Contardo Ferrini nel primo centenario dalla morte
Fede, vita universitaria e studio dei diritti
antichi alla fine del XIX secolo
La figura e l’opera di Contardo Ferrini a cento anni dalla morte sono state ricordate il 17 e il 18 ottobre 2002 con un convegno a Pavia, promosso dall’Università di quella città, dall’Almo Collegio Borromeo e dall’Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere.
Il convegno è stato pianificato guardando a Ferrini
in una duplice prospettiva: l’esperienza di vita come credente e
amministratore, e l’opera come romanista. Il desiderio di accostarsi a Contardo
Ferrini con la cura e la delicatezza dei tocchi del pittore veniva evocato,
subito, dall’immagine scelta per la locandina
del convegno: un ritratto fotografico di Mario Acerbi intento a dipingere la
pala d’altare della cappella dedicata a Ferrini nella chiesa del Carmine, a
Pavia[1].
La prima seduta, giovedì 17 ottobre, l’esatto
giorno anniversario, è stata prevalentemente dedicata alla rievocazione del
contesto sociale e culturale attraversato da Ferrini prima come studente, poi
come professore e amministratore. Gli interventi (di Annibale Zamberbieri,
Elisa Signori, Emilio Gabba, Antonino Metro
e Bernardo Santalucia) sono stati tenuti nella Sala degli
Affreschi del Collegio Borromeo,
quello stesso Collegio vicino al fiume, con le linee architettoniche che
“s’entusiasman di cielo”[2],
in cui aveva studiato Ferrini dal 1876 al 1880.
La seconda giornata, venerdì 18 ottobre, ha
ospitato contributi relativi all’attività scientifica di Ferrini. Ancora una
volta le relazioni (di Fausto Goria, Dario Mantovani, Antonio Mantello, Xenio
Toscani, Francesco Paolo Casavola e Giorgio Rumi) sono state avvolte dal
fascino di un ambiente speciale: la lignea Aula Volta del Palazzo
Centrale dell’Università di Pavia, dove Ferrini aveva insegnato ed era stato
ritratto dal pennello di Mario Acerbi. Nell’esperienza di romanista sono stati
individuati quattro filoni: diritto penale, diritto bizantino, giurisprudenza e
civilistica pandettistica. Questa partizione fu tracciata da Ferdinando Bona
in un saggio, ripubblicato in occasione del convegno in un opuscolo
edito da Valerio Marotta e da Giorgio Mellerio, che
contiene un’ampia bibliografia su Ferrini, testimonianza della diffusione del
suo nome nel mondo, che non manca di suscitare ammirazione.
L’apertura dei lavori è stata affidata a Don Ernesto
Maggi (Rettore del Collegio Borromeo), Giuseppe Zanarone
(Preside della Facoltà di Giurisprudenza di Pavia) e Dario Mantovani
(Direttore del Dipartimento di Diritto Romano, Storia e Filosofia del Diritto
dell’Università di Pavia).
Don Maggi ha ricordato la cifra essenziale
della vita di Ferrini: la ricerca della santità del fare fissando lo sguardo
all’infinito, oltre le mete parziali e i valori contingenti; Zanarone ha
ricordato il valore attuale delle discipline romanistiche; Mantovani
dopo aver letto il saluto e l’augurio di Antonio Padoa Schioppa
(Presidente dell’Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere) ha definito
il piano dei lavori e, per un’ideale ricomposizione del “mosaico dei luoghi
universitari Ferriniani” (Pavia, Messina, Modena, Università Cattolica del
Sacro Cuore di Milano dove riposa la salma), ha rivolto l’invito a presiedere
la prima e la seconda giornata di lavori rispettivamente a Giovanni Negri
(Preside della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica del Sacro
Cuore di Piacenza) e Renzo Lambertini (Preside della facoltà di
Giurisprudenza dell’Università di Modena e Reggio Emilia).
Zamberbieri ha calato Ferrini nel contesto ecclesiale e politico tra ‘800 e ‘900;
anni che vedevano avanzare la cultura laica e, parallelamente, affievolirsi la
presa sociale della Chiesa. Da quello sfondo Ferrini si staccava avvolto da un’
“atmosfera rarefatta” e da “una spiritualità che sembra emersa dalle nebbie di
altri tempi”. Il racconto si è snodato in tre parti: prima formazione,
maturazione spirituale, proiezione pubblica.
