N. 8 – 2009 –
Memorie//XXIX-Roma-Terza-Roma
Università
di Roma “La Sapienza”
SACERDOZIO,
MAGISTRATURA E POPOLO
Sommario: 1. Relazione tra sacerdozi e magistrature nella
dottrina moderna. – 2. La distinzione tra
sacerdozi e magistrature: il potere del popolo come fondamento dei poteri
magistratuali; la divinità come fondamento dei poteri sacerdotali.
– 3. L’introduzione del principio
elettorale nella scelta dei sacerdoti. – 4. La
funzione della cooptazione. – 5. Conclusioni.
– 6. Bibliografia.
La relazione tra sacerdozi e magistrature
costituisce uno degli aspetti della più generale relazione tra religione
e diritto. Essa è stata esaminata in vario modo dagli studiosi, e non si
può dire, ad oggi, che siano state raggiunte conclusioni esaurienti.
Nel 1864 Numa Denys Fustel de Coulanges (La cité antique) sostenne che il potere del rex era basato su
due elezioni: la prima gli avrebbe attribuito il potere di capo religioso e la
seconda gli avrebbe conferito il comando militare. Tuttavia, per
l’età repubblicana egli affermò che sacerdozi e
magistrature sarebbero stati confusi insieme[1].
Nel 1871 Auguste
Bouché-Leclercq (Les Pontifes de l’ancienne Rome) approdò
a due conclusioni: la “religion” sarebbe stata subordinata a
l’“État” ed il pontefice massimo sarebbe stato
assimilato al magistrato[2].
Tra il 1874 ed
il 1875, Theodor Mommsen (Römisches
Staatsrecht, II-1 = Le droit
public romain, III) sostenne che all’inizio dell’età
repubblicana avrebbe avuto origine la
“Grenzlinie” tra i sacerdozi e le magistrature e che solo il pontefice massimo, e non
altri sacerdoti, avrebbe posseduto poteri da magistrato[3].
Nel 1915 uno studioso italiano, Ettore Pais
(Le relazioni fra i sacerdoti e le magistrature civili nella repubblica
romana), criticando Mommsen, sostenne che le “funzioni” dei sacerdoti e quelle dei magistrati si
sarebbero “incrociate”[4].
Nel 1925 Max Weber (Wirtschaft und
Gesellschaft, II) affermò che il rapporto tra religione e sistemi
giuridici sarebbe stato da sempre caratterizzato dal processo di
«Entgöttlichung»[5].
Fritz Schulz, nel 1934 (Prinzipien des
römischen Rechts) e nel 1946 (History of Roman Legal Science), sostenne
che il rapporto tra «das geistliche und das weltliche Recht»
sarebbe stato caratterizzato dal passaggio da «Sonderung» a
«Isolierung» a partire dal III secolo a.C., quando la
giurisprudenza romana avrebbe subito un processo di
“laicizzazione”, per effetto del quale i giuristi non appartenevano
più necessariamente ad un collegio sacerdotale[6].
Su queste basi, si è giunti
successivamente a teorizzare la “laicizzazione” del diritto stesso.
Eppure, dalle fonti emerge una maggiore
complessità per ciò che concerne la relazione tra religione e
diritto. Esemplarmente, leggiamo un testo di Catone, riportato da Aulo Gellio:
M.
Cato de Lusitanis, cum Servium Galbam accusavit: “(...) Ego me nunc volo
ius pontificium optime scire; iamne ea causa pontifex capiar? si volo augurium
optime tenere, ecquis me ob eam rem augurem capiat?”[7].
In esso appare
che il diritto pontificio ed il diritto augurale sono studiati anche da chi non
è sacerdote. Ebbene come
si può interpretare questo testo, se si procede dalla prospettiva della “laicizzazione della
giurisprudenza” intesa quale presupposto della
“laicizzazione” del diritto? Forse che anche il diritto pontificio
ed il diritto augurale sarebbero stati “laicizzati”? Ed
altresì, procedendo dalla medesima prospettiva, come si può
interpretare il passo del giurista Ulpiano,
in cui è evidente la stretta relazione, per la giurisprudenza, tra la
conoscenza delle cose divine e la conoscenza delle cose umane?
