N. 8
– 2009 – Memorie//XXIX-Roma-Terza-Roma
Accademia Teologica, Mosca
Sinfonia di sacerdotium E Imperium in Russia.
studio storico e prospettive*
La sinfonia di Chiesa
e Stato o, per meglio dire, la sinfonia di sacerdotium et Imperium,
rappresenta uno dei modelli di rapporti tra Stato e Chiesa storicamente
consolidatosi.
Al fine di
rappresentare in maniera più precisa l’essenza della sinfonia,
è necessario considerare la natura differente di Chiesa e Stato. La
Chiesa, secondo la teologia ortodossa, è stata fondata da Dio stesso,
dal signore Gesù Cristo; l’istituzione divina del potere statale
è invece mediata dal processo storico. Scopo della Chiesa è la
salvezza eterna dell’uomo, lo scopo dello Stato consiste nel suo
benessere terreno. Proprio per la loro differente natura, Chiesa e Stato
ricorrono a sistemi diversi per raggiungere i loro obiettivi. Lo Stato si fonda
sulla forza materiale compresa la coercizione fisica, la Chiesa invece dispone
solo di strumenti etico-religiosi per la direzione spirituale del suo gregge e
per convincere nuovi figli. Lo Stato, riconoscendo i limiti delle proprie
competenze, non pretende di dare un giudizio di autorità su materie
teologiche, sulle forme del culto o sul rito divino; allo stesso modo non
è affare della Chiesa giudicare le forme della struttura statale, le
iniziative dei governi dal punto di vista della loro opportunità
politica. E dunque Chiesa e Stato hanno proprie sfere di azione, propri
strumenti e, in linea di principio, sono indipendenti l’una
dall’altro.
Questa indipendenza
tuttavia non ha un carattere assoluto. «La Chiesa non è
l’Impero di tutto il mondo, ma sta nel mondo, - scriveva il famoso
canonista serbo, il vescovo Nikodim (Milaš) – e i suoi membri devono
essere anche membri dello Stato e di conseguenza rispettare sia le leggi della
Chiesa, sia le leggi dello Stato»[1].
Ci sono campi che non possono essere indifferenti né per la Chiesa
né per lo Stato. Intendiamo soprattutto l’etica sociale che da un
lato è legata alla salvezza dell’uomo che è missione della
Chiesa e dall’altro costituisce il perno della solidità del
governo statale e inoltre è lo status giuridico della Chiesa nello
Stato.
La posizione della
Chiesa rispetto ai contrasti che possono sorgere in queste due sfere non
può essere univoca. La Chiesa predica senza pecca la vera dottrina ed
insegna agli uomini i canoni etici che vengono da Dio stesso, per questo non ha
il potere di mutare qualcosa nel suo insegnamento, ma non ha neanche il potere
di tacere, di interrompere la predicazione della verità quali che siano
le diverse teorie sostenute o diffuse dalle istanze statali. Per la sua
predicazione incessante ed interiormente libera, la Chiesa ha dovuto sopportare
nella storia diverse persecuzioni da parte dei nemici di Cristo. La Chiesa
perseguitata non ha mai fatto ricorso a strumenti politici per difendersi e non
ha mai negato la propria lealtà allo Stato che la perseguitava, ma
parallelamente i cristiani non possono in nessuna situazione assoggettarsi a
ordini dei poteri statali che li costringano a rinunciare alla propria fede o a
commettere peccato. In questo senso la Chiesa è assolutamente libera
dallo Stato. E il contrasto che si viene a creare in questa situazione si
risolve in maniera univoca. Quando il sinedrio ebraico voleva proibire agli
apostoli di predicare l’insegnamento di Cristo Salvatore, i santi Pietro
e Paolo dissero: «Se sia giusto innanzi a Dio obbedire a voi più
che a lui, giudicatelo voi» (Atti degli apostoli 4.19).
In “Fondamenti
della concezione sociale della Chiesa ortodossa russa” è contenuta
a questo proposito la seguente disposizione: «se il potere costringe i
credenti ortodossi a rifiutare Cristo e la sua Chiesa oppure a compiere atti
peccaminosi e nocivi per lo spirito, la Chiesa deve rifiutare
l’obbedienza allo Stato. Il cristiano, seguendo i dettami della sua
coscienza, può rifiutare di eseguire gli ordini del potere che vuole
costringerlo al peccato. Nel caso in cui tutto il corpo dei fedeli sia
nell’impossibilità di rispettare le leggi statali e le
disposizioni del potere, le autorità ecclesiastiche,
nell’esaminare dovutamente la questione, possono intraprendere le
seguenti iniziative: avviare un dialogo diretto con le autorità in
merito al problema insorto, appellarsi al popolo perché, mediante i
meccanismi di potere di cui dispone, ottenga la modifica della legislazione o
la revisione della decisione delle autorità, rivolgersi alle istanze
internazionali e all’opinione pubblica mondiale, rivolgersi al proprio
gregge perché faccia ricorso alla disobbedienza civile pacifica»
(III.5).
