N. 8 – 2009 – Tradizione
Romana
Università di Sassari
Episcopalis
audientia e arbitrato
Sommario: 1. Introduzione. – 2. L’arbitrato
classico. – 3. L’età
postclassica. – 4. Le
riforme di Giustiniano e l’arbitrato nelle fonti bizantine. – 5. L’episcopalis
audientia nelle fonti postclassiche, giustinianee e bizantine. – 6. Le fonti patristiche e conclusioni.
La ricerca ha preso le mosse dalla reazione
delle cancellerie imperiali dei successori di Costantino alla tanto discussa e
probabilmente autentica costituzione con la quale l’imperatore, nel 333,
stabilì che nelle contese civili si poteva ricorrere alla decisione del
vescovo anche su iniziativa di una sola parte, ed anche contro il volere
dell’altra, trasformando l’arbitrato del capo spirituale della
comunità, da sempre in uso fra i cristiani, in vera e propria
giurisdizione.
La riforma di Costantino, come è stato più
volte osservato, causava più problemi di quanti non ne risolvesse, tanto
che i suoi successori intervennero sulla questione a più riprese,
riconducendo la decisione del vescovo nel solco dell’arbitrato, ed accostandola all’intervento del patriarca nella
soluzione di contese civili fra correligionari, questione questa, peraltro,
molto discussa in dottrina[1].
Ben poco sappiamo delle norme che regolamentavano
l’istituto nella sua applicazione all’interno di comunità
religiose, e sulla questione torneremo tra breve. Conosciamo invece la
complessa ed articolata disciplina classica dell’arbitrato: ci si domanda
quali modificazioni questa disciplina abbia subito in età postclassica e
giustinianea, e se questa disciplina, o quanto di essa, trovasse applicazione
nel contesto dell’arbitrato del vescovo.
Delineiamo ora in estrema sintesi la disciplina classica
dell’arbitrato ex compromisso teso
alla risoluzione delle controversie in modo extragiudiziale[2].
La
definizione tecnica del termine viene offerta nel libro II ad edictum di
Paolo (D. 4.8.1): Compromissum ad similitudinem iudiciorum redigitur et ad
finiendas lites pertinet[3].
Qui si richiama la somiglianza dell’istituto al processo ordinario, in
quanto ugualmente rivolto alla composizione delle controversie[4].
Si trattava di un negozio complesso, nel quale, nella sua
versione ‘tipo’, suggerita dalla giurisprudenza repubblicana[5],
le parti[6]
si accordavano, con un patto denominato compromissum, per deferire la
lite ad un arbiter[7], o a più arbitri[8], e reciprocamente si promettevano, nella forma
della stipulatio, il pagamento di una somma da esigersi qualora
l’una o l’altra parte, prima o dopo la sentenza arbitrale, avesse
ostacolato o reso impossibile la piena attuazione del patto di cui sopra[9].
A sua volta l’arbitro scelto dalle parti si impegnava a
rendere la sentenza, anche in questo caso attraverso un patto, denominato receptum,
il receptum arbitri[10].
La
decisione dell’arbitro doveva essere accettata dalle parti, e ad essa si
doveva ottemperare. In caso contrario, il soccombente incorreva nella penale[11],
indipendentemente dal fatto che la sententia
apparisse giusta oppure ingiusta[12].
Come è noto né l’accordo fra le parti per
deferire la contesa ad un arbitro, né l’impegno dell’arbitro
a rendere la sentenza vennero mai considerati produttivi di obbligazione, ma
l’intero negozio, nella forma tipica descritta o comunque in una forma
che non ne stravolgesse le caratteristiche essenziali, godeva della tutela
della coercitio pretoria nei confronti dell’arbitro che non
assolvesse agli impegni assunti[13].
La sanzione per la parte che contravvenisse agli impegni
assunti con il compromissum era rappresentata dalla somma promessa con stipulatio,
esigibile attraverso una normale azione. In particolare le fonti sono
chiarissime nell’affermare che se una parte, nonostante il compromesso,
fosse ricorsa al giudice ordinario, nei suoi confronti l’altro non poteva
opporre un’eccezione di patto, ma poteva agire ex stipulatu[14].
Questo regime rappresenta una particolarità,
poiché è certo che normalmente in caso di patto garantito da
stipulazione penale lo stipulator aveva l’alternativa fra l’exceptio
pacti e l’actio ex stipulatu, tanto che secondo Ulpiano se
avesse scelto il primo, doveva rimettere l’obbligazione derivante dalla
stipulazione[15]. Sono
state avanzate diverse ipotesi per spiegare l’assenza di alternativa nel
caso di compromesso arbitrale[16],
e la migliore dottrina, in mancanza di una motivazione tecnica interna, fa
appello alla necessità di mantenere l’equilibrio fra le parti[17].
L’exceptio pacti, al contrario, era concessa quando il compromesso
fosse accompagnato dalla stipulazione penale di una sola parte[18]:
in questo caso è evidente l’esigenza di equilibrio, poiché
l’improponibilità dell’eccezione avrebbe lasciato il
promittente privo di tutela. Ad un compromesso di tal fatta, tuttavia, proprio
per la mancanza delle reciproche stipulazioni, non veniva concessa la tutela
della coercitio pretoria[19].
Le fonti relative all’arbitrato
sicuramente risalenti all’età postclassica sono veramente poco
numerose. Nella compilazione
giustinianea non si rinvengono testimonianze di modifiche apportate
all’istituto nel periodo postclassico. In particolare, nel Codice di
Giustiniano, sotto il titolo 2.55(56) de
receptis, si conservano 3 costituzioni del III secolo d.C. (di Antonino
Pio; di Caro, Carino e Numeriano; di Diocleziano e Massimiano), a cui fanno
seguito tre leges giustinianee
emanate tra il 529 e il 531 d.C. L’assenza di precedenti modifiche,
risalenti all’età postclassica, potrebbe essere l’indizio di
come nella prassi non fossero sorte questioni tali da richiedere
l’intervento imperiale[20].
I tentativi, da parte della dottrina meno recente, di
individuare modificazioni postclassiche attraverso ipotesi di interpolazione di
passi tramandati nel Digesto si sono mostrati infruttuosi[21].
In realtà, non ci sono state tramandate disposizioni che riguardassero
in modo specifico l’arbitrato, se non con riferimento da un lato alla
prassi diffusa nella comunità ebraica di rivolgersi al proprio patriarca
per la soluzione di controversie civili, tema per altro ancora dibattuto in
dottrina[22], e
d’altro lato all’attività nella stessa direzione dei vescovi.
In ogni caso sappiamo per certo che l’arbitrato
continuò ad essere utilizzato, in forme probabilmente non lontane da
quelle classiche, dato che in alcune costituzioni si menzionano gli arbitri
sponte delecti ed anche il compromissum[23].
A questo proposito è particolarmente
significativa una costituzione di Arcadio ed Onorio, in C.Th. 2.1.10, in cui si
consente agli ebrei di sottomettere le loro liti civili al patriarca,
rispettando però le forme dell’arbitrato romano: “Sane si qui per
conpromissum ad similitudinem arbitrorum, apud Iudaeos vel patriarchas ex
consensu partium in civili dumtaxat negotio putaverint litigandum, sortiri
eorum iudicium iure publico non vetentur”[24].
Quindi in età postclassica ritroviamo un modello
analogo a quello classico, almeno per quanto riguarda l’accordo fra le
parti e la scelta dell’arbitro. Per quanto attiene, invece, alla stipulatio
poenae la situazione sembra mutata. In realtà non abbiamo per il
periodo in esame documenti che menzionino ancora le stipulazioni reciproche,
mentre emerge in primo piano la pena, la poena compromissi di C.Th.
15.14.9, del 395[25] e di C.
2.55(56).5 pr. di Giustiniano, del 530[26].
Significativo a questo proposito già il confronto fra C. 2.55(56).1, di
Caracalla, in cui si sottolinea che “ob hoc invicem poena promittitur,
ut metu eius a placitis non recedatur”[27], e C.
2.55(56).2, del 283, dove si dice “Si contra compromissum adversarius
tuus apud electum arbitrum praesentiam sui facere detrectavit, placitae poenae
videtur obnoxius”: in
questa seconda costituzione sfuma la netta distinzione fra i placita e
la promessa della pena tesa a garantirne l’osservanza[28].
Nel periodo in esame, inoltre, sembra aver avuto una certa diffusione la prassi
del compromesso giurato[29],
sancita poi da Giustiniano nel 529.
Nel 529, appunto, Giustiniano emanò una
costituzione, tramandata in C. 2.55(56).4[30],
con la quale, riconoscendo la prassi di concludere compromessi giurati (dal principium risulta evidente che non era
una novità introdotta dall’imperatore[31])
- ai quali si aggiungeva anche il giuramento dell’arbitro di cui al
§ 1 -, ne regolamentava la forma e le conseguenze, disponendo
altresì per il caso in cui solo le parti, oppure solo l’arbitro
prescelto, avessero giurato.
Ancora ad una prassi presumibilmente sorta in
età postclassica si riferisce il § 6 della stessa costituzione, in
cui Giustiniano dispone che la sentenza dell’arbitro poteva essere
accettata per iscritto dalle parti usando svariati termini (egli elenca alcuni
verbi greci, evidentemente i più usati), e che tale accettazione doveva
essere ritenuta valida anche se il documento non conteneva alcun riferimento
alla stipulatio[32].
Nel caso di giuramento - nelle tre ipotesi,
delle parti e dell’arbitro, o solo delle parti, o solo dell’arbitro
- dice l’imperatore (§ 4) “liceat vel in factum vel
condictionem ex lege vel in rem utilem instituere, secundum quod facti qualitas
postulaverit”. Nell’ipotesi
di sentenza arbitrale accettata per iscritto dalle parti, si direbbe con o
senza giuramento o giuramenti, si dispone che “omnimodo per actionem
in factum eum compelli ea facere quibus consensit” (§ 6): in sostanza con queste disposizioni,
che non sancivano certo l’esecutorietà della sentenza arbitrale,
si finiva per ottenere un risultato ad essa abbastanza vicino.
Interessante poi è il § 5, in cui
Giustiniano dispone che qualora mancasse la prova scritta del giuramento,
“non aliquid robur iudicatis inferat, sed in huiusmodi casu haec
obtineant, quae veteres super arbitris eligendis sanxerunt”. Se i veteres sono i
giuristi classici, la disciplina richiamata è quella che sarà poi
contenuta nel Digesto. Al di là delle parole della costituzione, sembra
potersi dedurre che l’accordo per deferire una controversia ad un arbitro
e l’accettazione di quest’ultimo potevano ancora avvenire senza
alcun giuramento né alcuna accettazione scritta della sentenza, nella
forma, probabilmente, del compromesso penale, oppure anche senza alcuna poena
compromissi, con le conseguenze nel caso di previsione della pena,
dell’azione diretta ad ottenerne il pagamento, nel caso di assenza di
previsione di pena, della concessione dell’exceptio pacti.
Che queste ipotesi fossero praticabili, e che
quelle dette ne fossero le conseguenze, risulta da C. 2.55(56).5, una
costituzione con la quale nel 530 Giustiniano tornava sul tema
dell’arbitrato[33].
Nel principium l’imperatore afferma che già in passato era
stato stabilito che in caso di accordo privo di poena compromissi il
convenuto assolto poteva opporre l’exceptio pacti, mentre il
vincitore non aveva modo di costringere l’altra parte ad ottemperare alla
sentenza arbitrale, e questo - dico io - era anche il regime classico nel caso
di compromesso non accompagnato dalle reciproche stipulazioni penali. Ora
però si dispone che nel caso descritto, se le parti dopo la sentenza
dell’arbitro ne esprimono per iscritto l’accettazione, allora non
solo il convenuto assolto potrà opporre l’exceptio pacti ad
una eventuale azione dell’altro, ma il vincitore potrà agire
“in factum, … quatenus possit sententia eius [dell’arbitro]
executioni mandari”.
E’ evidente che in questo modo si sovvertiva completamente il regime
classico. Nel § 1 si aggiunge che se entro 10 giorni nessuno avesse
comunicato, all’altra parte o all’arbitro, il proprio dissenso, la
sentenza si intendeva accettata. Nel caso di manifesto dissenso si torna a
quanto disposto nel principium.
Bisogna
sottolineare con Talamanca che Giustiniano, nel concedere un’azione in
factum, non tutelava la promessa di stare alla sentenza arbitrale, promessa
invece a cui si riferisce D. 4.8.27.7[34];
l’azione prevista dall’imperatore era connessa
all’accettazione delle parti della decisione arbitrale già
emanata, e quindi l’actio in factum era di carattere esecutivo[35].
Con
riferimento invece al compromesso rimaneva ancora l’alternativa fra la
pattuizione della pena e, in sua mancanza, l’exceptio pacti.
Ciò emerge anche dall’ultima costituzione del titolo de receptis, in cui Giustiniano vietava alle donne di svolgere la funzione di
arbitro compromissorio, in modo che dalla loro scelta non sorgesse alcuna pena
od exceptio pacti[36].
Le costituzioni di Giustiniano sin qui esaminate
a mio avviso risultano ispirate ad un criterio di fondo, quello
dell’economia dei mezzi processuali, in virtù del quale nelle
più diverse ipotesi di compromesso arbitrale si tende a dare
validità alla sentenza dell’arbitro e a favorirne per quanto
possibile l’esecuzione, senza arrivare tuttavia a sancirne
l’esecutorietà. Per fare ciò si sovvertono i principi
classici, che finiscono per trovare applicazione solo nell’ipotesi di
compromesso senza giuramenti e senza poena compromissi, che abbia dato
origine ad una sentenza arbitrale disconosciuta da almeno una delle parti entro
dieci giorni dalla sua emanazione.
L’intento di garantire per quanto possibile
l’osservanza della sentenza arbitrale giustifica poi l’accostamento,
più volte osservato, dell’attività dell’arbitro ex
compromisso alla giurisdizione ordinaria[37], continuando una tendenza che si riscontra già dalla fine
del IV secolo[38].
Particolarmente significative le affermazioni
contenute in C. 3.1.14.1: “vel qui ex iurisdictione sua
iudicandi habent facultatem vel qui ex recepto (id est compromisso, quod
iudicium imitatur) causa dirimendas suscipiunt”, e in Nov. 113.1.1 (nella traduzione latina: “Sed
etsi quis iudicum sua salute contempta ex eiusmodi aliquo praecepto sententiam
ferre ausus sit, eam ita irritam esse volumus, ut ne appellatione quidem
indigeat neque poenam ex compromisso inducat”)[39],
mentre per le fonti postaclassiche non propriamente di accostamento si
trattava, ma, direi, di pura elencazione l’una accanto all’altra
delle diverse situazioni nelle quali si poteva pervenire alla soluzione di una
controversia.
Nel 539 Giustiniano tornò sul tema
dell’arbitrato con la Nov. 82, al capitolo undicesimo. Qui
l’imperatore, nel principium,
lamenta che l’uso del compromesso giurato dava origine a molte
difficoltà, a causa in particolare della scelta di arbitri non adatti a
svolgere il loro compito. Le parti giuravano di osservarne la sentenza, ma poi,
pentiti, cercavano di sottrarsi all’impegno, commettendo spergiuro. Per
porre rimedio a questa situazione l’imperatore, al § 1, vieta
l’uso per il futuro di scegliere un arbitro giurando l’osservanza
della sua sentenza, ed impone, si direbbe in modo esclusivo, la conclusione del
compromesso arbitrale con la promessa reciproca di una pena nella misura
stabilita tra le parti, che doveva funzionare come una multa da pagarsi da
parte di chi non intendesse sottostare alla sentenza arbitrale, ma rivolgersi
ad altro giudice (si dice proprio “›teron ... dikast»n”, altro giudice, come se l’arbitro fosse
un giudice. Da notare anche che si torna a fare menzione della stipulatio).
Costui se adito dovrà curare che la pena venga pagata e attribuirla a
chi di dovere[40].
Ancora
una volta sembra di poter cogliere la stessa tendenza di fondo evidenziata per
gli interventi del 530-531: volontà di garantire per quanto possibile
l’osservanza della sentenza arbitrale, e rendere almeno costoso, se non
impossibile, il ricorso ad altro giudice. Nella forma un compromesso più
vicino al modello classico, nella sostanza quanto mai lontano.
Come a suo tempo ha sottolineato Talamanca, la
riforma di Giustiniano del 539 genera una tensione irrisolta dal punto di vista
sistematico fra una concezione ‘penitenziale’ della poena
compromissi (paga la pena chi non sottostà alla sentenza arbitrale
ed intenta un processo dinnanzi al giudice ordinario), e la concezione classica
della stessa pena come sanzione per chi vien meno agli obblighi assunti[41],
e questa tensione non viene risolta nemmeno nelle successive fonti bizantine.
Al tema è dedicato il titolo secondo del settimo libro dei Basilici, dove sono
riportati tutti i frammenti di D. 4.8 (de receptis: qui arbitrium receperint
ut sententiam dicant) e parte delle costituzioni raccolte in C. 2.55(56) (de
receptis). Fra le costituzioni giustinianee viene richiamata solo la c. 6,
mentre non vengono ricordate le costituzioni del 529 e 530, evidentemente
perché superate dalla successiva riforma di Nov. 82. Quest’ultima,
tuttavia, è contenuta nel titolo precedente, dedicato ai giudici
ordinari, probabilmente poiché essa prevalentemente riguarda quella
materia. D’altra parte nei Basilici si osserva un avvicinamento
sistematico - ma di certo non un’assimilazione - proprio fra arbitri e
giudici ordinari[42], tanto che nel libro
settimo il titolo dedicato agli arbitri compromissori viene collocato fra il
primo riguardante i giudici ordinari[43],
ed il terzo, dedicato all’ordo
iudiciorum e alla iurisdictio[44].
Nei Basilici, dunque, vengono riportate tanto la
disciplina classica quanto le riforme giustinianee. Ciò nonostante
soprattutto dagli scholia sembra potersi dedurre
l’impossibilità di concludere validamente un compromesso sine
poena.
In realtà vi sono due scoli in cui si
parla di arbitri scelti senza la previsione di alcuna pena, però di essi
uno con ogni probabilità si riferiva all’arbitrato del vescovo, e
ne parleremo in seguito[45].
Il secondo suscita alcune perplessità, in quanto si tratta di un
‘nota bene’ (shme…wsai) posto da Heimbach a conclusione del kata
podas di C. 2.3.29, considerato invece da Scheltema come uno scolio
autonomo. Il commentatore riprende la
tripartizione contenuta in C. 2.3.29.2 tra iudices pedanei,
compromissarii (identificati qui con gli arbitri nominati dai magistrati)
ed arbitri electi, aggiungendo però che la norma contenuta
nella costituzione si applicava fossero essi scelti con la stipulatio poenae,
oppure anche senza[46].
Resta un dubbio, alla cui soluzione ci si potrebbe avvicinare
riuscendo a datare almeno con una qualche approssimazione il ‘nota
bene’ di cui si tratta, il dubbio, dicevamo, se il commentatore
bizantino, nella volontà di tenere conto di tutte le ipotesi possibili
di ‘arbitri eletti’, abbia pensato alla disciplina giustinianea
anteriore alle Novelle, oppure se gli arbitri scelti senza stipulatio poenae
fossero membri del clero, segnatamente i vescovi, ai quali, come vedremo, le
parti si rivolgevano appunto con un compromesso sine poena. In C. 2.3.29[47]
si trattava infatti di privilegium fori di militari, funzionari e membri
del clero. Vero è che in questa seconda ipotesi l’osservazione del
commentatore non avrebbe un gran senso, perché se un membro del clero
rinunciava al privilegium fori, significa che accettava di essere
giudicato da un giudice o da un arbitro civile, e quindi avrebbe potuto anche
fare un compromissum cum poena. Il desiderio di completezza, tuttavia,
potrebbe in qualche modo aver compromesso il rigore del ragionamento.
Segnalo ancora uno scolio a Bas. 7.2.14[48],
corrispondente a D. 4.8.14, in cui si afferma che, mancando nel compromesso un
termine per la sentenza arbitrale, l’arbitro – per dirlo con le
parole di Pomponio – “omni tempore cogendus est sententiam
dicere”. Ebbene il
commentatore bizantino, evidentemente nell’ottica di garantire per quanto
possibile una rapida soluzione delle controversie, aggiunge che comunque la
sentenza arbitrale dovrà essere resa entro tre anni, così come
tutte le cause civili si dovevano concludere entro il triennio. Si rinviene quindi nei Basilici una possibile volontà di
seguire idealmente la politica giustinianea tesa ad economizzare le misure
processuali.
Tornando un poco indietro nel tempo ricordo ancora
che ci sono pervenuti diversi papiri, di epoche diverse, contenenti compromessi
arbitrali[49]: da essi
risulta che le parti erano solite convenire una pena da pagarsi in caso di
inosservanza dei doveri assunti, talvolta rafforzando l’impegno con un
giuramento, e ciò anche dopo la riforma di Giustiniano del 539[50].
Come è noto sin dalle origini invalse
l’uso, nella comunità cristiana, di deferire le controversie
civili ad arbitri scelti all’interno della stessa comunità, sulla
scorta di una sollecitazione contenuta in una lettera di Paolo[51],
divenuta con il tempo norma canonica, ed anche
sulla base di precetti evangelici[52].
L’invito paolino era ispirato dalla volontà di evitare le
intrusioni di infideles, e dall’intento di celare
eventuali dissapori interni, richiamando la
verecundia dei fedeli[53].
Non
disponiamo di fonti che
ci consentano di stabilire con certezza quale considerazione ebbe in età
precostantiniana l’arbitrato dei capi spirituali delle comunità
cristiane[54],
né sappiamo se - e fino a quando - esso poté essere considerato
equivalente a quello dei capi spirituali delle comunità ebraiche. Per
quanto attiene a queste ultime, l’unico dato normativo a noi pervenuto
è una costituzione del 398 di Arcadio e Onorio, tramandata in C.Th. 2.1.10[55].
La norma stabiliva che i giudizi in materia civile emessi dal patriarca, o da
qualunque giudeo[56], divenissero esecutivi
per mezzo dei funzionari provinciali, in quanto assimilati alle sentenze dei
giudici dati. Per quanto riguarda il periodo precedente, gli ebrei non si
sottoponevano al giudizio dei tribunali romani[57]
ma, come ha sostenuto una parte della letteratura[58],
si rivolgevano a vere corti giudicanti ebraiche riconosciute da Roma sino
all’emanazione di C.Th. 2.1.10, oppure, come è stato ipotizzato da
un’altra parte della letteratura, ricorrevano alla pratica
dell’arbitrato presso i giudei in Palestina[59].
Probabilmente lo stesso Paolo di Tarso nella sua lettera ai Corinti doveva aver
presente quanto succedeva nelle comunità ebraiche[60],
e si può ipotizzare che l’episcopalis audientia abbia
trovato origine in precedenti ebraici, come ha ben evidenziato Volterra, per
cui quando ancora i Romani non distinguevano la comunità giudaica dai primi
cristiani, l’episcopalis audientia era ritenuta una giurisdizione
propria degli ebrei e ad essa si applicava la normativa relativa a quella
comunità religiosa[61].
Per quanto ci concerne conviene prendere spunto dalla
costituzione di Costantino del 333, la tanto discussa C.Sirm. 1[62].
Precedentemente Costantino si era
già occupato della materia con una costituzione conservata in C.Th.
1.27.1 (= C.Sirm. 17)[63]
del 318 (o del 321[64]),
dove si parla di episcopale iudicium[65].
La costituzione permetteva alle parti di abbandonare il giudizio ordinario per
rivolgersi al tribunale episcopale sulla base della lex Christiana[66], prescrivendo la non
opponibilità dei giudici al trasferimento del contenzioso di fronte al
vescovo[67],
ed inoltre sanciva la forza esecutiva
delle sentenze rese dallo stesso vescovo[68].
D’accordo con quella che oggi è forse la
dottrina prevalente, ritengo la C.Sirm. 1 autentica[69].
