N. 8 – 2009 –
Memorie//XXIX-Roma-Terza-Roma
Università
di Salerno
Impero e Stati: universalismo e
internazionalismo
“… Distinguitur de duplice dominio,
politico
et dispotico, ostendens quod
politicum
oportet esse suave”.
(Tommaso
D’Aquino, “De Regimine
Principum”, 1272, Libro II, cap. VIII,
Marietti, Torino, 1971, ried. 2000)
Sommario: 1. Il
nuovo “medioevismo” internazionale del XXI secolo. – 2. La pax iusta tra
Regna e Imperium. – 3.
Tre dimensioni del pacifismo medioevale: a)
politico; b) biblico-profetico; c) regale-imperiale. – 4. Pax universalis
et aeterna. – 5. Il De Pace
tomista: pace privata, pace sociale e pace politica. – 6. Il De Bello iusto.
Caratteri della temporaneità e non perpetuità. – 7.
Prospettive di una società universale
vincolata al bonum pacis et iustitia.
– 8. Le origini dell’internazionalismo
“anti-imperiale”: Alberico Gentili. – 9. Etica della guerra: uso e non uso della forza armata
nei pre-groziani. – 10. Teoria della
guerra “legalizzata”: iusta
causa, par condicio e
bellum ad finem pacis. – 11. Conclusione.
Quale futuro per la “guerra giusta”.
Nella dottrina internazionalistica di
questo inizio di secolo non è certamente mancato un particolare fervore
di studi, dedicato alle origini pre-moderne della disciplina con riferimento
all’era del nuovo “medioevismo” internazionale[1],
oggi come allora caratterizzato dalla compresenza di imperi e di Stati quali
protagonisti delle relazioni contemporanee. Né sono mancate immagini
approfondite sul ruolo svolto dalla dottrina pre-groziana identificata in modo
molto semplice con il giusnaturalismo della Prima e Seconda Scolastica da San
Tommaso alla Scuola di Salamanca, fino al trionfo dello statualismo del diritto
pubblico europeo secondo il cd. modello di Westphalia. Alla Prima Scolastica
appartiene la corrente tomista con cui si chiude l’Alto Medioevo, mentre
la Seconda Scolastica coincide con la Scuola Spagnola di Vitoria e Suarez agli
esordi dell’epoca moderna, nonché con la Scuola
romanistica-oxfordiana di Alberico Gentili di cui si è da poco celebrato
il quarto centenario (Londra, 1608).
Con tale periodizzazione si vuole
probabilmente alludere anche ad un diverso ambito o visione del mondo. La prima
era, infatti, limitata all’ambiente euro-mediterraneo nel confronto tra
grandi gruppi internazionali di Stati di quell’epoca, quelli euro-occidentali,
euro-orientali e quelli arabo-islamici del Sud del Mediterraneo, secondo
l’itinerario della traslatio
imperii da Roma, Costantinopoli a Mosca e successivamente nel cd. impero
americano del Siglo de oro spagnolo
dal Nord al Sud America (Washington, Stati Uniti e Brasile). A parte tali
dimensioni spazio-temporali, il mondo dei valori universali riconosciuti nel
cd. internazionalismo della Prima Scolastica si distanzia dai principi
ordinamentali del primo millennio a causa di una netta presa di posizione per i
Regna ormai dominanti come
espressione delle comunità politiche nazionali, insediate intorno al
Mediterraneo, in Europa come fuori d’Europa, in palese posizione di
crescente indipendenza rispetto all’autorità della Res Publica Christiana del primo
millennio (Impero costantiniano e carolingio dell’Occidente e
dell’Oriente europeo)[2].
Pertanto, quando agli inizi del secondo
millennio, la situazione geo-politica dello spazio euro-mediterraneo appariva
sufficientemente consolidata sotto il regime governato dall’ordine
giuridico internazionale dei soggetti pubblici dell’epoca, competeva alla
scienza allora dominante, quella teologico-politica, di riassumere la
tradizione pregressa portandola sulle soglie della modernità e facendola
transitare oltre il modello della comunità antico e medioevale, cd.
modello di Westphalia del 1648. La principale opera dell’epoca resta la Summa
Theologiae, Secunda Secundae – De Pace et De Bello,
nonché il De Regimine
Principum ad Regem Cypri (Cap. XX), opera postuma del 1272 di Tommaso
d’Aquino (1225-1270), focalizzata sul dualismo imperia-regna e sulla forma di governo imperiale fondata sul
consenso assembleare o territoriale delle potestà politiche che ne
costituiscono il fondamento (cd. Principati o cd. regime dei Principati). La
fortuna di tale opera dottrinale coincise senz’altro con la sua
diffusione negli ambienti accademici ove Tommaso d’Aquino assunse il
prestigio dei pensatori di massimo livello, donde la sua definizione secondo le
finalità e i metodi di indagine di studio della cd. Scolastica,
destinata a nuove riletture (relectiones)
adesive o contrappositive nel contesto culturale delle università
dell’Occidente europeo di vario orientamento (Seconda Scolastica di
Vitoria e Suarez e giusnaturalismo laico di Gentili, Grozio, Pufendorf, Wolff,
Vattel). Tale filone di consacrazione del nuovo internazionalismo moderno trova
i suoi punti di riferimento dottrinale nelle riletture tomiste compiute in due
opere dall’identico titolo De iure
belli di Francisco de Vitoria (Salamanca, 1539) e di Alberico Gentili
(Londra, 1598 e Hannover, 1612).
La presente esposizione offre una lettura
sinottica con riferimento a due testi riportati mediante un’opportuna
selezione per comodità del lettore. Si tratta di un’opera
teologica[3]
e di un’opera politico-costituzionale[4]
di Tommaso d’Aquino per sottolinearne il senso teologico-politico
complessivo alla luce di un confronto sistematico. Essa non tende, né a
restaurare, né ad attualizzare Tommaso, ma piuttosto, a richiamare il
suo ruolo “inter-temporale”, come studioso del “flash-back” dell’epoca
attuale rispetto a quella antico-medioevale. Invero, gli studiosi contemporanei
già non trovano sorpresa nelle tre teorie tomiste più famose,
oggi facilmente ripresentabili: né nella teoria dell’Impero,
né nella teoria della pace, né nella teoria della scienza
politica.
Invero, gli studiosi della storia
dell’Impero non ricevono sorpresa dalla rilettura di una classica
monografia di Tommaso d’Aquino, dedicata all’Impero medioevale come
meta finale dell’Impero di Roma in Occidente e dell’Impero di
Costantinopoli in Oriente. Tommaso d’Aquino storico dell’Impero?
Gli allegati testi contenuti nei Capitoli da XIII a XXI, Liber Tertium del De Regimine
Principum ne fanno buona
testimonianza[5].
Così come gli studiosi del pacifismo politico anch’essi non
trovano sorpresa nella rilettura della Summa
Theologiae nella parte in cui compaiono i due capitoli consacrati alla summa divisio De Pace-De Bello (Secunda Secundae, Quaestio XXIX e Quaestio
XL). Tommaso d’Aquino, filosofo della pace e della guerra? La
combinazione classica dei due testi ne fa ugualmente buona testimonianza.
Così, infine, gli studiosi della storia dello Stato moderno e
contemporaneo non ricevono sorpresa dalla valutazione delle radici pre-moderne
della Costituzione come lex fundamentalis
del rapporto tra i poteri di uno solo ed i poteri dei molti. Tommaso
d’Aquino, scienziato della politica? Le radici classiche del
giusnaturalismo tomista consentono ugualmente una risposta positiva.
Quali allora le ragioni che rendono
inaccessibile il pensiero tomista agli studiosi moderni dell’Impero, del
pacifismo politico e della teoria dello Stato? La risposta è nella
pregiudiziale metodologica concernente il rapporto tra fides et ratio, tra teologia politica e scienza della politica, tra
diritto biblico e diritto positivo. E’, in altri termini, una
pregiudiziale fondata sull’autonomia dei ruoli e dei campi disciplinari.
E’ il silete theologi in munere
alieno, emblematico della contrapposizione della tradizione modernista
contro quella scolastica della scuola domenicana, misurata, appunto, sulle
radici teologiche o non teologiche del giusnaturalismo moderno. Ne deriva la capitis deminutio delle tre idee
tomiste: a) decapitazione dell’Impero, ritenuta forma sacrale della sola
società medioevale, oggi non riproponibile; b) decapitazione della pax universalis non ripresentabile come
tale e, infine, c) decapitazione dell’Imperium
mundi come funzione politica superiore di gestione della competenza
universale della pace e della guerra.
In un momento come quello attuale di
trasformazione dell’ordine internazionale si ripropone una dicotomia tra
i due modelli teorici e pratici, già originariamente presente nel
pensiero tomista, come parallelismo dell’«universalismo»
antico-medioevale e dell’internazionalismo moderno e post-moderno.
Dicotomia presente nel mondo medioevale ed ancor prima nel mondo mediterraneo: Imperium pacis o Regnum pacis, ovverosia pace dell’Impero o pace
dei regni e delle repubbliche? Secondo il primo, la soluzione ai grandi
problemi della pace e della guerra mediante un adeguato sistema di
organizzazione internazionale si realizza con tre caratteri essenziali: a)
pacifismo finalizzato al bene comune dell’ordine della giustizia; b)
limitazione e riduzione dell’uso della forza; c) istituzione
dell’Impero come summit o
vertice di governo di tale sistema, ovvero come foedus dei principali Regna
del mondo europeo e mediterraneo. Contro l’idea stessa
dell’«Impero», inteso come struttura complessa di garanzia
del primato dei grandi Stati si è mosso l’internazionalismo
statualistico del mondo moderno e post-moderno, democratico ed anti-egemonico,
per sua natura egualitaria in vista della par
condicio degli Stati grandi e piccoli. Secondo il cd. modello di
Westphalia, la tradizione groziana del diritto internazionale[6]
ha, comunque, elaborato modelli sostitutivi della forma di governo imperiale
grazie al sistema dei congressi ristretti a Stati e Impero (sistema della Santa
Alleanza o del Concerto europeo) o allargati alle assemblee rappresentative
della democrazia internazionale (società internazionale all’epoca
del Congresso di Versailles e “Comunità internazionale”
all’epoca della Società delle Nazioni e delle Nazioni Unite).