In merito allo status
giuridico di questa o quella Chiesa locale, bisogna dire che la
sovranità giuridica sul territorio dello Stato appartiene al potere
statale. Di conseguenza è quest’ultimo a determinare lo status
giuridico della Chiesa locale. I modelli reali di relazioni tra Chiesa e Stato
si evolvono, naturalmente, sulla base della realtà storica, tuttavia
è il potere statale che ha la responsabilità giuridica della
legittimità di queste relazioni. Nel garantire alla Chiesa tutte le
condizioni necessarie per realizzare completamente la sua missione oppure
limitando queste condizioni, il potere statale di fatto si presenta al giudizio
della Verità eterna e, in ultima analisi, determina la propria sorte.
I primi tre secoli
della sua storia hanno visto la Chiesa di Cristo sopravvivere illegalmente. La
Chiesa, all’alba della sua esistenza, ha subito persecuzioni sia da parte
della comunità ebraica in Palestina, sia da parte del potere e del
popolo dell’Impero Romano. La Chiesa nell’Impero era fuori legge,
collegio illecito, (collegium illicitum). I cristiani erano spesso
perseguitati non solo in base alle leggi comuni dell’Impero, ma anche per
disposizioni particolari che venivano emanate appositamente per i cristiani e
che ci sono note, nei loro tratti generali, grazie al famoso carteggio tra
Plinio il Giovane e l’imperatore Traiano.
Le relazioni tra
Chiesa e Impero romano mutarono radicalmente dopo l’emanazione nel 313
dell’editto del santo imperatore Costantino e di Licinio che donò
la libertà ai cristiani. Nell’arco di un secolo si
consolidò nell’Impero un particolare sistema di relazioni tra
Chiesa e Stato che venne denominato sinfonia di Impero e altare.
Proprio alla sinfonia
è legata l’idea, radicata nella tradizione ortodossa, della forma
ideale di rapporti tra Chiesa e Stato, idea che, come sempre avviene a ogni
ideale calato nella realtà terrena, si è sempre realizzata in
modo parziale e incompleto. Poiché le relazioni tra Stato e Chiesa sono
un fenomeno bilaterale, la sinfonia poteva nascere solo in uno Stato che
riconoscesse la Chiesa Ortodossa che sola possiede la completezza della vera
conoscenza, delle cose più sacre del popolo, in altre parole in uno
Stato ortodosso. Tuttavia, se in uno Stato in cui la Chiesa ortodossa gode di
uno status ufficiale che le garantisce particolari privilegi, esistono
minoranze religiose i cui diritti, a seguito di quei privilegi, risultino
danneggiati, è difficile sostenere che le relazioni tra Stato e Chiesa
sono regolate in maniera ideale. E dunque, evidentemente, solo uno Stato
ortodosso multireligioso, pluriconfessionale è in grado, senza
pregiudizio per la giustizia e il bene comune dei propri cittadini, di
costruire rapporti con la Chiesa improntati alla sinfonia.
L’Impero romano,
all’epoca dei concilii ecumenici, corrispondeva più o meno, anche
se certamente non in maniera perfetta, in quanto la perfezione assoluta non
è possibile, alle condizioni qui citate. Proprio allora furono elaborati
i principi fondamentali dei rapporti di sinfonia tra Chiesa e Stato fissati nei
canoni e nelle leggi statali dell’Impero e riportati nei sacri testi
della patria. Le idee fondamentali e i principi della sinfonia sono grosso modo
contenuti negli atti della legislazione imperiale, in particolare nelle Novelle
del santo imperatore Giustiniano.
Nel preambolo alla
sesta novella viene formulato il principio stesso della sinfonia tra potere
della Chiesa e potere dello Stato – di sacerdotium et Imperium: «i grandissimi beni
donati all’uomo dalla grazia di Dio sono l’essenza di sacerdotium
et Imperium, il primo dei quali (sacerdotium, il potere della
Chiesa) si occupa delle cose divine, mentre il secondo (Imperium, il
potere statale) governa e si occupa delle cose umane ed entrambi, avendo origine
dalla stessa fonte, abbelliscono la vita umana. Per questo niente è
tanto caro al cuore dei regnanti quanto l’onore degli uomini di Chiesa
che servono i regnanti pregando incessantemente per loro. Se il clero
avrà buone condizioni com’è gradito al Signore e il potere
statale dirigerà veramente lo Stato affidatogli ci sarà tra loro
completa armonia in tutto, il che va a favore e per il bene del genere umano.