Ferrini era nato nel
Ferrini verso la maturità è stato poi seguito
durante gli studi all’Università pavese, al Borromeo, e durante il
perfezionamento in Germania. Il periodo borromaico vide il cuore e la mente del
giovane Contardo orientarsi definitivamente verso un ideale di esistenza
cristiana nutrita nell’ascesi individuale; ideale che nei momenti di svago
sublimava in un profondo amore per la natura, specialmente per il panorama
alpino, verso cui Ferrini, talvolta, si dirigeva in compagnia di Achille Ratti,
futuro Pio XI.
La proiezione pubblica di Contardo Ferrini, infine,
è stata vista lungo tre direttrici. Quella della “pubblicistica”, ispirata alla
riaffermazione dell’opzione di fede contro il razionalismo e il materialismo
(dai toni più suasivi che confutativi); quella della politica, cui partecipò
con prudenza; e, infine, quella dell’insegnamento,
dove avvertì la possibilità di una conquista di spazio sociale.
Elisa Signori, ha fotografato Contardo Ferrini intento a muovere i primi passi nel
“laboratorio politico della nuova Italia”, dove quasi tutti i partiti si erano
ormai disposti ad accettare lo stato unitario e a confrontarsi sul piano
elettorale.
Ferrini fu portato a Palazzo Marino dalla lista
Eclettica (o Contrattata, frutto di un accordo tra le organizzazioni cattoliche
milanesi e il partito liberale) quando aveva 36 anni. Venne candidato come
rappresentante del mondo cattolico e acconsentì per spirito di servizio. Fu un
conservatore garbato che fece pochi e cauti interventi, tutti pervasi da un
costante scetticismo verso le istituzioni terrene.
Sono state ricordate due occasioni di fattivo
impegno tecnico. La prima, lo vide opporsi al concentramento delle Opere Pie
parrocchiali che un progetto di Crispi mirava ad assorbire nella Congregazione
di Carità; Ferrini insieme ad altri colleghi firmò e istruì molti ricorsi
amministrativi. La seconda risale al 1895, quando fu membro della Commissione
“dei nove” a cui il Consiglio attribuì il compito di realizzare un progetto di
riassetto-unificazione tributario.
Nel 1898 Milano è in regime d’assedio. L’anno
successivo la breve esperienza amministrativa si conclude. Si era trattato di
un prestito provvisorio alla politica.
Gabba
ha rivisitato la ricchezza della vita accademica pavese nell’ultimo scorcio del
1800 quando, specialmente dopo la
liberazione delle province lombarde (1859), l’Università di Pavia conobbe un
forte sviluppo.
Il tratto fondamentale trasversale a tutte le
discipline universitarie insegnate in quegli anni fu la libertà dell’indagine e
della discussione.
A Pavia vi fu una prematura introduzione dei metodi
scientifici filologici di tipo tedesco[4].
La scuola matematica pavese, iniziata da Brioschi negli anni ’50, era
conosciuta anche nel mondo germanico. Müller, docente di filologia classica e
di storia lombarda, aveva adottato metodi di critica/lettura filologica dei
testi. La maggioranza dei membri dell’Istituto Lombardo di Milano, di cui
faceva parte anche Contardo Ferrini, insegnava a Pavia.
In città, la vita politica era vissuta con
un’energia che si riverberava anche in ambito accademico. Il mondo della
cultura fu, ad esempio, attraversato da una discussione sul ruolo e sui modi
dell’insegnamento universitario che ebbe come protagonista Ettore Ciccotti, in
cui si inserì anche Ferrini. Con un articolo pubblicato nel 1890 fra i
Rendiconti dell’Istituto Lombardo, egli si era confermato su una posizione
“elitaria”: aumentare le tasse, diminuire il numero degli studenti, favorire
l’accesso dei rappresentanti dei ceti superiori.
Metro ha ricordato (anche con il vivace ausilio della proiezione
di immagini) il periodo di insegnamento messinese di Ferrini, iniziato nel
1887. La permanenza nella città siciliana fu tutta segnata dalla sofferenza
causata dal distacco da Milano. La bellezza di quella terra, però, fu di
notevole conforto.
Il primo anno non fu facile. Gli studenti ereditati
in corso d’anno gli sembrarono impreparati e Ferrini, a sua volta, apparve
particolarmente severo. Molti studenti disertarono le lezioni e un giornaletto
universitario pubblicò un articolo sul “professore bigotto”. A riprova della
sua severità si conserva traccia di una bocciatura con zero trentesimi!