Ad esito di tale contrapposizione tra i due
modelli teorici diventa, allora, centrale la ricostruzione concettuale del
modello di governo “imperiale” di congiunzione o interconnessione
tra l’età antico-medioevale e quella moderna e post-moderna. In
tale prospettiva, la sempre utile rilettura della filosofia politica
internazionale di San Tommaso d’Aquino appare punto di intermediazione
tra le due epoche. E’ ascrivibile alla combinazione del De Pace e del De Bello, trattati nella Summa
Theologiae (Secunda Secundae,
Quaestio XXIX e Quaestio XL), i due filoni distinti o
separati del sistema giuridico internazionale. Così come è dalla comparatio imperiale et politicum,
trattata nel De Regimine Principum ad
Regem Cypri (Cap. XX) che si individua il sistema di governo di vertice
ovvero il sistema di organizzazione internazionale dell’Europa
mediterranea di quel tempo.
Com’è noto, la
contrapposizione al modello tomistico deriva dalla contestazione delle sue
radici teologiche, ritenute inadeguate ai fini dell’emancipazione della
scienza politica e giuridica delle relazioni internazionali. Secondo la nota
affermazione del silete theologi in
munere alieno, la collocazione del De Pace e del De Bello nel campo della teologia morale appariva contraria
all’esigenza di laicizzazione e de-sacralizzazione della politica estera.
E’ già a partire dalla Seconda Scolastica con le Relectiones Theologicae di Francisco de
Vitoria[7],
che il De iure belli sembrava lo
strumento indispensabile per l’espansione dei grandi Stati europei del nuovo
mondo secondo la logica dello ius totius
orbis. Così come i teologi protestanti della Scuola groziana
allargavano su basi proprie del giusnaturalismo moderno il De iure belli ac pacis ricollocato nel più ampio contesto
dello ius naturae et gentium (Pufendorf,
Wolff, Vattel).
Bisogna, però, attendere un rilancio
del pensiero concernente l’Impero come istituto co-essenziale e
necessario al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale nel
quadro del pensiero politico, democratico e cosmo-politico di fine Settecento
(Rousseau, Kant). Sicché tra i due poli della “politica” e
della “cosmo-politica” continua ancora a muoversi il dilemma
proposto nel Cap. XX del De Regimine
Principum tra una visione individual-statuale uti singuli o “universale-istituzionale” uti universi come modello di governo
della pace e della guerra.
Pertanto, richiede una rilettura
l’anti-tomismo politico che considera oggettivamente l’Impero come
un residuato storico dell’epoca antico-medioevale destinato a scomparire
ed a divenire privo di significato nel linguaggio dell’epoca successiva.
Malgrado la fermezza, quasi violenta, della contrapposizione, la
vitalità sotterranea della filosofia politica dell’Impero resta un
dato caratterizzante ai fini della formazione dello spazio giuridico
euro-mediterraneo fra Occidente e Oriente. Su tali basi va spiegato
perché esso resti, altresì, un’idea latente o
“sottotraccia” come filosofia politica del nuovo mondo
euro-americano e, infine, a partire dal sec. XIX e XX come filosofia politica
della società internazionale, interstatale e della Comunità
internazionale organizzata.
Il De
Pace e il De Bello e il De Regimine Principum (Libro terzo,
Capitoli da XII a XX) non sono profezia del futuro, ma riepilogo delle profezie
del passato. Non sono opere ante litteram,
ma retrospettiva di una storia biblica e di una historia naturalis. Esse assumono una triplice dimensione sotto il
profilo, sia storico, sia filosofico.
La dimensione politica deriva dal
fondamento logico razionale dell’intera costruzione tomistica, in specie
se applicata allo studio delle comunità politiche, intese come sedi
naturali di rapporti etico-sociali tra gli uomini. Il fil rouge è pax privata,
pax socialis, pax pubblica.
E’, invero, il pacifismo innanzitutto una teoria sociale e poi una teoria
dell’ordine e della giustizia, e, infine, una finalità propria
dell’agire umano e, quindi, di ogni uomo come soggetto politico e operatore
di pace. E’ ancora il pacifismo una teoria politica finalizzata ad un
ordine internazionale di pacifismo attivo e dinamico, comprendente le
istituzioni politiche di ogni ordine e di ogni genere, i popoli cui esse sono
preposte e gli individui singoli come destinatari della loro attività.
La seconda dimensione quella profetica trae
le sue origini dal cd. diritto divino, rappresentato dalle fonti bibliche. In
primo luogo, la fonte vetero-testamentaria rappresenta il più importante
dei testi storici di descrizione della storia comune alle genti del
Mediterraneo in quanto libro delle religioni e delle tradizioni dei tre mondi,
arabo, ebraico e cristiano. Il punto di emersione del regime biblico della pace
è dato dalle profezie di Daniele ed Isaia come meta finale di un mondo
pacifico e pacificato (Cap. XV). In tale prospettiva appare la visione
messianica di un “grande pacificatore”, coincidente con la nascita
del Regnum Christi e di una
comunità di uomini pacifici, pacifisti e pacificatori.
La terza ed ultima dimensione, quella
regale-imperiale, nasce dalla compresenza di Regna e Imperia nella
storia euro-mediterranea. Tale è la genealogia tomista degli Imperi
antichi (Siri e Medi), antecedenti a quelli greco e romano (Alessandro Augusto
da cui deriva il quinto Impero, cioè quello messianico del regno di
Cristo). Da essi derivano due diverse forme di esercizio dell’imperium in Oriente (Giustiniano) e in
Occidente (Carlo Magno) successivamente traslato ai Germani all’epoca di
Ottone III (De Regimine Principum,
Libro terzo, Cap. XVIII).
In tale quadro monarchico-imperiale, si
spiega il modello di governo dei prìncipi cui è dedicata
l’intera opera e cui risulta particolarmente rivolto il libro Terzo, Cap.
XXI. Sono, infatti, i prìncipi, non già i titolari del potere
supremo, bensì di potestà minori o locali secondo le consuetudines regionali. Al modello del
potere dei prìncipi si ispirano, sia le gerarchie del mondo europeo (comites, duci,
marchiones, barones, castellani), sia
quelle degli antichi Imperi siro-babilonesi (satrapi, magistrati, iudices), sia,
infine, quelli dell’Impero romano pre-cristiano (consules, duci, praefecti,
praetores, etc.). Anche qui le radici bibliche
della comparatio tra modelli di
poteri locali sono desunte dalla fonte biblica vetero-testamentaria (Libro dei
Maccabei, ancora citato in Cap. XXI).
Forma del dominium politico alternativa rispetto a quella monarchico e
repubblicana, l’Impero, nella visione tomista, esprime una costruzione
necessaria per il mantenimento della pace ed ottimale rispetto alla forma
regale o individual-territoriale. Rispetto alla definizione elaborata per lo
spazio giuridico universale, le riletture successive ne avrebbero messo alla
prova l’asserita universalità all’epoca del tutto ipotetica
ed eventuale. E’ con la rilettura teologica del diritto totius orbis che il diritto della Res Publica Christiana diventa
estendibile come ius novum, concepito per il nuovo mondo
americano secondo appositi titoli di legittimazione finalizzati al bene comune.
Diventano, così, espressione della universalità della pace, il
diritto alla migrazione ed al commercio nelle nuove terre scoperte del
continente americano ed il diritto alla comunicazione della fede religiosa alle
popolazioni locali. Così come nella rilettura groziana diviene diritto
della natura e delle genti l’ordinamento che assume la sua “ab omnium aut multarum voluntate vim
obligandi accepit”, cioè dal generale o prevalente consenso
fondativo o costitutivo della validità delle regole sulla pace
internazionale. Ma, ancora successivo nella rilettura giusnaturalistica di
Samuele Pufendorf, non tutte le regole di origine euro-mediterranea o
greco-romana possono estendersi come diritto universale a qualsivoglia parte
del mondo (per esempio all’Impero cinese, alias Celeste Impero).
Sempre nella visione tomista, la pace si
presuppone, altresì, eterna o perpetua mediante l’esercizio delle
sue funzioni essenziali di salvaguardia e di difesa (pax est servanda, defensio pacis, mediator pacis,
etc.). Le riletture successive avrebbero rapidamente individuato non
più nell’eternità della pace, ma nel suo carattere perpetuo
o, meglio ancora, permanente un valore da perseguire, non già mediante
una monarchia universale una e unica, ma grazie ad un sistema aristocratico,
cioè regale-imperiale, di alleanze consacrate da congressi
internazionali. E’ la formula utilizzata nei Trattati di Westphalia (pax sit christianissima universali et
aeterna), nonché negli analoghi progetti di organizzazione della paix perpétuelle en Europe (Saint-Pierre, Rousseau, Kant)
ed è ancora la formula economico-politica dei vari summit legati alla nota esperienza globale della governance gestita mediante un gruppo
ristretto di grandi Stati (G8-G14-G20). Con la degradazione del termine da
“eterno a perpetuo” si veniva così a legittimare una
diplomazia congressuale ed una tipologia dei Trattati di pace, intesi come
strumento di prevenzione rispetto alla guerra e di costruzione giuridica della
pace.