Iurisprudentia est divinarum
atque humanarum rerum notitia, iusti atque iniusti scientia[8].
Peraltro, nel passo del primo libro del
Digesto in cui il giurista Pomponio tratta della storia del diritto,
l’attività dei giuristi pontefici è definita
“scienza”, al pari di quella dei giuristi cosiddetti “laici”[9].
Nel sistema
romano, pertanto, il diritto non è separato né isolato dalla
religione; così, l’utilizzazione di termini e concetti moderni
(quali laico, laicismo, laicità, laicizzazione) per spiegare la
relazione tra religione e diritto nella Roma antica è frutto di
“autoproiezioni” concettuali e conduce a contraddizioni.
Non vi sono fonti attraverso le quali sia
possibile dimostrare che il pontefice massimo ed anche altri sacerdoti avessero
poteri analoghi a quelli dei magistrati[10].
Ma questo non significa che sacerdozi e magistrature fossero tra loro separati
o isolati; del resto, Cicerone affermava chiaramente che le medesime persone
presiedevano alla religione ed al governo della res publica[11]. Ma se religione e diritto non erano
separati o isolati, e se la medesima persona poteva contemporaneamente
rivestire sia la carica di sacerdote sia la carica di magistrato, come si
rapportavano tra loro poteri sacerdotali e poteri magistratuali?
A) Popolo
Secondo la celebre definizione di Cicerone,
«populus ... coetus multitudinis iuris consensu et
utilitatis communione sociatus»[12].
Da questo testo emerge una concezione concreta del popolo. Popolo è,
pertanto, un termine che indica un’unità complessa composta di
parti; e le parti sono: i cittadini, gli ordini (ad esempio patrizi e plebei),
le centurie e le tribù, cioè le unità di voto,
rispettivamente, dei comizi centuriati e dei comizi tributi.
Con il termine
‘popolo’ le fonti indicano concretamente l’insieme dei
cittadini che, per esprimere la propria volontà, sono organizzati nei
comizi, riuniti per eleggere i magistrati ovvero per approvare le leggi rogate
dai magistrati. Infatti, la legge è definita pubblica perché
proviene dal popolo; allo stesso modo, i magistrati sono detti pubblici
perché sono eletti dal popolo ed i loro poteri hanno fondamento nel
popolo. Come si vedrà, anche i sacerdoti sono chiamati pubblici, ma non perché i loro poteri derivino dal popolo, bensì
perché essi appartengono, per
dir così, al popolo.
I comizi, di
regola, sono convocati dai magistrati maggiori (consoli e pretori) in un luogo inaugurato e solo dopo aver
accertato il favore degli dèi attraverso gli auspici. Il luogo
inaugurato è definito templum
ed è destinato allo svolgimento di attività magistratuali e
sacerdotali, in quanto da esso è possibile la comunicazione con la
divinità; l’augure è il solo sacerdote che possa procedere
alla inaugurazione dei luoghi. Gli auspici favorevoli, attraverso
l’interpretazione di determinati segni da parte dal magistrato che
convoca i comizi, attestano il sostegno della divinità.
Gli auspici, considerati una proiezione dei
poteri umani sul piano del diritto divino, appartengono ad ogni cittadino e
conseguentemente al popolo, essendo questo la concreta somma di tutti i
cittadini. Dal popolo, gli auspici sono attribuiti ai magistrati attraverso la lex curiata (una particolare investitura
che avviene di fronte ai littori in rappresentanza del popolo riunito
nell’assemblea delle curie), fatta eccezione per i censori i cui auspici
hanno fondamento nei comizi centuriati[13].
Pertanto gli auspici dei magistrati, cioè il potere di consultare la
volontà divina nell’interesse della res publica, trovano fondamento negli auspici pubblici.
Nel popolo, quindi, sono i fondamenti dei
poteri magistratuali, ma essi non sono separati né isolati dalla
volontà divina. Giove è indicato come re degli dèi e degli
uomini e tutti i poteri, anche quelli umani, si ritiene che abbiano origine nel
potere divino[14].