Per questo noi facciamo grandi sforzi per tutelare i veri dogmi divini e
l’onore del clero, nella speranza di ottenere così grandi beni da
Dio e conservare saldamente quelli che abbiamo»[2].
Ispirandosi a questa norma, l’imperatore Giustiniano nelle sue novelle
riconobbe ai canoni la forza di leggi statali.
La formula bizantina
classica delle relazioni tra Stato e Chiesa è racchiusa anche nel
più tardo atto della legislazione imperiale risalente alla seconda
metà del IX secolo, “Epanagoge”: «tra potere terreno e
clero c’è lo stesso rapporto che esiste tra corpo e anima e sono
entrambi necessari alla struttura statale esattamente come corpo e anima sono
necessari all’uomo vivente. Nel legame e nell’armonia tra di loro
sta il bene dello Stato»[3].
Ritroviamo lo stesso pensiero negli atti del VII concilio ecumenico: «Il
sacerdote è luce e forza del potere imperiale e il potere imperiale con
leggi giuste governa la terra»[4].
E dunque
l’essenza della sinfonia consiste in una reciproca collaborazione, nel
sostegno e nella responsabilità reciproca senza intromissione di una
parte nella sfera di esclusiva competenza dell’altra. Se i rapporti tra
la Chiesa e lo Stato sono fondati sulla sinfonia, lo Stato chiede alla Chiesa
sostegno spirituale e morale, le chiede preghiere per se e benedizione per la
sua azione volta al conseguimento di obiettivi che vadano a favore dei cittadini,
mentre la Chiesa riceve dallo Stato aiuto nel creare condizioni favorevoli alla
predicazione e al nutrimento spirituale dei suoi figli che sono
contemporaneamente anche cittadini dello Stato.
I padri del Concilio
di Cartagine nel canone 104 (93) espressero l’idea secondo la quale i
devoti detentori del potere statale sono chiamati ad essere difensori della
Chiesa cattolica: «l’umanità dell’imperatore deve far
sì che la Chiesa Cattolica, nata nel grembo di Cristo e cresciuta nella
fede incrollabile, sia limitata dai suoi atti di modo che nel suo Impero devoto
uomini arroganti non prendano il sopravvento sul popolo inerme con il terrore
se non possono farlo con la persuasione».
Nei rapporti tra
Chiesa e Stato improntati alla sinfonia i maggiori rappresentanti del potere
statale e della Chiesa ricevono una doppio placet, sia dallo Stato sia
dalla Chiesa. Da qui la “cresima” degli imperatori; di qui anche la
partecipazione dei regnanti all’intronizzazione dei patriarchi. Le
relazioni tra Stato e Chiesa costituivano il perno centrale del sistema
politico dello Stato russo. A partire dalla fine del XV secolo nella coscienza
giuridica russa, l’idea del passaggio della Rus’ all’Impero
romano assunse un carattere oltremodo importante. Le relazioni tra Chiesa e
Stato da noi sono state consapevolmente costruite sul modello bizantino. Nella
Russia prepetrina il potere del principe e poi dello zar era circoscritto non
solo dal diritto tradizionale, solito, ma anche dall’indipendenza di
principio dallo zar del massimo potere ecclesiastico, del sacro concilio e del
patriarca.
Le digressioni
dall’impostazione basata sulla sinfonia nei rapporti tra Stato e Chiesa
in alcuni casi hanno avuto un carattere individuale, come per esempio la
tirannia di Ivan il Terribile, in altri hanno avuto tratti meno espliciti,
più morbidi e contenuti rispetto a Bisanzio come si è evidenziato
per esempio nello scontro tra lo zar Aleksej Mihajlovič e il patriarca
Nikon provocato non solo dalle caratteristiche personali dei due uomini, ma anche
dall’influenza esercitata dalle nuove idee europee sulla coscienza
giuridica statale dei circoli governativi russi.
I tentativi di singoli
Signori moscoviti di usurpare il potere della Chiesa non sono stati altro che
un attentato alla norma e al diritto; quella norma che comunque anche ai tempi
di Vasilii III, di suo figlio Ivan il Terribile e ancora di Aleksej
Mihajlovič era la sinfonia, la cui essenza era stata formulata con
lapidaria chiarezza dal grande Concilio di Mosca del 1666-1667 «verrà
accettata la conclusione che lo zar ha la prevalenza nelle cose civili mentre
il patriarca in quelle della Chiesa affinché in questo modo si conservi
integra e incrollabile nei secoli l’armonia dell’istituzione della
Chiesa»[5].
Per quanto riguarda
l’epoca sinodale, quella indubbia deviazione dalla norma della sinfonia
nei due secoli sinodali della storia della Chiesa non è legata alle
reminiscenze bizantine come affermano gli storici di indirizzo liberale,
bensì all’influenza, storicamente ben individuata, della dottrina
protestante del territorialismo e della clericalità statale sulla
coscienza giuridica e la vita politica della Russia.