Elementi del De Pace, fondativi della Costituzione politica
sono i valori etico-sociali propri di una società composta non solo da
autorità politiche, ma da uomini portatori di valori individuali e
collettivi. La pax tomista è, pertanto, concordia dei
singoli e dei gruppi, ma non è una pace qualsiasi se non corrisponde ai
due criteri della psicologia individuale, tranquillitas
animi e dignitas hominis (pax vera).
In base al primo criterio, si individua il
comune sentire di un sistema di diritti e di doveri fondamentali e di
libertà individuali, sentite e rispettate come tali. Con il secondo
criterio si individua una pace vera perché corrispondente
all’ordine di valori condivisi e, quindi, non imposti all’interno
delle comunità e dei gruppi. Nelle riletture teologiche successive,
proprie della seconda tomistica, la verità della pace veniva riportata a
tre criteri fondamentali: intra-gentes,
inter-gentes e supra-gentes, nel contesto di un
più ampio rapporto tra lex humana e
lex divina[8]. Ancora più tardi, nelle
riletture del giusnaturalismo protestante, la psicologia individuale della pace
veniva ricondotta allo statuto fondamentale degli uomini e dei cittadini come
destinatari di diritti e libertà fondamentali garantite insieme dal
diritto politico-costituzionale, così come dal diritto divino.
Infine, le riletture della pax vera, compiute dalla cd. Terza
Scolastica della fine del XIX secolo, identificano la stessa con la pax socialis interna ed internazionale.
Esse trovano espressione ufficiale a seguito della pubblicazione
dell’opera omnia di Tommaso del
1880-1882 (edizione romana cd. leonina). Da tale rilettura, il nome nuovo della
pace diventa pax socialis a partire
dalla Rerum Novarum del 1891 alla Quadragesimo anno del 1931 ed al Centesimus annus del 1991.
Nell’ordine politico interno e internazionale pacifico impatta,
così, la dottrina sociale della Chiesa come protezione internazionale e
promozione dei diritti individuali e dei diritti sociali dei singoli, dei
gruppi e dei popoli, considerati fattore dinamico dello sviluppo e del
progresso dell’intero genere umano. Mentre, il criterio tomista della
gerarchia tra autorità politiche e comunità sociali si
ridefinisce nell’ottica del cd. principio di sussidiarietà,
ordinatore di un mondo composito di autorità politiche e di
libertà individuali e collettive.
Gli elementi del De Bello, fondativi della Costituzione politica, ne concernono
l’uso limitato ed eccezionale, contrassegnato dalla temporaneità e
non perpetuità come suoi caratteri propri e peculiari. Sono noti i tre
criteri indicati nella Summa Theologiae (Quaestio XL) come essenziali per
individuare un bellum iustum: a)
giusta autorità politica competente; b) titolo legittimo; c) luogo,
mezzi e tempo legittimo. Senza entrare nel merito di tale nota concezione, ci
limitiamo a dire che titolari legittimi dello ius ad bellum sono i reges e
l’imperator, con esclusione dei
principes perché sottoposti ai
primi, degli episcopi e dei chierici, perché non legittimati a
proclamare o ad eseguire attività in
bello, nonché, infine, dei privati in quanto radicalmente sforniti
di tale potere.
Dal regime di inclusioni ed esclusioni
derivava un complessivo sistema geo-politico su base regale-imperiale. Da esso
restavano escluse le cd. guerre religiose e le cd. guerre private.
Esclusione desumibile dall’esperienza fallimentare delle crociate
cristiane e dei regni cristiani di Terra Santa successivi all’occupazione
di Gerusalemme (16 luglio 1099). Così pure da tale esclusione
risultavano de-legittimate le forme di guerra di origine arabo-islamiche
collegate alle teorie della guerra santa contro gli infedeli (cd. jihād islamica).
Dal regime delle inclusioni risultava legittimato
il potere costituzionale dello Stato moderno mediante l’esercizio dello ius ad bellum come espressione tipica
dell’imperium di sospensione
dello ius pacis per finalità
di giustizia, quali il bellum defensivum di
fronte ad un’aggressione ed il bellum
di recuperatio per
l’eliminazione di un’iniuria o
ingiusta invasione. Ne risultava, altresì, legittimato il potere
militare in bello come uso legittimo
della forza armata nei confronti dei soli combattenti legittimi di altro Stato
e non contro le popolazioni civili ed i soggetti inermi o innocenti (minori
d’età, donne, chierici, ecc.). In tale esercizio limitato del bellum, lo stesso veniva inibito nei confronti di soggetti non
combattenti, quali i privati potenzialmente idonei ad essere inquadrati in eserciti
regolari od a svolgere attività di assistenza e di supporto nei
confronti degli stessi (cd. assistenza ostile). Tale esclusione avrebbe
contrapposto il regime proibizionistico indicato dalla Summa di Tommaso rispetto alla rilettura teologica di Francisco de
Vitoria favorevole all’uso del bellum
perpetuum esteso all’intera popolazione civile nemica nei soli
confronti degli Stati barbareschi e di quelli arabo-islamici se invasori del
continente europeo (cd. Stati moreschi della Spagna). Da tale punto dirimente
derivava una prima crisi del bellum
iustum come fondante della Costituzione politica dell’Europa. Crisi
risolvibile solo in base alle riletture kantiane della pace perpetua,
allorché solo un potere cosmo-politico garantito da istituzioni
internazionali sovrapposte agli Stati di carattere imperiale o semi-imperiale
poteva portare elementi di chiarificazione, delegando il potere di guerra e di
pace dagli Stati singoli in controversia all’intera comunità
cosmopolitica dei popoli, detentori del supremo ius belli ac pacis.
In tal modo, la coscienza universale dell’umanità diveniva
strumento della pax politica e della pax religiosa, sostituendosi al testo
biblico come sede delle tradizioni comuni monoteistico-testamentarie e del
dialogo interreligioso tra le confessioni e le fedi (cristiana, ebraica e
islamica).
A titolo di sintesi, liberata dalle
pregiudiziali anti-teologiche e ridotta alla dimensione storica
dell’Impero, della pace e della politica, una rilettura tomistica
consente alcune brevi conclusioni:
1.
l’universalismo
politico medioevale trova nel pensiero tomista un punto di eccellenza;
2.
il
metodo teologico, inteso come combinazione di fides et ratio utilizza la fonte biblica vetero- e
neo-testamentaria come l’espressione del più grande libro scritto
sulle radici del dialogo interreligioso;
3.
il
sistema misto di governo di vertice della pace e della guerra poggia su Stato e
Impero come soggetti indissociabili dell’uti singuli e dell’uti
universi. All’incrocio tra l’Impero romano di Oriente
confluiscono i modelli degli Imperi dell’antico Oriente mediterraneo
(siro-babilonese e medo-persiano). Viceversa, all’incrocio con
l’Impero romano di Occidente confluiscono i modelli pre-cristiani (Impero
di Alessandro Magno e di Augusto) e quelli post-cristiani dell’Impero
carolingio e dell’Impero germanico (Sacro Romano Impero di Occidente);
4.
il
tomismo politico è la radice dei modelli di potere universale dal totius orbis ai congressi europei, da
Westphalia alla Santa Alleanza fino al secolo XX, nonché di
“governo mondiale della pace” nell’epoca della
<<Società>> delle Nazioni e
dell’<<Organizzazione>> delle Nazioni Unite;
5.
i principes del sistema universale nel
senso tomista sono i poteri sussidiari rispetto allo Stato e all’Impero,
intesi come livelli di governo regionale e locale nel senso proprio e peculiare
dell’universalismo medioevale e della società euro-mediterranea,
già da allora potenzialmente ispirata a modelli di pluralismo culturale
ed etico-politico.
Venendo adesso ad Alberico Gentili, come leader della teoria dello Stato
anti-imperiale, i punti essenziali delle sue opere e del suo pensiero sono i seguenti:
- le riedizioni: Hannover, 1612; Cambridge – New York, 1933; Buffalo,
1995 e le riletture: a) rilettura gius-naturalistico-groziana del tria sunt genera[9]; b) rilettura gius-positivistica
manciniana della tradizione italiana romanistica-statutaria; c) rilettura
gius-positivistica europea: teoria dei Fondateurs
e dei Classics[10].
Triplice, poi, è stato l’impatto della tradizione gentiliana nel
senso della laicizzazione (il Silete
theologi e giuridificazione rispetto alle scienze militari), della emancipazione
dalla tradizione romanistica e della giurisdizionalizzazione dell’uso
della forza (publicorum armorum iusta
contentio). Egli è stato anche leader
della tradizione pre-groziana, quale tradizione di grossa incidenza e tale
da ricomprendere la tradizione teologica (Tommaso, Vitoria, Suarez), la
tradizione romanistica (Irnerio, Alciato, Baldo) e la tradizione
contemporaneistica (Giovanni da Lignano, Martino da Lodi, Pierino Belli).
Gentili è stato, inoltre, definito
come il “giurista etico della guerra giusta”. Sua, infatti, la
teoria della guerra “legalizzata” (iusta causa, par condicio e bellum ad finem pacis)
e delle cause della guerra giusta quali: causa efficiente (classificazione
delle guerre giuste); causa formale (forma della guerra); causa finale (accordi
o trattati di pace – clausole comunitarie e democratiche).
Tant’è vero che nel passaggio dal pre-moderno al moderno (ius naturae et gentium) si è
verificata la recezione giusnaturalistica della tradizione gentiliana e si
è riscoperto Gentili quale giurista di sistema e di prassi. Ciò
alla luce delle sue teorie dell’ordinamento (ius naturae et gentium, Pufendorf-Wolff-Vattel), delle fonti
(consuetudine e desuetudine), dei soggetti (prescrizione del diritto imperiale
e pontificale), della fenomenologia della guerra (Stati belligeranti e iusta armorum contentio).