Tuttavia, il potere del popolo e il potere della divinità non sono posti
sullo stesso piano, ma su piani distinti. Giove è qualificato come
onnipotente, ma la divinità non impone la propria volontà alla
volontà del popolo, piuttosto ne sostiene la estrinsecazione attraverso
gli auspici. La stessa localizzazione del popolo romano e l’inizio della
sua organizzazione giuridica sono sostenute ed autorizzate dalla
divinità.
B)
Magistrati
I magistrati “publici populi Romani” sono quindi eletti dal popolo
organizzato nei comizi. Gli stessi poteri dei magistrati hanno fondamento nel
popolo che li ha eletti, come emerge chiaramente da un testo di Cicerone:
omnes
potestates, imperia, curationes ab universo populo Romano proficisci convenit[15].
In questo testo è evidente che i poteri possono essere attribuiti ai magistrati solo dal popolo intero, cioè nella interezza delle parti che lo compongono.
La distinzione tra magistrati maggiori e
minori dipende dalla diversità degli auspici: coloro che hanno gli
auspici massimi sono definiti magistrati maggiori; coloro che hanno gli auspici
minori sono detti magistrati minori[16].
Tutti i magistrati, quindi, hanno auspici (il tribuno della plebe, che non
è un magistrato del popolo romano bensì della sola parte plebea,
non ha auspici); i magistrati maggiori hanno anche l’imperium (ad eccezione del censore), che consiste essenzialmente
nel potere di comandare un esercito e di riunire il popolo nei comizi.
Gli auspici dei magistrati sono definiti
pubblici perché hanno come fondamento gli auspici del popolo; il potere
di consultare la divinità, quindi, non proviene al magistrato
direttamente dagli dèi. Le più importanti attività dei
magistrati devono avvenire nei giorni fasti (secondo il calendario redatto dai
pontefici) e dopo che dallo stesso magistrato siano stati osservati segni
divini favorevoli (auspici); nonché in un luogo inaugurato nel quale sia
possibile la comunicazione con la divinità, perché le sostenga o,
più semplicemente, vi assista.
Questo modello non può essere
modificato; il tentativo del tribuno della plebe Servilio Rullo nel 63 a.C. di
fare eleggere magistrati da comizi composti solo da diciassette delle trentacinque
tribù in cui è riunito il popolo romano, viene respinto e quei
comizi sono definiti “non veri”[17].
Il fondamento dei poteri magistratuali,
dunque, è nel popolo, inteso nella sua totalità, ovvero nella
concreta interezza delle sue parti, e l’elezione del magistrato non
è frutto di una imposizione divina, ma della volontà del popolo
sostenuta dalla divinità attraverso gli auspici favorevoli.
C) Sacerdoti
I sacerdoti sovrintendono ai culti della
città secondo varie specializzazioni. Quattro sono i collegi sacerdotali
più importanti a Roma: pontifices, augures, septemviri epulones,
decemviri sacris faciundis. I pontefici curano l’osservanza delle
norme rituali e la loro spiegazione al popolo; gli auguri sono gli interpreti
di Giove Ottimo Massimo attraverso i segni; gli epuloni organizzano banchetti
sacri in onore di Giove; i custodi ed interpreti dei Libri Sibillini si
occupano della conservazione e consultazione dei Libri Sibillini. Vi sono anche
numerosi sacerdoti non organizzati in collegi, come i flamini ed il re dei
sacrifici.
I sacerdoti organizzati in collegi sono
scelti dagli stessi membri del collegio nel quale entrano a far parte,
attraverso la cooptazione; gli altri sacerdoti sono scelti dal pontefice
massimo. Anche il pontefice massimo è scelto tra i pontefici dagli
stessi componenti del collegio pontificio.
Alla scelta del sacerdote, che in latino
è chiamata “creatio”,
deve fare seguito la inauguratio, una
particolare cerimonia attraverso la quale gli auguri pongono il nuovo sacerdote
in comunicazione con la divinità.
Tra i poteri dei sacerdoti sono gli
auspici; ma questi poteri hanno caratteristiche diverse da quelli
magistratuali, perché non hanno fondamento nel popolo che non partecipa
in alcun modo né alla scelta né alla inaugurazione dei sacerdoti.