Con Pietro il Grande
ci si è allontanati dalla sinfonia bizantina in direzione del sistema
della clericalità di Stato dei principati tedeschi dell’epoca
dell’assolutismo. Nel 1721 venne realizzata una riforma radicale del
governo della Chiesa che contemporaneamente significò un rivolgimento
effettivo nei rapporti tra Stato e Chiesa. Il Santissimo Sinodo costituito nel
1721 era la massima istanza amministrativa e giuridica della Chiesa ortodossa
russa che, tra l’altro, agiva esclusivamente in accordo con il potere
supremo. Le leggi statali che regolavano la vita della Chiesa da allora vennero
emanate o come ukaz del potere supremo o come ukaz del Santissimo Sinodo
governativo che, come il Senato, operava in nome del regnante, da lui riceveva
ordini superiori e indicazioni su tutte le cose della Chiesa. Tutte le delibere
del Santissimo Sinodo recavano il sigillo “per volere di sua altezza
imperiale”.
A seguito della
riforma petrina ci si allontanò dalla sinfonia bizantina verso il
sistema della clericalità statale dei principati protestanti tedeschi
dell’epoca dell’assolutismo. L’insieme degli elementi del
sistema di clericalità statale e dell’eredità tradizionale
derivante dalla sinfonia bizantina ha costituito l’originalità
dello status giuridico della Chiesa ortodossa in Russia nel periodo sinodale.
Benché la sinfonia di Stato e Chiesa ereditata da Bisanzio sia rimasta,
anche dopo Pietro, un alto ideale, nella sua attuazione giuridica e nella
prassi politica questo ideale fu sottoposto a radicale trasformazione. Fino a
Pietro il Grande servire Dio e la Chiesa era considerato, sia dai detentori del
potere statale sia da tutto il popolo, il senso e l’obiettivo supremi
dell’esistenza stessa dello Stato, come fondamento certo di ogni
attività statale. Dopo Pietro, la Russia si pose degli obiettivi
prettamente secolari, indipendenti dal beneplacito religioso, mentre lo status
privilegiato della Chiesa ortodossa, la sua posizione “dominante”
rispetto alle altre comunità religiose trovò giustificazione solo
nel fatto che l’ortodossia, in conformità con le leggi
fondamentali dell’Impero russo, era la fede del regnante e della
maggioranza dei suoi sudditi.
Per quanto riguarda lo
status dell’imperatore nella Chiesa russa il più importante
documento giuridico relativo a questo argomento venne emanato
dall’imperatore Paolo. Il 5 aprile 1797 nel giorno della sua
incoronazione venne reso pubblico l’“Atto
sull’ereditarietà del trono imperiale panrusso” compilato da
Pavel Petrovič durante il periodo in cui era erede al trono, nel 1788, e
conservato nella cattedrale dell’Assunzione del Cremlino di Mosca. Vista
l’impossibilità di individuare l’erede al trono prima della
scomparsa del regnante e visti gli intrighi per la successione e i tentativi di
colpo di stato che si verificarono tra il 1741 e il 1762, la pubblicazione di
questo atto si poneva come obiettivo l’introduzione di un ordine di
successione rigido e di interpretazione certa, alla massima carica dello Stato
che avrebbe dovuto sostituire il sistema precedente, voluto da Pietro il
Grande, basato sulla nomina totalmente discrezionale del successore da parte
dello zar regnante.
Nell’Atto, in
particolare, si delibera l’impossibilità per una persona non
appartenente alla Chiesa ortodossa di ereditare il trono russo. Di particolare
valore anche l’assunzione da parte del regnante russo dello status di
capo della Chiesa: «quando il diritto di successione verrà
ereditato da un discendente di genere femminile già regnante su un altro
trono, allora il pretendente al trono dovrà scegliere la fede e il trono
e rinunciare insieme all’erede all’altra fede e all’Impero,
nel caso in cui questo Impero sia legato alla Legge (nel caso specifico si
intende confessione non ortodossa V.C.) poiché i regnanti russi sono
capi della Chiesa e nel caso in cui non ci sia questa rinuncia alla fede,
erediterà il trono la persona più vicina per ordine di successione»[6].
Questa disposizione
sull’impossibilità per una persona non appartenente alla Chiesa
ortodossa di salire al trono della Russia replica quanto contenuto nel
testamento dell’imperatrice Ekaterina I, redatto nel 1727 «Nessuno
mai potrà possedere il trono russo che non sia di legge greca»[7].