In altro modo, si è verificata anche
la recezione giuspositivistica della tradizione gentiliana nella Scuola
storico-positiva italiana. Gentili, infatti, è stato visto come giurista
dello Stato e della Nazione secondo il diritto pubblico universale (Vico e
Romagnosi), il diritto pubblico europeo (Mancini e Pierantoni[11])
ed il diritto pubblico internazionale codificato e la sua sanzione (Bluntschli
– Fiore) tanto da rientrare tra i fondatori del diritto internazionale[12].
In questo momento, il pensiero di Gentili
conferma la sua attualità[13]
in quanto si presenta come testimone dell’Europa delle
“diversità”, come teorico della guerra europea (statale,
nazionale e popolare), nonché come modello e monito contro la guerra
“verticistica”, imperiale o egemonica.
In occasione del quarto centenario la
rilettura di Gentili lo definisce come “giurista etico” della
guerra giusta, legittimata non più da vertici internazionali, imperiali
o pontificali, bensì da standards riconosciuti
di civiltà giuridica, come riscontrabile nella tradizione pre-groziana a
lui precedente. In tale modo la “rilettura” di questi ultimi anni
converge sui pre-groziani, teologi-canonisti e romanisti-internazionalisti
accomunati dall’idea[14]
di un fondamento etico delle istituzioni proprie della Comunità
internazionale nei suoi momenti di pace e di guerra. Naturalmente si
attribuisce a Gentili e a Grozio di avere operato la laicizzazione e la
de-sacralizzazione della dottrina internazionalistica mediante la riconduzione
del fenomeno bellico alle sue cause naturali etico-politiche e non più a
quelle utopiche o religiose. E si attribuisce ugualmente loro di aver “fondato”
una nuova epoca priva di guerre imperiali, religiose e di egemonia riportando
l’uso della forza alla ordinarietà delle relazioni internazionali.
Tanto consente di recuperare della tradizione canonistico-romanistica quello
che in essa continua a permanere valido, nell’alternativa tra guerra
giusta o giuridica e guerra ingiusta o anormale o irregolare; così come
consente di mantenere della tradizione teologica e canonistica
l’aspirazione ad un ordine di valori capaci di legittimare o, viceversa,
de-legittimare l’uso della forza stessa nelle relazioni tra Stati. Ed
infine, il passaggio dal pre-moderno al moderno negli studi internazionalistici
si viene a compiere attraverso lo studio delle cause dello ius naturale, cioè delle cause e delle motivazioni etico-politiche
che rendono le relazioni internazionali un fenomeno tipicamente
“umano”, indipendente da altre maggiori motivazioni utopiche o
metafisiche a seguito della crisi della giustizia implicita nelle guerre
imperiali e religiose.
L’anello di congiunzione dai pre ai
post-groziani è, appunto, rappresentato dal De iure belli come tipica espressione della dottrina giuridica
dell’Europa dei nuovi Stati frutto dell’allargamento della cerchia
dei soggetti abilitati all’esercizio del più alto dei poteri sovrani
qual è, appunto, la potestà di uso della forza, quale mezzo di
uscita e di rientro nel novero dell’ordine internazionale preesistente.
Mancavano all’epoca i parametri che sarebbero divenuti dominanti nella
letteratura internazionalistica successiva legata alle due grandi fasi del pre
e del post-Westphalia[15],
grazie alla quale fu possibile assumere come punto di riferimento l’opera
gentiliana e groziana ritenute spartiacque di una doppia tradizione, quella dei
pre-groziani come conservatori della tradizione storico-romanistica
dell’Europa medioevale e quella dei groziani (e post-groziani) come
costruttori della modernità del diritto internazionale dell’Europa
post-Westphalia in fase di continuo progresso. Il periodo antico-medioevale
risulta puntigliosamente scandito nei 700 fogli del De iure di Gentili attraverso la tavola delle citazioni collocate a
margine di ciascun foglio come glosse laterali. Ne emerge una grande
distinzione tra le opere dei filosofi, degli storici e dei poeti rispetto a
quelle dei giuristi, autori del De iure
belli vero e proprio. Ne percepì l’importanza Grozio,
allorché si avviò ad una rigida distinzione tra le opere degli
uni e degli altri e ne registrò ancora più l’importanza la
Scuola oxfordiana, allorché procedette all’unificazione di tutte
le citazioni in un unico testo denominato indice degli Autori, collocato in
fondo alla già citata edizione del volume del 1933. Probabilmente
l’uso della glossa marginale come metodo di spiegazione delle radici
antiche del testo rappresenta una delle maggiori utilità fornite
dall’opera gentiliana sotto il profilo del metodo dell’indagine o
della critica e dell’accettazione del pensiero degli autori citati.
L’epoca di Gentili è ancora
quella delle guerre degli Imperi contrapposte alle guerre degli Stati e delle
guerre di religione o di civiltà religiosa distinte da quelle
“naturali” o “umane” secondo una distinzione cara
all’internazionalista di Oxford, come risultava dalla storia
rinascimentale degli ultimi secoli di cui Egli era più diretto osservatore
o, addirittura, protagonista. Da varie citazioni emerge il panorama di una
Corte londinese dell’epoca elisabettiana interessata alla crisi delle
relazioni con il Papato e l’Impero, non più espressione di una
giurisdizione universale, e alle relazioni con gli Stati europei formatisi
dalla dissoluzione di quei poteri o dalla loro restrizione in ambiti
territoriali rispettivamente relativi, al solo territorio dello Stato
pontificio o, viceversa, dell’Impero germanico. Addirittura, nelle opere
minori, determinate da esigenze pratiche di committenza in favore della Corte
inglese, i riferimenti alla prassi internazionale contemporanea divengono
prevalenti, se non esclusivi. Essenziali sono i richiami alle guerre imperiali,
condotte fuori d’Europa e dentro l’Europa dai sultanati turchi, ed
ancora più alle guerre di predominanza fra le monarchie europee, come
quelle condotte dalla Spagna della prima e della seconda metà del
‘500 nei suoi tentativi egemonici di controllo territoriale e marittimo
degli Stati europei dell’Europa meridionale ed occidentale, con
particolare riguardo all’uso della guerra terrestre e marittima nel
Mediterraneo e nel Mar del Nord. Nel Gentili emerge, quindi, un disegno di
geopolitica della guerra nell’ottica della Corte inglese attraverso la
sua opera di regio professore e consulente diplomatico, in funzione
antagonistica alle guerre imperiali di vecchio e nuovo conio nell’Europa
della fine del ‘500, nonché alle guerre a motivazione religiosa.
Così come appare ampia, diffusa e dettagliata la casistica sulle guerre
dei privati, ritenute per loro natura illecite, in quanto non rivestite del
carattere pubblico statuale (pirateria, bande armate irregolari, gruppi privati
incursori e predatori, ecc.).
Della tradizione pre-groziana andava salvaguardato
un complesso sistema giuridico di soggetti, di fonti e di istituti, rinvenibile
nell’ampia casistica della letteratura delle opere gentiliane ed oggetto
di successiva sistemazione nella più ampia opera groziana. Nel diritto
romano internazionale medioevale, il De
iure belli trovava nelle opere di Giustiniano il fondamento di un vero e
proprio corpus iuris diplomatico
ovvero di un Digesto od una
pluralità di codici di diritto delle genti; di qui l’uso promiscuo
di tali fonti, poi rimproverato dal Grozio, per la mancata distinzione dei tre
livelli del diritto feziale, dello ius
gentium privato interno all’ordinamento romano e, infine, dello ius gentium pubblico vero e proprio come vigente o insito nella società umana
degli Stati. Sarà, infine, l’accusa principale rivolta dai
post-groziani (Pufendorf, Wolff e Vattel) contro un uso eccessivo e
spregiudicato della prassi internazionale e della casistica, per loro natura
subordinate all’intero sistema delle regole superiori, proprie del
diritto naturale e delle genti. Eppure, le fonti romanistiche rinascimentali
erano divenute di indispensabile citazione grazie all’opera dei
glossatori e dei commentatori della giurisprudenza pratica (Irnerio), come
della giurisprudenza culta (Alciato), come di quella sistemica o ordinamentale,
dedicata agli statuti giuridici e territoriali delle città, principati e
Stati italiani dell’epoca[16].
Colpisce, invero, l’estrapolazione dalle fonti delle stesse nozioni
giuridiche fondamentali come quella legata alla unicità dei titolari
dello ius belli identificata con i
soli principes e non più con
una molteplicità di soggetti pubblici e privati (guerre statali stricto sensu). La figura del princeps finisce, così, per
identificarsi con un soggetto superiore non avente altra autorità ad
esso sovrapposta, ma solo soggetti inferiori o sudditi radicalmente privati
dello ius belli.
L’uso sistematico delle citazioni
canonistiche appare egualmente essenziale nel De iure belli. Fin dall’inizio del secondo millennio, il
diritto canonico pubblico e privato aveva trovato un proprio testo di base,
notoriamente nel decreto di Graziano, contenente una parte apposita dedicata
alle prescrizioni sulla guerra giusta attraverso l’individuazione dei
belligeranti, dei combattenti e dei loro strumenti e fini di azione[17].