In essa l’imperatore, con una ‘generosità’ forse
eccessiva[70],
disponeva fra l’altro che per le liti civili[71]
si potesse ricorrere al tribunale del vescovo anche su iniziativa di una sola
parte e contro il volere dell’altra, che le sentenze del vescovo fossero
inappellabili[72] ed
eseguite a cura dei giudici ordinari ed ancora che contro di esse non si
potesse chiedere alcun provvedimento restitutorio motivato dalla minore
età dell’una o dell’altra parte. A ciò si aggiungeva
che dinnanzi al vescovo non potevano essere fatti valere i termini di
prescrizione, e che la testimonianza di un solo vescovo doveva essere ritenuta
sufficiente ai fini della prova. Appare chiaro che l’attività
episcopale, alla luce di queste norme, non può essere configurata come
‘arbitrale’, bensì come ‘giurisdizionale’[73].
Difficile
sapere quale fosse la procedura in seguito alla legislazione costantiniana[74].
Da C.Th. 1.27.1 e da C.Sirm. 1 apprendiamo che il ricorso al iudicium
episcopalis era ammesso in qualsiasi momento, prima e durante il giudizio
ordinario, ed anche quando la sentenza stava per essere pronunciata. Da una
lettera inviata da Q. Aurelio Simmaco al vescovo Ambrogio risulta confermata la
possibilità per ciascuno di chiedere ed ottenere che la controversia
fosse sottoposta al vescovo anche contro il volere dell’altra parte. Il
vescovo però poteva non accettare l’incarico, tanto è vero
che Simmaco chiedeva ad Ambrogio di non recipere la controversia di
carattere pecuniario mossa contro l’amico Ceciliano, prefetto
dell’annona[75].
Dalla fonte inoltre appare come la controversia non si fosse ancora instaurata
presso un giudice ordinario, dato che Simmaco rammenta al vescovo che
l’attore aveva ogni possibilità di rivolgersi alla giurisdizione
ordinaria (“Sunt fora, sunt leges,
sunt tribunalia, sunt magistratus, quibus litigator utatur salva conscientia
tua”).
La trasformazione
costantiniana in vera giurisdizione della prassi inveterata di sottoporre ai
vescovi controversie civili, comportò la necessità di dare
esecutività alla sententia episcopale, che, ricordiamo, veniva
definita inappellabile, attraverso l’azione di funzionari secolari, dato
che la minaccia di pene spirituali[76]
non avrebbe avuto efficacia nei confronti di un’eventuale parte pagana,
quale era appunto Ceciliano. Va detto inoltre che probabilmente questa azione
di supporto non doveva essere limitata al solo ambito esecutivo, dato che
l’assenza di coercitio per il vescovo comportava problemi, ad
esempio, per obbligare le parti alla comparizione al suo cospetto. Eppure,
dalla lettera di Simmaco al vescovo cristiano, in piena vigenza della C.Sirm.
1, si direbbe emergere che il convenuto, pur essendo un praefectus annonae,
non poteva esimersi dal presentarsi al cospetto del vescovo.
La
lettera risulta interessante per un’altra questione: il funzionario
risiedeva evidentemente a Roma[77],
eppure si intendeva sottoporre la causa ad Ambrogio, quindi a Milano. Poco
purtroppo emerge dall’epistola, per cui si può procedere solo per
ipotesi: forse Ceciliano si trovava a Milano per motivi legati al suo ufficio,
oppure l’attore, il misterioso Pirata, risiedeva in questa città.
Comunque v’è da chiedersi se il vescovo non possedesse gli stessi
vincoli processuali dei giudici ordinari[78].
Appare
interessante anche una lettera di Ambrogio da cui sappiamo che il vescovo fu
chiamato a dirimere una controversia civile che stava per essere decisa dal
prefetto del pretorio, controversia mossa da un tale Leto contro la propria
sorella e il fratello, il vescovo Marcello[79].
I patroni avevano chiesto una breve proroga per trasferire la causa al vescovo
di Milano[80], in quanto entrambe le
parti avevano un proprio interesse a questo deferimento[81].
Per la difficoltà e le possibili conseguenze nefaste di una sentenza,
che avrebbe comportato l’instaurarsi di nuove liti future tra le parti,
il vescovo chiese ai contendenti la rinuncia al giudizio, per presentarsi
dinnanzi a lui in veste di arbitro[82].
Sarebbe questo il motivo per cui Ambrogio nella sua lettera richiama
l’insegnamento di Paolo di Tarso[83],
senza far alcun riferimento alla C.Sirm. 1, che permetteva il trasferimento al
vescovo di una lite giudiziaria già intrapresa presso i tribunali
ordinari[84]. Del resto, il
deferimento all’arbiter in costanza di giudizio ordinario era
compatibile anche coll’arbitrato ex compromisso. In età classica, infatti, le parti potevano abbandonare un giudizio ordinario per rivolgersi a un arbitro:
ciò risulta da un frammento ulpianeo, che fa riferimento al divieto
imposto al giudice da una legge Giulia di fare da arbitro nella stessa causa:
D. 4.8.9.2 (Ulp. 13 ad
ed.): Pomponius libro trigensimo
tertio scribit. Si quis iudex sit, arbitrium recipere eius rei, de qua iudex
est, inve se compromitti iubere prohibetur lege Iulia: et si sententiam
dixerit, non est danda poenae persecutio[85].
Per quanto attiene al rapporto tra normativa imperiale e operato
del vescovo, si deve ricordare come Ambrogio, in un’epistola inviata nel
386 al giovane Valentiniano ii[86],
richiami l’azione costantiniana in ambito religioso in maniera
«alquanto riduttiva»[87],
senza far riferimento alle costituzioni relative all’episcopalis
audientia. Nel pensiero ambrosiano, tuttavia, non si riscontra alcuna
cesura rispetto alle leges, anzi Ambrogio sostiene che il vescovo doveva
giudicare “juxta leges et jura” [88], quindi con un
particolare richiamo al rispetto del diritto oggettivo[89].
Il rimando alla normativa imperiale in materia di episcopalis
audientia si trova anche negli scritti di Agostino:
... ille autem contra quem prolata fuerit, et si iam effringi non potest,
quia tenetur iure forte non ecclesiastico, sed principum saeculi, qui tantum
detulerunt Ecclesiae, ut quidquid in ea iudicatum fuerit, dissolvi non possit;
si ergo effringi non potest, iam non vult intueri se, et caecos oculos dirigit
in iudicem, detrahit quantum potest[90].
Qui si fa riferimento
all’impossibilità, sulla base del diritto secolare, di trasgredire
(effringere) la decisione episcopale da parte di colui contro il quale
era stata emessa. Agostino, infatti, afferma che sono stati proprio i principes
saeculi, «cioè gli imperatori romani»[91],
a deferire tantum alla Chiesa.
L’attenzione verso il diritto secolare appare anche da una
delle epistole agostiniane pubblicate da Johannes Divjak nel
1981[92].
Qui, nel periodo antecedente il 422 o il 428, Agostino richiama il precetto
paolino teso a far regolare le controversie secolari sorgenti tra fedeli
all’interno della Chiesa, e trova l’occasione per lamentarsi del
peso di tale incarico. La lettera, inviata ad Eustochio, un giurista, conteneva
la richiesta di insegnamenti giuridici, proprio per dirimere le liti tra cristiani[93].
Le questioni trattate riguardano in particolare lo status personarum (lo
status del figlio di una donna libera e di uno schiavo, del figlio le
cui opere erano state vendute dal padre per un certo numero di anni dopo la
morte del genitore; la possibilità di un uomo libero di vendere il
proprio figlio come schiavo; la possibilità per le madri di vendere le operae
dei propri figli; altri problemi relativi ai coloni e agli amministratori).
Sicuramente queste questioni - di tipo strettamente ‘familiare’, ma
comunque squisitamente giuridiche[94]
- dovevano oberare costantemente i vescovi impegnati a rappacificare i fedeli.
Altre fonti patristiche sostengono che i vescovi nei loro giudizi
dovevano attenersi alle leggi romane[95]. In realtà, è difficile porsi il problema dei
principi ai quali si ispiravano i vescovi nelle cause civili[96],
dato che nemmeno per l’arbitrato ex compromisso – secondo la
dottrina prevalente - era stata fissata alcuna regola[97].
Ovviamente i vescovi si ispiravano ai principi della Chiesa, ma la loro
cultura, anche giuridica, doveva portarli all’adeguamento della sentenza
ai dettati normativi del diritto romano, eventualmente interpretato alla luce
di principi etico religiosi[98].
Con
i successori di Costantino sopravvenne un’inversione di tendenza rispetto
alla politica costantiniana, in quanto la sentenza del vescovo in materia
civile riassunse carattere arbitrale. Con C. 1.4.7 del 398[99]
e C.Th. 1.27.2 del 408[100]
(riprodotta in maniera parziale in C. 1.4.8[101]),
Arcadio ed Onorio disposero che per sottoporre le contese civili all’audientia
del vescovo era necessario il consenso delle parti, ed in particolare la
seconda costituzione stabilisce che l’episcopale iudicium reso
dietro libera scelta delle parti ricevesse la stessa reverentia delle sentenze
dei prefetti del pretorio, e quindi fosse inappellabile ed esecutivo[102].
Nel 438, Nov. Theod. 3.7 stabiliva una deroga al divieto per gli
ebrei e per altre sectae di essere
giudici, dando esecutività ai lodi arbitrali che venivano pronunciati
all’interno di queste comunità religiose attraverso l’azione
di funzionari pubblici (adparitores)[103].
Si conferma, dunque, la ratio della legislazione di Arcadio e Onorio,
tesa a porre ordine alla materia dopo le costituzioni costantiniane, che poneva
sul medesimo piano le decisioni arbitrali espresse in seno a comunità
religiose, offrendo loro esecutività, e distinguendole dai giudizi
ordinari.
Ancor più resoluto Valentiniano iii, che nel 452, con la famosa Nov.
Val. 35 pr., stabilì tra l’altro che per le cause civili si
potesse ricorrere al giudizio del vescovo solo se ambudue i contendenti, laici
o chierici, fossero d’accordo, e che l’accordo dovesse essere
espresso e precedere il ricorso al vescovo[104]
(“praeeunte … vinculo compromissi”)[105].
La necessità del compromissum venne poi abolita da Maggioriano in caso di controversia fra
chierici[106].
La legislazione successiva sia in Occidente, sia in Oriente,
si mantiene sulla stessa linea, almeno per le liti fra laici, mentre per le
liti fra chierici o miste il tema si confonde con quello del riconoscimento o
meno di un privilegium fori ai membri della Chiesa[107].
Le tendenze di fondo già espresse nel codice
Teodosiano e da Valentiniano iii
emergono dalle norme contenute nel codice Giustinianeo: esclusione di qualsiasi
foro privilegiato per i chierici, fatta eccezione per la materia ecclesiastica,
e possibilità di ricorrere volontariamente al vescovo per le contese
civili[108].
Parzialmente diverso è il quadro che emerge dalle Novelle, la 79[109],
la 83[110] e la 86[111], tutte del 539, non tanto, però, per
l’arbitrato del vescovo in contese civili fra laici o miste, quanto sotto
il profilo del riconoscimento del privilegium fori anche in materia
civile ai membri della Chiesa.
Diversamente per il caso previsto dalla Nov.
123, del 546, al capitolo 21 pr., per il quale è arduo dire se si
configuri un caso di esercizio della giurisdizione da parte del vescovo, oppure
qualche cosa di diverso, comunque difficile da definire. L’ipotesi
è quella che un chierico, oppure un monaco o una monaca o comunque una
donna dedita alla vita religiosa, venissero convenuti in un giudizio civile:
Giustiniano dispone - senza specificare la qualità di chierico o di
laico dell’attore, e quindi forse in ambedue i casi - che sarebbe stato
competente il vescovo loro superiore. Se le parti troveranno giusta la sua
sentenza, la stessa sarà eseguita a cura delle autorità civili.
Se al contrario entro 10 giorni l’una o l’altra parte avesse
espresso il proprio dissenso, la causa sarebbe stata sottoposta al giudice del
luogo: se costui avesse confermato la sentenza del vescovo, la stessa diveniva
esecutiva, con esplicita esclusione di qualsiasi appello; al contrario, se il
giudice laico avesse deciso diversamente dal vescovo, la sua sentenza sarebbe
stata regolarmente appellabile[112].
Non si tratta di un vero e proprio
riconoscimento di un privilegium fori, data la possibilità di
dissentire anche unilateralmente dal giudizio del vescovo e portare quindi la
causa dinnanzi al giudice civile, né si tratta in senso proprio di un
arbitrato, poiché l’attore era costretto in prima battuta a
rivolgersi all’episcopalis audientia, anche se nel § 2 dello
stesso capitolo si dice che in caso di ritardo del vescovo nel prendere visione
della causa l’attore poteva rivolgersi direttamente al giudice laico[113].
Sicuramente siamo più vicini all’attribuzione di un potere
giurisdizionale, e ciò potrebbe ritenersi confermato dalla
possibilità conferita alle parti di dissentire e di ricorrere al giudice
civile, il che in buona sostanza configura una sorta di appello.
In questo senso è significativa anche
l’ultima disposizione del pr., dove si prescrive che nel caso in cui il
vescovo fosse stato delegato a giudicare dall’imperatore o da un altro
giudice, la sua sentenza sarebbe stata appellabile solo davanti allo stesso
imperatore o al giudice delegante.
In qualsiasi modo si voglia configurare
l’intervento del vescovo nel caso esposto, dobbiamo comunque dire che non
viene mai fatto riferimento all’ipotesi di un ricorso libero e volontario
delle parti all’arbitrato episcopale, possibilità che quindi
è lecito ritenere non abrogata, e regolamentata ancora dalle norme del Codex
repetitae praelectionis.
Anche nelle fonti bizantine successive a Giustiniano il tema
dominante a proposito dell’episcopalis audientia è quello
del privilegium fori, e nulla di nuovo sembra emergere a proposito delle
liti civili fra laici. Nei Basilici manca un titolo specifico dedicato
all’argomento, ed alcune delle costituzioni di C. 1.4 sono state
collocate in vari titoli dell’opera bizantina[114].
Ricordiamo tuttavia uno scolio a Bas. 12.1.74, in cui si afferma che la
sentenza dell’arbitro era valida anche se il compromesso non prevedeva
alcuna pena[115]: lo
scoliaste richiama Bas. 7.2.27 e 7.2.19.1 e Bas. 9.1.2, ma soprattutto il
capitolo 122 del Sinodo cartaginese, corrispondente forse al canone 122 del Codex canonum Ecclesiae Africanae dell’anno 419[116]: una fonte canonica, quindi, il che fa ritenere che
egli avesse presente l’arbitrato del vescovo, per il ricorso al quale
appunto, come vedremo fra poco, non esisteva per le parti la necessità
di convenire una pena.
Dalle fonti patristiche risulta che la prassi di
rivolgersi al vescovo per la soluzione di contese civili era diffusa, e non
soltanto fra i cristiani[117],
tanto che Agostino si lamentava dell’eccessivo impegno che ne derivava[118].
Il ricorso per le cause civili all’episcopalis audientia
ebbe un grande sviluppo per i vantaggi di snellezza e celerità che
l’istituto offriva, rispetto ai costi e le
lungaggini del processo ordinario[119]. Va sottolineato, tuttavia, che il
precetto canonico che vietava ai chierici di sottoporre alla giustizia secolare
le loro controversie non doveva essere ormai altrettanto rigoroso per i laici[120], dato che di Ambrogio si racconta che in una
occasione “remisit ad judicem publicum negotium, ne aut jus, aut
pietatem laederet”[121].
Chierici e laici si rivolgevano quindi ai vescovi per la soluzione
delle loro controversie di natura civile, ma le fonti al proposito sono
alquanto discontinue. Ne troviamo infatti un certo numero per il V secolo[122],
poi un’epistola di Gregorio Magno[123],
ed ancora una testimonianza risalente al IX secolo[124].
Di nuovo troviamo testimonianze interessanti per il XII[125]
ed il XIII secolo[126],
ed in particolare negli scritti di Innocenzo iii[127],
ma siamo ormai ben al di là dei limiti della mia ricerca. Ovviamente
molto più abbondanti sono i testi che si riferiscono a contese teologiche
o comunque a problemi prettamente ecclesiastici, in riferimento ai quali,
tuttavia, è interessante osservare che si utilizza se non esattamente lo
schema, di sicuro la terminologia dell’arbitrato romano. E’ significativo che nei suoi canoni la Chiesa cattolica
abbia conservato, avendo sempre presente l’accordo tra le parti nella
scelta di persone specifiche, sia il termine compromissum, sia
l’utilizzo di arbitri in caso di controversie tra ecclesiastici. A
quest’ultimo proposito è interessante il canone 9 del concilio di
Calcedonia, del 451, dove si dispone il dovere per i chierici di ricorrere al
vescovo, e non ai tribunali secolari, e la possibilità per il vescovo di
imporre alle parti la nomina di un arbitro, scelto congiuntamente[128].
Nel diritto canonico il compromissum è l’accordo attinente sia ai
benefici ecclesiastici, sia all’elezione di una dignità vacante,
tale accordo viene effettuato tra coloro che posseggono il diritto di elezione
e che trasmettono tale diritto sia a uno o più membri appartenenti al
corpo elettorale, sia ad estranei. Coloro che effettuano il compromesso,
inoltre, si obbligano ad approvare la scelta effettuata, sempre che
l’eletto risponda alle qualità previste. In particolare si deve
ricordare il metodo elettivo generale per
compromissum del diritto canonico latino[129],
estraneo al sistema elettorale delle Chiese di Oriente, che si ebbe con il IV
Concilio Lateranense del 1215 (c. 24)[130].
Nello stesso periodo
Gregorio ix dedica nel primo
libro dei suoi Decretales l’intero titolo 43 alla materia de
arbitris. In particolare al capitolo III, egli ricorda la
possibilità di scelta di un arbitro relativo a controversie di tipo
pecuniario tra gli ecclesiastici: “Arbiter assumptus in
patrimoniali causa clerici non potest adiudicare rem ecclesiae possidendam,
etiam ad vitam clerici. Hoc dicit, et est casus notabilis”. In
altri brani dell’opera si possono individuare delle affinità con il
diritto romano classico; in particolare nel capitolo VI, si sostiene
che “Arbiter non habet potestatem
iudicandi ultra comprehensa in compromisso; ideo coram eo non fit reconventio”[131],
mentre il capitolo XIV dispone che: “Compromissum ante sententiam
latam finitur morte alterius compromittentium; unde non transit in heredes
compromittentium, nisi de eis sit cautum in compromisso. Hoc dicit
comprehendendo mentem capituli”[132].
Interessante l’affermazione del valore di giudicato dal capitulum XI:
“Arbiter post rem iudicatam super discordiis novis assumptus, non
potest per suum arbitrium sententiam immutare, etiamsi de componendo inter
partes mandatum acceperit a Papa”.
Tornando alle contese civili, non sembra esservi
differenza nella forma fra contese tra laici, o chierici, o miste. Per tutte si
parla della necessità del consenso di ambedue le parti, di compromissum,
di reciproco impegno a rispettare la sentenza arbitrale, poiché, con le
parole di Leone i, “compromissum
haberi non potest, nisi litigantes inter se convenientes spondeant pacifice
stare velle secuturo judicio”[133].
Nonostante l’uso del verbo spondere
non sappiamo in che forma venisse assunto tale impegno, ed è da notare
che non si parla né di pena, né di giuramento, ma la promessa di
cui tratta il brano è solo quella di ottemperare alla sentenza
dell’arbitro. Altrettanto si può dire di un passo in cui Agostino
descrive ciò che avveniva quando le parti si rivolgevano al tribunale
del vescovo: “Veniunt ad iudicem. Antequam proferatur sententia, ambo
dicunt: Amplectimur iudicium tuum; quidquid iudicaveris, absit ut respuamus”[134]. Anche qui non vi
è alcun accenno né a pena, né a giuramento, ma solo,
ancora una volta, l’impegno a rispettare la sentenza arbitrale[135].
Molto simile è poi la definizione di
arbitro che, molto più tardi, agli inizi del XII secolo, viene data da
Graziano: “Arbitrarii
sunt, qui nullam potestatem habentes cum consensu litigantium in judices
eliguntur, in quos compromittitur, ut eorum sententiae stetur”[136]. E’ appena il caso di
sottolineare come queste diverse testimonianze riecheggino in particolare Nov.
Val. 35 pr.
Sembra
quindi potersi concludere, almeno per le fonti esaminate, che quando le parti
in una contesa civile intendevano rivolgersi al vescovo si dava luogo ad un
arbitrato, ai fini del quale le stesse parti si accordavano con un compromissum. Il compromesso serviva ad esprimere
l’accordo di sottomettere la lite all’arbitro, appunto nella
persona del vescovo; serviva inoltre con ogni probabilità a definire i
termini della contesa, e a manifestare il reciproco impegno a rispettare la
sentenza arbitrale, senza necessità di alcuna promessa formale,
né di giuramento o di previsione di pena.
Questo
stato di cose a mio avviso trova fondamento e giustificazione in due diversi
fattori. Da un lato, come già abbiamo accennato,
l’antichità della prassi, fondata su precetti canonici, di
rivolgersi al capo spirituale della comunità, che era tesa ad evitare di
sottoporre a giudici pagani le contese fra cristiani. Sin dalle origini
probabilmente l’accordo per rivolgersi al vescovo non era accompagnato
dalle stipulazioni relative alla pena, perché ciò avrebbe
comportato la possibilità di rivolgersi a giudici laici, ed in ogni caso
la pena consisteva nell’esclusione dalla comunità, come si evince da Mt
18.17[137]. Dall’altro lato,
successivamente, mutati i tempi e divenuta la religione cristiana dapprima licita e poi religione dell’impero, ed
essendo stata attribuita esecutorietà alle sentenze dei vescovi, non vi
era alcun motivo per mutare la prassi tradizionale ed introdurre giuramenti o
sanzioni[138].
Rimane comunque una questione, sulla quale
varrebbe la pena di indagare (ma il compito andrebbe affidato forse agli
storici del diritto canonico), e cioè il motivo per cui nelle fonti
patristiche a partire dal XII secolo, per contese anche fra membri della Chiesa
o miste, ricompaiono la pena e il giuramento[139].
[1]
Questi temi saranno sviluppati al § 5, infra.
[2]
Per le materie per le quali l’utilizzo dell’arbitrato era escluso
vedi D. 4.8.32.6-7 (Paul. 13 ad ed.).
[3]
Il frammento paolino è stato interpretato diversamente in dottrina: La Pira (‘Compromissum’ e ‘litis
contestatio’ formulare, in Studi in onore di S. Riccobono nel XL
anno del suo insegnamento, II, Palermo 1936, 209) intende il brano nel
senso che nel compromissum la formula stipulatoria veniva stilata con
gli stessi schemi del iudicium. In aperta contraddizione si pone Talamanca (Ricerche in tema di ‘compromissum’, Milano 1958, 18
s.), il quale afferma che se pure compromissum e iudicium per
diversi aspetti presentano elementi comuni, tuttavia, si deve escludere
un’analogia di forma. Oltre al frammento di Paolo vedi anche la
costituzione giustinianea contenuta in C. 3.1.14.1 (infra).
[4]
L’affinità strutturale tra compromissum e litis
contestatio del processo formulare
viene sostenuta fortemente da G. La Pira, ‘Compromissum’ e ‘litis
contestatio’ formulare, cit., 189 ss. L’analogia è stata
affermata, ad esempio, anche da: V. Arangio-Ruiz,
Istituzioni di diritto romano, XIV
ed. riv., Napoli 1960 [rist. an., 1983], 333 s. e nt. 2; A. Torrent, El arbitraje en el bronce de Contrebia, in Studi in onore di C.
Sanfilippo, II, Milano 1982, 647 s.; F.
Pastori, Gli istituti romanistici come storia e vita del diritto,
II ed., Milano 1988, 295 s., nonostante quest’ultimo sottolinei la
diversa natura degli atti, privata per il compromissum e pubblica per la
litis contestatio. Vedi inoltre E.