Il contenuto della
disposizione dell’“Atto” relativamente alla confessione del
regnante si riflette nell’articolo 42 delle “Leggi
fondamentali” che fanno parte della “Raccolta delle leggi
dell’Impero russo” la cui prima edizione è uscita nel 1832:
«l’imperatore in quanto regnante cristiano è il maggiore
difensore e conservatore dei dogmi della fede dominante e tutore della vera
fede e della devozione nella sacra Chiesa» (la disposizione è
mediata dal “Regolamento spirituale”). Nelle note a questo articolo
si dice: «in questo senso l’imperatore nell’Atto sulla
successione al trono del 5 aprile 1797 viene chiamato capo della Chiesa»[8].
Dunque viene introdotta una netta limitazione nella formula relativa al dominio
del regnante nella Chiesa. La formula dell’imperatore Paolo perde il
valore di legge diretta diventando solo un’interpretazione di uno degli
articoli delle “Leggi fondamentali”.
Per la concezione
canonica ortodossa del diritto è ammissibile solo questa interpretazione
della disposizione sul dominio dell’imperatore nella Chiesa che prevede
il dominio e la rappresentanza da parte dell’imperatore dei ceti laici,
ma non dell’episcopato. Sempre in questo senso veniva interpretata dalla
maggioranza degli autori anche la relativa disposizione della letteratura
canonica e giuridica del XIX secolo. Così A.D. Gvardovskij nella sua
interpretazione del 42° articolo delle “Leggi fondamentali”
scriveva: «I diritti del potere autocratico riguardano gli oggetti del
governo ecclesiastico, ma non il contenuto stesso della fede, degli aspetti
dogmatici e rituali… e dunque le competenze del potere supremo sono
limitate a quelle questioni che in generale possono essere oggetto
dell’amministrazione ecclesiastica, non presuppongono cioè atti che
per loro essenza appartengono agli organi della Chiesa ecumenica, ai concili
ecumenici»[9].
Alcuni autori tuttavia hanno insistito sul fatto che, benché
l’imperatore non potesse emanare leggi sulla fede o stabilire dogmi,
tuttavia aveva sulla Chiesa la pienezza dei poteri ivi compreso quello
legislativo. Così scriveva N.S. Suvorov: «l’imperatore
legifera nella Chiesa in quanto essa è ordine giuridico fondato sulla
tradizione dell’ortodossia senza modificare l’ortodossia
tradizionale e senza apportare in essa nuovi dogmi, ma regolando la vita
ecclesiastica nello spirito dell’ortodossia stessa»[10].
Secondo l’interpretazione di P.E. Kazanskij: «l’imperatore
non è un potere statale collaterale alla Chiesa ortodossa, ma è
il capo stesso della Chiesa… in un’ottica più ampia il
signore imperatore eredita in questo senso il potere degli imperatori
bizantini»[11].
Gli avvenimenti
rivoluzionari del febbraio-marzo 1917 hanno portato cambiamenti radicali nei
rapporti tra Stato e Chiesa. Il 2 marzo 1917 il santo imperatore Nicola II
abdicò, il potere passò al governo provvisorio costituito dal
Comitato provvisorio della Duma di Stato.
Dopo il colpo di
Stato, il governo sovietico avviò immediatamente la preparazione della
legislazione per separare la Chiesa dallo Stato. La decisa frattura della plurisecolare
stretta unione tra Chiesa ortodossa e Stato, avviata dal governo provvisorio,
venne portata a termine dai bolscevichi.
Il 20 gennaio 1918
venne pubblicato il “Decreto sulla separazione della Chiesa dallo Stato e
della scuola dalla Chiesa” elaborato dallo stesso presidente del
Sovnarkom (Consiglio dei Commissari del popolo). Questo decreto
significò non solo la frattura formale, giuridica dell’unione
plurisecolare tra Chiesa e Stato, frattura già contemplata dalla
rivoluzione di febbraio, ma addirittura legittimò la persecuzione della
Chiesa.
La Chiesa ortodossa
venne separata dallo Stato senza ottenere per questo i diritti di associazione
religiosa privata. Il principio della separazione della Chiesa dallo Stato, che
prevede la reciproca non ingerenza; la libertà e l’indipendenza
delle comunità religiose, il carattere neutrale dello Stato rispetto a
tutte le confessioni religiose si era già affermato negli Stati Uniti
d’America che fin dall’inizio della loro storia si sono presentati
come Stato pluriconfessionale. Il principio della separazione tra Stato e
Chiesa risale tuttavia anche a un’altra origine. In effetti nel
continente europeo è stato il risultato di quelle lotte anticlericali o
addirittura antiecclesiastiche ben note dalla storia delle rivoluzioni
francesi. Quando la Chiesa si separa dallo Stato non per la pluralità
religiosa della popolazione, ma perché lo Stato si lega a questa o
quella ideologia anticristiana o addirittura antireligiosa, non si può
più parlare della neutralità di quello Stato, del suo carattere
puramente laico. Di solito questo comporta una restrizione, una limitazione dei
diritti, la discriminazione o addirittura la persecuzione.