Ancora più, il punto di svolta fu rappresentato dalle opere, teologica e
teologico-politica del secolo XIII, immediatamente successivo alle crociate
come guerre cattoliche della Res Publica
Christiana ed all’occupazione dei territori dove sono ospitati i
luoghi santi (secoli XI e XII). Il doppio regime del De pace e del De bello,
ovvero della individuazione dei principes
come titolari di una doppia sovranità secondo lo ius belli e lo ius pacis, si riscontra, infatti, nella Seconda Secundae della Summa Theologiae di Tommaso
d’Aquino, come parte essenziale e indispensabile dell’ordinamento
etico della guerra giusta. E’ sempre in un’altra opera
teologico-politica di Tommaso, denominata De
Regimine Principum e pubblicata dopo la morte del teologo a Parigi (1272)[18],
che compare una teoria delle comunità politiche come soggetti di base
dell’ordine internazionale e delle correlate autorità titolari del
potere di pace e di guerra. Proprio in corrispondenza con le teorie dello ius gentium romano e canonico, indicate
in precedenza, nel pluralismo tutto medioevale della titolarità della potestas belli ac pacis,
guerre imperiali, guerre feudali e guerre comunali convivono con quelle
propriamente riferibili alla categoria ormai emergente dei reges e dei principes.
E’ dalle tradizioni
romanistico-canonistiche dell’internazionalismo medioevale che deriva il
terzo filone dei giuspubblicisti dello ius
gentium bellico. Accanto alle classiche citazioni di Bartolo e di Baldo,
commentatori del Libro I e L del Digesto
(De iustitia et iure – Captivitas
et postliminium) apparivano indispensabili le citazioni degli autori,
questa volta contemporanei, relative agli accordi di pace come mezzo ordinario
di soluzione dei conflitti armati internazionali (De foederibus et pactis pacis). In corrispondenza del secondo
filone erano emersi gli autori, formatisi per la difesa di ducati e
città italiane dell’Italia settentrionale (Giovanni da Lignano e
Martino da Lodi), così come di emergenti Stati a portata territoriale
come il Ducato di Savoia (Pierino Belli)[19].
In tali Autori appariva essenziale l’esame della disciplina e della
casistica giurisprudenziale, relativa ad aspetti particolari del fenomeno
bellico, ricadenti sotto l’impero della giurisdizione civile e
territoriale di ciascuno Stato. Ancor più rilevante in tali primi autori
specialisti del diritto internazionale bellico appariva il confronto con gli
ordinamenti dei maggiori Stati italiani o europei. In modo particolare,
fortissima era stata l’influenza esercitata nella seconda metà del
Cinquecento dalla presenza spagnola in Italia e dalla correlata pratica di
utilizzazione di consiglieri giuridici presso le corti e le milizie impegnate
in campagne militari naturalmente destinate a tradursi in momenti processuali
di vera e propria iurisdictio civile
e penale per le conseguenti azioni a tutela di interessi privati e pubblici.
Da tali tradizioni emergeva
l’esistenza di una soggettività internazionale diffusa, desumile
dal diritto romano e canonico prima ancora che dallo ius gentium publicum, opportunamente esaltato dai giuristi pratici,
ma ancora più dai giuristi di formazione protestante e luterana ispirati
da una visione politica generale della società europea. Secondo la
tradizione cattolica defensor pacis appariva
l’Imperatore come il Papa; secondo le nuove tendenze statualiste di
ispirazione protestante, di cui Gentili era espressione qualificata, in capo ad
ogni Stato si concentrava l’insieme dei poteri dello ius belli unitamente al connesso ius pacis, senza esclusioni di relazioni e rapporti internazionali
con qualsivoglia soggetto della società umana delle genti. Abilitati a
trattare con i sultani ed i re degli Stati arabo-islamici per la tutela dei
luoghi santi erano ugualmente i soggetti partecipanti alle guerre esterne
all’ambito territoriale della cristianità vera e propria. A fronte
di tale monopolio della sovranità statale, un regime giuridico vero e
proprio dello ius belli doveva
riconoscere i suoi limiti connaturali ad ogni iuris executio, ed apparire come uno strumento
destinato alla salvaguardia di altri diritti concorrenti o coesistenti in capo
ai soggetti non sovrani (individui come popolazione civile dei soggetti di ogni
età e sesso e come popolazione economica impiegata nella navigazione,
nel commercio, nell’agricoltura, ecc., dotata di leggi proprie e di libertates riconosciute). Tale
soggettività comune o indifferenziata si estendeva ancora più al
campo dello ius naturale dove per
definizione non potevano esistere regole comuni di ius civile o di ius gentium fra
cristiani e barbari o tra re
cattolici e indiani d’America, dediti all’antropofagia. Solo
grazie all’isolamento di una sfera autonoma dello ius gentium bellico, proprio e peculiare di una società di
soli Stati come soggetti unici ed esclusivi di titolarità bellica, la
soggettività internazionale avrebbe finito per concentrarsi sul solo
soggetto, Stato belligerante: il che è esattamente il risultato della
critica, da tutte le correnti pacifiste, a Gentili e Grozio come giuristi dei
sovrani (Rousseau, Kant, ecc.).
La fortuna di Gentili, come leader della tradizione pre-groziana,
è stata accompagnata da tre valutazioni di massima, concernenti
notoriamente le formule del silete
theologi, iusta causa belli e
de iure gentium bellicum, molto note ed incisive, ma non per
questo corrispondenti alla complessità del suo pensiero particolarmente
contenuto nel De iure belli.
La cd. emancipazione o laicizzazione della scienza internazionalistica deve
fare i conti con l’avvenuta universalizzazione della Comunità
internazionale, della necessità del “ri-uso” di guerre di
civiltà, intese come anti-barbariche e soprattutto delle particolari necessità
di un equilibrio politico-internazionale anti-egemonico ed indipendentista, ma
anche necessariamente favorevole ad interventi politico-militari variamente
graduati nell’ambito di regioni e di guerre cd. localizzabili.
L’espressione silete Theologi in
munere alieno, presente nel Libro I con riferimento
alla liceità di relazioni internazionali “naturali” con le
popolazioni dell’Impero turco, ha contrassegnato da sempre la tesi
concernente la “laicizzazione” del diritto internazionale, in
virtù di una conquistata indipendenza, disciplinare rispetto alla
teologia, ed accademica riguardo ai teologi della tradizione tomista, come
Vitoria, De iure belli,
1539 e Suarez, 1612; polemica questa rivelatasi largamente inconcludente,
di fronte alle esigenze proprie della Comunità internazionale europea
allargatasi al continente americano (cd. tradizione vitoriana), nonché
alle esigenze proprie di una comunità conformatasi come interstatuale o inter gentes (cd. tradizione Suarez)[20].
Consequenziale appare anche la seconda valutazione, largamente diffusa, concernente
Gentili come teorico della guerra giusta. Anche qui lo scostamento rispetto
alla tradizione classica appare molto notevole sul piano di una complessiva
strategia di allargamento della tipologia delle guerre giuste, nessuna delle
quali suscettibile di apparire pregiudizialmente non giusta, almeno in alcune
ipotesi e circostanze. Sicché certamente la gentiliana guerra giusta non
coincide in alcun modo con la guerra difensiva della tradizione
agostiniano-tomistica del bellum
defensivum precedente, anche se certamente la ricomprende in un quadro
molto generale e più ampio (il cd. ius
gentium bellicum).
Nella tripartizione generale dei tre Libri,
la guerra presentata come modello europeo di relazioni internazionali, appare
contrassegnata da tre elementi o fattori: giusta, paritaria e pacifista. Il
Libro I, infatti, è per intero dedicato al De iure gentium bellico, alla definizione della guerra ed ai
principi che la reggono ed alle varie categorie in cui essa si articola (ius ad bellum). Il Libro II risulta
dedicato alla dichiarazione ed allo svolgimento della guerra concernente la
posizione paritaria dei contendenti, legata al titolo o alla causa che rende
lecite le operazioni militari dall’una e dall’altra parte in
reciproca eguaglianza del nemico contendente (hostis, ius in bello). Il
III Libro ruota intorno al concetto centrale della finalità pacifica di
qualsiasi guerra, intesa come momento transitorio ed eccezionale rispetto allo
stato naturale delle relazioni pacifiche secondo la formula de belli fine et pace (ius post bellum). Tale tripartizione
corrisponde alla tradizione sistematico-logica del De iure, articolato nei tre regimi delle personae, res ed actiones,
secondo un modello collaudato ripreso nel successivo De iure groziano e nella giusnaturalistica conseguente (teoria
dello Stato, dei beni pubblici e privati e delle azioni e pattuizioni di guerra
e di pace). Detto in altri termini, l’impianto sistematico
dell’opera corrisponde ad una teoria generale del diritto internazionale
di guerra, come luogo o spazio giuridico idoneo a far manifestare la
“soggettività” dei suoi attori, l’insieme dei loro
rapporti e relazioni, nonché infine la “normatività”
come produzione giuridica conseguente e conclusiva al fenomeno bellico,
all’occupazione militare ed ai trattati di pace[21].
La stessa tripartizione è
suscettibile di essere valutata secondo una corrispondente distinzione
dell’insieme delle cause idonee a rendere la guerra giusta (Libro I,
Capp. 1 e 2). Secondo la teoria della causalità, ripresa da Gentili, le
cause di guerra possono essere suddivise in “efficienti”,
“formali” e “finali”. “Efficienti” sono le
cause che inducono ciascuno dei contendenti a fare la guerra nella convinzione
soggettiva che essa tale sia e che debba svolgersi nelle forme di una contesa
pubblica o militare. In corrispondenza a quanto accade nei processi dinanzi ai
giudici interni, la contesa militare si muove per difetto o mancanza di un
accordo arbitrale di sottoposizione ad un giudice comune ed in vista di un
accordo finale idoneo a far cessare la contesa militare. Cause formali sono
quelle previste per il giusto svolgimento della guerra tra i soggetti nei
luoghi, nel tempo e con i mezzi comuni al nemico (guerra formale o guerra
“in forma giusta”). Infine, la causa finale rappresenta lo scopo
ultimo dell’attività bellica essendo come ogni contesa finalizzata
ad una decisione ovvero ad un accordo più o meno consentito e condiviso,
capace di ricostruire l’ordine giuridico pregresso o sostituirlo con un
nuovo ordine.