L’anno 1887-1888 andò meglio. Ferrini si trasferì
in una villa che dominava la città, lo stretto e la costa. Anche le lezioni
quell’anno furono frequentate con maggior interesse.
Alla fine del 1889 ottenne di essere chiamato a
Modena.
Anche a Messina Ferrini lasciò un ricordo fatto di
studio, insegnamento e preghiera: unico svago, l’amata natura.
Santalucia ha presentato un
quadro dell’opera penalistica di Ferrini, in cui il diritto romano viene non
raramente piegato ad un rapporto di strumentalità rispetto all’esperienza
moderna.
Il primo lavoro che si è soliti annoverare in
questo campo è rappresentato dalla tesi di laurea
discussa il 21 giugno 1880 con il titolo Quid
conferat ad iuris criminalis historiam Homericorum Hesiodeorumque poematum
studium. In verità, si trattò di un’opera più letteraria che giuridica.
Nel 1884, dopo il soggiorno tedesco, Ferrini
partecipò al dibattito giuridico che fermentava attorno all’imminente
pubblicazione del primo codice penale del Regno d’Italia e pubblicò il suo
primo vero studio penalistico: “Il tentativo nelle leggi e nella giurisprudenza
romana”. L’obiettivo della ricerca fu quello di trovare nelle fonti romane una
conferma della tesi dello zio Buccellati secondo cui il tentativo non andava
punito.
Anche la collaborazione nella redazione del “Completo
trattato teorico e pratico di diritto penale secondo il codice unico del Regno
d’Italia”[5]
fu un contributo essenzialmente ausiliario all’opera legislativa recentemente
promulgata: il fine era stato quello di fornire una base storica agli orientamenti
scientifici della scuola classica di Francesco Carrara.
L’occasione per modificare il taglio degli studi
penalistici gli venne offerta nel 1898, quando l’editore Hoepli gli affidò
l’incarico di scrivere una sintesi di diritto penale. Liberato dai limiti
imposti dalla legislazione moderna, Ferrini realizzò un’opera che, nonostante
le critiche per l’impostazione tecnico-dogmatica e per la netta separazione del
diritto sostanziale da quello processuale, resta il suo lavoro penalistico di
maggior rilievo.
Nel campo del diritto greco-romano, Ferrini era
consapevole di muoversi come un esploratore incompreso e solitario (era
convinto che molto fosse ancora da scoprire). La sua opera è stata distinta da Goria
in due periodi: il primo, dal 1882 al 1886 circa, dove l’interesse principale
fu rappresentato dalla Parafrasi greca delle Istituzioni e dagli scolii; il
secondo, che va da circa il 1896 alla morte, dedicato ai Basilici.
L’inizio delle ricerche di diritto bizantino risale
al soggiorno berlinese quando, dietro incoraggiamento di Alfred Pernice, e
anche grazie a materiali fornitigli da Zachariae von Lingenthal (che andava a
trovare nella sua tenuta nella Sassonia orientale dove lo studioso si era
ritirato), concepì il progetto dell’edizione della Parafrasi greca delle
Istituzioni.
Della sua opera è stato evidenziato lo spirito
altruistico (non teneva le scoperte per sé) e di servizio: il suo sforzo
principale fu, infatti, diretto all’edizione di fonti (indispensabili
per ogni ricerca ulteriore) che venivano messe a disposizione degli studiosi
non appena possibile, a volte anche a scapito della precisione. Una conferma di
questo spirito di servizio si trova nel fatto che le edizioni da lui curate
furono quasi tutte[6] accompagnate
dalla traduzione latina (a differenza di quelle dello Zachariae).
Sono trascorsi cento anni e le prime edizioni
risalgono a quando Ferrini ne aveva 25: di fatto, oggi, alcune non sono più
usate; quelle di cui ancora ci serviamo sono
Mantovani
ha collocato i lavori dedicati alle opere dei giuristi romani nel tempo e nei
luoghi attraversati da Ferrini. Ferdinando Bona percorrendo l’operato
scientifico di Ferrini aveva avvertito un’esigenza analoga: «Il “chi” e il
“quando” mi fornivano la chiave» di pagine «…troppo segnate dai caratteri del
tempo…»[7].