Nello Stato sovietico
la separazione tra Stato e Chiesa venne attuata secondo il modello francese, ma
con un significativo irrigidimento del regime nel quale la Chiesa doveva
vivere. L’originalità principale della legislazione sovietica sui
“culti” era contenuta negli ultimi paragrafi del
“Decreto” del 1918 con il quale sia la Chiesa ortodossa sia le
altre associazioni religiose erano private del diritto alla proprietà,
ma anche dei diritti della persona giuridica. Tutti i beni delle chiese e delle
associazioni religiose esistenti in Russia vennero nazionalizzati. Il decreto
proibiva l’educazione religiosa dei bambini nelle scuole.
«L’insegnamento delle dottrine religiose – è detto nel
decreto- è vietato in tutti gli istituti scolastici statali e pubblici
così come in quelli privati»[12].
Con il
“Decreto” del 1918 la Chiesa ortodossa russa fu esclusa nello Stato
sovietico dal novero dei soggetti del diritto civile. Questo decreto
costituì la preparazione giuridica alla confisca dei beni della Chiesa,
alla chiusura dei monasteri e delle scuole religiose, ai processi illegali e
alle rappresaglie contro i sacerdoti e i laici devoti. Lo status giuridico
della Chiesa, in base a un decreto emanato nel gennaio 1918, era prossimo
all’illegalità, cosa che non era nelle intenzioni degli
organizzatori della rivoluzione di febbraio che sullo status giuridico della
Chiesa avevano idee che non hanno fatto in tempo a realizzare, ma che erano
prossime a quelle fissate nell’odierna legislazione russa, in vigore oggi
nell’epoca postcomunista.
La Chiesa ortodossa
russa al concilio del 1917-1918 non riconobbe la legalità del
“Decreto” così come, fino alle dichiarazioni del patriarca
Tihon del 1923, non riconobbe affatto il potere sovietico, il che senza dubbio
rifletteva gli umori di quella che allora era la maggioranza del popolo.
L’opinione su
relazioni legittime tra Chiesa e Stato venne espressa dal Concilio locale in
“Determinazione sulla situazione giuridica della Chiesa ortodossa
russa” adottata il 2 dicembre 1917. L’originalità di questo
documento consiste nel fatto che, se da una parte non replica lo schema delle relazioni
tra Stato e Chiesa che esisteva nell’Impero russo, dall’altra
ignora completamente la reale situazione politica e legislativa creatasi alla
fine del 1917. Il concilio locale dunque risolveva la questione dei rapporti
tra Chiesa e Stato, ignorando la situazione contemporanea, la risolveva in
linea di principio, in altre parole, proponeva una norma, ideale nella sua
visione, di queste relazioni.
Nella dichiarazione
che precedette la “Determinazione”, la richiesta di separazione
totale della Chiesa dallo Stato viene paragonata all’auspicio “che
il sole non brilli e il fuoco non riscaldi”. La Chiesa per sua essenza
interiore – si dice nella Dichiarazione – non può rinunciare
a illuminare, a trasformare tutta la vita dell’umanità, a
irraggiarla”[13].
Le disposizioni
principali della “Determinazione” adottata dal Concilio,
recitavano:
«1. La Chiesa
ortodossa russa, essendo parte dell’unica Chiesa ecumenica di Cristo,
occupa nello Stato russo una posizione pubblico-giuridica predominante tra le
altre confessioni.
2. La Chiesa ortodossa
in Russia è, nell’insegnamento della fede e dell’etica, nel
servizio religioso, nelle disciplina spirituale interna e nei rapporti con le
altre chiese autocefale, indipendente dal potere statale e, facendosi guidare
dai suoi principi dogmatici e canonici, nelle questioni che riguardano la
legislazione ecclesiastica, il governo e la giustizia, gode dei diritti di
autodeterminazione e autogestione…
3. Le delibere e gli
atti legittimi che la Chiesa ortodossa emana per se stessa così come gli
atti del governo e della giustizia della Chiesa sono riconosciuti dallo Stato
come aventi valore e significato giuridico nella misura in cui non violano le
leggi dello Stato.
4. Le leggi dello
Stato che riguardano la Chiesa ortodossa vengono promulgate solo previo accordo
del potere ecclesiastico
6. Le azioni degli
organi della Chiesa ortodossa sono soggette ad osservazione da parte del potere
statale solo per la loro conformità alle leggi dello Stato, secondo
modalità giuridico-amministrative e giuridiche.
7. Il capo dello Stato
russo, il ministro delle confessioni e il ministro dell’istruzione
pubblica e i loro collaboratori devono essere ortodossi…
8. In tutti i casi
della vita dello Stato in cui lo Stato si rivolge alla religione, la Chiesa ortodossa
godrà del privilegio di sovreminenza.
9. Il calendario
ortodosso viene riconosciuto come calendario dello Stato.