Il Libro I si articola in 25 Capitoli,
particolarmente espressivi della complessità dell’opera. Iniziando
dai principi (Capp. 1-7) si transita alle cause divine o guerre pro religione (Capp. 8-11), cause
naturali (Cap. 12) alle cause difensive (Capp. 13-18) alle cause naturali-umane
(Capp. 19-20) e “oneste” (Capp. 21-25). Tale amplissima
fenomenologia non risulta chiaramente restringibile alle cause difensive, le
quali vengono dilatate anche alle guerre civili ed alle difese anti-egemoniche,
come quelle dei belgi e degli olandesi contro la Spagna. Sono, inoltre,
chiaramente ammesse in molte ipotesi le guerre offensive o di difesa del
diritto[22]
come legittimate dalle esigenze di vendette, di rappresaglie e di contromisure
e di ogni altro uso collettivo o minore della forza armata (transito di
territori, utilizzazione di fasce di mare chiuso o di corsi d’acqua
internazionale, esigenze di sopravvivenza di popolazione). Ed infine,
l’ultima amplissima categoria è quella delle guerre necessarie di
mantenimento dell’ordine, in parte ristretta ratione temporis agli episodi di vita internazionale recente (Cap.
22, teoria della prescrizione delle cause vetuste) e in parte esclusa per le
residue pretese imperiali in difesa della pace (Cap. 23). Ed infine, la
tipologia si chiude con un tipo particolare di guerre oneste identificabili
mediante il loro contenuto come guerre di soccorso o di supporto ad esigenze di
umanità (Cap. 25), peraltro da tenere distinta da quella precedentemente
indicata delle guerre difensive dei sudditi contro i sovrani violatori dei
diritti (Cap. 16).
Tralasciamo il Libro II per la sua minore
importanza rispetto agli altri e transitiamo al Libro III, articolato in 24
Capitoli, ove centrali appaiono quelli dedicati ad una teoria gentiliana del
pacifismo, della ricostruzione delle comunità sottoposte ad occupatio bellica e del rispetto dei diritti democratici e di libertà dei
popoli vinti. Citiamo a tale riguardo i fondamentali Capitoli denominati: De belli fine et pace (Cap. 1), De pace futura costituenda (Cap. 13), De legibus et libertate (Cap. 16), Quando foedus violetur (Cap. 24).
Comparativamente valutate la parte II e la parte III risultano chiaramente
suscettibili di inversione come per esempio avviene nell’opera groziana.
Grazie ad essa anche il De iure belli gentiliano
si articolerebbe in una teoria dei soggetti e delle fonti normative
dell’ordine internazionale. Resterebbe, così, separata la parte
III o finale, oggettivamente la meno importante dell’opera rispetto alla
I e alla II suscettibile di assumere un vero e proprio rilievo costituzionale o
fondante per la Comunità internazionale e per il suo diritto. E’
sintomatico che, nella tradizione internazionalistica successiva, i Libri I e
II del De iure, sia gentiliano che groziano, furono
concepiti come veri e propri manuali di diritto pubblico europeo, riferiti agli
affari interni ed esterni degli Stati, così come è altrettanto
sintomatico che il libro dedicato allo ius
in bello talora veniva tralasciato nelle traduzioni e nei commenti[23].
Nel momento in cui l’intera
Comunità internazionale si “re-interroga” sui suoi
fondamenti e sui suoi fondatori, ed anche pericolosamente ondeggia tra istanze
“uni-versalistiche” e “inter-nazionalistiche”, appare
significativa la rilettura della tradizione gentiliana come formatasi nella
dottrina classica del giusnaturalismo e come rinnovata nel secolo scorso
durante il trionfo della scuola positivistica dal “terzo al quarto
centenario”. Detto in altri termini, il “triplice statuto”
della “guerra europea” si connotò come statuto giuridico,
caratterizzato da elementi salienti di prevalenza del diritto, di parità
dei contendenti e di comune ritorno ad uno stato di pacificazione. Essa appare
alternativa al modello della “guerra imperiale”, tipica di una
guerra verticistica dove poteri apicali esercitano lo ius belli ac pacis. Essa resta monito e modello contro le
ricorrenti tentazioni di deriva verso una rappresentazione
“verticalistica” della struttura e della funzione della Comunità
internazionale. Ma ha, altresì, salvaguardato l’esigenza
pluralistica e relativistica di un regime differenziato delle guerre, per una
loro “etica”, nonché per esigenze difensive di valori comuni
all’intera umanità o all’intera Comunità internazionale.
E’ in tal senso che agli inizi del presente secolo la tradizione
neo-gentiliana del quarto centenario contribuisce sicuramente a dare una
cornice corretta ed attuale al “revival” della guerra giusta.
Resta da chiedersi cosa sopravviva oggi del
grande sogno gentiliano in una società internazionale nella quale
permangono, sia le guerre imperiali, sia le guerre religiose. Permane
l’uso della forza armata per la difesa della nuova città di Dio o
dei nuovi luoghi santi, esattamente come nell’epoca pre-groziana.
Ugualmente bisogna chiedersi quale sia stato il destino della guerra per la
difesa del diritto, dell’uso della forza consentito solo in circostanze
eccezionali, giuridificata e giurisdizionalizzata. Alle conclusioni del quarto
centenario il campionario delle definizioni fornite sul nostro Autore è
apparso sempre più sfocato, sia per quelle oramai classiche che lo
identificano come “romanista-internazionalista” o come
“campione” dell’internazionalismo italiano o come
“progenitore” della dottrina internazionalistica, sia ancora per
quella tutta contemporanea polarizzata sul “giurista etico” della
guerra giusta. Alberico Gentili fu più semplicemente il testimone
privilegiato della nascente Europa delle “diversità” che
stava riducendo al minimo le sue comuni radici proprie di una società
compatta ed omogenea per riconoscersi nel pluralismo delle sue distinzioni e
articolazioni internazionali. In questo senso, egli ha contribuito a
sconfiggere per sempre lo scetticismo di chi ritiene o riteneva inutili ogni considerazione
sulla giustizia o ingiustizia della guerra, dimostrando come queste ultime
siano strettamente correlate a quelle della pace sperata o futura.
Cosicché, nella proposizione di tali
domande e nelle risposte loro riferibili compare una specificità molto
diversa rispetto a quella che accompagnò il “rilancio”
dell’inizio del secolo scorso.
[1] Cfr J. Friedrichs, The meaning of New Medievalism, in European Journal of International Relations,
vol. 7, n. 4, 475-502.
[2] Per la ricostruzione dei rapporti
giuridici internazionali nei termini della
continuità-discontinuità fra tradizione e modernità sia
consentito rinviare a M. Panebianco,
Ugo Grozio e la tradizione storica del
diritto internazionale, Napoli,
1974. In tale opera si
recupera la tradizione internazionalistica groziana come fase finale della
storia giuridica dell’Occidente, in stretta correlazione con le varie
scuole giuridiche nazionali che ne sono componenti, in modo particolare quella
dei teologi spagnoli (cd. tradizione vitoriana dal nome di Francisco de
Vitoria). In tale volume non veniva evidenziato il ruolo della tradizione
teologica di origine italiana facente capo al fondatore della tradizione
“scolastica” di Tommaso d’Aquino in quanto ideatore di un
modello di società universale ecumenica proprio dell’epoca. Su
tale profilo ora v. M. Panebianco,
Prelezioni di diritto internazionale, 2ª ed., Napoli, 2007 e la
bibliografia ivi citata.
[3] V. Sancti
Thomae de Aquino, Summa Theologiae,
Alba, Edizioni Paoline, Roma, 1962, in part. Secunda Secundae,
Quaestio XXIX DE PACE (1224
ss.): art. I (1376): Utrum pax sit
idem quod concordia; art.
2 (1377): Utrum omnia appetant pacem; art. 3 (1378): Utrum pax sit proprius effectus caritatis; art. 4 (1379): Utrum pax sit virtus. Quaestio XL DE BELLO (1266 ss.): art. I (1428): Utrum bellare semper sit peccatum; art. 2 (1429): Utrum
clericis et episcopis licitum pugnare; art. 3 (1430): Utrum
sit licitum in bellis uti insidiis; art. 4 (1431): Utrum
in diebus festis liceat bellare.
[4] V. Divi Thomae Aquinatis, De Regimine Principum. Ad
Regem Cypri, edizione
italiana Marietti, (a cura di Joseph
Mathis), Torino, 1971 (prima edizione 1948), in part. Libro III: Cap. V (42-43): Qualiter Romani meruerunt dominium
propter leges sanctissimas quas tradiderunt; Cap. VI (43 ss.): Quomodo concessum est eis dominium a Deo propter ipsorum civilem
benevolentiam; Cap. XII
(53): Hic sanctus Doctor declarat de
dominio imperiali, unde istud nomen habuit originem, et de quibusdam aliis
nominibus: ubi incidenter distinguuntur monarchiae et quantum duraverunt; Cap. XIII (54-55): Hic sanctus Doctor declarat, de monarchia
Christi, quomodo in tribus excellit, et de Octaviano Augusto, quomodo
gessit vices Christi; Cap.