Betti, Diritto romano. I. Parte
generale, Padova 1935, 494 ss., il quale ritiene che
l’identità strutturale tra i due istituti, sia indice di «un
nesso genetico», risalente alla
precedente prassi di comporre le liti sorgenti fra peregrini e Romani
attraverso un procedimento arbitrale. Una critica fondamentale all’idea
di questa affinità, anche grazie al rinvenimento delle Tavole
ercolanensi (nn. 76-82), è stata svolta da M. Talamanca, Ricerche in
tema di ‘compromissum’, cit., 3 ss.
[5]
L. Wenger, Vom zweigeteilten römischen Zivilprozesse, in Studi
in onore di S. Solazzi nel cinquantesimo anniversario del suo insegnamento
universitario (1899-1948), Napoli 1948, 56, ha sottolineato l’arte
(«die Kunst») dei giuristi repubblicani nella costruzione
dell’istituto. Sostengono che l’uso della stipulatio poenae fu il prodotto di una riflessione
giurisprudenziale repubblicana tra gli ultimi: M. Marrone, Sull’arbitrato
privato nell’esperienza giuridica romana, in Rivista
dell’arbitrato 6.1, 1996, 1 (ora disponibile on-line in
http://www.unipa.it/dipstdir/portale/romano/elenco%20pup%20testo%20pieno/MARRONE/arbitrato.html#sdfootnote9anc);
B. Biscotti, Dal
‘pacere’ ai ‘pacta conventa’. Aspetti sostanziali e
tutela del fenomeno pattizio dall’epoca arcaica all’Editto
giulianeo, Milano 2002, 233 s., 303 s.
Per
una parte della letteratura nel periodo classico il ricorso alle stipulazioni
penali era solo eventuale. Vedi a mero titolo di esempio: S. Perozzi, Istituzioni di diritto romano. II. Obbligazioni ed
Azioni – Diritto ereditario. Donazioni, Firenze 1908, 298 s.; C. Bertolini, Appunti didattici di
diritto romano. Serie seconda. Il
Processo Civile III., Torino 1915, 233; P. Bonfante, Dei compromessi e lodi stabiliti fra industriali
come vincolativi dei loro rapporti ma non esecutivi nel senso e nelle forme dei
giudizi, in Rivista del diritto commerciale II, 1905, 50; Id., Istituzioni di diritto romano,
X ed., Roma 1934, 511; E. Albertario,
Corso di diritto romano. Parte generale delle obbligazioni, Milano 1940,
427; A. Guarino, Diritto
privato romano, XII ed., Napoli 2001, 946; Id., Istituzioni di diritto romano, ragguaglio,
Napoli 2006, 335. La possibilità di assumere la garanzia degli impegni
previsti dalla conventio compromissi anche attraverso nudi patti, senza
l’ausilio delle stipulationes poenales, è prevista da D.
4.8.11.3 (Ulp. 13 ad ed.): Interdum, ut Pomponius scribit, recte nudo
pacto fiet compromissum, ut puta si ambo debitores fuerunt et pacti sunt, ne
petat quod sibi debetur qui sententiae arbitri non paruit. Il passo
è stato considerato da alcuni studiosi come un’interpolazione
postclassica: vedi ad es.: J. Roussier,
Du compromis ‘sine poena’ en
droit romain classique, in Revue Historique de droit français et
étranger 18, 1939, 167 ss.; Id., rec. a M. Talamanca, op.
cit., in IVRA 10, 1959, 223 ss.;
F. Bonifacio, v. Compromesso (Diritto romano),
in Novissimo Digesto Italiano, III, Torino 1959, 784; V. Arangio-Ruiz, Istituzioni di diritto
romano, cit., 33 nt. 2. M. Talamanca, Ricerche
in tema di ‘compromissum’, cit., 122 s., al contrario, considera
il passo genuino e sostiene che i reciproci pacta de non petendo
avrebbero comportato un compromissum efficace, ma privo di coercitio
praetoria.
[6]
E. Betti, Diritto romano, cit., 495, sostiene la
possibilità di essere parte nel compromesso arbitrale anche per lo
straniero.
[7]
Per un’analisi etimologica del termine rimando a: A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire
étymologique de la langue latine. Histoire des mots, III éd.,
Paris 1979, voce arbiter, -trī, 42 s. Per le sue evenienze vedi [O.] Hey, v. arbiter, in Thesaurus Linguae Latinae, II.2, Lipsiae 1901, coll. 404 ss.
[8]
Per la nomina di più arbitri, vedi ad es.: D. 4.8.7.1 (Ulp. 13 ad ed.);
D. 4.8.8 (Paul. 13 ad ed.); D. 4.8.17.2, 4-7 (Ulp. 13 ad ed.).
[9]
La discussione in dottrina intorno alla natura dell’istituto e ai suoi
rapporti con le stipulazioni penali è ampia, ed in questa sede possiamo
solo accennarvi: G. La Pira, ‘Compromissum’ e ‘litis
contestatio’ formulare, cit., 187 ss., considera il compromissum
non un pactum, ma un negotium, che si concludeva attraverso le stipulationes
interdipendenti, e che acquistava un’efficacia giuridica quando veniva
trasfusa in un negozio formale o causale; per J. Roussier, Du compromis
‘sine poena’ en droit romain classique, cit., 167 ss., il
compromesso era un negozio consistente nello scambio di reciproche stipulazioni
penali (concetto poi ribadito nella sua recensione a Talamanca, cit., 223 ss.); M. Talamanca, Ricerche in tema di
‘compromissum’, cit., 37 ss., separa la conventio sottostante
dalle stipulazioni penali, considerate come accessorie; K.-H. Ziegler, Das private
Schiedsgericht im antiken römischen Recht, München 1971, 47 ss.,
invece, sostiene la struttura essenzialmente stipulatoria, poiché il compromissum
non consisteva in un pactum, ma nell’insieme unitario di
reciproche stipulationes interdipendenti, per cui il compromesso si
sarebbe esaurito nelle stipulazioni penali reciproche, mentre tutto ciò
che riguarda il programma della lite avrebbe costituito il compromesso
informale privo di rilevanza giuridica (59). Per una esposizione della
dottrina, da ultimi rimando a: J.L. Linares
Pineda, ‘Compromissum’ y ‘receptum
arbitrii’. Aspectos negociales del arbitraje privado
romano en relación con el moderno, in Derecho
romano de obligaciones. Homenaje al profesor J.L. Murga Gener, coord. y present. J. Paricio, Madrid 1994, 709 ss.; B. Biscotti, Dal
‘pacere’ ai ‘pacta conventa’, cit., 233 ss.
[10]
L’editto pretorio secondo Lenel (Das Edictum perpetuum. Ein Versuch zu
seiner Wiederherstellung, III Aufl., Leipzig 1927, 130 s.) prevedeva la
clausola ‘Qui arbitrium pecunia
compromissa receperit, eum sententiam dicere cogam’. L’autore
integra la frase riportata in D. 4.8.3.2 (Ulp. 13 ad ed.: Ait
praetor: ‘Qui arbitrium pecunia compromissa receperit’) con l’inserimento della locuzione
‘eum sententiam dicere cogam’,
soprattutto attraverso quanto riferito da Ulpiano (13 ad ed.) in D.
4.8.15. Secondo M. Talamanca, Ricerche
in tema di ‘compromissum’, cit., 20 s., la locuzione recipere
arbitrium significava solamente accettare le funzioni di arbitro, e non,
come aveva sostenuto G. La Pira, ‘Compromissum’ e ‘litis
contestatio’ formulare, cit., 212, «accettare di esser arbitro in
una controversia impostata entro le formule stipulatorie di un
‘compromissum’».
[11]
A titolo di pena si potevano promettere beni diversi dalla pecunia: D.
4.8.11.2 (Ulp. 13 ad ed.): Quod ait praetor: ‘pecuniam
compromissam’, accipere nos debere. non si utrimque poena nummaria, sed
si et alia res vice poenae, si quis arbitri sententia non steterit, promissa
sit: et ita Pomponius scribit. La promessa poteva avere come oggetto anche
il valore della lite, o un facere (al proposito vedi M. Talamanca, Ricerche in tema di ‘compromissum’, cit., 116 s.).
[12]
D. 4.8.27.2 (Ulp. 13 ad ed.): Stari autem debet sententiae arbitri,
quam de ea re dixerit, sive aequa sive iniqua sit: et sibi imputet qui
compromisit. nam et divi Pii rescripto adicitur: ‘vel minus probabilem sententiam
aequo animo ferre debet’. Vedi anche D. 17.2.76 (Paul. 5 ep.):
arbitrorum enim genera sunt duo, unum eiusmodi, ut sive aequum sit sive
iniquum, parere debeamus (quod observatur, cum ex compromisso ad arbitrum itum
est)… Tuttavia è prevista un’eccezione contro
l’azione diretta ad ottenere la pena, in caso di dolo della controparte o
dell’arbitro: D. 4.8.31 (Ulp. 13 ad ed.: per
l’interpolazione del passo vedi M. Talamanca,
Ricerche in tema di
‘compromissum’, cit., 83 s. nt. 99 e bibliografia ivi); D.
4.8.32.14 (Paul. 13 ad ed.).
[13]
Se l’arbiter non si atteneva al rispetto del receptum il
magistrato poteva adottare misure coercitive: D. 4.8.3.1-5 (Ulp. 13 ad ed.);
D. 4.8.32.12 (Paul. 13 ad ed.). Per la maggioranza della dottrina il
frammento paolino attesta che si configurava una sanzione
‘amministrativa’: vedi da ultimo R. Scevola, La responsabilità del ‘iudex
privatus’, Milano 2004, 137 s. Una parte della letteratura, in
particolare quella spagnola, sostiene che qualora l’arbitro, nonostante
il receptum, si rifiutasse di
emettere la sentenza, le parti potevano esperire un’azione in factum nei suoi confronti. Così ad es. Á. d’Ors, El arbitraje jurídico, in Id.,
Parerga historica, Pamplona
1997, 280; J. Paricio, Notas
sobre la sentencia del ‘arbiter ex compromisso’. Sanción contra
el árbitro que no dió sentencia,
in Revue Internationale des Droits de
l’Antiquité 31, 1984, 297 ss., per il quale il pretore poteva
concedere un’actio in factum decretale contro l’arbitro
compromissorio, qualora l’omessa emanazione della decisione avesse
comportato un danno simile alla mancata emanazione di una sentenza giudiziale;
I. Cremades, La acción
contra el árbitro que no dió sentencia, in Estudios en
homenaje al professor J. Iglesias, III, Madrid 1988, 1187 ss., il quale
afferma l’esistenza di un’actio in factum decretale, in
presenza di determinate condizioni, contro l’arbiter ex compromisso
che non avesse voluto dare la sentenza (rinvio per una attenta critica a Scevola, Ivi, 140 ss. e in part. nt. 27).
[14]
D. 4.8.2 (Ulp. 4 ad ed.):
Ex compromisso placet exceptionem non nasci, sed poenae petitionem; Cons. 9.17: Item ex corpore Gregoriani: Qui contra arbitri sententiam petit, sola
in eum poenae actio ex compromisso competit, non etiam exceptio pacti conventi.
Una parte della dottrina ha considerato queste fonti come dei glossemi
postclassici, ma per M. Talamanca, Ricerche
in tema di ‘compromissum’, cit., 101 s., le interpolazioni
presenti in questi due passi non inficiano sostanzialmente la loro
genuinità (bibliografia ivi). Vedi anche le fonti che richiamano
soltanto la poenae petitio come strumento per sanzionare il compromissum:
D. 4.8.3 pr. (Ulp. 13 ad ed.): Labeo ait, si compromisso facto
sententia dicta est, quo quis a minore vigenti quinque annis tutelae
absolveretur, ratum id a praetore non habendum: neque poenae eo nomine
commissae petitio dabitur; D. 4.8.30 (Paul. 13 ad ed.): Si quis rem, de
qua compromissum sit, in iudicium deducat, quidam dicunt praetorem non
intervenire ad cogendum arbitrum sententiam dicere, quia iam poena non potest
esse, atque si solutum est compromissum. sed si hoc optinuerit, futurum est, ut
in potestate eius, quem paenitet compromisisse, sit compromissum eludere. ergo
adversus eum poena committenda est lite apud iudicem suo ordine peragenda;
D. 4.8.37 (Cels. 2 dig.): Quamvis arbiter alterum ab altero petere vetuit, si tamen
heres petit, poenam committet: non enim differendarum litium causa, sed
tollendarum ad arbitros itur; Paul. Sent. 5.5a.1: Res iudicatae videntur ab his, qui imperium
potestatemque habent vel qui ex auctoritate eorum inter partes dantur, itemque
a magistratibus municipalibus usque ad summam, qua ius dicere possunt, itemque
ab his, qui ab imperatore extra ordinem petuntur. Ex compromisso autem iudex
sumptus rem iudicatam non facit: sed si poena inter eos promissum sit, poena re
in iudicium deducta ex stipulatu peti potest.
Particolare
l’affermazione di F. Casavola,
La ‘conventio’ nel
‘compromissum’, in Labeo 5, 1959, 241 ss., intorno all’origine
dell’esclusione dell’exceptio pacti, affermazione criticata
da M. Talamanca, Sull’interpretazione di
Ulpiano, L. 13 ‘ad ed.’, D. 4.8.21.9-11, in Studi in onore
di G. Chiarelli, IV, Milano 1974, 4225 ss.
[15]
D. 2.14.10.1 (Ulp. 4 ad ed.): Si pacto subiecta sit poenae stipulatio,
quaeritur, utrum pacti exceptio locum habeat an ex stipulatu actio. Sabinus
putat, quod est verius, utraque via uti posse prout elegerit qui stipulatus
est: si tamen ex causa pacti exceptione utatur, aequum erit accepto eum
stipulationem ferre. D. 2.15.16 (Ermog. 1 iur. epit.): Qui fidem licitae
transactionis rupit, non exceptione tantum summovebitur, sed et poenam, quam,
si contra placitum fecerit rato manente pacto, stipulanti recte promiserat,
praestare cogetur. La regola si rinviene inoltre in D.
23.4.12.2 (Paul. 35 ad ed.) in
riferimento ai patti dotali: Si mulier pacta sit, ne amplius quam pars dimidia dotis a
se petatur et poenam stipulata sit, Mela ait alterutro eam contentam esse
oportere: vel exceptione pacti et acceptam facere poenae obligationem, vel, si
ex stipulatu agat, denegandam ei exceptionem.
[16]
Per le ipotesi più risalenti rimando a M. Talamanca, Ricerche in tema di
‘compromissum’, cit., 108 ss. Recentemente insiste sul fatto
che la conventio compromissi non
fosse un patto, perciò non dava luogo alla relativa exceptio, J. Paricio, Sobre
la administración de la justicia en Roma. Los juramentos de los jueces privados, Madrid 1987, 37 nt. 32.
[17] Così M. Talamanca, Ricerche in
tema di ‘compromissum’, cit., 110 ss. Contra vedi, P. Stein,
rec. a M. Talamanca, op. cit., in The Journal of Roman
Studies 51, 1961, 248, che ritiene questa spiegazione non soddisfacente.
Vedi anche F. Casavola, La
‘conventio’ nel ‘compromissum’, cit., 244, il quale
sostiene che, nonostante il rifiuto dell’eccezione di patto, permaneva
«il disquilibrio tra le parti».
[18]
D. 4.8.13.1 (Ulp. 13 ad ed.): Idem Pomponius scribit, si de meis solis controversiis sit compromissum
et de te poenam sim stipulatus, videndum ne non sit compromissum. sed cui rei
moveatur, non video: nam si ideo, quia de unius controversiis solum
compromissum est, nulla ratio est: licet enim et de una re compromittere: si
vero ideo, quia ex altera dumtaxat parte stipulatio intervenit, est ratio.
quamquam si petitor fuit qui stipulatus est, possit dici plenum esse
compromissum, quia is qui convenitur tutus est veluti pacti exceptione, is qui
convenit, si arbitro non pareatur, habet stipulationem. sed id verum esse non
puto: neque enim sufficit exceptionem habere, ut arbiter sententiam dicere cogatur.
[19]
Vedi in M. Talamanca, Ricerche
in tema di ‘compromissum’, cit., 125 ss., l’esegesi delle
fonti relative a questo tema.
[20]
Secondo Á. d’Ors, El arbitraje jurídico, cit., 285, furono proprio l’introduzione
dell’episcopalis audientia e
l’affermazione del cristianesimo a comportare la decadenza
dell’istituto classico dell’arbitrato compromissorio.
[21]
Tra i passi sospettati di interventi postclassici vi è D. 4.8.27.7 (Ulp.
13 ad ed.) dove si ipotizza il caso in cui nel compromesso una parte avesse
semplicemente promesso di stare alla sentenza senza procedere alla stipulazione
della pena. In caso di trasgressione degli obblighi assunti si concedeva
un’actio incerti: “Sed
si poena non fuisset adiecta compromisso, sed simpliciter sententia stari quis
promiserit, incerti adversus eum foret actio”. Considerano il passo interpolato, ad es., J. Roussier, Du compromis ‘sine poena’ en droit romain classique,
cit., 170 s., seguito da F. Bonifacio, v. Compromesso, cit., 784.
Sembra propendere per la stessa ipotesi G. Crifò, v. Arbitrato
a) Diritto romano, in Enciclopedia
del diritto, II, Milano 1964, 894 s., mentre è contrario M. Talamanca, Ricerche in tema di
‘compromissum’, cit., 103 nt., 117, 145, 104 ss.
Un
altro brano ulpianeo oggetto di critica è D. 4.8.13.1 (Ulp. 13 ad ed.,
supra, nt. 18). G. Rotondi, Un nuovo esempio di innovazioni pregiustinianee. L’exceptio
veluti pacti ex compromisso, in Id., Scritti
giuridici, I. Studii sulla storia delle fonti e sul diritto pubblico
romano, a cura di V. Arangio-Ruiz, Milano 1922, 284 ss. (già in Annali della Facoltà di
Giurisprudenza della Università di Perugia 29, 1914, 223 ss.),
attribuisce ad una scuola postclassica orientale la concessione di un’exceptio veluti pacti al debitore, che
era risultato vincitore dalla sentenza arbitrale, qualora lo stesso convenuto
non avesse proceduto alla stipulatio penale. Affermano l’interpolazione ancora, ad es.: P. Bonfante, Istituzioni di diritto
romano, cit., 511 nt. 1; G. La
Pira, ‘Compromissum’ e
‘litis contestatio’ formulare, cit., 191 ss. e nt. 7; P. Collinet, La genèse du
Digeste, du Code et des Institutes de Justinien, Paris 1952, 128 ss.; F. Bonifacio, Ivi, 785 s.; J. Paricio, Notas sobre la
sentencia del ‘arbiter ex compromisso’, cit., 286, 304. Critica
in M. Talamanca, Ricerche in tema di
‘compromissum’, cit., 108 ss. (seguito, da ultima, da B. Biscotti, Dal
‘pacere’ ai ‘pacta conventa’, cit., 242 nt. 44),
il quale esclude l’ipotesi di un’interpolazione sostanziale.
Secondo l’autore il rimaneggiamento si può ipotizzare per
l’espressione veluti pacti exceptione: «dalla conventio
compromissi infatti o l’eccezione non nasce, come nel caso di compromissum
cum poena, o se nasce, basandosi sulla conventio stessa, non
può essere che la normale exceptio pacti» (128 s.).
[22]
Vedi infra.
[23]
Ad es. C.Th. 15.14.9 (Impp. Arcad(ius) et Honor(ius) AA.
Andromacho p(raefecto) U(rbi)): ... valeant sententiae iudicum
privatorum – convelli enim iudicium non oportet – quos partium
elegit adsensus et compromissi poena constituit. Cfr. C. 3.12.6(7).5; C.Th. 2.8.18.
[24]
Infra, nt. 55.
[25]
Supra, nt. 23.
[26]
Infra, nt. 33.
Compromessi penali sono attestati in alcuni papiri anteriori
all’età giustinianea: P. Giss. 104 del 399 d.C.; SB 5681 del V
sec.; P. Lond. 992 del 507 d.C. (= FIRA, III, n. 182). Le stipulazioni penali
sono presenti invece nel più antico documento che testimonia il
compromesso in Egitto: PUG inv. n. 1126 dell’inizio del IV sec. d.C.,
pubblicato nel 1966 e studiato da L. Migliardi-K.-H.
Ziegler, Un nuovo
compromesso dell’Egitto romano: PUG inv. n. 1126, in Revue Internationale des Droits de l’Antiquité 18, 1971, 553 ss.
[27]
C. 2.55(56).1 (Imp.
Antoninus A. Nepotianae): Ex
sententia arbitri ex compromisso iure perfecto aditi appellari non posse saepe rescriptum est, quia nec iudicati actio inde
praestari potest et ob hoc invicem poena promittitur, ut metu eius a placitis
non recedatur. sed si ultra diem compromisso comprehensum iudicatum est,
sententia nulla est, nec ullam poenam committit qui ei non paruerit.
[28]
Secondo M. Talamanca, Ricerche in tema di
‘compromissum’, cit., 140 ss., nel periodo postclassico proprio
per la maggiore diffusione del compromissum penale si considerò
la pena non più solo come strumento per ottenere l’osservanza alla
decisione arbitrale, ma come «un elemento tipico dell’assetto di
interessi che si concretava nel compromissum» (142). Per questo
scomparvero la stipulatio che aveva come oggetto il valore della lite e
quella in faciendo, come modi per ottenere l’ottemperanza del
giudizio espresso dall’arbiter scelto
dalle parti.
[29]
Testimonianze del compromesso giurato si rinvengono in due papiri
d’età postclassica, che prevedono anche una poena: P. Giss.
104 del 399 e P. London 992 del 507.
[30]
C. 2.55(56).4 (Imp. Iustinianus A.
Demostheni pp.): Ne in arbitris cum sacramenti religione
eligendis periurium committatur et detur licentia perfidis hominibus passim
definitiones iudicum eludere, sanctissimo arbitrio et huiusmodi rem censemus
esse componendam. 1. Si igitur inter
actorem et reum nec non et ipsum iudicem fuerit consensum, ut cum sacramenti
religione lis procedat, et ipsi quidem litigatores scriptis hoc suis manibus
vel per publicas personas scripserint vel apud ipsum arbitrum in actis propria
voce deposuerint, quod sacramentis praestitis arbiter electus est, hoc etiam
addito, quod et ipse arbiter iuramentum praestitit super lite cum omni veritate
dirimenda, eius definitionem validam omnimodo custodiri et neque reum neque
actorem posse discedere, sed tenere omnifariam, quatenus oboedire ei
compellantur. 2. Sin autem de arbitro
quidem nihil tale fuerit vel compositum vel scriptum, ipsae autem partes
litteris hoc manifestaverint, quod iuramenti nexibus se illigaverint, ut
arbitri sententia stetur, et in praesenti casu omnimodo definitionem arbitri
immutatam servari, litteris videlicet eorum similem vim obtinentibus, sive ab
initio hoc fuerit ab his scriptum vel praefato modo depositum, dum arbiter
eligebatur, sive post definitivam sententiam hoc scriptum inveniatur, quod cum
sacramenti religione eius audientiam amplexi sunt vel quod ea quae statuta sunt
adimplere iuraverunt. 3. Sed et si
ipse solus arbiter hoc litigatoribus poscentibus et vel scriptis vel
depositionibus, ut dictum est, manifestum facientibus praestiterit iuramentum,
quod cum omni veritate liti libramenta imponat, similem esse etiam in praesenti
casu prioribus eius definitionem et eam omnimodo legibus esse vallatam. 4. Et in his omnibus casibus liceat vel in
factum vel condictionem ex lege vel in rem utilem instituere, secundum quod
facti qualitas postulaverit. 5. Sin
autem in scriptura quidem aut depositione nihil tale appareat, una autem pars
edicat iuramentum esse praestitum, quatenus arbitrali stetur sententia,
huiusmodi litigatorum vel solius arbitri sermones minime esse credendos, cum
et, si quis iusiurandum datum esse non iudice supposito nec hoc scriptura
partium testante concesserit, incerti certaminis compositio, quae inter homines
imperitos saepe accidit, non aliquid robur iudicatis inferat, sed in huiusmodi
casu haec obtineant, quae veteres super arbitris eligendis sanxerunt. 6. Si quis autem post arbitri definitionem
subscripserit ™mmšnein vel stoice‹n vel plhroàn vel p£nta poie‹n vel didÒnai (Graecis enim vocabulis haec enarrare
propter consuetudinem utilius visum est), etsi non adiecerit Ðmologî, et sic omnimodo per actionem
in factum eum compelli ea facere quibus consensit. qualis enim differentia est,
si huiusmodi verbis etiam Ðmologî adiciatur vel huiusmodi vocabulum transmittatur? 7. Si enim verba consueta
stipulationum et subtilis, immo magis supervacua observatio ab aula concessa
est, nos, qui nuper legibus a nobis scriptis multa vitia stipulationum
multasque ambages scrupulososque circuitus correximus, cur non et in huiusmodi
scriptura totam formidinem veteris iuris amputamus, ut, si quis haec scripserit
vel unum ex his, adquiescere eis compellatur et ea ad effectum omnimodo
perducere? cum non est verisimile haec propter hoc scripsisse, ut tantum non
contradicat, sed ut etiam ea impleat, adversus quae obviam ire non potest.