10. Le feste
comandate, le domeniche e i giorni di particolare devozione della Chiesa
ortodossa sono riconosciuti dallo Stato come giorni festivi.
12. L’abbandono
volontario del’ortodossia non è ammesso prima del raggiungimento
dell’età fissata per contrarre matrimonio. Prima di questa
età i bambini possono abbandonare l’ortodossia solo per desiderio
dei genitori e solo nel caso in cui i genitori stessi abbandonino
l’ortodossia; ai bambini che abbiano raggiunto i 9 anni viene chiesto il
consenso.
14. Il matrimonio
religioso secondo il rito ortodosso viene riconosciuto come forma legale di
matrimonio…
18. Le scuole
elementari, medie e superiori istituite dalla Chiesa ortodossa come speciali e
dottrinali, ma anche quelle di istruzione generale godono nello Stato di tutti
i diritti riconosciuti agli istituti scolastici statali.
19. In tutte le scuole
laiche statali e private, l’educazione dei bambini ortodossi deve essere
conforme allo spirito della Chiesa ortodossa; l’insegnamento della
dottrina per gli studenti ortodossi è obbligatorio negli istituti
scolastici elementari e superiori, gli oneri relativi al personale delle scuole
statali sono a carico dell’erario.
20. Lo Stato deve
garantire di soddisfare le necessità religiose dei membri della Chiesa
ortodossa che prestino servizio nell’esercito o nella marina; ogni
reparto militare deve disporre di propri sacerdoti»[14].
Non è facile
definire adeguatamente quella struttura delle relazioni tra Stato e Chiesa
tratteggiata nella Determinazione del Concilio e nella Dichiarazione che la
precede, in quanto essa si differenzia in linea di principio sia dal regime di
separazione tra Stato e Chiesa sia dal sistema della clericalità di
Stato. L’idea, tradizionale per l’ortodossia, della sinfonia ha
senza dubbio ispirato i partecipanti al Concilio locale nonostante che nel
documento da loro redatto sia impossibile individuare la precisa riproposizione
di quel modello di sinfonia che si era consolidato a Bisanzio o nella Mosca
prepetrina.
Realizzare la
Determinazione del Concilio all’epoca della rivoluzione vincente era
assolutamente impossibile. Dopo il colpo di Stato dell’ottobre
sull’esistenza legale della Chiesa ortodossa in Russia pendeva una
pericolosa minaccia.
Significative
modificazioni nello status giuridico della Chiesa ortodossa russa e delle altre
unioni religiose si ebbero nella fase di tramonto dell’Unione Sovietica.
Il 1 ottobre 1990 venne adottata la Legge dell’URSS “Della
libertà di coscienza e delle organizzazioni religiose” che
riconobbe a singole parrocchie e a enti religiosi, ivi compreso il patriarcato,
i diritti di persona giuridica. Un mese dopo la promulgazione della legge
sovietica venne emanata la legge della Repubblica Federativa Russa “Della
libertà di confessione religiosa”. La disposizione della
separazione della scuola dalla Chiesa veniva formulata nella legge russa in
forma più sfumata: «il sistema statale di istruzione ha un carattere
laico e non persegue alcuno scopo di formazione di approcci precostituiti alla
religione»[15].
Tuttavia l’insegnamento della dottrina veniva ammesso su base facoltativa
in tutte le organizzazioni prescolastiche e negli istituti scolastici di ogni
ordine e grado. «L’insegnamento delle discipline religiose,
dottrinali e religioso-filosofiche poté entrare nel programma scolastico
degli istituti statali»[16].
Il 26 settembre 1997, dopo lunga e accesa discussione sia in parlamento sia
nella società, venne approvata la legge “della libertà di
coscienza e delle unioni religiose” che sostituì la precedente
legge “della libertà di confessione religiosa”.
Nella legge del 26
settembre 1997 “della libertà di coscienza e delle unioni
religiose” vengono sostanzialmente ripetute le norme contenute nella
legge precedente, ma nel preambolo è contenuta una disposizione che
mancava nella legge del 1990 con la quale si riconosce il ruolo particolare
della Chiesa ortodossa e di alcune altre confessioni religiose nella storia
della Russia. Il preambolo recita: «l’Assemblea federale della
Federazione Russa, confermando il diritto di ciascuno alla libertà di
coscienza e alla libertà di confessione religiosa nonché
l’eguaglianza davanti alla legge indipendentemente dalla religione e dalle
convinzioni, basandosi sul fatto che la Federazione Russa è uno Stato
laico, riconoscendo il ruolo particolare dell’ortodossia nella storia
della Russia, nell’affermazione e nello sviluppo della sua
spiritualità e della sua cultura, nel rispetto di cristianesimo,
islamismo, buddismo, giudaismo e delle altre religioni che costituiscono parte
integrante dell’eredità storica dei popoli della Russia, e
ritenendo importante collaborare per raggiungere la reciproca comprensione, la
tolleranza e il rispetto nelle questioni di libertà di coscienza e di
libertà di confessione religiosa, adotta la presente legge
federale»[17].