XIV (55-56): Movetur quaestio de monarchia
Christi, quo tempore incepit et quomodo latuit, et quare: et duplex
assignatur causa suae occultationis, et primo ponitur una; Cap. XV (56-57): Secunda causa assignatur quare Dominus
assumpsit vitam abiectam et occultam, licet esset verus Dominus mundi;
et exponuntur verba Isaiae Prophetae de Christo; Cap. XVI (57-58): Hic sanctus Doctor declarat, quod isto modo
aucta fuit respublica per exempla antiquorum Romanorum, et postea subdit de Constantino; Cap. XVII (58-59): Qualiter imperatores constantinopolitani,
sequentes a Constantino, fuerunt obedientes et reverentes Ecclesiae Romanaes:
et hoc ostendit per quatuor concilia, quibus dicti principes se subiecerunt; Cap. XVIII (59-60): De duobus conciliis sequentibus post alia
quatuor, celebratis tempore Justiniani et Constantini iunioris; et quae fuit
ratio quare imperium translatum fuit a Graecis ad Germanos; Cap. XIX (60-61): Qualiter diversificatus est modus imperii
a Carolo Magno usque ad Ottonem tertium; et unde plenitudo potestatis summo
Pontifici convenit; Cap. XX
(61-62): Comparatio regalis
dominii inter imperiale et politicum, qualiter convenit cum utrisque; Cap. XXI (62-63): De dominio principum, qui subsunt
imperatoribus et regibus, et de diversis nominibus eorum quid importent.
[5] Il testo del De Regimine Principum ad Regem Cypri compare nell’edizione
dell’opera omnia di Tommaso
d’Aquino pubblicata rispettivamente a Parigi e Roma (1880-1882) cd. Editio leonina a cura di Leone XIII,
nonché nella più recente edizione italiana di Marietti (anno
1971, riedita nel 2000). Le due edizioni generali dell’opera tomista
aprono e chiudono i due passaggi della dottrina sociale della Chiesa dalla
Prima Enciclica pontificia di Leone XIII Rerum
Novarum (1891) a quelle successive della Quadragesimo anno (1931) e della Pacem in Terris (1963) fino alle recenti encicliche di Giovanni
Paolo II Sollicitudo rei socialis,
tutte confluite nel recente compendio della dottrina sociale della Chiesa
(Roma, Editrice Vaticana, 2003). L’occasione del De Regimine Principum (data di pubblicazione originale presuntivamente
1272) trae origine dal responsum concernente
la titolarità del dominium sul
regnum di Cipro fra due parti
contrapposte Ugone III, principe di Antioca e Carlo di Angiò, re di
Napoli. Il Regimine Principum ad Regem
Cypri, secondo la tradizione, è uno scritto a due mani, inceptus da Tommaso d’Aquino e confectus dal suo allievo, erede e
successore, Bartolomeo da Lucca, come risulta da annotazione marginale
manoscritta sui codici a stampa italiani (Firenze, Roma, Genova) e francese
(Parigi). Non mancano autori favorevoli al riconoscimento
dell’autenticità totale tomista dell’opera in oggetto come
risultante dalle più recenti edizioni ufficiali dell’opera omnia.
[9] Cfr. U.
Grozio, Prolegomeni,
nella traduzione italiana (a cura di E.
Vigliar) citata in fondo al volume di M.
Panebianco, Ugo Grozio..., op.
cit., 220 e 223 di cui si riproduce il testo: «Tre sono le classi dei
giureconsulti che si sono dedicati allo studio del diritto romano. La prima
è formata da coloro le cui opere compaiono nelle Pandette, nei Codici
Teodosiano e Giustinianeo e nelle novelle Costituzioni. La seconda comprende
coloro che successero ad Irnerio: Accursio, Bartolo e tanti altri che hanno
dominato a lungo nel campo del diritto. La terza abbraccia coloro che
congiunsero lo studio della letteratura classica con quello del diritto. Devo
molto ai primi. Infatti essi forniscono ottime ragioni per dimostrare
ciò che appartiene al diritto naturale e spesso portano testimonianze in
favore di questo diritto, non meno che del diritto delle genti; pur tuttavia in
modo tale che essi stessi, come altri, spesso confondono queste denominazioni.
Anzi spesso chiamano diritto delle genti quello che è solamente di
alcuni popoli e che viene osservato non in virtù di un accordo tacito
tra gli stati, ma soltanto per imitazione degli altri o per caso. Quanto alle
regole che appartengono propriamente al diritto delle genti, esse spesso lo
trattano in comune e senza distinzione con ciò che appartiene al diritto
romano come appare dal titolo De captivis
postliminio. Noi, perciò, abbiamo badato a
che queste cose rimanessero distinte le une dalle altre» (par. 53).
«Ciò che più loro mancava, la cognizione della storia, si
prefisse di aggiungerlo l’eruditissimo Pietro da Faur in diversi capitoli
dei suoi Semestria, ma nei limiti dei
suoi scopi e portando solo citazioni d’autorità. L’hanno fatto con maggiore ampiezza e
in modo da ridurre ad alcune definizioni la massa degli esempi, Baldassare
Ayala e più di lui, Alberico Gentili. Dalle fatiche di
quest’ultimo confesso di aver tratto giovamento, come so che ne hanno
tratto anche altri. Lascio poi giudicare ai lettori quanto egli lasci a
desiderare nel metodo d’esposizione nella disposizione della materia e
nel distinguere le varie questioni e le specie del diritto. Dirò
soltanto che egli, quando definisce i punti controversi, suole seguire o poche
esempi non sempre attendibili, o anche l’autorità dei
giureconsulti moderni in certi responsi, non pochi dei quali sono compatibili
secondo il piacere dei richiedenti, anzicchè secondo i principi della
giustizia e dell’equità. Ayala non parla delle cause per cui una
guerra si dica giusta o ingiusta: Gentili tratteggia alcuni principi generali
più importanti nel modo che gli sembra migliore, ma non tocca neppure
molti punti dibattuti fra i più noti e frequenti» (par. 38).
[10] V. l’ampio studio introduttivo al De iure belli gentiliano curato dal
Professore di Oxford C. Phillipson
per l’edizione dei Classics of
International Law del 1933, 9-51 nella cui conclusion (51) si afferma «… the whole Gentili and Grotius are the two greatest contributors to the
science of international law down to their day».
[11] Cfr. A.
Pierantoni, Storia degli studi del
diritto internazionale in Italia, Seconda Edizione interamente rifatta,
Firenze, Casa Editrice Libraria “Fratelli Cammelli”, 1902 e, altresì,
l’approfondita biografia di A. Gentili curata da un suo concittadino e
corregionale, Avv. A. Speranza, Alberico Gentili, Roma, Ascoli Piceno,
Libreria Editrice Picena, 1910.
[12] Cfr. G. Van Der Molen, Alberico Gentili and the development of International Law, Leiden, 1968, (1ª ed. 1937).
[13] La tradizione gentiliana trova un motivo
di particolare attualità nell’avvenuta istituzione di un ciclo
periodico di studi e confronti tra giuristi internazionalisti e politologi
europei ed americani, a partire dal 1983, su iniziativa del benemerito Centro
Internazionale Studi Gentiliani (CISG) di San Ginesio e per i tipi editoriali
dell’Editore Giuffrè, Milano (I Giornata Gentiliana, Alberico Gentili giurista e intellettuale
globale, San Ginesio, 25 Settembre 1983; II Giornata
Gentiliana, Alberico
Gentili. Politica e Religione nel tempo delle guerre di religione, San Ginesio, 17 Maggio
1987; III Giornata Gentiliana, Alberico Gentili e la
dottrina della guerra giusta nella prospettiva di oggi, San Ginesio, 17 Settembre
1988; IV Giornata Gentiliana, Il diritto della
guerra e della pace di Alberico Gentili, San Ginesio, 21 Settembre
1991; V Giornata Gentiliana, Alberico Gentili Consiliatore, San Ginesio, 19 Settembre
1992; VI Giornata Gentiliana, Azione umanitaria ed intervento umanitario (il parere del Comitato
Internazionale della Croce Rossa). Pensiero umanitario ed intervento in Gentili, San Ginesio, 17 Settembre
1994; VII Giornata Gentiliana, Alberico Gentili e il mondo extraeuropeo, San Ginesio, 20 Settembre 1997; VIII Giornata
Gentiliana, Alberico
Gentili nel quarto centenario del «De Iure Belli», San Ginesio, 26-27-28
Novembre 1998; IX Giornata Gentiliana, Alberico Gentili. La soluzione pacifica delle
controversie internazionali, San Ginesio, 29-30
Settembre 2000; X Giornata Gentiliana, Alberico Gentili. L’ordine
internazionale in un mondo a più civiltà, San Ginesio, 20-21 Settembre
2002; XI
Giornata Gentiliana,
Alberico Gentili. L’uso della forza nel diritto internazionale,
San Ginesio,
18-19 Settembre 2004; XII Giornata Gentiliana, Alberico Gentili, La salvaguardia dei beni
culturali nel diritto internazionale, San Ginesio, 22-23 Settembre 2006).
[14] Sulla proiezione della teoria della guerra
“giusta” si manifesta un forte interesse da parte delle cd. teorie
“eticiste” pronte a riassorbire gli aspetti giuridico-normativi del
De iure belli di Gentili come del De iure belli ac pacis di
Grozio. Tali dottrine snaturano il senso del passaggio dal pre-moderno al
post-moderno e rappresentano una rivalutazione della tradizione romanistica e
teologico-canonistica dei pre-groziani rispetto ad una esatta rappresentazione
del passaggio all’epoca moderna o post-groziana. V. al riguardo, tra le
varie opere, D. Panizza, Political
theory and Jurisprudence in Gentili’s De Iure Belli: The Great debate
between “Theological” and “Humanist” Perspectives from
Vitoria to Grotius, in IILJ
Working Paper n. 2005/15, in cui compare una distinzione fra la
guerra intesa come “justice
execution” e la pace antinomica intesa come alternativa tra restaurazione
dell’ordine violato e conquista imperiale di singoli paesi. L’A.
altresì, distingue uno scopo di civilitation contrario al barbarism,
nell’ambito del common law of making. V. ancora la già
citata Conference: A Just Empire? Rome’s Legal Legacy and the
Justification of War and Empire in International Law, Commemorative Conference
on Alberico Gentili (1552-1608), New York University School of Law, march
13-15 2008, ove un panel molto
articolato ha esaminato l’incidenza della teoria romanistica del just Empire (iustus imperator)
nel momento della formazione del sistema americano del Nord e del Sud del
continente, all’epoca dell’indipendenza delle colonie americane
dall’impero britannico e dalle colonie ispano-portoghesi, laddove i
trattati di pace assumevano il ruolo costitutivo di un nuovo ordine
internazionale fondato sull’eguaglianza (cd. post bellum dei
trattati di pace elaborato nel libro terzo del De iure belli di
Gentili). V. ancora G.M.