Il racconto ha preso avvio da una data: il 1880,
anno simbolico del rinnovamento della scienza giuridica italiana[8],
al cuore di un periodo di ritrovata simpatia per la “dotta Germania”. In campo
giuridico, il modello esegetico francese veniva abbandonato per quello tedesco,
cioè la pandettistica. Proprio nel 1880 Contardo Ferrini si laureava e partiva
per
Gli studi di Ferrini sui giuristi romani sono stati
divisi in tre fasi che segnano altrettante tappe di crescita in coincidenza con
l’acquisizione di nuove consapevolezze metodologiche.
La prima tappa corre dal 1885 al 1887, gli anni del
ritorno da Berlino, a cui risalgono gli
studi su Cascellio, Tuberone, Mela, Atilicino, Plauzio, Fulcinio Prisco,
Viviano, Ottaveno e Pedio. Sono indagini con un impianto ricorrente[9]
in cui i giuristi non vengono calati nel loro ambiente politico, culturale ed
economico, ma vengono piuttosto valutati per loro complessiva originalità
dottrinale, e racchiusi in bozzetti di tuttora viva espressività.
A partire dal 1887, le indagini sulla storia della
giurisprudenza non sono più intitolate a nomi di giuristi ma a opere.
L’abbandono delle indagini sui giuristi ha varie motivazioni: la pubblicazione
della Palingenesi di Lenel, che attrae lo sguardo sui profili d’ordine
sistematico, la nascente critica interpolazionista, che diminuisce la fiducia
di poter ricuperare l’identità dei giuristi e un crescente interessamento per
gli studi condotti con riferimento ad istituti.
Alla terza fase appartengono i lavori sulle fonti
delle Istituzioni di Giustiniano che, dal 1885, occuperanno Ferrini per 15
anni. Si tratta di ricerche che affrontano un problema giuridico in chiave
filologica. Ne è risultata un’opera che, per la sua stretta aderenza alle
fonti, resta la più nota e la più consultata.
La conclusione della relazione di Mantovani ha
rivelato il sapore delle cose che iniziano: «ogni indagine su Ferrini ci invita
a proseguirla». Un giudizio scientifico che s’accorda con un altro, spirituale,
che vuole che i beati siano gli uomini che non muoiono mai.
Mantello
ha offerto una sintesi delle scelte di fondo operate da Ferrini in relazione ai
modelli pandettistici che dominavano la scena giuridica dell’ultimo scorcio
dell’800.
Il punto di avvio ha coinciso con una
considerazione: nel quadro di quel fascio di esperienze giuridiche che vanno
sotto il nome di “metodo dogmatico sistematico”, ogni giurista aveva la sua
individualità. Nella stessa Germania non erano poi mancate istanze di studio
del “diritto romano storico puro” in contrapposizione al “diritto romano
attuale” (Lenel, Gradenwitz). Nell’Italia tardo ottocentesca, inoltre, l’entrata
in vigore del codice del 1865 aveva provocato mutamenti dottrinali
significativi. Il diritto romano stava cambiando natura, diventando sempre più
storicizzato.
Ferrini ebbe sempre la consapevolezza che nel diritto romano non si dovesse più cercare il diritto vigente, ma non si emancipò mai da impostazioni dogmatico-sistematiche e accettò la linea di Filippo Serafini, secondo cui il diritto romano è soprattutto quello giustinianeo esposto secondo la sistematica “tedesca”.
Secondo Mantello tutte le opere di Ferrini (sulla
giurisprudenza, sul diritto penale e su quello bizantino) sono state
strumentalmente piegate alla conoscenza dei dogmi giuridici visti nella loro
funzione e nel loro sviluppo.
Ferrini è stato situato lungo un crinale: quello
che divide l’epoca del diritto giustinianeo studiato come diritto vigente, da
quella in cui viene visto come fondamento delle legislazioni moderne.
Toscani ha ripercorso le tappe principali del cammino che
ha portato Contardo Ferrini agli onori degli altari.
Alla morte seguì uno cordoglio diffuso e la misura
del vuoto lasciato è provata dal fatto che vennero subito prese due iniziative:
una sottoscrizione per un ricordo marmoreo e la pubblicazione, nel 1903, di un
volume intitolato “In memoria del professor Contardo Ferrini”, che raccoglie
centinaia di testimonianze e commemorazioni scritte.