La legislazione russa
si trova in fase di trasformazione. Questa constatazione riguarda anche le
leggi che, in un modo o nell’altro, toccano lo status giuridico delle
comunità e delle unioni religiose. Per quanto riguarda lo status
giuridico della Chiesa ortodossa russa, poiché il significato
particolare della Chiesa ortodossa per la Russia è sottolineato nel
preambolo alla legge oggi in vigore “della libertà di coscienza e
delle unioni religiose”, è necessario affinare il sistema
legislativo in modo che la relativa disposizione del preambolo non rimanga una
pura dichiarazione, ma possa influenzare la legislazione e riflettersi sia in
concrete norme giuridiche sia nella reale politica dello Stato.
Il ripristino del
modello della sinfonia delle relazioni tra Stato e Chiesa nelle sue forme
classiche, e cioè bizantina o russa prepetrina, oggi è
evidentemente impensabile. E’ invece assolutamente realistico il ritorno
ad alcune idee della “Determinazione della posizione giuridica della
Chiesa ortodossa russa” adottata dal Concilio locale del 1917-1918. In
ogni caso è di grande attualità l’obiettivo di costruire un
certo tipo di sinfonia nei rapporti tra Chiesa ortodossa e società russa
come spesso ripeteva sua santità il patriarca Aleksij II oggi scomparso.
Esistono prospettive favorevoli alla costruzione di tale “sinfonia”
in quanto alla Chiesa ortodossa appartiene la maggioranza del popolo del nostro
paese e oggi fanno parte di quella maggioranza anche le più alte cariche
dello Stato russo. Se questa sinfonia tra Chiesa e società si
consoliderà, sarà necessario che si rifletta nel sistema
giuridico e legislativo.
Nel suo Intervento al
ricevimento offerto al Cremlino in suo onore dal presidente della Russia D.A.
Medvedev, sua santità il patriarca Kirill ha detto: «lo Stato si
occupa delle cose terrene. La Chiesa si occupa delle cose celesti. E’
impossibile concepire il cielo sulla terra o la terra senza cielo. La terra e
il cielo costituiscono l’armonia dell’essere divino, della
creazione di Dio… nella moderna Russia laica non è certo possibile
ricreare quello che esisteva nella Bisanzio medievale o nell’Impero
moscovita. Riconosciamo l’impossibilità nelle nuove condizioni di
realizzare questo ideale nato nel primo millennio. D’altra parte
però noi, come Chiesa, riconosciamo la necessità che lo spirito
della sinfonia indirizzi i nostri pensieri e le nostre azioni nella costruzione
di un modello di relazioni tra Stato e Chiesa». Questa è
l’esposizione autentica della posizione della Chiesa russa sulla
questione delle prospettive di ripristino della sinfonia nelle relazioni tra
Stato e Chiesa in Russia.
L’atteggiamento
dei rappresentanti del potere statale nei confronti di questa posizione non
è del tutto chiaro. Suscita però una certa speranza un fatto
avvenuto di recente: all’inizio di marzo di quest’anno a Tula si
è tenuta la sessione riunita del Consiglio statale e del Consiglio
presidenziale per le relazioni con le unioni religiose presieduto da D.A.
Medvedev che ha visto la partecipazione di Sua Santità il Patriarca
Kirill e dei rappresentanti delle altre chiese e comunità religiose che
ne fanno parte. Di particolare importanza il fatto che al centro della
discussione di questa riunione non siano stati problemi specifici legati allo
status giuridico delle comunità religiose bensì questioni
riguardanti l’educazione morale di bambini e giovani, nonché i
problemi sociali resi più acuti dalla crisi economica che sta vivendo il
paese e tutto il mondo. Lo Stato, come risulta chiaro dall’elenco degli
intervenuti alla riunione, individua come partner principale nella soluzione di
questi problemi, proprio la Chiesa ortodossa russa e le altre comunità religiose
della Russia.
Non è il caso
di nutrire irrealistiche speranze e coltivare illusioni, ma l’idea della
sinfonia di Chiesa e Stato non incontra più quel netto rifiuto nella
società o nelle istituzioni statali che aveva suscitato negli anni ’90,
per non parlare dell’epoca sovietica. Non si può tuttavia non
sottolineare che nella società esistono ancora coloro che questa
prospettiva spaventa.
*
Traduzione dalla lingua russa di Marina Bottazzi.
[1] Nikodim, episkop Dalmatinskij. Pravoslavnoe cerkovnoe pravo. Sankt-Peterburg, 1897, 674.