Gli auspici sacerdotali, infatti, sono definiti privati, al pari di quelli dei
singoli cittadini, e se i sacerdoti sono chiamati pubblici, come ho già
detto, ciò avviene in quanto
essi appartengono, per dir così, al popolo, ma non perché i loro
poteri derivino dal popolo.
Pertanto, il fondamento dei poteri
sacerdotali non è nel popolo, ma è esclusivamente divino. La
distinzione tra i fondamenti dei poteri sacerdotali e dei poteri magistratuali
trova la sua ragione nella collocazione su piani distinti del potere del popolo
e del potere divino. I sacerdoti non hanno il potere di consultare la
divinità sulla base degli auspici del popolo; essi sono esperti dotati
di capacità e poteri religiosi che non hanno fondamento nel potere del
popolo ed il meccanismo della cooptazione e della scelta diretta del pontefice
massimo indica che la loro scelta non può e non deve dipendere dalla
volontà del popolo.
Le modalità di scelta dei sacerdoti
cambiano a partire dal 212 a.C., anno in cui emerge nelle fonti
l’esistenza dei comitia pontificis
maximi, che provvedono alla elezione del pontefice massimo[18];
inoltre, nel 103 a.C. il tribuno
della plebe Domizio Enobarbo fa
approvare un plebiscito in virtù del quale la competenza sulla scelta di
sacerdoti organizzati in collegi (in particolare degli auguri, dei pontefici,
degli epuloni e dei custodi ed interpreti dei Libri Sibillini) è
attribuita ai comitia sacerdotiorum. Con
l’introduzione del principio elettorale nelle modalità di scelta
dei sacerdoti, la distinzione tra sacerdoti
e magistrati sembra meno netta.
Dall’esame delle fonti, però, è evidente che questa
distinzione non cade.
Un passo di Cicerone costituisce la migliore testimonianza su come erano strutturati
i comizi del pontefice massimo ed i comizi dei sacerdozi:
primum caput (...) legis agrariae (...) iubet (...) tribunum plebis qui
eam legem tulerit creare Xuiros per tribus XVII (...). “ITEM,” inquit, “EODEMQVE
MODO,” capite altero, “VT COMITIIS PONTIFICIS MAXIMI.” Ne hoc
quidem uidit, maiores nostros tam fuisse popularis ut, quem per populum creari
fas non erat propter religionem sacrorum, in eo tamen propter amplitudinem
sacerdoti uoluerint populo supplicari. Atque hoc idem de ceteris sacerdotiis
Cn. Domitius, tribunus plebis, uir clarissimus, tulit, quod populus per
religionem sacerdotia mandare non poterat, ut minor pars populi uocaretur; ab
ea parte qui esset factus, is a conlegio cooptaretur[19].
Dal testo di Cicerone si ricava che: 1)
questi comizi sono organizzati per tribù e, pertanto, hanno la stessa
struttura dei comizi che eleggono i magistrati minori; 2) le tribù che
compongono tali comizi sono diciassette e, quindi, essi non hanno la stessa
composizione dei comizi tributi che eleggono i magistrati, che sono invece
formati da trentacinque tribù (cioè la totalità del
popolo); 3) queste diciassette tribù sono qualificate come “minor
pars populi”.
A) La religione come limite ai poteri del popolo
Cicerone ricorre
alla frase: quod populus per religionem sacerdotia
mandare non poterat, per esprimere un concetto: le limitazioni al
potere del popolo[20].
E’ evidente che il ‘mandare
sacerdotia’ non rientra tra le attività che il popolo
può compiere. Vi sono infatti materie nelle quali il popolo non è dotato
di un potere dispositivo illimitato; in tal senso si veda il testo di Cicerone:
ascripsisse
eundem Sullam in eadem lege: ‘SI QUID IUS NON ESSET ROGARIER, EIUS EA
LEGE NIHILUM ROGATUM’. Quid est quod ius
non sit, quod populus iubere aut vetare non possit ? Ut ne longius abeam,
declarat ista ascriptio esse aliquid; nam, nisi esset, hoc in omnibus legibus
non ascriberetur[21].