Reichberg, Just War and Regular
War: Competing Paradigms, in D.
Rodin-H. Shue (eds.), Just and Unjust Warriors: Moral Equality on
the Battlefield, Oxford, 2008 che affronta il paradigma della alternativa
della guerra normale conforme alle regole e della guerra etica conforme ai
valori, considerando la violazione delle prime come un casus foederis
quale causa di legittimazione per lo Stato offeso. Ai fini della dimostrazione
della legittimazione del casus foederis mediante argomenti apportati dai
soggetti contendenti v. le ricostruzioni operate in alcuni studi storici
recenti: P. Piirimäe, Just
war in theory and practice: the legitimation of swedish intervention in the
thirty years war, in The
Historical Journal, n. 45, 2002, 499 ss.; B.
Straumann, The Right to Punish as Just Cause of War in Hugo
Grotius’ Natural Law (Hauser
Global School Program, New York University), in Studies in the History
of Ethics, n. 2, 2006 (che esamina la formazione del pensiero di
Grozio dal De iure praedae al De iure belli ac pacis assorbendolo
nella generale categoria dello ius puniendi come espressione della
sovrana potestà punitiva ovvero di esercizio del “diritto
alla guerra”).
[15] Non è innovazione di poco rilievo
l’avvenuto riconoscimento del ruolo dei pre-groziani negli
internazionalisti di lingua inglese successivi all’opera di Gentili a partire dal classico volume
di Zouche fino a quello di Wheaton della prima metà
dell’Ottocento. Cfr. R.
Zouche, Iuris et iudicii fecialis,
sive iuris inter gentes, et quaestionum de eodem explicatio. Qua quae ad pacem
et bellum inter diversos principes, aut populos spectant, ex praecipuis
historico-iure-peritis, exhibentur, (ed. nei Classics of International Law, Washington, 1911, introduzione a cura
di Holland); R. Ward, An inquiry into the foundation and history
of the law of nations in Europe, from the time of the Greek and Romans to the
age of Grotius, London, 1795, 2 voll.; H. Wheaton, History of the law of nations, New York, 1845 (edizione francese,
Berlino, 1841); C. Phillipson, The international law and custom of ancient
Greece and Rome, London, 1911, 2 voll. (quest’opera è il preludio
della successiva Introduction al De iure gentiliano nell’edizione del 1933).
Altrettanto rilevante è la corrente
ottocentesca dei “negatori” dell’obbligatorietà del
diritto internazionale ridotto nell’ambito del diritto interno di
ciascuno Stato secondo antiche tradizioni pre-groziani, cfr. C. v. Kaltenborn, Die Vorlaüfer des Hugo Grotius auf dem Gebiete des ius naturae et
gentium sowie der Politik im Reformationszeitalter, Lipsia, 1848
(anastatica a Francoforte, 1965), Id,
Kritik des Völkerrechts nach dem
jetzigen Standpunkte der Wissenschaft, Leipzig, 1847.
[17] Per un confronto con
l’attualità, v. le considerazioni di C. Focarelli, Per chi
è vietata la guerra, in In. Law, 4
(2006), in part. 153.
[18] Cfr. M.
Panebianco, Prelezioni di diritto
internazionale, II ª edizione, Napoli, 2007, Capitolo V, 119 ss., Id., Tradizione tomista e tradizione groziana nel diritto internazionale,
in Rivista della Cooperazione Giuridica
Internazionale, 2006, 62 ss., Id.,
Diritto internazionale pubblico,
Napoli, 2008.
[19] Cfr. P.
Belli Albensis, De Re militari et
Bello Tractatus, stampato a Venezia da F. Portonariis,
1563 (traduzione italiana di C. Cascione
e introduzione di B. Conforti,
edizione fuori commercio, Fondazione Ferrero, Alba, 2006 e ristampato da F.
Zileti nel XVI volume della raccolta, Tractatus
Tractatuum Iuris) in cui sono
evidenziati i principi regolatori di una guerra giusta (stringere alleanze,
patti federativi, regole degli assedi, modi di concedere armistizi e di far
pace, doveri dei condottieri, dei soldati, ecc.) in modo da porre insieme la
“cosa militare” e le leggi della guerra. La guerra poteva essere
ingiusta: ex persona, ut in sacerdote; ex
re, pro qua non deceat; ex causa, quia voluntaria, non necessaria; ex animo et
intentione ut vindictae et ultionis gratia; ex auctoritate, si ea desit. Viceversa,
era lecito combattere per la salute pubblica, per la libertà, per la
patria (Titolo IX «an sint aliqui a
bello tuti et immunes»). Risultavano, tuttavia, le seguenti
esenzioni: ordinis, sexus, aetatis et
professionis. Inoltre, nelle regole della pace l’A. riferisce «Pax est stricti iuris sicut transactio. Dux
belli non potest facere pacem. Pax obligat successorem. Rex non donat loca
regni invitis populis, neque incosultis proceribus». Anche G. da
Lignano nel suo Tractatus de
bello, de represaliis et de duello del 1360 (riprodotto nei Classics of International Law nel 1964)
espone alcuni singolari concetti
sull’origine della guerra tratti dalla teologia morale, per cui la guerra
ha una ragione psicologica che risiede nella passione umana. Ne conseguono,
varie classi di guerre: la guerra spirituale o corporale od umana. Pertanto, in
relazione al diritto delle genti, l’A. afferma il predominio della
teocrazia: l’Imperatore non ha il ius
belli, mentre, viceversa, «omnes
fideles tenentur iuvare Papam et etiam vassalli Imperatorem absolvi possunt a
iuramento quo tenentur vel declarari» (Cap. XVI). Diversamente alla
domanda an clerici ad bellum accedere
possint, l’A. evidenzia differenti
opinioni: per difesa, per necessità, su comando del Papa. Infine,
dettate le regole intorno ai prigionieri ed agli stratagemmi, illustra le
regole della guerra particolare, distinta nella difesa personale e nella difesa
delle cose possedute, esponendo la giurisprudenza delle rappresaglie e delle
relative regole con cui si chiude la trattazione.
[20] Su tale intersezione delle due tradizioni
gentiliana e vitoriana, v. C. Galli
(a cura di), Francisco de Vitoria, De
iure belli, Roma-Bari, 2005, Introduzione, V-LVI.
[21] E’ notevole come il De iure gentium bellico di cui
all’originale versione gentiliana del 1612 viene tradotto nella versione
inglese del 1933 con l’espressione On
international law as applied to war, espressione tecnicamente infelice ed
impropriamente preferita a quella di Law
of Nations, propria della tradizione
internazionalistica di lingua inglese pre-groziana e groziana. E’ in tale
testo l’esistenza positiva del ius
gentium insitum nella Comunità “internazionale” delle
genti che viene identificato con il ius
commune a ciascuno popolo come condiviso dagli hostes in bello. Contrariamente a quanto inizialmente
afferma «... philosophers have given no account of the law of war, or
even of military exercises, except with reference to the needs of their own
states; whereas military science and the law of war are not confined within the
bounds of communities, but on the contrary always look outward and have special
reference to foreigners», poi
sostiene «... that hardly any knowledge of military law can be gained
from the law of Justinian alone … The older legal writers included in
their works this subject of war and other topics of the same kind relating to
nations … In particular, the works on the laws of Fetiales had an
exposition and orderly treatment of these laws of war … But of those
works nothing has come down to us …»; così «… we
hold the firm belief that questions of war ought to be settled in accordance with
the law of nations, which is the law of nature» (Capitolo I, 3 ss.).
[22]
Più precisamente, il Gentili ritiene che «... a war will be called
natural, if it is undertaken because of some privilege of nature which is
denied us by man. For example, if a right of way is refused us, or if we are
excluded from harbours or kept from provisions, commerce, or trade … if
there is no reason why a passage should be refused, and it nevertheless denied,
this constitutes a just reason for war … For a passage along public roads
is free and permitted, and should not be forbidden to any one. Therefore, to
punish this act of injustice and uphold a law of nature, war will justly be
declared». Ritenendo,
poi, che «harbours, navigation, communication and accomodation is the strongest
bond of human interdependence» le interferenze con il commercio e
l’utilizzo del mare, oltre alcuni casi isolati, è causa naturale
per dichiarare guerra (Capitolo XIX, 86 ss.). Viceversa, sono
«human cases of war, when war is resorted to because of the violation of
some man-made law. For it has been shown that it is just to avenge wrongs, to
punish guilty, and to maintain one’s rights ... war is nothing but a
variety of justice, whose function it is punish crimes». Inoltre, «…
Causes must be distinguished from beginnings, for causes come first in
men’s acts and beginnings are the final outcome of cause. Beginnings are
the acts of men in matters which have been the subject of consideration and
deliberation; causes are what precede consideration and deliberation and lead
us to make a decision» (Capitolo XX, 93 ss.).