nisi cuius auspicio bellum geritur, titulus ipse spoliis
inscriptus illos meque arguit consulem ea Cossum cepisse; Festo, p. 202 L.: Unde spolia quoque, quae dux populi
Romani duci hostium detraxit; quorum tanta raritas est, ut intra annos paulo...
trina contigerint nomini Romano: una, quae Romulus de Acrone; altera, quae [consul]
Cossus Cornelius de Tolumnio; tertia, quae M. Marcellus < Iovi Feretrio de
> Viridomaro fixerunt.
[85] Festo, p.
[86] Numerosi frammenti, oltre i
due citati nel testo, confermano il principio secondo cui è il singolo
cittadino che acquista la proprietà delle res hostiles: Gaio, Inst. 2, 69;
Gaio in D. 41, 1, 5, 7; Paolo (Nerva filius) in D. 41, 2,
1, 1, e in D. 41, 2, 3, 21; Inst. Iust. 2, 1, 17.
Il problema, tuttavia, è piuttosto complesso, anche per la presenza di
altri frammenti che attribuiscono carattere pubblico alla
proprietà della praeda tolta
al nemico (Modestino in D. 48, 13, 15; Marciano
in D. 49, 14, 31; Pomponio in D. 49, 15, 20, 1; 50, 16, 239, 1):
vedi, per tutti, P. DE FRANCISCI, Intorno all'acquisto per occupazione delle "res hostium", in Atti dell'Istituto Veneto di
Scienze, Lettere e Arti 82, 1923, pp. 967 ss.; M. KASER,
v. Occupatio, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, Suppl. 7, Stuttgart
1940, coll. 682 ss. (in part. 686 s.); K. VOGEL, Zur rechtlichen Behandlung der römischen
Kriegsgewinne, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für
Rechtsgeschichte 66, 1948, pp. 394 ss.; ID., Praeda, in Real-Encyclopädie der
classischen Altertumswissenschaft 22, 1, Stuttgart 1953, coll. 1200 ss.; F.
BONA, Preda di guerra e occupazione privata di "res
hostium", cit., pp. 309 ss.; ID.,
v.
Preda bellica
(storia), in
Enciclopedia
Giuridica 34, Milano 1985, pp. 911 ss.
[87] D. 41, 1, 51. Ad un riesame
complessivo dell'opera del grande giurista
è dedicato il recente saggio di H. HAUSMANINGER, Publius Iuventius Celsus. Persönlichkeit und juristische
Argumentation, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II. 15, Berlin-New York 1976, pp. 382 ss. (con i rilievi critici di M. TALAMANCA,
Per la storia
della giurisprudenza romana, in Bullettino dell'Istituto di diritto romano 80, 1977, pp. 254 ss.); cui adde: V. SCARANO USSANI, Valori e storia nella cultura giuridica tra Nervo e
Adriano. Studi su Nerazio e Celso, Napoli 1979, pp. 101 ss.; P. CERAMI, La concezione celsina del ius. Presupposti culturali e
implicazioni metodologiche, in Annali del Seminario giuridico
dell'Università di Palermo 38, 1985, pp. 5 ss. (sul quale vedi,
però, le osservazioni di F. GALLO, Sulla definizione celsina del
diritto, in Studia et documenta historiae et iuris 53, 1987, pp. 7 s.).
[89] Segue la stessa
disposizione F. STELLA
MARANCA, Intorno ai frammenti di Celso, Roma 1915,
p. 11. Per la sostanziale genuinità del passo si pronuncia anche F. BONA, Preda di guerra e occupazione privata di "res
hostium”, cit., p. 335, escludendo che
l'utilizzazione da parte dei compilatori giustinianei sia avvenuta alterandone il tenore
originario: «sia formalmente sia sostanzialmente il passo sembra risalire,
nella formulazione conservataci nel Digesto, alle mani del giurista
classico». Questo studioso ritiene, anzi, che l'esempio proposto da Celso
rappresenti l'unica applicazione concreta, presso i giuristi classici, del principio secondo cui le res hostiles appartengo agli
occupanti; conforme F. GNOLI, Ricerche sul crimen peculatus, Milano 1973, pp. 77 s. Ma sul punto, e su tutta la
costruzione del Bona, si veda la
diversa prospettiva di P. CATALANO,
Populus Romanus Quirites, cit., p.
142.
[91] Su tale questione si veda in particolar modo F. BONA,
Preda di guerra e occupazione privata di “res
hostium”, cit., pp. 364 ss., il quale tende a dimostrare che la citata affermazione
di Gaio altro non sarebbe che una affermazione di principio, un'enunciazione
astratta (non più attuale in quell'epoca) mantenuta nella formulazione teorica
per memoria del passato e per
esigenze sistematiche (vedi il richiamo alla naturalis ratio in Inst. 2, 69), dietro influsso del pensiero filosofico greco. Per lo studioso anche
l'esegesi del passo va rivista: in
particolare si sofferma sul valore di maxime, a suo avviso da
mettere in relazione con ciò che Gaio ci dice
dell'asta: «probabilmente Gaio non
tanto ha inteso dire che l'occupazione per causa di guerra sia
stata la fonte principale e primigenia della proprietà privata, quanto
sottolineare che la proprietà conseguita in questo modo aveva particolari
caratteri di certezza» (p. 344). Tale
impostazione mi pare accolta nella sostanza da F. GNOLI, Ricerche sul crimen peculatus, cit., p. 77.