Nelle nuove modalità di scelta dei
sacerdoti appare evidente il riconoscimento della distinzione tra
volontà divina e volontà umana, tra diritto sacro e
“sovranità” popolare, sotto il duplice profilo del
fondamento dei poteri sacerdotali e della espressione del potere del popolo: il
popolo non può attribuire ciò che non possiede, e questo
perché verrebbe concretamente stravolto il sistema stesso di poteri sui
quali il popolo medesimo si fonda.
Secondo la
ricostruzione di Cicerone, pertanto, la scelta dei sacerdoti organizzati in
collegi non può essere effettuata attraverso gli strumenti con i quali
il popolo usa ‘conferire le magistrature’;
l’attività svolta dall’universus populus nella elezione
dei magistrati produce effetti giuridici non adattabili alla scelta dei sacerdoti.
B) Minor pars populi
Se il popolo non
può ‘conferire i sacerdozi’ come invece può
‘conferire le magistrature’, è allora necessario che
l’elezione comiziale dei sacerdoti produca effetti diversi da quelli
cagionati seguendo le procedure previste per le magistrature. Ecco allora il
meccanismo individuato da Domizio: non è il ‘popolo intero’
organizzato nei comizi delle trentacinque tribù che elegge i sacerdoti,
ma sono alcune ‘parti
del popolo’, le diciassette tribù, che scelgono il nome del candidato da cooptare.
Il rapporto
‘somma-popolo’ e ‘addendi-parti’, presente nel
concetto di ‘minor pars
populi’ espresso da Cicerone[22],
è puntualizzato dai giuristi: Servio Sulpicio Rufo[23]
ed il suo allievo Alfeno Varo[24],
Ateio Capitone[25]
ed il suo allievo Masurio Sabino[26]
si interrogano sulla funzione che le parti del popolo possono svolgere sul
piano costituzionale. Parimenti, la definizione di ‘parte’
elaborata dal giurista Quinto Mucio Scevola[27]
è stata ispirata anche dalla necessità di mettere a fuoco
concetti quali ‘parte-parti del popolo’: la ‘minor
pars’ non può
realizzare quegli effetti giuridici che solo ‘omnes partes’ o
‘maior pars’ possono produrre[28].
La ‘minor
pars populi’ permette di risolvere il problema della carenza di
potere del popolo nella scelta dei sacerdoti. Le modalità di scelta dei magistrati non sono in alcun modo applicabili alla scelta dei
sacerdoti; e questo, non solo perché la relazione tra cittadini elettori
e magistrati eletti si fonda su principi quali ‘omnes potestates ab universo populo
proficisci convenit’[29],
ma anche perché non è l’elezione comiziale, da sola, che
costituisce la scelta del sacerdote.
Dal passo di
Cicerone si ricava che la cooptazione resta comunque un atto necessario ai fini
della scelta del sacerdote, pur dopo l’introduzione del principio
elettorale[30].
La cooptazione,
a fronte dell’introduzione della preliminare elezione comiziale del
candidato al collegio sacerdotale, assume un valore formale per ciò che
concerne la scelta dell’aspirante alla carica, ma conserva tutto il suo
valore sostanziale in relazione ai presupposti necessari ai fini della scelta
e, dunque, della inaugurazione del sacerdote.
Il ruolo dei
comizi del pontefice massimo e dei sacerdozi trova, quindi, il suo limite nella
stessa cooptazione. Al momento dell’elezione, il candidato al pontificato massimo è
già sacerdote, cooptato
all’interno del collegio dei
pontefici e successivamente inaugurato
come pontefice. Allo stesso modo, chi viene eletto dai comizi dei sacerdozi non per questo entra a far parte dei collegi sacerdotali, perché solo
la cooptazione da parte di
questi ultimi perfeziona il procedimento della scelta del sacerdote.
Le fonti, infatti, attestano una sorta di ‘supremazia’ della
cooptazione sulla elezione dei comizi dei sacerdozi: nel modo di citare
l’assunzione di nuovi membri all’interno dei collegi sacerdotali
appare menzionata esclusivamente la cooptazione[31].