[31]
E. De Ruggiero, L’arbitrato
pubblico in relazione col privato presso i Romani. Studio di epigrafia
giuridica, Roma 1893 [rist. an., Studia Juridica 42, Roma 1971], 190 s.
(seguito, ad es., da C. Bertolini, Appunti didattici di diritto romano, cit., 241 nt. 2), sostiene che
questa riforma giustinianea non riconobbe una prassi antica, in quanto nel
periodo classico non era necessario il giuramento dell’arbiter ex
compromisso. Su questa linea inoltre: F. Bonifacio,
v. Arbitro e arbitratore (Diritto romano), in Novissimo Digesto
Italiano, I2, Torino 1958, 926, il quale, in riferimento
all’età classica, ritiene che, nonostante la presenza del
giuramento dell’arbitro in C.I.L. IX.2827, iscrizione del I sec. d.C. (C.
Helvidius Priscus arbiter ex compromisso inter Q. Tillium Eryllum procuratorem
Tilli Sassi et M. Paquium Aulanium actorem municipi Histoniensium utrisq(que)
praesentibus iuratus sententiam dixit in ea verba, q(uae) inf(ra) s(cripta)
s(unt) ...), questo non costituisse la «regola generale». Vedi
anche J. Paricio, Sobre
la administración de la justicia en Roma, cit., 69, 107 s., 119, per
cui il giuramento venne introdotto da Giustiniano nell’ambito della sua
politica di avvicinamento tra questo tipo di arbitro e i giudici ordinari.
[32] Recentemente J. Urbanik,
Compromesso o processo? Alternativa risoluzione dei conflitti e tutela dei
diritti nella prassi della tarda antichità, in Symposion 2005.
Vorträge zur griechischen und hellenistischen Rechtsgeschichte
(Salerno, 14.-18.), Hrsg. E. Cantarella, Wien 2007, 381 s., sostiene che nella
costituzione in esame si prevedeva l’actio in factum, l’actio
in rem utilis o la condictio ex lege, a condizione che nel documento
di compromesso si fossero utilizzati alcuni verbi in lingua greca per
vincolarsi al verdetto (tra cui ™mm™nai, attestato nei papiri, ad
es. in SB XIV.12194 della prima metà del VII sec.). L’autore trae
la sua convinzione dal confronto fra il § 4 ed il § 6 di C. 2.55(56).4. Tuttavia, se analizziamo
l’intera norma giustinianea questa deduzione non appare corretta: al
§ 1 la decisione arbitrale è cogente se le parti, o le parti e
l’arbitro hanno prestato giuramento in determinate forme. Nel §
successivo si ribadisce la necessità dell’osservanza della
sentenza qualora le parti per iscritto avessero dichiarato di vincolarsi alla
sentenza mediante giuramento in qualunque momento, dal principio sino a dopo
l’emanazione della decisione arbitrale. Nel § 3 si assimila il caso
del giuramento del solo arbitro su richiesta delle parti, e nel § 4 si elencano
le azioni previste per i casi precedenti. Sembra che questo paragrafo faccia da
spartiacque all’interno della stessa costituzione. Il § 5, infatti,
prevede un caso diverso (in cui nessun giuramento risulta formalmente da
scritti o da deposizioni, nonostante una parte o il solo arbitro sostengano che
il giuramento si prestò), dove la sentenza non ha valore di giudicato,
ma si applicano le regole classiche. Nel § 6 si attribuisce soltanto
un’azione in factum nel caso di impegno assunto per iscritto dopo
la sentenza, attraverso verbi greci comunemente usati, anche senza la menzione
della stipulatio per mezzo del verbo Ðmologšw: nulla di
più, e nessun ‘a condizione che’.
[33]
C. 2.55(56).5 (Imp. Iustinianus A.
Iuliano pp.): Cum antea sancitum fuerat in arbitris
eligendis, quos neque poena compromissi vallabat neque iudex dederat, sed nulla
praecedente sententia communis electio, ut in illorum sententia stetur,
procreabat, si quidem pro parte pulsata forma arbitralis procederet,
exceptionem ei veluti pacti generari, sin autem pro actore calculus poneretur,
nihil ex eo procedere ei praesidii: sancimus in eos arbitros, quos praediximus
et quos talis consensus elegerit sub eo pacto in scriptis vel non in scriptis
habito, ut eorum definitioni stetur, si quidem subscripserint, postquam
definitio procedit, quod non displicet ambabus partibus eorum sententia, non
solum reo exceptionem veluti pacti generari, sed etiam actori ex nostro numine
in factum actionem, quatenus possit sententia eius exsecutioni mandari, sed in
hac quidem regia civitate ab officio eminentissimae praefecturae vel eius,
cuius forum pars sequitur fugientis, in provinciis autem tam per moderatores
quam apparitiones eorum, vel per iudices, quorum regimen pars pertimescat
pulsata. 1. Sin autem minime quidem
post sententiam subscripserint arbitri formam amplecti, sed silentio eam
roboraverint et non intra decem dies proximos attestatio missa fuerit vel
iudici vel adversariis ab alterutra parte, per quam manifestum fiat
definitionem non esse amplectendam, tunc silentio partium sententiam roboratam
esse et fugienti exceptionem et agenti memoratam actionem competere. 2. Altera autem parte recusante secundum
praefatum modum et implere statuta minime cupiente nihil fieri praeiudicium
neque pari vel exceptionem reo vel actori actionem, exceptis videlicet
arbitris, qui cum sacramenti religione electi sunt secundum novellam nostri
numinis constitutionem: tunc etenim ea omnia servari, quae lege nostra super
huiusmodi audientia definita sunt. 3. Licet
non ignoramus Iulii Pauli opinionem et aliorum prudentium certorum, qui
tetigerunt quidem huiusmodi quaestionem, quam in praesenti adgredimur, non
autem perfectissime peregerunt, sed usque ad quasdam temporales actiones
standum esse existimaverunt, plenius tamen et generaliter definimus conventum
in scriptis apud compromissum iudicem factum ita temporis interruptionem
inducere, quasi in ordinario iudicio lis fuisset inchoata. 4. Ad haec generaliter sancimus in his, quae
apud compromissarios acta sunt, si aliquod in factum respiciens vel professum
est vel attestatum, posse eo et in ordinariis uti iudiciis.
[34] Invece in tal senso J. Roussier, Du compromis ‘sine poena’ en droit romain classique,
cit., 14.
[36]
C. 2.55(56).6 (Imp. Iustinianus A.
Iohanni pp.): Sancimus mulieres suae pudicitiae memores et operum, quae
eis natura permisit et a quibus eas iussit abstinere, licet summae atque
optimae opinionis constitutae arbitrium in se susceperint vel, si fuerint patronae,
inter libertos suam interposuerint audientiam, ab omni iudiciali agmine
separari, ut ex earum electione nulla poena, nulla pacti exceptio adversus
iustos eorum conventores habeatur.
[37]
Vedi al proposito le seguenti costituzioni giustinianee: C. 2.3.29.2 riguardo
all’applicazione per l’arbitro ex c. del litem sua facere;
C. 2.55(56).5.3 in materia di prescrizione e decadenza; C. 2.58.2.4 che
introduce il giuramento per giudice e patroni; C. 3.1.14 in tema di giuramento;
Nov. 113.1.1 riguardante la repressione degli intenti dilatori dei giudici.
Vedi invece C. 2.46.3 del 531 che, relativamente alla giurisdizione in materia
di restitutio in integrum, esplicitamente non l’attribuisce agli
arbitri ex compromisso. Una sorta di ‘assimilazione’ si
rinviene anche per il periodo classico in un frammento di Ulpiano dove si
elencano coloro che non possono essere giudici: D. 5.1.81 (Ulp. 5 opin.):
Qui neque iurisdictioni praeest neque a principe potestate aliqua praeditus
est neque ab eo qui ius dandorum iudicum habet datus est nec ex compromisso
sumptus vel ex aliqua lege confirmatus est, iudex esse non potuit.
E’
preferibile in tal senso parlare, in maniera più cauta, soltanto di un
accostamento, come, ad esempio, M. Talamanca, Ricerche
in tema di ‘compromissum’, cit., 19 e nt. 39, 143 nt. 229. Per
un sostanziale riconoscimento della giurisdizione arbitrale nell’ambito
della giurisdizione ordinaria rimando specialmente a K.-H. Ziegler, Das private Schiedsgericht im antiken römischen Recht, cit.,
177 ss.
[38]
Sul punto vedi la costituzione trigemina del 386 C.Th. 2.8.18, C.Th. 8.8.3,
C.Th. 11.7.13; C. 3.12.6(7).5 del 389, in cui, riguardo al rispetto del
calendario religioso cristiano, tra le forme del processo ordinario si
menzionano anche gli arbitri sponte delecti (vedi Bas. 7.17.23), e C.Th.
15.14.9, del 395, in cui il compromissum è incluso in un elenco
di atti che hanno ancora validità nonostante compiuti “tyrannicis
temporibus”.
[39]
Nov. 113.1.1: ¢ll¦ k¨n e‡ tij
tîn dikastîn tÁj „d…aj perifronîn
swthrˆas œk tinoj toioÚtou tolm»seie yÁfon
™negke‹n, taÚthn oÛtwj ¥kuron eŒnai
boulÚmeqa, æj mhd
™kkl»ton projde‹sqai mhd t¾n ™k
tîn komprom…sswn ™p£gein poin»n.
[40]
Nov. 82.11: 'Epeid¾ d polla…
tinej ¹m‹n g…nontai projeleÚseij aƒroumšnwn
tinîn dikast¦j panto…wj ¢nepist»monaj kaˆ
nÒmwn kaˆ pe…raj, kaˆ ØpÕ proqum…aj
ÑmnÚousin ™mmšnein to‹j dikasta‹j oŒj
oÙk ¥n tij oÙd' Ðtioàn pisteÚseien, eta
¢nape…qousin ‡swj kaˆ toÝj dikast¦j
tÕn toioàton dÁqen aÙto‹j Órkon
paršcein. ¥ndraj oÜte Ó t… potš ™sti
tÕ d…kaion oÜte t¾n aÙtoà
parat»rhsin ™pistamšnouj. kaˆ e„kÒtwj
blabšntej a„toàsin ™xetasqÁnai t¾n
ØpÒqesin ™pilaqÒmenoi tîn Órkwn ïn
êmosan, tÕ pr©gma ¹m‹n ™pistrofÁj
¥xion ™nom…sqh. 1. kaˆ ™peid»per œgnwmen
™k tÁj tîn pragm£twn pe…raj sfalerÕn enai
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g…nesqai pantelîj dikast¾n aƒretÕn kaˆ
met¦ tÁj ™x Órkwn ¢sfale…aj
dik£zesqai, †na m¾ ™nteàqen e„j ™piork…an
¢koÚsion ™mp…ptwsin ¥nqrwpoi di¦ t¾n
tîn dikastîn ¢maq…an ™piorke‹n
¢nagkazÒmenoi, ¢ll¦ p£ntwj oƒ tÕn
dikast¾n À toÝj dikast¦j aƒroÚmenoi
met¦ poinÁj aÙtoÝj ™pilegšsqwsan
ÐpÒshj ¨n t¦ mšrh prÕj ¥llhla
sumba‹en, kaˆ ¢n£gkhn ™cštwsan À
™mmšnein tÍ kr…sei À, e‡per
¢nayhlafÁsai boulhqe‹en, prÒteron doànai
tÕ prÒjtimon oÛtw te ¥deian œcein
¢nacwre‹n tîn kekrimšnwn kaˆ ™f' cwre‹n
dikast»n: tîn ¹metšrwn ¢rcÒntwn, e‡ ge
projeleusqe‹en, ™kbibazÒntwn t¦ prÒjtima
kaˆ to‹j taàta projtacqe‹si labe‹n
¢pokatastÁnai paraskeuazÒntwn. e„dÒtwn
tîn toÝj dikast¦j aƒpoumšnwn, æj e„
m¾ toàto pr£xaien mhd ™perwt»sousi
poin»n, ¢ll' o„hqîsin ¢rke‹n
aØto‹j t¾n ™k tîn Órkwn
¢sf£leian, eta oƒ dikastaˆ oƒ oÛtwj
aƒreqšntej bl£yousin aÙtoÚj, e„ mn
šxep…thdej, tù despÒtV qeù t¾n
poin¾n tÁj ™piork…aj Øfšxousin, e„
d ™x ¢maq…aj toàto Øposta‹en,
oÙdn par¦ toÝj Órkouj aÙto‹j
œstai plšon. oÜte g¦r ™piork…an par£
tinoj g…nesqai boulÒmeqa, oÜte aâqij toÝj
dikazomšnouj zhm…an Øf…stasqai meg£lhn dia
t¾n tîn dikastîn ¢maq…an par¦ t¾n
tîn Órkwn eÙlabeian sugcwroàmen. p£ntwn
tîn œmprosqen nenomoqethmšnwn e‡te ™k tÁj
¢rca…aj nomoqes…aj e‡te kaˆ par' ¹mîn
perˆ tîn compromissariwn dikastîn À ™pˆ
to‹j aƒreto‹j, cwrˆj mšntoi tÁj perˆ
tîn Órkwn ¢n£gkhj, menÒntwn ™pˆ
tÁj „d…aj „scÚoj kaˆ oÙdn
™k toàde ¹mîn toà nÒmou kainizomšnwn
(Quoniam vero multis petimur supplicationibus, cum nonnulli
iudices eligant et legum et usus forensis omnino ignaros, ac prompte iurent se
iudicibus acquiescere quibus haud facile quisquam quicquam commiserit, deinde
forte etiam iudicibus persuadeant ut eiusmodi quidem iusiurandum sibi
praestent, scilicet viris qui neque quid sit iustum neque quomodo observandum
sit cognitum habeant, atque non sine causa damno affecti iam ut res denuo
examinetur petant iurisiurandi quod iurarunt obliti, ea res nobis
animadversione digna visa est. 1. Et quia ex rerum experientia
periculosum id esse cognovimus, sancimus ne quis omnino in posterum fiat
arbiter neve quis cum cautione iureiurando praestita litiget, ne inde inviti in
periurium incidant homines propter iudicum ignorantiam peierare coacti; sed
omnino qui iudicem vel iudices eligunt, cum poenae stipulatione eos eligant
quantaecumque inter partes convenerit, et necesse habeant aut sententia stare
aut, si retractare velint, prius multam praestare atque ita veniam habere a
iudicato discedendi et ad alium iudicem accedendi; cum magistratus nostri, si
quidem interpellati sint, multas exigant efficiantque ut iis qui eas accipere
iussi sint restituantur. Ac sciant qui iudices eligunt, si hoc non egerint nec
poenam stipulati sint, sed sufficere sibi iurisiurandi cautionem putaverint, ac
deinde iudices ita electi damno eos afficiant, si quidem de industria, domino
deo eos periurii poenam daturos esse, sin autem per imperitiam id passi sint,
nihil eos praeter iusiurandum esse profecturos. Nam neque periurium a quoquam
committi volumus, neque rursus litigantes detrimentum magnum propter imperitiam
iudicum praeter iurisiurandi religionem subire patimur. Ceterum omnia quae
prius sive ex antiqua legislatione sive a nobis de compromissariis iudicibus
vel de arbitris sancita sunt (excepta tamen necessitate iurisiurandi) in
propria firmitate permaneant neve ex hac lege ullo modo innoventur).
[42]
Vedi in particolare lo scolio a Bas. 7.2.1 (B VII.2.1.1-2), dove vengono poste
in evidenza le similitudini tra i giudizi arbitrali e quelli ordinari.
[43]
Perˆ dikastîn ™mpr£ktwn kaˆ perˆ
toà m¾ toÝj paršdrouj prokat£rxeij dikîn
poie‹n m»te ¢pof£seij ™kfšrein (De iudicibus ordinariis et in actu positis, et ne apud
assessores litium contestationes fiant, neve ipsi sententias ferant).
[46] Scheltema, serie B, vol. I, 337 n. 2: Shme…wsai dš, Óti camaidikasta… e„sin
À oƒ par¦ ¥rcontoj doqšntej kompromiss£rioi, À
oƒ met¦ prost…mou ™pilegšntej aƒreto…,
À oƒ cwrˆj prost…mou. M. Talamanca, Ricerche in tema di ‘compromissum’, cit., 145 nt., il
quale esclude per il periodo bizantino l’esistenza di un compromesso
privo di pena, sostiene che il passo probabilmente si riferisce non ad arbitri
ex compromisso, ma ad arbitri dati dal magistrato. Tuttavia il testo non
sembra consentire questa interpretazione.
[47] C. 2.3.29 (Imperator Iustinianus A. Iohanni pp.): Si quis in conscribendo instrumento sese confessus
fuerit non usurum fori proscriptione propter cingulum militiae suae vel
dignitatis vel etiam sacerdotii praerogativam, licet ante dubitabatur, sive
oportet eandem scripturam tenere et eum qui hoc pactus est non debere adversus
suam conventionem venire, vel licentiam ei praestari decedere quidem a
scriptura, suo autem iure uti: sancimus nemini licere adversus pacta sua venire
et contrahentes decipere. 1. Si
enim ipso edicto praetoris pacta conventa, quae neque contra leges nec dolo
malo inita sunt, omnimodo observanda sunt, quare et in hac causa pacta non
valent, cum alia regula est iuris antiqui omnes licentiam habere his quae pro
se introducta sunt renuntiare? 2. Omnes itaque iudices nostri hoc in litibus observent, et huiusmodi
observatio et ad pedaneos iudices et ad compromissarios et arbitros electos
perveniat scituros, quod, si neglexerint, etiam litem suam facere intellegantur.
[48] sc. ad Bas. 7.2.14 (B VII.2.14.1-3): 1. [Kaˆ ¥llwj,
e„ ™nteqÍ] ™n tù sumfènJ. TÕ
g¦r di[kast»rion] toà [aƒretoà] ™n
ærismšnJ sumfènwn ... qem£twn kairù oÙ
m¾n sumfwnhqÍ, mšcri triet…aj ¹ crhmatik¾
¢gwg¾ kine‹tai par¦ tù aƒretù
æj ™pˆ tîn politikîn dikasthr…wn. 2. Mšcri
triet…aj À ™ntÕj, kaq' ¿n p©sa
crhmatik¾ d…kh sbšnnutai. 3. `H d
™gklhmatik¾ mšcri diet…aj.
[49]
In materia di arbitrato in Egitto rimando a A.A. Schiller, The Courts are no More, in Studi in onore
di E. Volterra, I, Milano 1971, 469 ss., e da ultimo a J. Urbanik, Compromesso o processo?,
cit., 377 ss., il quale analizza arbitrati egiziani in età tardo antica
e bizantina. Per un’ampia rassegna di papiri del VI secolo vedi anche
K.-H. Ziegler, Das
private Schiedsgericht im antiken römischen Recht, cit., 263 ss.
Interessante il rilievo di R. Mazza,
Ricerche sul pagarca nell’Egitto tardoantico e bizantino, in Aegyptus
75.1-2, 1995, 219, secondo il quale dai papiri emerge come in Egitto dal tardo
antico fino al periodo arabo compreso non fossero presenti «veri e propri
tribunali civili, ma per dirimere controversie riguardanti il diritto civile, i
funzionari dell’amministrazione pubblica esercitassero
l’arbitrato».
[50]
Vedi, in particolare, P. Lond. 1707 del 566 che testimonia un compromesso
contenente il giuramento: secondo M. Talamanca,
Ricerche in tema di
‘compromissum’, cit., 142 nt. 226, in Egitto la prassi non
teneva conto delle disposizioni contenute in Nov. 82.11.
[51]
Paul., I ad Corint. 6.1-7: 1. Audet
aliquis vestrum habens negotium adversus alterum iudicari apud iniquos et non
apud sanctos? 2.
An nescitis quoniam sancti de hoc mundo iudicabunt? Et si in vobis
iudicabitur mundus, indigni estis minimis iudicetis? 3. Nescitis quoniam
angelos iudicabimus? quanto magis saecularia? 4. Saecularia igitur
iudicia si habueritis, contemptibiles, qui sunt in ecclesia, illos constituite
ad iudicandum. 5. Ad verecundiam vestram dico. Sic non est inter vos
sapiens quisquam, qui possit iudicare inter fratrem suum? 6. Sed frater
cum fratre iudicio contendit, et hoc apud infideles? 7. Iam quidem
omnino delictum est vobis, quod iudicia habetis inter vos. Quare non magis iniuriam
accipitis? Quare non magis fraudem patimini? Cfr.
anche la Didascalia Apostolorum 2.6, trattato probabilmente del III
secolo, secondo cui le liti dei fedeli dovevano essere risolte dal vescovo. Con
il tempo l’ammonimento dell’apostolo venne in qualche modo
attenuato, tanto che due vescovi vissuti tra il IV e il V sec. interpretano la
lettera di Paolo di Tarso come un invito, e non come un obbligo: Theodorus
Mopsuesteni, in ep. I ad Corint. 6 (PG 66, coll. 881 e 884); Theodoretus, interpr.
ep. I ad Corint. 6 (PG 82, coll. 264
s.). Sul passo di Paolo rimando a O. Diliberto, Paolo di Tarso, ‘I ad
Cor.’, VI, 1-8, e le origini della giurisdizione ecclesiastica nelle
cause civili, in Studi
Economico-Giuridici. Università di Cagliari. Pubblicazioni della
Facoltà di Giurisprudenza 49.1,
1978-1979, 183 ss. L’invito dell’apostolo viene qualificato come
‘obbligo’ da S. Riccobono, L’influsso
del Cristianesimo sul diritto romano, in Atti del Congresso
Internazionale di diritto romano (Bologna e Roma XVII-XXVII aprile MCMXXXIII),
II, Roma, Pavia 1935, 78.
[52]
Mt 18.15-17: Si autem peccaverit in te frater tuus, vade, corripe eum inter
te et ipsum solum. Si te audierit, lucratus es fratrem tuum; 16. si
autem non audierit, adhibe tecum adhuc unum vel duos, ut in ore duorum testium
vel trium stet omne verbum; 17. quod si noluerit audire eos, dic
ecclesiae; si autem et ecclesiam noluerit audire, sit tibi sicut ethnicus et
publicanus. Bisogna, tuttavia, richiamare quanto sostenuto da O. Diliberto, Paolo di Tarso,
‘I ad Cor.’, VI, 1-8, e le origini della giurisdizione
ecclesiastica nelle cause civili,
cit., spec. 185 nt. 6, il quale, in una
prospettiva che evidenzia le differenze tra le singole comunità
cristiane primitive locali, ritiene fuorviante valutare sia il precetto
evangelico di Matteo, sia la lettera di Paolo «come un
‘sistema’ organico».
[53]
Così, ad es., B. Biondi, Il diritto romano cristiano, I. Orientamento religioso della legislazione, Milano 1952, 88. Vedi
invece I. Cremades, Derecho romano, comunidad cristiana y
‘episcopalis audientia’, in Seminarios
Complutenses de Derecho Romano 8, 1996, 117 s., il quale ritiene che il
precetto paolino sia da collegare con l’aspirazione ad un’etica
altruista, capace di eliminare le rivalità.