All’origine del processo di beatificazione vi fu il
sentire di un gruppo di amici (specialmente il collega Olivi e i conti
Mapelli), ma anche il significato simbolico che avrebbe potuto avere l’elevare
agli altari un professore universitario, come cruciale smentita della pretesa
inconciliabilità tra scienza e fede e come ostacolo formidabile alla prepotenza
dei modelli positivistici e massonici. Emerse così l’icona dello scienziato
credente e dello studio come via alla santità. Nel 1909 Pio X dichiarò «che
sarebbe stato lieto di elevare agli onori degli altari e di proporre a modello
un santo, un professore di università, poiché per i tempi che correvano ciò
sarebbe stato un grande esempio».
Non mancarono le critiche. Padre Rosa, gesuita e
influente collaboratore della Civiltà Cattolica, ricordò le tendenze liberali e
le abitudini alto-borghesi della cerchia famigliare di Ferrini, nonché la
partecipazione, anche se una volta soltanto, alle elezioni politiche in tempi
di non expedit.
Il processo apostolico si concluse alla fine del
1928. L’eroicità delle virtù fu proclamata nel 1931 da Papa Achille Ratti, il
suo antico compagno di passeggiate alpine. Papa Ratti, però, non procedette
alla beatificazione, per sottrarsi a un legittimo sospetto.
Contardo Ferrini venne proclamato Beato il 13
aprile del 1947, come ricordava anche il numero speciale dell’Osservatore
Romano, esposto insieme a molti altri documenti ferriniani in un’esibizione
allestita in occasione del Convegno.
Le conclusioni sono state affidate a Francesco
Paolo Casavola (Presidente dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana) e Giorgio
Rumi (Università di Milano).
Casavola
ha iniziato il suo intervento riproponendo il suggestivo ritratto di Ferrini
lasciato da De Francisci (che, a sua volta, aveva ripreso un’immagine di
Scialoja). Dalle “nebbie di altri tempi”, evocate da Zamberbieri all’inizio del
convegno, è riapparsa la figura di Ferrini che lasciava trasparire i sentimenti
di Grazia intrappolati nel suo corpo minuto, sentimenti che davano respiro alla
sua sete di conoscenza abbracciata alla fede cattolica.
Giorgio
Rumi ha fatto calare definitivamente il sipario dando un ultimo sguardo
all’epoca che ha ospitato la vita di Contardo Ferrini: sono stati toccati in
particolare i rapporti italo-tedeschi, le difficoltà vissute dal mondo
cattolico (su cui si spiegava il magistero di Leone XIII) e la questione
sociale.
Fra esperienza di vita e studio dei diritti
antichi, il Convegno ha seguito un percorso ispirato da profondo rispetto, ma
condotto secondo gli intenti della comprensione storiografica.
Università
di Parma
[2]
L’espressione è di Cesare Angelini. Egli aveva raccolto in un libretto “adatto
a stare in bocca ad un verdone” alcuni ritratti tra cui vi era “Contardo
Ferrini o la passione ricevuta dal cielo”.
[3] Di
questo zio sono stati ricordati il cattolicesimo profondamente vissuto ma
“liberale”, i consigli di metodologia scientifica, la grande disponibilità ad
aiutare i poveri, ma anche i rimproveri al nipote per i suoi eccessi nelle
pratiche devozionali.
[4] Quei
metodi, tradizionalmente ritenuti introdotti dopo il 1870, nel contesto pavese
avevano conosciuto un radicamento più rapido anche grazie alla diffusa
conoscenza della lingua tedesca che, a Pavia, fino al 1859, veniva insegnata
nei ginnasi e nell’università.
[6] Tradusse
le opere più importanti (Basilici, Parafrasi, Anecdota Laurentiana et Vaticana); rimasero senza traduzione gli
scolii a Teofilo, e il νόμος
γεωργικός.
[7]
Ferdinando Bona, Contardo Ferrini tra
storia e sistematica giuridica, Estr. da “Nuovo Bollettino Borromaico”, 20.
[8] La
storiografia assume come termini iniziali le prolusioni di due giovani
giuristi: Enrico Ferri, fondatore della sociologia criminale ed Enrico Cimbali;
due programmi rinnovatori a cui il relatore aggiunge la prolusione di Vittorio
Scialoja “Del diritto positivo e dell’equità” pronunciato nel 1879 e pubblicato
nel 1880.