[92] Quanto
al problema del valore della festuca si
vedano, fra gli altri,
H. LÉVY-BRUHL,
Le très ancien procès romain, in Studia et documenta historiae et iuris 18, 1952, pp. 4 ss.; C. GIOFFREDI, Diritto e processo nelle antiche forme giuridiche romane, Roma 1955, pp. 105 ss. Contrario all'interpretazione gaiana si mostra S. TONDO, Aspetti
simbolici e magici nella struttura giuridica della manumissio
vindicta, Milano 1967, pp.
105 ss.
Sul
passo, in diversa prospettiva, torna in un suo recente saggio A. MAGDELAIN, Quirinus
et le droit (spolia opima, ius fetiale, ius Quiritium), in Mélanges de
l’École française de Rome 96, 1984, p. 225; l'illustre
studioso francese, rivalutando la
testimonianza gaiana («Gaius indique que la baguette est loco
hastae, et il n'a pas tort
de voir en elle en procédure civile un signum iusti dominii»), ritiene di poter
dimostrare che «Quirinus patronne le ius Quiritium» proprio sulla base della presenza in particolari rituali giuridici della hasta: «Le lien entre Quirinus et le droit quiritaire
apparaît clairement à
travers le symbole par excellence du dieu, la hasta, qui sous le succédané
de la festuca sert à
ponctuer d'un geste, devant le magistrat, la formule vindicatoire des
plaideurs: ex iure Quiritium meum esse aio (Gaius 4, 16)».
[94] Aen. 10, 903-906. Cfr. K. BÜCHNER, Virgilio, cit., p. 512; J. GLENN, The
fall of Mezentius, in Vergilius
18, 1972, pp. 10 ss.
[96] Aen. 2, 540-543. Con
questo episodio secondo E.
PARATORE, Virgilio,
Eneide, I, cit., p. 337, «l'empietà e la progressiva
degradazione degli Achei vincitori per inganno
raggiungono il vertice»; sulla figura di Pirro vedi, brevemente,
J.-L. POMATHIOS, Le pouvoir politique et sa représentation
dans l’Énéide de Virgile, cit., p. 28,
e
G. ANNIBALDIS, v. Pirro, in Enciclopedia Virgiliana,
IV, cit.,
pp. 121 ss.
[97] Aen. 7,
259 ss.; 12, 160 ss. Più in generale, sulla concezione virgiliana dei
trattati si vedano: L. LERSCH, Antiquitates Vergilianae ad vitam populi Romani descriptae, Bonnae 1843, pp. 116 ss.; G. LURASCHI, v. Foedus, in Enciclopedia Virgiliana,
II, Roma 1985, pp. 546 ss.
[98] Livio 1, 24, 7-8. Sul testo liviano cfr. P. PREIBISCH, Fragmenta librorum pontificiorum, Tilsit 1878, p. 5 fragm. 22;
G. B. PIGHI, La
poesia religiosa romana, Bologna 1958, p.
34; G. DUMÉZIL, La religion romaine archaïque, cit., pp. 106
ss. (= La religione romana arcaica, cit., pp. 95 s.). Sugli aspetti religiosi del rito, vedi G. WISSOWA, Religion und Kultus der Römer, 2a ed., München 1912, pp. 552 ss.; K. LATTE, Römische
Religionsgeschichte, cit., pp. 121
ss., il quale però non ritiene autentica la formula liviana: op.
cit. p. 5 n.
[99] De off. 3, 108. Sull'importante
testo ciceroniano, quasi totalmente trascurato dalla dottrina
precedente, vedi ora gli studi di P. CATALANO: Cic. de off. 3, 108 e il così detto diritto internazionale
antico, in Synteleia Arangio-Ruiz, I, Napoli 1964,
pp. 373 ss.; Linee del
sistema sovrannazionale romano, cit., pp. 4 ss.
[100] Considerazioni sul complesso rituale della indictio
belli, supra cap.
II, pp. 91 ss. e relative nn.
[101] Cfr.
Varrone, De
vita populi Rom., fragm. 75 ed. Riposati = Nonio,
p. 850; D. SABBATUCCi,
La religione di Roma antica, Milano 1988, p. 193:
«Ora, dato che con la guerra si opera proprio contro la stabilità,
era come se si operasse contro Giove; dunque ci si
doveva cautelare nei riguardi di questo dio quando si voleva
indire una guerra, e i Feziali facevano appunto ciò con la loro
azione rituale che, tra l'altro, richiedeva una esplicita giustificazione, dalla quale risultasse che se i
Romani entravano in guerra la colpa era dei loro nemici».
[104] Aen. 12,
266: si tratta dell'augure Tolumnio, il quale provoca l'inizio
del combattimento, interpretando in maniera erronea l'augurio di Aen. 12, 244-256.
[106] Corrispondenza già
evidenziata da L. LERSCH, Antiquitates Vergilianae, cit., p. 43
s.: «Neque etiam sine ratione poeta Turno viginti equites socios videtur attribuere.
Quid? hic numerus omni significatione caret? Nihil
de hac re Servius monet alias harum rerum tam curiosus. Sed quum indictio
fetialium sit officium, Turnus itaque quasi fetialium princeps vel pater patratus sit
existimandus: viginti illos comites fetiales sint opportet».