[54]
Nelle comunità cristiane delle origini, organizzate in modo
‘democratico’ (cfr. F. De
Martino, Storia della costituzione
romana, V, II ed., Napoli 1975, 41 e 58, letteratura a 41 nt. 5; I. Cremades, Derecho, cit.,
121; G. Jossa, Il
cristianesimo antico. Dalle origini al concilio di Nicea, Roma 1998, in
part. 58 s.), la soluzione di controversie tra fedeli non era necessariamente
affidata al capo spirituale. Nel corso dei primi due secoli d.C., tuttavia,
l’organizzazione cristiana acquisì una struttura di tipo
monarchico, e la conseguente rilevanza acquisita dalla figura del vescovo fece
sì che in lui si finì per identificare la ‘persona
saggia’ indicata da Paolo, considerato anche che la funzione arbitrale
rientrava nell’azione pastorale mirata al mantenimento della pace
all’interno della comunità. Su tutto ciò vedi O. Diliberto, Paolo di Tarso,
‘I ad Cor.’, VI, 1-8, e le origini della giurisdizione
ecclesiastica nelle cause civili,
cit., 197 ss., in part. 218.
[55]
C.Th. 2.1.10 (Impp.
Arcadius et Honorius AA. ad Eutychianum p(raefectum) p(raetori)o): Iudaei
Romano et communi iure viventes in his causis, quae non tam ad superstitionem
eorum quam ad forum et leges ac iura pertinent, adeant sollemni more iudicia
omnesque Romanis legibus inferant et excipiant actiones: postremo sub legibus
nostris sint. Sane si qui per conpromissum ad similitudinem arbitrorum, apud
Iudaeos vel patriarchas ex consensu partium in civili dumtaxat negotio
putaverint litigandum, sortiri eorum iudicium iure publico non vetentur: eorum
etiam sententias provinciarum iudices exsequantur, tanquam ex sententia
cognitoris arbitri fuerint adtributi. La stessa costituzione venne inserita
nella compilazione giustinianea, in C. 1.9.8, con alcune modifiche; per la
portata della norma in Giustiniano rispetto alla costituzione del Teodosiano
rimando a: G. Ferrari Delle Spade, Giurisdizione speciale ebraica
nell’impero romano cristiano, in Scritti in onore di C. Ferrini
pubblicati in occasione della sua beatificazione, I, Milano 1947, 239 ss.;
S. Solazzi, Ancora glossemi e interpolazioni
nel Codice Teodosiano, in Studia et Documenta Historiae et Iuris
13-14, 1947-48, 203 s.; B. Biondi, Il diritto romano cristiano, I, cit., 337 s.
[56]
L’intuizione è di B. Biondi, Il diritto romano cristiano, I, cit., 453; vedi inoltre G. Ferrari Delle Spade, Giurisdizione speciale ebraica
nell’impero romano cristiano, cit., 246. Interessante come sia in C.
1.9.8, sia nella Interpretatio ad C.Th. 2.1.10 non si faccia riferimento al
patriarca.
[57]
Nel Talmud di Babilonia (TB, Gittin 78b) è contenuto un precetto
affine a quello paolino, dato che si prescrive all’israelita di non
sottoporsi ai tribunali romani, anche in presenza di corrispondenza con la
legge di Israele: «Any place wherein you find court sessions in the
market-place, even though their laws are like the laws of Israel, you are not
permitted to rely on them» (trad. di P.S. Alexander, Jewish
Law in the time of Jesus: towards a clarification of the problem, in Law
and Religion. Essays
on the Place of the Law in Israel and Early Christianity, ed. B.
Lindars, Cambridge 1988, 47). Vedi al riguardo G. Barone-Adesi, L’età della ‘lex
Dei’, Napoli 1992, 74.
[58] Vedi, ad es.: J. Juster, Les Juifs dans l’Empire Romain. II. Leur
condition juridique, économique et sociale, Paris 1914, 37 s., 96
s., 110 ss.; G. Vismara, Episcopalis audientia. L’attività
giurisdizionale del Vescovo per la risoluzione delle controversie private tra
laici nel diritto romano e nella storia del diritto italiano fino al secolo
nono, Milano 1937, 4 s.;
V. Colorni, Legge
ebraica e leggi locali. Ricerche sull’ambito d’applicazione del
diritto ebraico in Italia dall’epoca romana al secolo XIX, Milano
1945, 103 ss.; A. Mordechai Rabello, Sui rapporti fra Diocleziano e gli
Ebrei, in Atti dell’Accademia Romanistica Costantiniana. II Convegno internazionale, Perugia 1976, 180, 195 s. (bibl. a. 180
s. nt. 63); Id., Jewish and
Roman Jurisdiction, in An Introduction to the History and Sources of
Jewish Law, edd. N.S. Hecht, B.S. Jackson, S.M. Passamaneck, D. Piattelli,
A.M. Rabello, Oxford 1996, 153 s.; M. Simon,
Verus Israel. Étude
sur les relations entre chrétiens et juifs dans l’empire romain
(135-425),
Paris 1983, 158; F.J. Cuena Boy, La ‘episcopalis audientia’,
Valladolid 1985, 15 ss.
[59] Così: A. Amanieu, v. Arbitrage, in Dictionnaire de Droit
Canonique, I, Paris 1935, col. 864; B. Cohen,
Arbitration in Jewish and Roman Law,
in Revue Internationale des Droits de
l’Antiquité 5,
1958, 165 ss. (ora
in Id., Jewish and Roman Law. A Comparative Study. II, New York 1966, 651 ss.).
[60]
Così, ad es.: P. de Francisci,
Per la storia dell’episcopalis audientia. Fino alla Nov. XXXV (XXXIV)
di Valentiniano, in Annali della Facoltà di Giurisprudenza di
Perugia (Scritti O. Scalvati) 30, 1915-1918, 49; A. Amanieu, v. Arbitrage, cit.,
col. 864; G. Vismara, Episcopalis
audientia, cit., 4; V. Colorni, Legge ebraica e leggi locali, cit., 122 s. Vedi anche M.R. Cimma, L’‘episcopalis audientia’ nelle costituzioni imperiali
da Costantino a Giustiniano, Torino 1989, 31 s., per cui «altri
fattori dovettero giocare», oltre all’invito di Paolo,
«almeno in alcuni contesti culturali, a favore di soluzioni arbitrali
all’interno della comunità». Tra questi fattori l’autrice
individua «l’esempio di quanto avveniva nella comunità
ebraica, e il fatto che l’arbitrato fosse praticato e trovasse tutela
nell’ordinamento romano» (bibliografia ivi a nt. 2). Inoltre, la
studiosa sostiene che lo stesso Costantino attribuì poteri ai vescovi tenendo
presente il ruolo del patriarca ebraico (78).
[61]
E. Volterra, rec. a G.
Vismara, op. cit., in Studia et Documenta Historiae
et Iuris 13-14, 1947-48, 358.
Vedi ancora a riguardo: J. Lammeyer,
Die ‘audientia episcopalis’ in Zivilsachen der Laien in römischen
Kaiserrecht und in den Papyri, in Aegyptus 13.1, 1933, 194; F.J. Cuena Boy, La ‘episcopalis audientia’, cit., 2, 15 ss. Cfr. J. Gaudemet, L’Église dans
l’Empire romain (IVe-Ve siècles), Paris [1958], 231 nt., per
il quale, essendo i privilegi delle corti ebraiche più risalenti, questi
forse servirono da modello per i tribunali cristiani; tuttavia, «la
comparaison des deux législations ne ferait d’ailleurs pas
apparaître que des analogies».
[62]
C.Sirm. 1 (Imp. Constantinus A. ad Ablabium p(raefectum) p(raetori)o):
… Sanximus namque, sicut edicti
nostri forma declarat, sententias episcoporum quolibet genere latas sine aliqua
aetatis discretione inviolatas semper incorruptasque servari; scilicet ut pro
sanctis semper ac venerabilibus habeantur, quidquid episcoporum fuerit
sententia terminatum. Sive itaque inter minores sive inter maiores ab episcopis
fuerit iudicatum, apud vos, qui iudiciorum summam tenetis, et apud ceteros
omnes iudices ad exsecutionem volumus pertinere. Quicumque itaque litem habens, sive possessor sive petitor vel inter
initia litis vel decursis temporum curriculis, sive cum negotium peroratur,
sive cum iam coeperit promi sententia, iudicium elegerit sacrosanctae legis
antistitis, ilico sine aliqua dubitatione, etiamsi alia pars refragatur, ad
episcopum personae litigantium dirigantur. ... Omnes itaque causae, quae vel
praetorio iure vel civili tractantur, episcoporum sententiis terminatae
perpetuo stabilitatis iure firmentur, nec liceat ulterius retractari negotium,
quod episcoporum sententia deciderit. Testimonium etiam ab uno licet episcopo
perhibitum omnis iudex indubitanter accipiat nec alius audiatur testis, cum
testimonium episcopi a qualibet parte fuerit repromissum.
[63]
C.Th. 1.27.1 (Imp. Constantinus A.): Iudex pro sua sollicitudine
observare debebit, ut, si ad episcopale iudicium provocetur, silentium
accommodetur et, si quis ad legem Christianam negotium transferre voluerit et
illud iudicium observare, audiatur, etiamsi negotium apud iudicem sit
inchoatum, et pro sanctis habeatur, quidquid ab his fuerit iudicatum: ita
tamen, ne usurpetur in eo, ut unus ex litigantibus pergat ad supra dictum
auditorium et arbitrium suum enuntiet. Iudex enim praesentis causae integre
habere debet arbitrium, ut omnibus accepto latis pronuntiet. Sospetta
l’autenticità della norma P. de
Francisci, Per la storia dell’episcopalis audientia, cit.,
52 s., seguito da E. Volterra, rec.
a G. Vismara, cit., 359. Contra W. Selb, Episcopalis
audientia von der Zeit Konstantins bis zur Nov. XXXV Valentinians III, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für
Rechtsgeschichte. Romanistische Abteilung 84,
1967, 171.
Diversi
sono i problemi legati alla norma, tra questi l’individuazione di chi
fosse il iudex praesentis causae a cui si riferisce l’ultima
frase, a cui la letteratura ha cercato di dare soluzione. Ad es. secondo G. Vismara, Episcopalis audientia, cit.,
15, si tratterebbe del magistrato a cui si era domandata l’esecuzione
della sentenza del vescovo, per la quale, sostiene l’autore, era
necessario ‘l’exequatur’ di un funzionario secolare (vedi anche 18, 21, 45); al
contrario W. SELB, Ivi, 182 ss. - a mio avviso con maggiore credibilità - ritiene
trattarsi del giudice ordinario presso il quale la causa che era stata sospesa
pendeva prima dell’adizione del vescovo. Il magistrato avrebbe dovuto
emanare la propria sentenza in conformità con la decisione episcopale,
previa accettazione delle parti.
[64] I problemi intorno la datazione sono stati
sollevati da O. Seeck, Die
Zeitfolge der Gesetze Constantin, in Zeitschrift
der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Kanonistische Abteilung 10, 1889, 220; Id.,
Regesten der Kaiser und Päpste, 311-476, Stuttgart 1919, 168, 182,
a causa soprattutto dell’indicazione come luogo di emanazione di Costantinopoli,
e di Crispo come console.
[65]
G. Barone-Adesi, L’età
della ‘lex Dei’, cit., 115 s., afferma come le due costituzioni
costantiniane riflettano due differenti fasi dell’influenza dell’Ecclesia
rispetto all’imperium. Nella prima costituzione il legislatore,
infatti, contemperò le istanze che provenivano dalla Chiesa, che voleva
che si garantisse l’esecuzione delle decisioni arbitrali, con le istanze
laiche, che erano riluttanti a ricorrere al giudizio episcopale. La C.Sirm. 1,
invece, comportò il «trionfo della lex Christiana, realizzato mediante l’equiparazione alla
giurisdizione laica di quella ecclesiastica».
[66] Singolare la traduzione offerta alla locuzione lex Christiana da H.A. Drake,
Constantine and the Bishops. The Politics of Intolerance, Baltimore and London 2000, 322:
«to the jurisdiction of the Christian law». L’interpretazione di queste parole ha dato origine ad
opinioni diverse. Secondo G. Vismara,
Episcopalis audientia,
cit., 17, la lex
Cristiana sarebbe «quel complesso di precetti giuridici che
costituiscono il diritto canonico»; mentre per W. Selb, Episcopalis audientia von der Zeit
Konstantins bis zur Nov. XXXV Valentinians III, cit., 185 (seguito da M.R. Cimma, L’‘episcopalis
audientia’ nelle costituzioni imperiali da Costantino a
Giustiniano, cit., 58),
l’intera frase esprime soltanto la possibilità di portare la
controversia dinanzi un giudice cristiano, senza alcuna volontà di
riferirsi ad un complesso di norme specificamente cristiane.
[67] Ritengono che tale norma si applicasse solo in caso ambedue le
parti volessero rivolgersi al giudizio del vescovo, ad es.: M. Sargenti, Il
diritto privato nella legislazione di Costantino. Persone e famiglia,
Milano 1938, 18 nt. 2; Id., Costantino nella storia del diritto, in Costantino il Grande
dall’antichità all’Umanesimo. Colloquio sul Cristianesimo
nel mondo antico. Macerata 18 – 20 Dicembre 1990, Tomo II, a cura di
G. Bonamente e F. Fusco, Macerata 1993, 877; H. Jaeger, Justinien
et l’‘episcopalis audientia’, in Revue Historique de Droit français et étranger 38, 1960, 220, 229; C.G. Mor,
Sui poteri civili dei vescovi dal IV al secolo VIII, in I poteri
temporali dei Vescovi in Italia e in Germania nel Medioevo, a cura di C.G.
Mor e H. Schmidinger, Bologna 1979, 10, 16; M.R. Cimma, L’‘episcopalis
audientia’ nelle costituzioni imperiali da Costantino a
Giustiniano, cit., 55; G. Buigues Oliver, La
solución amistosa de los conflictos en Derecho romano: el arbiter ex
compromisso, Madrid 1990, 146 ss.; G. Barone-Adesi, L’età
della ‘lex Dei’, cit., 114; F. Pergami, L’appello nella legislazione del tardo
impero, Milano 2000, 361
nt. 129; O. Huck, La ‘création’ de
l’‘audientia episcopalis’ par Constantin, in Empire
Chrétien et Église aux IVe et Ve siècles. Intégration ou ‘concordat’?
Le témoignage du ‘Code Théodosien’, Actes du Colloque International (Lyon,
6, 7 et 8 octobre 2005), éd. J.-N. Guinot et F. Richard, Paris 2008,
361.
Di diverso avviso, sostenendo la
possibilità unilaterale di far ricorso al vescovo, vedi ad es.: G. Vismara, Episcopalis audientia, cit.,
17 s., 26, 38; B. Biondi, Il diritto romano cristiano, I, cit., 446; J. Gaudemet, L’Église dans
l’Empire romain (IVe-Ve siècles), cit., 232 s.; W. Waldstein, Zur Stellung der
episcopalis audientia im spätrömischen Prozess, in Festschrift
für M. Kaser zum 70. Geburtstag, München 1976, 543 ss.; C. Gebbia, Sant’Agostino e l’‘episcopalis
audientia’, in L’Africa romana, Atti del VI convegno
di studio, Sassari, 16-18 dicembre 1988, a cura di A. Mastino, Sassari 1989,
684; P.G. Caron, I tribunali
della Chiesa nel diritto del tardo impero, in Atti dell’Accademia
Romanistica Costantiniana. XI Convegno internazionale, Napoli 1996, 247 s.
[68] Secondo Eusebio di Cesarea, vit. Const. 4.27 (PG 20, col.
1176) Costantino stabilì l’inappellabilità delle sentenze
episcopali, in quanto i sacerdoti erano da preferire a qualsiasi giudice: ... æj m¾ ™xe‹nai to‹j tîn
™qnîn ¥rcousi, t¦ dÒxanta paralÚein :
pantÕj g¦r enai dikastoà toÝj
ƒere‹j toà Qeoà dokimwtšrouj.
[69]
Per la dimostrazione della genuinità di C.Sirm. 1, e dell’intera
raccolta, vedi M.R. Cimma, A proposito delle ‘constitutiones
Sirmondianae’, in Atti
dell’Accademia Romanistica Costantiniana. X Convegno internazionale,
Napoli 1995, 359 ss., in part. 385-388 (ivi letteratura).
Uno
dei tanti problemi che solleva C.Sirm. 1 è legato al suo richiamo ad una
costituzione anteriore, che una parte della letteratura ha individuato in
un’ulteriore norma a noi non giunta, a fronte dell’assenza di
dettagliate disposizioni in C.Th. 1.27.1, presenti invece in C.Sirm. 1. Per
l’impossibilità di una soluzione al problema, «in quanto non
sappiamo se il testo di C.Th. 1,27,1 sia il testo originale», rimando a M.R. Cimma, L’‘episcopalis
audientia’ nelle costituzioni imperiali da Costantino a
Giustiniano,
cit., 36 nt. 15 (bibl. a nt. 35).
[70]
Oltre al J. Gaudemet,
L’Église dans l’Empire romain (IVe-Ve siècles),
cit., 232 s., altri autori hanno affermato l’eccessivo potere che
Costantino attribuì ai vescovi con questa costituzione. Vedi, ad es.: F. De Martino, Storia della
costituzione romana, V, cit., 492, per il quale Costantino concesse ai
vescovi un «esteso e poco giustificabile potere»; F. De Marini Avonzo, Diritto
e giustizia nell’Occidente tardoantico, in La giustizia nell’Alto Medioevo (secoli V-VIII). Spoleto
7-13 aprile 1994, Spoleto 1995, 114 (ora in Ead., Dall’impero
cristiano al medioevo. Studi sul diritto tardo antico, Goldbach 2001, 272);
A. Marcone, Pagano
e cristiano. Vita e mito di Costantino, Roma-Bari 2002, 159.
[71]
Una parte della dottrina ritiene che le due costituzioni costantiniane si
riferissero anche ai processi criminali. Vedi però M.R. Cimma, L’‘episcopalis audientia’ nelle costituzioni
imperiali da Costantino a Giustiniano, cit., 34 s. nt. 7 (bibl. ivi), la quale dimostra che la normativa di
Costantino era diretta alle sole cause civili. L’autrice sottolinea
inoltre che entrambe le costituzioni si riferiscono a liti dove potevano
comparire anche chierici, in assenza di qualsiasi riferimento alle sole
controversie fra laici (35 s.).
[72]
Sul punto vedi F. Pergami, Giurisdizione
civile e giurisdizione ecclesiastica nella legislazione del Tardo impero,
in Processo civile e processo penale nell’esperienza giuridica del
mondo Antico, Atti del Convegno in memoria di A. Biscardi. Siena,
Certosa di Pontignano, 13-15 dicembre 2001 (collana della Rivista di
diritto romano
http://www.ledonline.it/rivistadirittoromano/attipontignano.html), 2 ss., il
quale, pur riconoscendo che le costituzioni di Costantino prevedevano la
definitività delle sentenze episcopali in materia civile, evidenzia per
il periodo in esame la possibilità di interferenze tra la giurisdizione
civile e quella ecclesiastica.
[73] Affermano il carattere giurisdizionale dell’episcopalis
audientia ex C.Sirm.1, ovviamente sulla base delle singole
prospettive generali di cui non posso dar conto per l’economia del
discorso, ad es.: J. Lammeyer, Die
‘audientia episcopalis’ in Zivilsachen der Laien in römischen
Kaiserrecht und in den Papyri, cit., 195; G. Vismara, Episcopalis
audientia, cit.,
26 ss.; Id., Ancora sulla ‘episcopalis
audientia’ (Ambrogio arbitro o giudice?), in Studia et Documenta
Historiae et Iuris 53, 1987, 53 ss., in
part. 55 s., 58, 69; Id., La giurisdizione civile dei vescovi (secoli
I-X), Milano 1995, 53 ss.; V. Colorni, Legge
ebraica e leggi locali, cit., 127 ss., per il quale tuttavia con Costantino
la giurisdizione del vescovo venne riconosciuta soltanto in Oriente; J. Gaudemet, L’Église dans
l’Empire romain (IVe-Ve siècles), cit., 230 ss.; W. Waldstein, Zur Stellung der
episcopalis audientia im spätrömischen Prozess, cit., 543 ss.;
Á. d’Ors, El arbitraje jurídico, cit., 280;
M.R. Cimma, A
proposito delle ‘constitutiones Sirmondianae’, cit., 381; F. Pergami, L’appello nella
legislazione del tardo impero,
cit., 361 nt. 129, per il quale C.Sirm. 1 «farebbe pensare ad una
vera e propria attribuzione di competenze giurisdizionali esclusive»; T. Spagnuolo Vigorita, Il processo civile, in Diritto
privato romano. Un profilo storico, a cura di A. Schiavone, Torino 2003,
174, il quale, per quanto
riguarda i giudizi dei vescovi emanati su accordo delle parti, sostiene che le
decisioni episcopali vennero equiparate a quelle dei giudici ordinari; O. Huck, La ‘création’ de l’‘audientia
episcopalis’ par Constantin, cit., 304.
Parlano
di arbitrato, ad es.: P. de Francisci,
Per la storia dell’episcopalis audientia, cit., 51 ss.; E. Volterra, rec. a G. Vismara,
cit., 355 ss.; H. Jaeger, Justinien
et l’‘episcopalis audientia’, cit., 215, 220, 231, pur
rilevando differenze di forma rispetto all’arbitrato civile; C.G. Mor, Sui
poteri civili dei vescovi dal IV al secolo VIII, cit., in part. 18 s.,
secondo cui solo con Nov. Val. 35 pr. si avrà vera giurisdizione; F.J. Cuena Boy, La ‘episcopalis audientia’, cit., 34, 56 s., 67. Nega un potere
giurisdizionale per il vescovo, G. Masi,
L’udienza vescovile nelle cause laiche da Costantino ai Franchi
(Spunti ed orientamenti), in Archivio Giuridico 121, 1939, 87 ss.,
mentre P. Maymó, La legislació constantiniana
respecte a l’‘episcopalis audientia’, in Pyrenae
30, 1999, 196 nt. 25, 198 (ulteriore bibliografia ivi) per il IV secolo
sostiene una soluzione intermedia, dove si oscilla tra arbitrato e
giurisdizione. Non prende posizione I. Cremades,
Derecho, cit., 101 ss., sottolineando il
«dificíl encasillamiento morfológico de la figura en uno u
otro término de la disyuntiva».
[74]
Sulla questione vedi B. Biondi, Il diritto romano cristiano, III. La famiglia – rapporti patrimoniali – diritto pubblico,
Milano 1954, 381, il quale ipotizza che il giudizio episcopale non seguisse il
modello del processo ordinario, ma fosse assai meno formale. Vedi anche J. Gaudemet, L’Église dans
l’Empire romain (IVe-Ve siècles), cit., 237, secondo cui
l’episcopalis audientia possedeva «une forme
imprecise». Del resto la scarsa attenzione da parte della cancelleria di
Costantino ai problemi derivanti dall’attuazione pratica di costituzioni
ispirate a principi cristiani è stata messa in luce da E. Volterra: Intorno ad alcune costituzioni
di Costantino, in Rendiconti dell’Accademia Nazionale dei Lincei Sc.
mor., serie VIII, 13, fasc. 3-4, 1958, 61 ss.; Quelques remarques sur le style des
constitutions de Constantin, in Droit de l’Antiquité et
Sociologie Juridique, Mélanges H. Lévy-Bruhl, Paris
1959, 325 ss.
[75] Symm., ep. 3.36
(PL 18, coll. 209 s.): (Symmachus Ambrosio) Filius meus Caecilianus
vir clarissimus, qui nunc communis patriae gubernat annonam, certo cognovit
indicio, adversarium suum Pyratam nomine, vel ejus procuratorem, spem tui
favoris hausisse. Negavi solere te recipere in tuam curam pecuniarias actiones.