L’imprescindibile
valore giuridico della cooptazione appare ancor più chiaro alla luce
delle particolari regole che disciplinano il funzionamento di questi comizi e
le candidature. Il fatto che queste ultime siano gestite esclusivamente
all’interno del collegio, attraverso il meccanismo della nominatio da parte dei
membri del collegio stesso[32],
unitamente alle limitazioni circa il numero dei candidati presentabili[33],
dimostra che i comizi sono chiamati sì ad operare una scelta, ma nei
ristretti ambiti disegnati dai collegi sacerdotali.
L’esame delle caratteristiche dei
comizi del pontefice massimo e dei successivi comizi dei sacerdozi costituisce
un percorso obbligato per chi voglia approfondire la relazione tra religione e
diritto. Nel momento in cui è coinvolto il popolo nella scelta dei
sacerdoti, si avverte la necessità di puntualizzare tre aspetti:
a) il popolo, nella sua interezza, non
può “nominare” sacerdoti o “conferire” sacerdozi
perché violerebbe i principi giuridico-religiosi sui quali si basano i
suoi stessi poteri;
b) gli effetti prodotti dagli atti posti in
essere dall’intero popolo sono diversi da quelli prodotti da sue parti;
c) il fondamento dei poteri sacerdotali
è e rimane esclusivamente divino.
Da ciò
emerge che l’introduzione del principio elettorale nella scelta dei
sacerdoti non muta i principi sui quali si basa il sistema giuridico-religioso
romano: i fondamenti dei poteri dei sacerdoti sono distinti da quelli dei
magistrati, come distinti sono i piani su cui si trovano il potere divino e il
potere del popolo, che però non sono separati né isolati.
In questo sta il
carattere popolare della religione nella repubblica romana. Il popolo entra nei
meccanismi di scelta di sacerdoti e magistrati: nel caso dei magistrati, in
modo pieno e sostenuto dalla volontà divinità attraverso gli
auspici; nel caso dei sacerdoti, in modo parziale ed estraneo al fondamento
divino dei loro poteri. E questo modello permarrà anche
nell’età imperiale. In un testo del giurista Ulpiano, infatti,
è teorizzata la
partizione del diritto pubblico, in base alla quale sacerdozio e magistratura
sono parti dello stesso sistema giuridico:
publicum ius in sacris, in
sacerdotibus, in magistratibus consistit[34].
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[3] TH. MOMMSEN, Römisches
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[4] E. PAIS, Le relazioni fra i sacerdoti e le magistrature civili nella repubblica
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I, Roma 1915, 271; 297 et 300.
[5] M. WEBER, Economia e società, III (trad. ital. di G. Giordano), Torino
2000, 130, (Wirtschaft und Gesellschaft, II, Tübingen 1925).
[6] F. SCHULZ, Prinzipien
des römischen Rechts, München und Leipzig 1934, 18; F. SCHULZ, History
of Roman Legal Science, Oxford 1946, 8.
[24] D.
5.1.76: proponebatur ex his iudicibus, qui in eandem rem dati essent,
nonnullos causa audita excusatos esse inque eorum locum alios esse sumptos, et
quaerebatur, singulorum iudicum mutatio eandem rem an aliud iudicium fecisset.
respondi, non modo si unus aut alter, sed et si omnes iudices mutati essent,
tamen et rem eandem et iudicium idem quod antea fuisset permanere: neque in hoc
solum evenire, ut partibus commutatis eadem res esse existimaretur, sed et in
multis ceteris rebus: nam et legionem eandem haberi, ex qua multi decessissent,
quorum in locum alii subiecti essent: et populum eundem hoc tempore putari qui
abhinc centum annis fuissent, cum ex illis nemo nunc viveret.
[25] Aul. Gell., Noctes Atticae 10.20.5:
“plebem” autem Capito in eadem definitione seorsum a populo
divisit, quoniam in populo omnis pars civitatis omnesque eius ordines
contineantur, “plebes” vero ea dicatur, in qua gentes civium
patriciae non insunt.
[27] D.
50.16.25.1: Quintus Mucius ait partis appellatione rem pro indiviso
significari: nam quod pro diviso nostrum sit, id non partem, sed totum esse.
[28] F. VALLOCCHIA, Collegi sacerdotali ed assemblee popolari nella repubblica romana,
Torino 2008, 163-176.