Ille tamen, ut est hominum plerumque supervacua trepidatio, consentaneas
sanctis moribus tuis de me litteras postulavit. Non abnui operam facilia et
justa poscenti. Summa est igitur impositi mihi muneris, contra absentem civem,
simulque districtum publicis curis, non sinas quidquam de justitia tua sperare
praesidium. Sunt fora, sunt leges, sunt
tribunalia, sunt magistratus, quibus litigator utatur salva conscientia tua.
Vale. La lettera è stata
ampiamente studiata da G. Vismara, Ancora
sulla ‘episcopalis audientia’ (Ambrogio arbitro o giudice?), cit., 53 ss., in part. 65 ss.
Vedi anche P. Maymó, La legislació constantiniana
respecte a l’‘episcopalis audientia’, cit., 200. Da
notare che lo stesso Simmaco sottolinea come Ambrogio fosse solito rifiutare di
giudicare cause pecuniarie, atteggiamento esplicitamente affermato dallo stesso
vescovo di Milano, il quale afferma (de off. min. 2.24.125, PL 16, col.
136) “licet ... silere in negotio duntaxat pecuniario”.
[76]
Theodoretus, relig. hist. 17 (PG 82, col. 1424) narra di Abramo di
Carrhae (350-422 ca) il quale, divenuto vescovo, dedicava la sua giornata alle
controversie, persuadendo o costringendo i litiganti alla riconciliazione.
[78]
Per la competenza territoriale vedi Codex canonum Ecclesiae Africanae c.
121 (Mansi 3, col. 819, infra,
nt. 116). Secondo J. Gaudemet,
L’Église dans l’Empire romain (IVe-Ve siècles),
cit., 239 (seguito da C. Gebbia, Sant’Agostino
e l’‘episcopalis audientia’, cit., 688), la competenza
del vescovo era limitata alla sua diocesi; eppure l’autore sostiene che indubbiamente
doveva essere difficile sia contenere i vescovi all’interno della loro
circoscrizione territoriale, sia impedire ai contendenti di scegliere il
giudice al di fuori.
[79] Ambros., ep. 82 (PL 16, coll.
1276 ss.). Commento in G. Vismara, Ancora sulla
‘episcopalis audientia’ (Ambrogio arbitro o giudice?), cit., 59 ss.
[80]
Ambros., ep. 82.2 (PL 16, col. 1276): ... Cum jam conclusi essent
dies, et paucarum horarum superesset spatium, quibus tamen alia audiret
praefectus negotia; petierunt causae patroni prorogari paucorum dierum tempora,
ut ego residerem cognitor. Tantus ardor erat christianis viris, ne praefectus de
episcopi judicaret negotio. Aiebant praeterea nescio quae gesta indecore, et
pro suo quisque studio jactabat, quae episcopo potius judice, quam praefecto examinari
oporteret.
[81]
Così G. Vismara, Ancora
sulla ‘episcopalis audientia’ (Ambrogio arbitro o giudice?), cit., 60 ss. e nt. 16, il
quale esclude l’obbligo del ricorso al tribunale del vescovo in
virtù di un privilegium fori, come ha sostenuto F.J. Cuena Boy, La ‘episcopalis audientia’, cit., 74 nt. 48.
[82]
Così G. Vismara (Ancora
sulla ‘episcopalis audientia’ (Ambrogio arbitro o giudice?), cit., 64 s.) interpreta le
parole di Ambrogio: “... recepi cognitionem, ita tamen ut compositionis
essem arbiter” (ep.
82.3, PL 16, col. 1276).
[83]
Ambros., ep. 82.1 (PL 16, col. 1276): ... Cognovi autem secundum
sacrae formam praeceptionis, in quam me induit et beatissimi Apostoli
auctoritas, et tuae doctrinae ac vitae forma et disciplina; 3 (PL 16, col.
1276): His confusus, simul admonitus Apostolicae praeceptionis, quae arguit,
dicens: ‘Nonne de
iis qui intus sunt, vos judicatis’ (I Cor. V, 12)?
Et iterum: ‘Saecularia
igitur judicia si habueritis, contemptibiles qui sunt in Ecclesia, illos constituite
ad judicandum. Ad verecundiam vestram dico. Sic non est inter vos sapiens quisquam, qui
possit judicare inter fratrem suum: sed frater cum fratre judicio contendit, et
hoc apud infideles’ (I Cor. VI, 4) ...
[84]
Così M. Sargenti-R.B.B. Siola,
Normativa imperiale e diritto romano negli scritti di S. Ambrogio.
Epistulæ – De officiis – Orationes funebres, Milano 1991, 8, secondo i
quali tutta la lettera è diretta ad accentuare il carattere arbitrale
dell’intervento di Ambrogio.
[85]
Altresì sotto Giustiniano appare la possibilità di nominare un
arbitro scelto dalle parti anche in pendenza di giudizio, come attesta Nov. 93
del 539, da cui emerge tale facoltà anche in grado di appello. La norma
fa riferimento ad arbitri scelti, mentre più precisa appare l’Epitome
Iuliani che parla di compromissarios arbitros (c. 87, cap. 335).
[86]
Ambros., ep. 21.15 (PL 16, col. 1006): Si tractandum est, tractare in
Ecclesia didici: quod majores fecerunt mei. Si conferendum de fide, sacerdotum debet
esse ista collatio, sicut factum est sub Constantino augustae memoriae
principe, qui nullas leges ante praemisit, sed liberum dedit judicum
sacerdotibus. Commento in M.
Sargenti-R.B.B. Siola, Normativa imperiale e diritto romano negli
scritti di S. Ambrogio, cit., 2 ss.
[87]
Così in M. Sargenti-R.B.B. Siola,
Normativa imperiale e diritto romano negli scritti di S.
Ambrogio, cit., 42.
[88] Ambros., expos. psalm. 118.20.36 (PL 15, col. 1494): Ergo et hic personam judicis, propositumque suscepit, dicens: ‘Non possum a me facere quidquam’ (Joan. V, 30). Bonus enim judex (3, quaest. 7, cap. Judicet, § Bonus) nihil ex arbitrio suo facit, et domesticae proposito voluntatis, sed juxta leges et jura pronuntiat, scitis juris obtemperat, non indulget propriae voluntati: nihil paratum et meditatum domo defert: sed sicut audit, ita judicat; et sicut se habet negotii natura, decernit. Obsequitur legibus, non adversatur: examinat causae merita, non mutat. Vedi anche expos. psalm. 118.20.39 (PL 15, col. 1495): Audite quid verus judex loquatur: ‘Non quaero voluntatem meam, sed voluntatem ejus qui misit me’ (Joan. V, 30). Quasi homo loquitur: quasi judex docet: quoniam qui judicat, non voluntati suae obtemperare debet, sed tenere quod legum est (3, quaest. 7, cap. Judicet. § Qui). Constitue judicem de hoc saeculo: numquid potest adversum imperialis formam venire rescripti? Numquid potest normam augustae definitionis excedere? Quanto magis divini formam debemus servare judicii!
[89]
Del resto come ha ben sottolineato B. Biondi, L’influenza di
sant’Ambrogio sulla legislazione religiosa del suo tempo, in Id., Scritti giuridici. I.
Diritto romano. Problemi generali, Milano 1965, 649 ss. (già in Sant’Ambrogio
nel XVI Centenario della sua nascita, Milano, 1940, 337 ss.), Ambrogio precedentemente
alla sua investitura sacerdotale aveva avuto esperienze in ambito di
amministrazione e possedeva un’ampia conoscenza giuridica.
[92]
Sanctus Aurelius Augustinus, Epistolae ex duobus codicibus nuper
in lucem prolatae, ed. J. Divjak,
[Corpus
scriptorum ecclesiasticorum Latinorum 88], Vindobonae 1981. N.E. Lenski, Evidence for
the ‘Audientia episcopalis’ in the New Letters of Augustine,
in Law, Society, and Authority in Late Antiquity, ed. by R.W. Mathisen,
Oxford 2001, 83, ha sottolineato l’importanza di queste lettere che a suo
avviso possono servire a gettare luce su questioni irrisolte intorno al
giudizio episcopale.
[93]
August., ep. 24* (CSEL 88, 126 s.;
BAug 46B, 382 ss.), Domino eximio meritoque honorabili ac desiderantissimo
filio Eustochio Augustinus in Domino salutem. 1. Cum omnibus
consultoribus tuis vera responsa fideliter debeas, quanto magis nobis ministris
Christi, cuius fide fidelis es, ad capessendam hereditatem, cuius testamentum
Evangelium est, Domine ille ... Quoniam ergo praecepit Apostolus, ut
saecularia iudicia si inter se habuerint Christiani, ea non in foro sed in
ecclesia fiant, unde nos necesse est perpeti tales iurgantium quaestiones, in
quibus nobis etiam terrena iura quaerenda sint, praecipue de condicione hominum
temporali (quod possumus secundum apostolicam disciplinam, ut dominis suis sint
subditi, servis praecipere, non autem liberis iugum servitutis imponere), peto
sincerissimam Caritatem tuam, ut me digneris instruere quid observandum sit de
his qui de libera nascuntur et servo. Nam de ancilla et libero servos nasci iam
scio; quid etiam de his quorum patres definito numero annorum operas vendunt?
Quaero enim utrum defunctis venditoribus patribus eumdem annorum numerum
cogantur implere an eorum a quibus venditi vel potius quodammodo locati
fuerant, morte liberantur, quoniam esse iam sui iuris, ut perhibetur,
incipiunt; quaero etiam utrum liberi patres possunt vendere filios in perpetuam
servitutem et utrum matres possint vel operas vendere filiorum; item quaero
utrum, si colonus vendiderit filium, quemadmodum licet ut vendatur a patre,
plus in illo qui venditur iuris habeat emptor quam possessionis dominus, unde
colonatus originem trahit, et utrum liceat possessori servos facere colonos vel
filios colonorum suorum. 2. [Quaero] etiam quid de his actoribus liquido
sit iure vel legibus constitutum, durissimum enim mihi videtur ingenuitati
praeiudicari et beneficio suo; nam ut sint actores saepe ingenui homines
postulantur et beneficium se praestare existimant, si faciant quod petuntur et
re vera praestant usque adeo, ut ille qui petiit etiam gratias agat si
impetrare meruerit; quo beneficio suo si homo liber servus efficitur, nullo
modo faceret, si hoc sciret, sed nec quisquam hoc ab sciente petere auderet.
Moveor tamen quibusdam constitutionibus quae mihi oblatae sunt, cum talis apud
nos de cuiusdam filiis quaestio verteretur quem fuisse actorem fortasse
probabitur; sed eum qui contendit nolo cogere ut probet, nisi prius noverim
quid sequar, si forte probaverit. Proinde easdem constitutiones misi
considerandas Eximietati tuae, quarum duas sentio ipsam rem loqui, ceteras
autem aut non intellego, aut ad id quod quaeritur omnino non pertinent. Obsecro ut me adiuves etiam corpore
absentem, sicut soles adiuvare praesentem. Vedi
S. Toscano, Casi di ordinaria
giustizia nelle epistole Divjak di Agostino, in Atti
dell’Accademia Romanistica Costantiniana XI, cit., 547 ss., che sottolinea la rilevanza di questa fonte,
sminuita invece da C. Gebbia, Sant’Agostino
e l’‘episcopalis audientia’, cit., 690.
[94]
N.E. Lenski, Evidence for the ‘Audientia
episcopalis’ in the New Letters of Augustine, cit., 84, ha
evidenziato che si tratta dell’unica lettera agostiniana compresa nel
nuovo corpus che sollevi problemi prettamente giuridici irrilevanti per
la materia ecclesiastica.
[95] Decr. Grat. D. 4, c. 3 (PL 187, col. 35): ‘In istis temporalibus legibus, quamquam de his homines judicent, quum eas instituunt, tamen quum fuerint institutae et firmatae, non licebit judici de ipsis judicare, sed secundum ipsas’. Leges instituuntur, quum promulgantur; firmantur, quum moribus utentium approbantur. Sicut enim moribus utentium in contrarium nonnullae leges hodie abrogatae sunt, ita moribus utentium ipsae leges confirmantur. Unde illud Telesphori Papae (qui decrevit, ut generaliter clerici a quinquagesima a carnibus et deliciis jejunent) quia moribus utentium approbatum non est, aliter agentes transgressionis reos non arguit. Cfr. Hieron., comm. in ep. ad Titum 1.8.9 (PL 16, col. 569): Justus quoque et sanctus episcopus esse debet, ut justitiam in populis quibus praeest, exerceat, reddens unicuique quod meretur: nec accipiat personam in judicio. Inter laici autem et episcopi justitiam hoc interest, quod laicus potest apparere justus in paucis, episcopus vero in tot exercere justitiam potest, quot et subditos habet. Sul passo vedi P. Maymó, La legislació constantiniana respecte a l’‘episcopalis audientia’, cit., 197 nt. 32.
[96]
Isidorus Pelusiotae (IV-V sec.) nel suo Epistolarum spesso tratta dei
giudizi, indicando le linee di condotta cui i giudicanti si dovevano attenere.
Vedi ad es.: ep. I.137 (PG 78, col. 273); ep. II.207 (PG 78, col.
648); ep. II.269 (PG 78, col. 697); ep. III.9 (PG 78, col. 733);
ep. III.250 (PG 78, col. 929); ep. V.37 (PG 78, col. 1349).
[97]
Nel IV sec. Gregorius Nyssenus, de vita S. Greg. Thaum. (PG 46, col.
925), racconta un episodio della vita di Gregorio Nazianzeno intorno a una
controversia tra due giovani fratelli. Siamo di fronte a un arbitrato
(così E. Volterra, rec.
a G. Vismara, cit., 364), anche se poi Gregorio Nazianzeno
procedette ad un miracolo per evitare che la contesa avesse seguito. In
qualità di arbitro egli si apprestò a dirimere la controversia
avvalendosi di criteri personali: “G…netai
oân tÁj d…khj kÚrioj Ð did£skaloj. Kaˆ
kat¦ tÕn tÒpon genÒmenoj, to‹j
„d…oij aÙtoà nÒmoij ™kšcrhto
trÕj t¾n d…aitan”.
Sostengono
la libertà di determinazione dell’arbitro ex compromisso
rispetto al diritto oggettivo, ad es., E. De
Ruggiero, L’arbitrato pubblico in relazione col
privato presso i Romani, cit., 18, 181, 204; C.G. Mor, Sui
poteri civili dei vescovi dal IV al secolo VIII, cit., 16 s.; J. Paricio, Notas
sobre la sentencia del ‘arbiter ex compromisso’, cit., 290 ss.
Vedi
invece coloro che ritengono la questione ancora aperta: M. Talamanca, Ricerche in tema di ‘compromissum’, cit., 28, anche se
l’autore ritiene che l’arbitro giudicasse secondo il diritto
oggettivo, a meno che le parti non avessero dato indicazioni diverse (concetto
che Talamanca ribadisce nella sua recensione allo Ziegler: L’arbitrato romano dai veteres a Giustiniano, in Labeo
20, 1974, 96); G. Buigues Oliver, La
solución amistosa de los conflictos en Derecho romano, cit., 140 s., 256, il quale
evidenzia la difficoltà di giungere ad una soluzione definitiva.
[98]
Cfr. Gregorio Nazianzeno, or. XLIII. in laud. Basil. Magn. 34 (PG 36,
col. 541), che ricorda l’attività di Basilio Magno nella soluzione
di controversie: diaforîn lÚseij
oÙk ¢pistoÚmenai, ¢ll' ØpÕ tÁj
™ke…nou fwnÁj tupoÚmenai, nomJ tù trÒpJ
crèmenai. Per una determinazione della
decisione episcopale sulla base del diritto romano vedi, ad es., G. Masi, L’udienza vescovile
nelle cause laiche da Costantino ai Franchi, cit., 151 ss., in part.
158; J. Gaudemet,
L’Église dans l’Empire romain (IVe-Ve siècles),
cit., 237 s., anche se – a suo avviso - i principi cristiani, gli atti
conciliari e dei pontefici e le stesse ordinanze del vescovo potevano in
qualche modo condizionare la decisione; P. Brown,
Potere e cristianesimo nella tarda
antichità, trad. di M. Maniaci, Roma-Bari 1995, 145; P.G. Caron, I tribunali della Chiesa nel
diritto del tardo impero, cit., 256 s. Per un’opinione parzialmente
diversa vedi F. De Martino, Storia della costituzione romana, V,
cit., 494 e L. Amirante, Una
storia giuridica di Roma. Ottavo quaderno di lezioni, con la collaborazione
di L. de Giovanni, Napoli 1991, 642. Sostengono invece l’utilizzo da
parte del vescovo di norme etico religiose cristiane ad es.: B. Biondi, Il diritto romano cristiano, I, cit., 90, 453 ss., anche se egli
afferma che oltre la lex Christianorum il vescovo applicava il diritto romano
conformato ai principi cristiani; G. Pugliese, Istituzioni
di diritto romano, III ed., Torino 1991, 793; N. Scapini, Manuale elementare di diritto romano,
Milano 2002, 140. Richiama un utilizzo non solo di norme giuridiche, ma anche
di quelle attinte «dall’ordinamento etico del cristianesimo» L. Fascione, Storia del diritto
privato romano, Torino 2006, 595.
[99] C. 1.4.7 (Impp. Arcadius et Honorius AA.
Eutychiano pp.): Si qui ex consensu
apud sacrae legis antistitem litigare voluerint, non vetabuntur, sed
experientur illius (in civili dumtaxat negotio) arbitri more residentis sponte
iudicium. quod his obesse non poterit nec debebit, quos ad praedicti cognitoris
examen conventos potius afuisse quam sponte venisse constiterit. Interessante il fatto che anche qui, dove si richiama il classico
principio del consenso di entrambi i litiganti per rivolgersi apud sacrae legis antistitem, si fa
riferimento al concetto di lex, come in C.Th. 1.27.1 (lex Christiana).
Questa costituzione sembra far parte di uno specifico disegno legislativo di
Arcadio e Onorio teso a consentire l’arbitrato di fronte al supremo
sacerdote, qualche mese prima, infatti, fu emanata C.Th. 2.1.10. G. Buigues Oliver, La solución
amistosa de los conflictos en Derecho romano,
cit., 167, ha posto in evidenza
l’uguaglianza strutturale tra C. 1.4.7 e C. 1.9.8 (che riproduceva C.Th.
2.1.10). Per i problemi che sorgono a causa della scarsa chiarezza del dettato
della norma rimando a M.R. Cimma, L’‘episcopalis audientia’ nelle costituzioni
imperiali da Costantino a Giustiniano, cit., 84 ss. (bibl. ivi).
[100] C.Th. 1.27.2 (Imppp. Arcadius, Honorius et Theodosius AAA.
Theodoro p(raefecto) p(raetorio)): Episcopale
iudicium sit ratum omnibus, qui se audiri a sacerdotibus adquieverint. Cum enim
possint privati inter consentientes etiam iudice nesciente audire, his licere
id patimur, quos necessario veneramur eamque illorum iudicationi adhibendam
esse reverentiam, quam vestris deferri necesse est potestatibus, a quibus non
licet provocare. Per publicum quoque officium, ne sit cassa cognitio,
definitioni exsecutio tribuatur.
[101] C. 1.4.8 (Arcad. Hon. Theodoro p.p.): Episcopale iudicium sit ratum omnibus, qui
se audiri a sacerdotibus elegerint, eamque illorum iudicationi adhibendam esse
reverentiam, quam vestris referre necesse est potestatibus, a quibus non licet
provocare per iudicium quoque officia, ne sit cassa episcopalis cognitio,
definitionis exsecutio tribuatur.
[102] Vedi invece chi, come G. Vismara, Ancora
sulla ‘episcopalis audientia’ (Ambrogio arbitro o giudice?), cit., 72 s., sostiene che
anche dopo il 398 la giurisdizione episcopale concorrente con quella dei
tribunali ordinari continuò a sussistere. Secondo l’autore il
consenso delle parti, non incompatibile con la natura giurisdizionale
dell’attività del vescovo, veniva richiesto soltanto per
«esigenze di ordine pubblico e privato», mentre
l’inappellabilità delle sentenze episcopali consentirebbe di
qualificare come giurisdizionale l’attività dell’organo
giudicante.
[103] Nov. Theod. 3.7: Hac exceptione
servata, ut adparitores memoratarum sectarum in privatis dumtaxat negotiis
iudicis sententias exsequantur.
[104] Nov. Val. 35 pr. (Imp. Valent(inianus) A. Firmino p(raefecto)
p(raetori)o et patricio): De episcopali iudicio diversorum saepe causatio
est: ne ulterius querella procedat, necesse est praesenti lege sanciri. Itaque
cum inter clericos iurgium vertitur et ipsis litigatoribus convenit, habeat
episcopus licentiam iudicandi, praeeunte tamen vinculo compromissi. Quod et de
laicis, si consentiant, auctoritas nostra permittit: aliter eos iudices esse
non patimur, nisi voluntas iurgantium interposita, sicut dictum est, condicione
praecedat, quoniam constat episcopos [et presbyteros] forum legibus non habere
nec de aliis causis secundum Arcadii et Honorii divalia constituta, quae
Theodosianum corpus ostendit, praeter religionem posse cognoscere. Si ambo
eiusdem officii litigatores nolint vel alteruter, agant publicis legibus et
iure communi: sin vero petitor laicus, seu in civili seu in criminali causa,
cuiuslibet loci clericum adversarium suum, si id magis eligat, per auctoritatem
legitimam in publico iudicio respondere conpellat. Secondo J. Gaudemet, L’Église dans
l’Empire romain (IVe-Ve siècles), cit., 236, la costituzione
trovò applicazione solo in Occidente. Così anche G. Vismara, Episcopalis audientia, cit.,
88 s. Rimando a M. Bianchi Fossati Vanzetti, Le novelle di Valentiniano III. I.
Fonti, Padova 1988, per i problemi relativi all’inscriptio della norma, emanata il 15 aprile
452, dove è assente il
nome di Marciano, riconosciuto da Valentiniano come Augusto d’Oriente il
30 marzo del 452 (17 ss.).
La
Nov. Val. 35 non è l’unico provvedimento in materia emanato dalla
cancelleria di Valentiniano. Il 9 luglio 425 ad Aquileia viene promulgata la
C.Sirm. 6, che tra l’altro reintroduceva l’episcopalis audientia
abolita dall’usurpatore Giovanni: vedi al riguardo M. Sargenti, Contributi alla palingenesi delle costituzioni tardo-imperiali. II.
Momenti della normativa religiosa da Teodosio I a Teodosio II, in Atti dell’Accademia Romanistica
Costantiniana. VI Convegno internazionale, Perugia 1986, 349 ss. La costituzione sirmondina fu smembrata
nel Teodosiano, e la parte che a noi interessa venne riportata in C.Th.
16.2.47.1. In letteratura si sostiene che nel Codex Theodosianus C.Sirm. 6 venne massimizzata per sancire la
competenza del vescovo a giudicare i chierici tanto nelle cause civili, quanto
in quelle criminali, vedi M.R. Cimma, A
proposito delle ‘constitutiones Sirmondianae’, cit., 380 s.
[105] Secondo F.J. Cuena Boy,
La ‘episcopalis audientia’,
cit., 135 ss., Valentiniano iii
non introdusse il ricorso a un compromesso formale (per l’autore,
infatti, l’imperatore non utilizza tecnicamente il termine compromissum),
non richiesto neanche dalla normativa precedente, ma soltanto il consenso
previo ed espresso di ambo le parti.
[106] Interpretatio ad Nov. Val. 35: Lex ista de diversis rebus multa constituit: sed inprimis de clericis
quod dictum est, ut nisi per compromissi vinculum iudicium episcopale non
adeant, posteriori lege Maioriani abrogatum est. De reliquis praecepit, ut si
quis laicus clericum sive in civili seu in criminali negotio per auctoritatem
iudicis ad publicum provocaverit, pulsatus sine dilatione respondeat. Episcopi
etiam sive pro pervasione rei alicuius, sive pro quibuscumque gravibus iniuriis
ad iudicium fuerint provocati, licet in criminalibus causis per alium nulli
liceat respondere. Episcopis tamen et presbyteris hac lege praestatur, ut in
talibus causis misso procuratore respondeant, sine dubio ut ad eos redeat
sententia iudicati. in reliquis vero criminalibus causis, ubi de scelere
persona convincenda est, suam in
iudicio praesentiam exhibere procurent. quod si tertio conventi per exsecutorem
ad iudicium venire noluerint, sententiam excipiant contumacis. clericus si
aliquem lite pulsaverit, in foro illius, quem ad iudicium provocat, audiatur:
si tamen pulsatus non acquieverit ad episcopi vel presbyteri venire iudicium.
quod si aliud fecerit ille, qui pulsat, defensores causae ipsius taliter notari
praecepit, ut ab omni officio et prosecutione causarum habeantur extranei.
nullum etiam originarium, inquilinum, servum sive colonum ad clericatus
officium iubet accedere, neque in monasteriis recipi, ne per hanc occasionem
debitam condicionem possint evadere. nam nec corporatus civitatis alicuius, qui
publicum servitium debet, nec curialis nec collegiatus clericus esse praesumat.
clericos quoque praecepit, ut negotiationes nullatenus exercere praesumant:
quod si fecerint, velut alii negotiatores, a iudicibus emendentur. de
corporibus namque publicis nullum fieri defensorem ecclesiae, lex ista
constituit. quod si quis ex curia acquieverit, ut fiat defensor ecclesiae,
noverit, res suas omnes curiae aut illi corpori, unde discesserat, applicandas,
et se ad servitium civitatis in suo corpore revocandum. nam et iudicem et
officium eius provinciae, si eos non revocaverint, gravi, sicut ipsa lex
loquitur, dicit poena feriendos. diaconis, qui ex curialibus vel ex quolibet
corpore publico facti sunt, praecepit, ut pro se ad agenda, quae utilitati
publicae debentur, suffectos dare debeant. quod si non dederint, ipsi ad
condicionem debitam revocentur. nam episcopos atque presbyteros non iubet hac lege constringi, nisi tantum, ut de
patrimoniis suis, quae sunt Maioriani lege constituta, evidenter observent.
originarios vero vel servos, qui ad honorem ecclesiasticum adspiraverint,
debere intra triginta annos a dominis revocari. ita tamen, ut diaconus pro se
vicarium, si habuerit, reddat, et omne peculium suum dominus eius usurpet. quod
si vicarium non habuerit, unde reddat, ipse ad condicionem propriam revocetur.
nam omnes clericos iubet, ut nullas alias causas, nisi actus tantum
ecclesiasticos agant, et ut publica loca pro ecclesiarum reparatione non destruant
... Si tratterebbe della Nov. Maioriani 11 del 28 marzo del 460:
così Th. Mommsen–P.M. Meyer,
Codex Theodosianus, II. Leges novellae ad Theodosianum pertinentes,
Berlin 1905, 178 [rist., Hildesheim 2000] (contra B. Biondi, Il diritto romano
cristiano, I, cit., 457
s.). Per i problemi relativi alla riforma vedi G. Vismara, Episcopalis
audientia, cit.,
87.
[107] Sul tema vedi da ultimo A.
Banfi, Habent illi iudices suos. Studi sull’esclusività della
giurisdizione ecclesiastica e sulle origini del privilegium fori in diritto
romano e bizantino, Milano 2005, bibliografia e fonti ivi.
[108] Vedi: C. 1.4.7 del 398; C. 1.4.8 del 408; C. 1.4.13 e C. 1.3.25
pr. del 456; C. 1.3.32(33) del 472; C. 1.3.36(37) del 481.
[109] Con cui si disponeva che
monaci, monache e donne dedite alla vita monastica potessero essere chiamati in
giudizio, in sede sia civile, sia criminale, solo innanzi al vescovo che aveva
la giurisdizione sul monastero.
[110] Dove si sancisce che per le cause
pecuniarie i membri del clero fossero prima convenuti presso i vescovi a
cui erano soggetti, e che solo in caso di impossibilità da parte del
presule a decidere la causa fosse lecito adire i giudici civili; per i crimini
secolari si stabiliva la competenza dei tribunali ordinari, e nel caso di
condanna il chierico doveva essere spogliato della dignità sacerdotale
da parte del vescovo prima dell’esecuzione della pena; per i delitti
ecclesiastici che richiedevano pene ecclesiastiche veniva fissata la competenza
del vescovo senza alcuna ingerenza da parte dei giudici laici.
[111] Che stabiliva che per ogni
causa, civile o criminale bisognava adire il giudice provinciale. Qualora non
fosse stata resa giustizia, il singolo poteva rivolgersi al vescovo, il quale
doveva tentare di convincere il governatore a compiere il suo dovere; se ancora
non fosse stata resa giustizia, il vescovo avrebbe dovuto fornire una lettera
al privato per informare del caso l’imperatore. Secondo G. Vismara, Episcopalis audientia, cit.,
135 ss., Giustiniano con questo provvedimento sovvertì l’istituto
dell’episcopalis audientia, riconoscendo l’ingerenza diretta
dei vescovi nell’amministrazione della giustizia ordinaria, mentre per H.
Jaeger, Justinien et
l’‘episcopalis audientia’,
cit., 234 ss., il provvedimento trasformò
il vescovo in un giudice di ultima istanza, nell’ambito di un
decentramento amministrativo. Entrambi gli autori concordano che in seguito,
con Nov. 123, le sentenze episcopali furono rese appellabili, e ciò
comportò la contrazione dell’episcopalis audientia, che
cadde lentamente in desuetudine, specie in Oriente.
[112] Nov. 123.21 pr.: E‡ tij kat£ tinoj
klhrikoà À monacoà À diakon…sshj À
monastr…aj À ¢skhtr…aj œcoi tin¦
¢gwg»n, didaskštw prÒteron tÕn Ðsiètaton
™p…skopon útini toÚtwn ›kastoj
ØpÒkeitai, Ð d tÕ pr©gma metaxÝ
aÙtîn diakrinštw. kaˆ e„ mn
˜k£teron mšroj to‹j krinomšnoij
™fhsuc£sei, keleÚomen di¦ toà kat¦
tÕn tÒpon ¥rcontoj taàta ™kbibasmù
tele…J parad…dosqai. e„ dš tij tîn
dikazomšnwn ™ntÕj dška ¹merîn
¢nte…poi to‹j kekrimšnoij, thnikaàta Ð
tîn tÒpwn ¥rcwn tÕ pr©gma ™xetazštw,
kaˆ e„ eÛroi t¾n kr…sin Ñrqîj
genomšnhn, kaˆ di¦ y»fou „d…aj taÚthn
bebaioÚtw kaˆ ™kbibasmù paradidÒtw t¦
kriqšnta, kaˆ m¾ ™xšstw tù deÚteron
™n tù toioÚtJ pr£gmati ¹tthqšnti
™kkale‹sqai. e„ d ¹ toà ¥rcontoj
yÁfoj ™nant…a e‡h to‹j par¦ toà
qeofilest£tou ™piskÒpou kekrimšnoij, thnikaàta
cèran œcein t¾n œkklhton kat¦ tÁj
y»fou toà ¥rcontoj, kaˆ taÚthn kat¦
t¾n tîn nÒmwn t£xin ¢nafšresqa… te
kaˆ gumn£zesqai. e„ mšntoige ™k basilikÁj
keleÚsewj À dikastikÁj projt£xewj
™p…skopoj kr…nV metaxÝ oƒwnd»pote
projèpwn, ¹ œkklhtoj ™pˆ t¾n basile…an
À ™pˆ tÕn parapšmyanta t¾n
ØpÒqesin ¢naferšsqw (Si quis contra quem clericum vel monachum vel diaconissam vel
monacham vel ascetriam actionem aliquam habeat, prius edoceat sanctissimum
episcopum cui eorum unusquisque subiectus est, is autem causam inter illos
diiudicet. Et si quidem utraque pars iudicatis adquiescat, iubemus ea per
praesidem loci plenae executioni tradi. Si quis autem ex litigantibus intra decem
dies contradixerit iudicatis, tunc locorum praeses causam cognoscat, et si
sententiam recte latam reppererit, suo quoque calculo eam confirmet et
executioni tradat iudicata, neve liceat ei qui iterum in tali causa victus est
appellare. Si vero sententia praesidis contraria sit iis quae a deo carissimo
episcopo iudicata sunt, tunc appellatio contra sententiam praesidis locum
habeat, eaque secundum legum ordinem referatur et exerceatur. Quodsi ex
imperiali iussu vel iudiciali praecepto episcopus inter qualescumque personas
iudicet, appellatio ad imperatorem vel ad eum qui causam transmisit referatur).
[113] Nov. 123.21.2: E„ dš tij Øpr
crhmatikhj a„t…aj kat£ tinoj tîn mnhmoneuqšntwn
projèpwn ™nagwg¾n œcoi tin£, kaˆ Ð
™piskopoj Øpšrqhtai metaxÝ aÙtîn
dik£sai, ¥deian Ð ™n£gwn ™cštw tù
politikù ¥rconti projišnai, oÛtw mšntoige †na
tÕ a„tiaqn prÒjwpon mhdenˆ trÒpJ
¢nagk£zhtai ™gguht¾n didÒnai, ¢ll¦
mÒnon Ðmolog…an ¥neu Órkou met¦
Øpoq»khj tîn „d…wn pragm£twn ™kt…qesqai (Si quis autem de pecuniaria causa contra aliquam
ex memoratis personis actionem aliquam habeat, et episcopus inter eos iudicare
differat, liceat actori civilem praesidem adire, ita tamen ut persona accusata
nullo modo cogatur fideiussorem dare, sed tantummodo promissionem sine
iureiurando cum hypotheca suarum rerum edere).
[114] Vedi ad es.: C. 1.4.10 = Bas. 1.1.21; C.
1.4.23 = Bas. 3.1.4; C. 1.4.25 = Bas. 3.1.5; C. 1.4.28 = Bas. 28.1.19; C.
1.4.29 = Bas. 3.1.6; C. 1.4.30 = Bas. 37.5.11; C. 1.4.31 = Bas. 7.4.3; C.
1.4.32 = Bas. 20.2.4.
[115] sc.
ad Bas. 12.1.74 (B XII.1.74.1): Z»tei bib.
z/. tit. b/. kef. kz/. qem. g/. kaˆ kef. iq/. qem. a/. kaˆ t¾n
'AnwnÚmou paragraf¾n kaˆ bib. q/. tit. a/. kef. b/. kaˆ
tÁj ™n KarqagšnV ¡g…aj sunÒdou kanÒna
rkb/., ™n ú eØr»seij, Óti kaˆ cwrˆj
prost…mou œppwtai ¹ yÁfoj toà ™ke‹ ∙hqšntoj
aƒretoà dikastoà.
[116] Il riferimento al cap. 122 di un indefinito sinodo cartaginese
ha reso piuttosto ardua l’individuazione della norma canonica in
questione. I concili, o sinodi, svoltisi a Cartagine sono numerosi e ricoprono
l’arco di diversi secoli. Un canone 122 riguardante sentenze arbitrali si
ritrova negli atti del Codex canonum Ecclesiae Africanae, appunto del
419 (Mansi 3, col. 822): A judicibus autem, consensus elegerit, non non
liceat provocare. Et quisquis provocatus repertus fuerit per contumaciam nolle
obtemperare judicibus, cum hoc primae sedis episcopo fuerit probatum, det
literas, ut nullus ei communicet episcoporum, donec obtemperet. Sorge
tuttavia una questione: questo canone corrisponde al c. 123 della versione greca,
mentre in questa il c. 122 corrisponde al c. 121 dell’edizione latina (Mansi 3, col. 819: Item placuit, ut quicumque negligant loca
ad suam cathedram pertinentia, in catholicam unitatem lucrari, conveniantur a
diligentibus vicini episcopis, ut id agere non morentur. Quos si intra sex
menses, a die conventionis non effecerint, qui potuerit ea lucrari, ad ipsum
pertineant. Iata sane, ut si ille ad quem pertinuisse videbantur, probare
potuerit magis illius electam negligentiam ab ereticis, ut impune ibi sint, et
suam diligentiam suisse praeventam, ut eo modo ejus cura solicitior vitaretur:
cum hoc judices episcopi cognoverint, suae cathedrae loca restituant. Sane si
episcopi, inter quos causa versatur, diversarum provinciarum sunt, ille primas
det judices, in cujus provincia est locus, de quo contenditur. Si autem ex
communi placito vicinos judices elegerint, aut unus eligatur, aut tres: ut si
tres elegerint, omnium sententiam sequantur, aut duorum), da dove appare
che i vescovi avevano una giurisdizione limitata alla propria provincia. Come ricorda J. Gaudemet, La formation du droit séculier et du
droit de l’Église aux IVe et Ve siècles, [Paris] 1957,
157, il Codex canonum Ecclesiae Africanae trovò un’ampia
circolazione in Oriente. Resta il problema se gli
annotatori dei Basilici facessero riferimento all’edizione latina o alla
sua traduzione in lingua greca. Lo sc. ad Bas. 12.1.74, oltre al sinodo cartaginese,
come già abbiamo detto, però, rimanda anche a Bas. 7.2.27 e 19.1
e a Bas. 9.1.2, dove si tratta del tema dell’appello delle sentenze
arbitrali, e questo mi fa propendere per l’indicazione in sc. ad Bas.
12.1.74 del c. 122 della versione latina, in quanto riferito alla
validità delle sentenze dell’arbitro scelto attraverso un
compromesso.
[117] Possid., vita Aug. 19.2 (PL 32, col. 50): Interpellatus
ergo a Christianis, vel a cuiusque sectae hominibus, causas audiebat diligenter.
Vedi anche August., enarr. in Psalm. 46.5
(PL 36, col. 527): Quanti enim modo currunt ad Ecclesiam nondum christiani,
rogant auxilium Ecclesiae; subveniri sibi temporaliter volunt, etiamsi in
aeternum nobiscum regnare adhuc nolunt. Cum omnes quaerunt auxilium Ecclesiae,
et qui nondum sunt in Ecclesia, nonne subiecit plebes et gentes sub
pedibus nostris?
[118] August., de oper. monach.
29.37 (PL 40, col. 576): Tamen Dominum
Jesum, in cujus nomine securus haec dico, testem invoco super animam meam,
quoniam quantum attinet ad meum commodum, multo mallem per singulos dies certis
horis, quantum in bene moderatis monasteriis constitutum est, aliquid manibus
operari, et caeteras horas habere ad legendum et orandum, aut aliquid de
divinis Litteris agendum liberas, quam tumultuosissimas perplexitates causarum
alienarum pati de negotiis saecularibus vel judicando dirimendis, vel
interveniendo praecidendis …; enarr.
in Psalm. 118.24.3 (PL 37, col. 1570): … quia et quando dicimus, non recedunt nec declinant a nobis; sed
instant, urgent, precantur, tumultuantur, extorquent, ut ipsis potius ad ista
quae diligunt, quam scrutandis Dei mandatis quae diligimus occupemur; ep. 24.1* (CSEL 88, 126; BAug 46B, 382
s.): ... Quoniam ergo praecepit
Apostolus, ut saecularia iudicia si inter se habuerint Christiani, ea non in
foro sed in ecclesia fiant, unde nos necesse est perpeti tales iurgantium
quaestiones, in quibus nobis etiam terrena iura quaerenda sint, praecipue de
condicione hominum temporali. Vedi anche il racconto di Possid., vita Aug. 19.3 e 6 (PL 32, col. 50).
Cfr. August., confess. 6.3.3 (PL 32,
coll. 720 s.). Del resto lo stesso Agostino invitava i fedeli a ricorrere al
foro ecclesiastico sulla base dell’insegnamento paolino: enarr. in
Psalm. 80.21: (PL 37, col. 1045) ... Non
tollit aliena; sed repetit sua, et habet cum fratre suo iudicium: talibus enim
dicitur: ‘Iam quidem omnino delictum est in vobis, quia iudicia habetis
vobiscum’. Verum ipsa iudicia in Ecclesia iubet agi, non ad forum trahi;
tamen delicta esse dicit ... Tuttavia, come sottolinea Tosatti (Agostino e lo Stato romano,
in Studi Romani 3.5, 1955, 542), nonostante il vescovo d’Ippona
amministrasse controvoglia la giustizia, la frequenza del ricorso al vescovo
proverebbe più la decadenza degli organi dello Stato che non la
volontà della Chiesa di sovrapporsi ad essi. In Oriente il vescovo
Sinesio, vissuto tra il IV e il V secolo, in una lunga lettera si lamenta
perché le varie controversie lo distoglievano dalle sue preghiere, e per
questo invita a rivolgersi ai giudici ordinari, sostenendo inoltre di non
essere esperto in materia (ep. 57, PG 66, coll. 1383 ss.).
Particolarmente interessante è il passo in cui Sinesio teorizza la
distinzione di compiti tra magistrati civili e sacerdoti: `O p£lai crÒnoj ½negke toÝj
aÙtoÝj ƒeršaj te kaˆ krit£j. Kaˆ
g¦r A„gÚptioi, kaˆ tÕ `Ebra„wn
œqnoj, crÒnon sucnÕn ØpÕ tîn
ƒeršwn ™basileÚqhsan. Et' ™peid» moi
doke‹ tÕ qe‹on œrgon ¢nqrwp…nwj
™pr£tteto, diókisen Ð QeÕj toÝj
b…ouj: kaˆ Ð mn ƒerÕj, Ð d
¹gemonikÕj ¢pede…cqn. ToÝj mn g¦r
e„j Ûlhn ™pšstreye, toÝj d sunštaxen
˜autù. Tet£catai d oƒ mn ™n
to‹j pr£gmasin: ¹me‹j d ™n
ta‹j eÙca‹j enai. TÕ d
calÕn ¢paite‹ par' ¢mfo‹n Ð QeÒj.
T… oân ™pan£geij; t… d sun£ptein
peir´ t¦ kecwrismšna par¦ toà Qeoà;
•Oj oÙd dioike‹n ¹m©j, ¢ll¦
paradioike‹n ¢xio‹j. Oá t… gšnoit' ¨n
¢qlièteron; Prost£tou soi de‹; B£dize par¦
tÕn ™pitropeÚonta tîn nÒmwn tÁj
polite…aj. Toà Qeoà so… ti de‹; ”Iqi
par¦ tÕn ƒerša tÁj pÒlewj. OÙc
æj ™ntaàq' ™nÕn t¦ p£ntwj pituce‹n:
¢ll' æj ™gë proqumhq»somai (col. 1396). Per G. Vismara, Episcopalis
audientia, cit., 69, la dichiarazione del vescovo di
incapacità a dirimere le liti civili era un caso del tutto eccezionale.
[119] Cfr. W. Kunkel, Linee
di storia giuridica romana, trad. it. di Spagnuolo T. Vigorita e B., Napoli
1973, 194. Giovanni Crisostomo, nel IV sec., comparando i giudizi pubblici a
quelli ecclesiastici, afferma che i tribunali secolari erano soggetti a
corruzione, homil. 6 (PG 48, col. 752).
[120] Eppure la normativa conciliare affermò l’obbligo
cristiano di ricorrere all’episcopalis audientia, vedi ad es.: Conc.
Carthag. iv, c. 87 (Mansi 3,
col. 958): Catholicus qui causam suam sive
justam sive injustam ad judicium alterius fidei judicis provocat,
excommunicetur, dove quindi si richiede per il cattolico un giudizio da
parte di un appartenente alla fede cristiana.
[121] Ambros., de ob. Valent. cons. 37 (PL 16, coll. 1370 s.): Acciderat
ut quoddam de earum possessione audiret negotium; tantus enim erat, ut etiam in
causa sororum aequus forte arbiter a provincialibus aestimaretur: quod etsi
circa sanctas necessitudines suas charitate propenderet, tamen pietatem suam
justitia temperaret. Audivit negotium non de jure, sed de possessione praedii.
Hinc pietas pro sororibus, inde misericordia pro orphani causa certabat; ut pro
eo apud ipsas interveniret sorores. Remisit ad judicem publicum negotium, ne
aut jus, aut pietatem laederet. Privatim tamen, quantum ex proposito nobilium
puellarum advertimus, pium sanctis sororibus impressit affectum; ut concedendi
praedii voluntatem haberent, indicium darent. Vere dignae tanto fratre
germanae, quae id quod mater sibi reliquerat, mallent de suo potius jure
laxare, quam fratrem in sua causa verecundiam sustinere. Oltre a
ciò, abbiamo già visto come lo stesso Ambrogio rifiutasse le
cause di carattere pecuniario (supra, nt. 75), ed anche esisteva la possibilità
per il sacerdote di farsi sostituire nella veste di arbitro: Socrates Scholasticus, hist. eccl. 7.37 (PG 67, coll. 824 s.) racconta che il vescovo Silvano non scelse
mai un giudice tra i chierici, ma sempre un fedele laico: Katidën goàn toÝj
klhrikoÝj ™mpor…an poioumšnouj t¦j tîn
dikazomšnwn ™pescel…aj, oÙdšna tÕn
toà kl»rou dikast¾n ™d…dou potš :
¢ll¦ t¦ bibl…a tîn deomšnwn decÒmenoj,
parek£lei ›na tîn pistîn laŽkîn, Ön
Édei filoànta tÕ d…kaion : k¢ke…nJ
™gceir…saj t¾n ¢krÒasin, toÝj
dikazomšnouj tÁj ™rescel…aj ¢p»lasen.
Kaˆ diataàta goàn meg…sthn eÜkleian par¦
p©sin ™kškthto.
J. Gaudemet,
La
formation du droit séculier et du droit de l’Église aux IVe
et Ve siècles,
cit., 207, sostiene che l’episcopalis audientia era modellata
sul procedimento extra ordinem. Per
questo motivo, al pari di un giudice ordinario che,
nell’impossibilità di rendere la propria sentenza, poteva rinviare
le parti ad una istanza superiore, il giudice ecclesiastico poteva rifiutarsi
di giudicare.
[122] Vedi, ad es., Symm., ep. 6.9 (PL 18, col. 268): (Symmachus Nicomachi filiis) Frater
meus Censorinus de confinio Baianorum praetoriorum conquestionem tentat
iterare, quam didicit inter me et actores filii mei Pompeiani dudum esse
finitam. Adhibiti namque inspectatores, muro, qui inter aedes a summo monte
descendit, dividi loca nostra dixerunt: quorum judicium novus possessor credit
posse rescindi. Quaeso igitur adhibito Felice amico nostro, et Castore, veri
arbiter esse digneris, ut sanctitate tua coram locata inanis attentatio
comprimatur. Dehinc cum fratri meo Censorino satisfecerit praeteritae
judicationis assertio, tunc operi ejus et molitionibus novis decem tantum pedum
ultra aedificia sua permittatur adjectio: ita ut partium fines, et placito
comprehensus assensus, et constructio interjecta discriminet; Leo i, de
Eutychiana her. et hist. I.5.4 (PL 55, col. 1128): Si hic sermo esset de
arbitrario judice per compromissum ab ambabus partitibus ad quaestionem
dirimendam assumpto, quilibet sane episcopus, qui eligeretur, ne de rebus
incognitis judicium pronuntiaret, utique postulare debebat edoceri; I.10.7 (PL 55, coll. 1200 s.): Quemadmodum in quibusdam dissidiis
absolvendis ii facere solent, qui, relictis ordinariis et a lege institutis
judicibus, compromissum facientes, novos arbitros sibi eligunt. Ut autem Joanni
Bono, amico suo, Launoius fucum faciat, verbaque vendat, sequentia Athanasii
verba subjicit: ‘Haec
quidem Egyptii ad omnes et ad episcopum Romanum Julium scripserunt. Quia et
Eusebiani ad Julium litteras misere, et ut nos terrerent synodum jusserunt
convocari, et ipsi Julio, si vellet, arbitrium causae detulerunt’. Verumtamen cum Quesnelli, tum Launoii
fabulationes statim corruere, produnt ipsa Julii papae verba in praecedentibus
laudata. Qui altius repetens legitima judicis jura, vetustam allegat
consuetudinem, apostolorum ordinationes, et PP. doctrinam. Debuisset ergo
potius ipsis objicere compromissum ab eadem Eusebianorum factione jam factum;
istudque evulgare, ut cunctis innotesceret, se non alia ratione in Orientalium
synodorum negotiis miscuisse, nisi quia convenientes ad invicem litigantes
judicandi facultatem eidem detulerunt. Contra vero eos tamquam adversarios
quasi de ignorantia insimulat, vellicatque dicendo: ‘An ignari estis hanc consuetudinem
esse, ut primum nobis scribatur, ut hinc quod justum est definiri possit?’
Non erat ergo in Eusebianorum potestate arbitrum constituere Julium, et
compromissum facere, ut is secundum justitiae et aequitatis leges causam
litigantium definiret. Sed judicandi de Ecclesiae et episcoporum rebus a Deo
acceperat, et ab apostolorum tempore in talium jurium possessione Romanus
pontifex perseveravit. Inepte nimis quoque Launoius Athanasii verba adduxit, ut
Eusebianorum ad Julium provocantium voluntatem et scopum expiscaret. Ex iis
enim verbis quid aliud colligitur, nisi Eusebianos ad jactandum se bonam causam
habere, atque ad deterrendum S. episcopum Athanasium, jampridem sponsionem
dedisse, aut Romanae synodi, aut ipsius Julii judicium, sicuti apostolicae
ordinationes et consuetudo poscebant, ratum habituros. Arbitrium enim non habet
significar compromissum, vel istud importare, ut contendunt ambo adversarii;
sed apud Latinos illius aetatis, judicium,
seu imperium
indicat, quae ab habentibus legitimam auctoritatem dumtaxat derivare solent, ut
ex Horatio et Cicerone probare possemus.
[123] Gregorius i, ep. 9.45 (PL 77, coll. 977 s.): (Gregorius Joanni episcopo Syracusano). Ante aliquantum temporis filius noster Felix, vir gloriosus, suis nobis epistolis questus est quarumdam possessionum suarum fines ab hominibus Ecclesiae vestrae violenter esse pervasos, et nullam se apud vos invenire justitiam. Sed nobis incredibile visum est hoc aut vobis esse praesentibus perpetratum, aut certe si ad aures vestras pervenit, non fuisse correctum. Ne tamen ejus praetermittere querimoniam videremur, fraternitati vestrae scripsimus ut aut ea si vera essent compesci, aut certe actores Ecclesiae suae cum eo faceret subire judicium. Post haec vero hominem cum epistola ad nos dirigens, indicavit nihil vos facere voluisse. De qua re, scientes sanctitatis vestrae discretionem, dum noster animus dubitaret, comperimus illum magis distulisse, nam vos paratos exstitisse ut debuisset esse judicium. Et quamvis hac de causa denuo vobis non fuerat scribendum, quippe quia ea quae rationis sunt ante vos manifestum est facere voluisse, verumtamen ne querelam ipsius neglexisse forsitan videamur, hanc ad vos idcirco epistolam dedimus, hortantes ut cum eo etiam nunc, mora postposita, vestros ad judicium homines transmittatis, in quo et momenti et proprietatis valeat quaestio terminari, ut post hoc nec ille habeat quod queratur, nec Ecclesia vestra tenere aliquid praejudicialiter videatur. Quia vero homo quem ad nos misit schedam compromissi ac judicati protulit, ubi legebatur possessionem eam quae Asinaria dicitur, quam ab hominibus vestris invasam nuper asseruit, decessoris vestri recordandae memoriae Maximiani temporibus esse ex judicio restitutam, necessarium esse praevidimus ejus exemplar transmittere. Et ideo si ita actum manifeste cognoscitis, id est si possessio ipsa decessore vestro consentiente restituta est, et a praedicto viro possessa, sine aliqua eam facite contentione restitui, manente scilicet proprietatis, sicut in eodem judicio constitutum est, quaestione. Si vero aliter est, et hoc pariter judicii necesse est definitione distingui. Haec igitur omnia ita fraternitas vestra, indita sibi tranquillitate, sine aliqua mora fieri provideat, quatenus nec contra nos murmur excitetur invidiae, nec nobis praedictus vir importunus denuo cogatur existere.
[124] Appendix ad agnelli pontificale (Continuatio Pauli
Scordillae), De Cosmate, Archiepiscopo XCIV (PL 106, col. 806): Qui
tandem Barnabas cum dicto Cosmato in arbitros compromittit, qui cardinalem per
sententiam in magnis pecuniarum quantitatibus condemnarunt [anno 842].
[125] Vedi, ad es., Alexander iii, ep.
et priv. 827 (PL 200, coll. 755 s.): Unde quoniam ex parte praedicti Joannis
nobis fuit jam pridem relatum, quod, cum ipse et praefatus abbas super
quibusdam possessionibus, pratis videlicet, terris et vineis, in certas pariter
compromisissent personas, et personae illae arbitratae inter illos fuissent;
abbas in parte earum recepit arbitrium, et in parte refutavit: nos utrique
volentes in suo jure adesse, tibi, frater Tornacensis, mandavimus, ut
praedictum abbatem moneres ad arbitrium illud inconcusse tenendum [anni
1170-1172]; Lucius iii, epist.
et privil. 126 (PL 201, col. 1232): Noverit universitas vestra quod cum
inter vener. fratrem nostrum Oderisium Pennen. episcopum, et Senebaldum abbatem
S. Quirici de Intrethoco, super ecclesiis et aliis infra scriptis controversia
verteretur in nos, de mandato D. papae Lucii de ipsa causa cognoscentes,
praenominatus abbas, et mag. Bert. praefati episcopi procurator, qui per eumdem
episcopum in causa ista in praesentia D. papae Lucii, et quorumdam cardinalium
tam ad litigandum quam ad transigendum procurator fuerat constitutus, libere et
absolute compromiserunt C librarum provendere poenam sibi invicem stipulatione
interposita, promittens, si ea quae nos inter eos statueremus, abbas ipse vel
conventus, et procurator vel episcopus rata semper non haberent [anno
1184].
[126] Molto interessante risulta un documento del 1282, che contiene il testo di una sentenza arbitrale resa da don Migliorato, abate del monastero di San Baronto, della diocesi di Pistoia, relativa a questioni sorte fra due mercanti pistoiesi (R. Archivio di Stato di Firenze, prov. Capitolo di Pistoia, 23 ott. 1282), dove viene menzionata la pena: In eterni Dei nomine, Amen. Ego Donnus Melioratus, abbas monasterii S. Baronti pistoriensis diocesis, arbiter ex compromisso electus a Consilio quondam Riccobaldi de Pistorio ex una parte, et Preitacchio quondam Ugolini de Pistorio ex alia parte, ad lites et discordias et controversias quas inter se habebant et habere poterant de apotheca et pro apotheca quam predictus Preitacchius et filius fornibant Feo Formice super ponte novo pisane civitatis et occasione et causa decime partis integre pro indiviso unius molendini ab aqua positi in flumine de Stella, Pistoriensis diocesis, in loco dicto Valensatico. et occasione et causa librarum quinquaginta denariorum pisanorum minutorum, quas dictus Consilius dicebat se a dicto Preitacchio recipere et habere debere occasione vie quam pro eo fecit in Spaniam et etiam occasione et causa librarum trium et solidorum quinque denariorum pisanorum minutorum quas ipse Consilius dicebat se a suprascripto Feo Formice recipere et habere debere et de quibus est causa inter dictum Consilium et suprascriptum Feum pisanum in curia mercatorum, quam dictus Consilius dicit ipsum Preitacchium ab ipso Feo fieri facere. Et etiam occasione et causa aliarum librarum centum quinquaginta denariorum pisanorum minutorum quas dictum Preitacchius dicebat se a dicto Consilio recipere et habere debere – Et etiam ad omnes lites et discordias quas inter se habebant et habere poterant predictis occasionibus et causis et aliis quibuscumque occasionibus et causis, diffiniendas a me per rationem vel laudamentum aut conventum sive arbitratum aut amicabilem compositionem, meo libero arbitrio, ut in carta ipsius compromissi plenius continetur. Promittentibus ipsis partibus inter se ad penam librarum quingentarum denariorum pisanorum minutorum, habere firmum et tenere ratum facere et observare totum et quicquid et ea omnia et singula que dixero, laudavero, sive arbitratus fuero et a sententia sive arbitrio meo nullatenus appellare nec reduci facere ad arbitrium boni viri, ut in dicta carta compromissi rogata a Rainerio notario de S. Concordio plenius continetur. … Vedi G. Zaccagnini, Nuove notizie intorno a Soffredi del Grazia, in Giornale storico della letteratura italiana 83, 1924, 210 ss.
[127] Vedi, ad es., Innocentius iii,
regest. 6.104 (PL 215, col. 110): Lite igitur contestata,
receptis testibus hinc inde productis, et attestationibus publicatis, tandem in
eumdem priorem, velut in arbitrium, sub eo tenore fuit a Partibus compromissum,
ut, quidquid arbitrando diceret de praemissis, illi, tam per se quam pro suis
ecclesiis, sub poena quae ipsi priori placeret, omni tempore ratum haberent et
firmiter observarent; 13.7 (PL 215, col. 202): Cum movisses olim adversus Rotonense monasterium quaestionem,
asserens monasterium ipsum ac parochiales ecclesias ejus ad te de communi jure
spectare, utpote in tua dioecesi constituta, in eisdem jura tibi episcopalia
vindicando, et ex parte monasterii diceretur idem monasterium cum parochialibus
ecclesiis suis Romanorum pontificum privilegiis ab antiquo libertate donatum,
super eadem causa frequenter fuerunt litterae apostolicae impetratae. Denique
autem utraque pars in venerabiles fratres nostros Nannetensem et Briocensem
episcopos sub certa poena et juramento interposito compromisit: qui rationibus
utriusque partis auditis, et monasterii privilegiis diligenter inspectis, de
consilio peritorum illud in capite liberum sententialiter decreverunt … [anno 1210].
[128] Mansi 7, col. 362: Si quis
clericus habet cum clerico litem aut negotium, proprium episcopum non
relinquat, et ad saecularia judicia excurrat: sed causam prius apud proprium
episcopum agat vel de episcopi sententia, apud eos quos utraque pars elegerit,
judicium agitetur. Si quis autem praeter haec fecerit,
canonicis poenae subjiciatur ...
[130] Il modo per l’elezione del pontefice per compromissum è stato abolito
dalla Costituzione Apostolica Universi Dominici gregis del 22 febbraio
1996, al punto 62.
[131] Il principio è presente in D. 4.8.32.15 (Paul. 13 ad ed.): De officio arbitri tractantibus sciendum est omnem tractatum ex ipso
compromisso sumendum: nec enim aliud illi licebit, quam quod ibi ut efficere possit
cautum est: non ergo quod libet statuere arbiter poterit nec in qua re libet
nisi de qua re compromissum est et quatenus compromissum est; D. 4.8.32.21:
Arbiter nihil extra compromissum facere
potest et ideo necessarium est adici de die compromissi proferenda: ceterum
impune iubenti non parebitur.
[132] Vedi D. 4.8.27.1 (Ulp. 13 ad ed.): Si heredis mentio
vel ceterorum facta in compromisso non fuerit, morte solvetur compromissum ...
[133] Leo i, de
Eutychiana her. et hist. I.10.8 (PL 55, col. 1201): Sed nondum Athanasii
verborum vim perfecte assecuti sumus, nisi perpendamus neminem deterreri posse
ex arbitrarii judicis sententia, vigore compromissi
lata, quod compromissum
haberi non potest, nisi litigantes inter se convenientes spondeant pacifice
stare velle secuturo judicio. Del secolo precedente è la
testimonianza di Basilius Magnus, ep. III.307 (PG 32, col. 1056), il
quale suggerisce che il vescovo tenti di distogliere entrambi i litiganti
dall’intento di rivolgersi al magistrato, per offrirsi come giudice al
suo posto. Dunque si rinviene l’intento cristiano di ottenere la
volontaria sottomissione delle parti: Genoà
d¾ bohqÕj, í f…lh kefal¾, m£lista mn
¢mfotšroij to‹j krinomšnoij (eÙsebj
g¦r) kwlÚwn t¾n e‡sodon t¾n prÕj
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soà ∙op¾n tù zhtoànti tuce‹n tîn
dika…wn (commento e bibliografia in
F.J. Cuena Boy, La ‘episcopalis audientia’,
cit., 78 s.). La raccomandazione di impedire ai fedeli di ricorrere ai
magistrati ordinari si ritrova anche in un’altra opera di Basilio, Regulae
fusius tractatae int. 49 (PG 31, coll. 1037 s.).
[134] August., enarr. in Psalm. 25.2.13 (PL 36, col. 195):
Verbi causa, contingit ut duo homines habeant causam apud servum Dei; nemo nisi
suam justam dicit causam; nam si iniquam putaret causam suam, judicem non
quaereret. Et
ille se putat justam causam habere, et ille. Veniunt ad jiudicem. Antequam
proferatur sententia, ambo dicunt: Amplectimur judicium tuum; quidquid
judicaveris, absit ut respuamus. Quid
et tu dicis? Judica quidvis, tantum judica: prorsus si in aliquo repugnavero,
anathema sim.
[135] Secondo G. Vismara,
Episcopalis audientia,
cit., 73, il testo di Agostino
mostra come non vi fosse la necessità di un formale compromissum
per adire dinanzi al vescovo, ma era sufficiente la dichiarazione delle parti,
dichiarazione con cui i litiganti «invocavano sopra di sé
l’anatema pel caso non avessero eseguito la sentenza episcopale».
Questa pena di tipo spirituale poteva essere accompagnata da ulteriori sanzioni
imposte dal presule, «ed eventualmente all’esecuzione della
sentenza episcopale per opera del pubblico funzionario». Per K.-H. Ziegler, Das private Schiedsgericht im antiken römischen Recht, cit.,
171, non si deve accostare l’episcopalis audientia con
l’arbitrato compromissorio, in quanto in essa mancherebbe il compromissum.
Effettivamente, si può sostenere da parte del vescovo il mancato ricorso
al receptum, come mostrerò nel testo, tuttavia, la conventio
compromissi si esplicitava nella volontà delle parti di far dirimere
ad un terzo la loro controversia e di attenersi alla sentenza arbitrale.
Parrebbe che nel passo di Agostino vi sia, seppur in via del tutto informale,
la dichiarazione dell’accettazione incondizionata della sentenza
episcopale.
[136] Decr. Grat. C. II, q. 6, c. 33 (PL 187, col. 632): Quod de arbitris intelligendum est. Judicum enim alii
sunt ordinarii, alii arbitrarii. Ordinarii vero sunt, qui ab apostolico, ut
ecclesiastici, vel ab imperatore, utpote saeculares, legitimam potestatem
accipiunt. Arbitrarii sunt, qui nullam potestatem habentes cum consensu
litigantium in judices eliguntur, in quos compromittitur, ut eorum sententiae
stetur.
[137] Mt 18.17. Vedi il commento di Hieron., comm. in Evang. Matthaei ad Eus. III.15 ss. (PL 26, col. 131) dove si parla di detestatione: “Quando autem dicitur: ‘Sit tibi sicut ethnicus et publicanus’, ostenditur majoris esse detestationis, qui sub nomine fidelis agit opera infidelium, quam hi qui aperte Gentiles sunt”. Vedi anche Auct. incertus (August.?): de duod. abus. grad. 10 (PL 40, coll. 1086 s.).
[138] Al contrario Vismara (Episcopalis
audientia, cit.,
12, e vedi anche 45) ritiene che in età precostantiniana i cristiani
potessero porre in essere un compromissum munito di stipulazioni penali
che davano vita alla conseguente actio ex stipulatu nel caso di commissio
poenae; tuttavia non si spiega l’affermazione dell’autore secondo
cui le fonti dei primi tre secoli del cristianesimo fanno «ritenere che
forse nessun caso si diede in cui due fedeli abbiano portato una loro
controversia di natura privata dinanzi ai tribunali romani». Sembra
inoltre leggere la presenza delle stipulazioni penali in C.Th. 1.27.1 C.G. Mor, Sui poteri civili dei vescovi dal IV al secolo VIII, cit., 17: «Dovunque le
parti possono ricorrere ad un arbitro – il Vescovo – [...], e il
giudice e le parti – l’uno condizionato dalla stipulatio
delle altre – si obbligano a seguire una pronuncia che noi diremmo sta al
di fuori del diritto sostanziale».
[139] Alcuni esempi: Coelestinus iii,
genuin. 236 (PL 206, col. 1133): … siquidem compromissum factum in dominam reginam et dominum
Remensem et arbitrium ab eisdem prolatum, prorsus irritum duximus, et cassum,
tum quia in arbitrio nulla fuerat poena constituta, tum quod nobis liquido
constitit arbitrium contra formam compromissi fuisse promulgatum; Stephan. Tornac., ep.
II.143 (PL 211, col. 428): …
Compromissum est utrinque sub attestatione veritatis, quae inter religiosos
juramenti vires obtinet, quia formam pacis, quae coram celsitudine regia
concessa fuisset et conscripta, observarent, qui aderant, et ab eis qui aberant
instanter observari facerent et constanter: concessa est et conscripta,
sigilloque regio consignata, ipso clementissimo rege fidejussorem sese
constituente; quod si aliqui deinceps paci tam solemniter celebratae
contradicere vellent, eis contrarius esset, nec eos in terra sua reciperet: qui
vero pacem observarent, eos sub protectione sua colligeret, et in terra sua
regio patrocinio communiret ...;
ep. III.220 (PL 211, col. 494): Quorumdam monachorum nos infestat improbitas, quibus cum
incessanter sufficere debeant sua, irreverenter invadere cupiunt aliena. Hi
sunt abbas et monachi S. Bertini, qui unam Ecclesiam de mensa nostra propriam,
longo tempore captivitate laicalis servitutis detentam et oppressam, sine
consensu nostro et Ecclesiae nostrae nobis contradicentibus sese asserunt
redemisse, et auctoritate sua garriunt suam esse. Mota super haec a nobis
adversus eos quaestione compromisimus in arbitros centum marcarum poena
interposita, si quis resilire tentaverit a receptis; Gregorius ix, decr. 1.43.9: Auctoritate iudicis
etiam delegati potest de causa spirituali in clericum et laicum compromitti,
et, si arbitrium est a partibus receptum, debet a partibus exsecutioni mandari,
licet per generalem procuratorem factum fuerit compromissum. Si autem non fuit
arbitrium approbatum, et poena fuit apposita, agitur ad poenam, alias ad
interesse. H. d. generaliter inhaerendo literae.
Curioso lo stupore espresso da A.M. Corbo, Note
su alcune fonti per la storia sociale romana al tempo di Nicolò V e
Callisto III, in Studi Romani 38.1-2, 1990, 65, che in materia di arbitrato alla
metà del ‘400 sostiene che tra le novità, «la
più singolare [...] è la presenza di cardinali come
arbitri».
Una
possibile risposta al quesito che mi sono posta potrebbe essere la riscoperta
del Digesto e del Codice giustinianeo. Va tuttavia sottolineato che nelle fonti
patristiche si trovano citazioni e rinvii, in materia di episcopalis audientia, non tanto alla legislazione giustinianea,
quanto e soprattutto dal Codice Teodosiano e dalle Novelle posteodosiane. Vedi
in particolare Hincmarus Rhemensis, il quale diverse volte fa riferimento alla
legge di Maggioriano, mostrando anche di conoscere l’Interpretatio:
opusc. et epist. 15.5 (PL 125, col. 1095): ... Et
lex Valentiniani et Theodosii praecipit (l. 15 Cod. Theod., de Accusat.) ut in
criminalibus causis, vel objectionibus, per mandatum nullus accuset, nec si per
rescriptum principis hoc potuerit impetrare: sed ipse, qui crimen intendit,
praesens per se accuset in scriptione praemissa. Judices autem puniendi sunt,
et damnandum officium, si forte tacuerint, si innocentem, nisi praemissa
inscriptione, subdendum crediderint quaestioni. Si autem clerici in
ecclesiasticis causis testimonium apud ecclesiasticos dixerint, per compromissi
vinculum episcopale judicium non adeundum, lege Majoriani abrogatum est;
55.43 (PL 126,
col. 446): In capituli interpretatione edicti Valentiniani de episcopali
judicio, posteriore videlicet constitutione, ita scriptum habetur (Interp. Novellae Valent.):
‘Lex ista de diversis rebus multa constituit, sed in primis de clericis
quod dictum est, ut nisi per compromissi vinculum judicium episcopale non
adeant, posteriore lege Majoriani abrogatum est’.; vedi anche sched.
23
(PL 126, col. 602) in cui troviamo un chiaro
riferimento al Codice Teodosiano ed anche alla giurisdizione giustinianea: De quibus scribo. Lex Justiniani dicit, ut ‘metropolitanus
vel primas provinciae, de ecclesiastico jure, vel de aliis negotiis inter
conquirentes audiat: et quod ecclesiasticis canonibus et legibus nostris
consentaneum sit, hoc diffiniat, et nulla pars valeat calculo ejus
contradicere’. Et hinc beatus Gregorius saepe numero in suis ex Regesto
decretis praecipit, ut ‘secundum leges et canones ecclesiastica judicia
terminentur’. Et sacrae leges, quas Ecclesia catholica recipit, dicunt:
‘Quoniam confiteri quisque in judicio, non tantum sua voce, sed et
litteris, et quocunque modo potest: convinci autem non nisi Scriptura aut
testibus potest’. Et de clericis, in posteriori lege Majoriani abrogatum
demonstrant, ut ‘clerici
per compromissi vinculum non adeant episcopale judicium’. Et item leges sacrae dicunt, ut in
criminalibus causis nec accusator, nec accusatus per procuratorem, aut aliam
personam defensare se permittantur, nisi ingratum libertum patronus accuset. Et
in causa capitali nemo damnatur, neque absens per alium accusare aut accusari
potest; nisi forte accusatus legaliter ac regulariter evocatus (quia, ut
scribit Gelasius: ‘Ita vocatur adjudicium certa quaecunque persona, ut
aut fateatur objecta, aut convincatur objectis’) ad purgandum se, contra
evocationis regulam venire distulerit, ut secundum leges, et decreta Gregorii,
in eum, quasi in contumacem proferatur sententia. Et secundum leges et canones,
ut dicit Felix, ‘respondere diffidens, objecta confirmat’: quatenus
ut Bonifacius papa decrevit, ‘dilationem sententiae de absentia non
lucretur’. Cujusmodi judicio et accusator secundum leges et canones
subjacebit, si accusationem suam legalem, ac regularem prosecutus non fuerit;
ut aut quae objecit, legaliter ac regulariter comprobet, aut falsitatis reus
judicio legali ac regulari subjaceat. Sicut in legis Theodosianae lib. IX, c.
26 et 27, in Carthaginensis concilii c. 19, et Africani concilii c. 27,
evidenter ostenditur. Interessante il fatto che Graziano riporti parte del
testo della C.Sirm. 1, che attribuisce a Teodosio: Decr. Grat. C. XI, q. 1, cc. 35-36 (PL 187, coll. 830
s.): ‘Unde
Theodosius imperator: C. XXXV. Cuicunque
licet sacrosanctae sedis antistitis judicium eligere’. Quicunque
litem habens, sive possessor sive petitor fuerit, vel in initio litis vel
decursis temporum curriculis, sive quum negotium peroratur, sive quum jam
coeperit promi sententia, judicium elegerit sacrosanctae sedis antistitis,
illico sine aliqua dubitatione, etiamsi alia pars refragatur, ad episcoporum judicium cum
sermone litigantium dirigatur. C. XXXVI. ‘Item
ibidem’. Omnes itaque causae, quae vel praetorio jure vel civili
tractantur episcoporum sententiis terminatae perpetuo stabilitatis jure
firmentur, nec ulterius liceat retractari negotium, quod episcoporum sententia
deciderit. § 1. Testimonium etiam, ab uno licet episcopo perhibitum, omnes
judices indubitanter accipiant, nec alius audiatur, quum testimonium episcopi a
qualibet parte fuerit repromissum. Illud est enim veritatis auctoritate
firmatum, illud incorruptum, quod a sacrosancto homine conscientia mentis
illibatae protulerit. Hoc nos edicto salubri aliquando censuimus, hoc
perpetua lege firmamus, malitiosa litium semina
comprimentes.