N. 8 – 2009 – Memorie//XXIX-Roma-Terza-Roma
Università
di Roma “La Sapienza”
ASPETTI
RELIGIOSI DELL’IMPERIUM IN
ETÀ REPUBBLICANA
Le connessioni della religio con l’imperium
in età repubblicana sono state oggetto di un ampio dibattito, fin dal
XIX secolo. Centrale, in proposito, è stata la questione se il pontifex maximus disponesse o meno
dell’imperium magistratuale.
Come è noto, questa possibilità venne inizialmente negata dal
Bouché-Leclercq[1]
e, pochi anni dopo, sostenuta invece dal Mommsen[2].
In termini così schematici, il
problema sembra configurare una radicale contrapposizione. In realtà,
sia Bouché-Leclercq sia Mommsen sfumarono le loro interpretazioni: il
primo, pur negando l’imperium
al pontifex maximus, ammetteva la
assimilazione di questo sacerdote a un magistrato; il secondo, pur
riconoscendoglielo, ne motivava il possesso col fatto che si trattasse di una
“analoge Gewalt” rispetto all’imperium. Le articolazioni dei giudizi erano giustificate da, e
insieme giustificavano, l’idea che sussistesse comunque una demarcazione
fra poteri sacerdotali e magistratuali pur nella gestione effettiva, non di
rado congiunta, delle cariche[3].
Di qui, da parte di Mommsen, la postulazione di una “Grenzlinie”,
di una linea di confine fra sacerdozi e magistrature, che pure ammetteva, nel
caso del pontifex maximus, una sorta
di “eccezione” (sia quanto all’imperium, sia quanto all’auspicium magistratuale).
Di recente, in uno studio ampio e rigoroso
su Collegi sacerdotali ed assemblee
popolari nella repubblica romana, Franco Vallocchia ha riconsiderato per
intero la questione dei poteri del pontifex
maximus. Dalla sua analisi risulta come la dottrina posteriore a
Bouché-Leclercq e a Mommsen si sia ripartita fra le due rispettive
posizioni, con prevalente orientamento a negare al pontifex maximus la detenzione dell’imperium[4].
Restava tuttavia altrettanto prevalente una tendenza ad ammettere che il pontifex maximus esercitasse un potere
in qualche modo “avvicinabile” a quello dei magistrati cum imperio: il che ha portato sovente
gli studiosi a formulare teorie ingegnose e quanto arbitrarie riguardo alle
prerogative del pontifex maximus in
tema di imperium:
dall’“analoge Gewalt” di cui si è detto, all’imperium mandatum secondo de Francisci, e financo ad un “geistliche
Imperium”, secondo Brecht[5].
Questa impasse
“intuizionistica” è stata evitata, sul piano metodologico,
dagli studi promossi da Pierangelo Catalano, che hanno spostato
l’attenzione dall’intensità e somiglianza dei poteri
sacerdotali al loro diverso fondamento rispetto a quelli magistratuali: gli
uni, quelli sacerdotali, derivando sostanzialmente dalla volontà divina
espressa mediante l’inauguratio[6];
gli altri, quelli magistratuali, derivando invece dalla volontà del populus accompagnata dall’approvazione
divina espressa attraverso la lex curiata
auspiciorum causa, per quanto attiene all’esercizio dell’imperium[7]. Su questa linea metodologica si
muove anche Vallocchia, il quale sostiene che l’elezione comiziale del pontifex maximus da parte delle 17
tribù costituenti una minor pars
populi non muta sostanzialmente il fondamento del potere del pontifex maximus - che non si converte
alla “sovranità popolare” e resta affidato all’inauguratio e alla cooptatio tra i pontefici -, ma piuttosto corregge alcune
distorsioni connesse al carattere originariamente “chiuso”
dell’assetto pontificale[8].
Premessa quest’impostazione, che ci
sembra condivisibile, si può considerare la base documentaria su cui
Mommsen aveva fondato l’attribuzione dell’imperium al pontifex maximus,
ossia il passo di Livio (37.51.1-4) in cui si parla dell’ingens certamen fra il pontifex
maximus P. Licinus Crassus Dives e Q.
Fabius Pictor, flamen Quirinalis.
Cercheremo di considerare il passo non solo sotto l’aspetto del
“caso” giuridico-religioso ma anche contestualizzandolo nel suo
ambito storico-culturale. Siamo nel 189 a.C.: Q. Fabius Pictor, nominato flamen
Quirinalis l’anno precedente, viene eletto praetor e sceglie la provincia Sardinia.
Ma Licinius gliela vieta “per
motivi di culto” (ad sacra)
connessi col suo ufficio sacerdotale. Fabius
reagisce e vi sono “inibizioni di imperia
da una parte e dall’altra” (imperia
inhibita ultra citroque), con reciproche imposizioni di multe e di
garanzie, appello ai tribuni e, infine, provocatio
ad populum. Il passo liviano suggerisce un contenzioso complesso, nel quale
si scontrano i rispettivi imperia.
Sull’accezione del termine, come si è detto, si è discusso
a lungo. In ogni caso, anche a noi non sembra plausibile che l’uso
occasionale del termine imperium
indichi la detenzione di questo specifico potere in senso tecnico da parte del pontifex
maximus[9].
Piuttosto, il termine sembra designare - come nota lo stesso Livio - un dictum coercitivo nei confronti di un
sacerdote giuridicamente subordinato, com’era il flamen Quirinalis, i cui effetti potevano condizionare le scelte
del soggetto colpito, in quanto praetor. Livio osserva che alfine
“prevalse l’obbligo religioso” (religio ad postremum vicit), con Fabius peraltro assolto dalla multa comminatagli dal pontefice
massimo; e col senato che temperò il suo risentimento - Fabius voleva rinunciare alla
magistratura - assegnandogli la carica di praetor
peregrinus, che gli consentiva di restare a Roma e di non compromettere
l’esercizio dei suoi doveri sacerdotali.
Consideriamo brevemente un profilo dei
personaggi implicati nella vicenda. P.
Licinius Crassus Dives appartiene a una gens plebea che aveva dato
il suo nome alle leggi Liciniae-Sextiae
(367 a.C.), che avevano sancito la parificazione degli ordines a livello di consolato e di sacerdozio sacris faciundis. A un secolo e mezzo di distanza la gens Licinia, nelle sue molteplici
diramazioni familiari, rappresentava una delle più autorevoli stirpi
della nobilitas patrizio-plebea.
Inoltre Licinius era stato nominato pontifex maximus nel 212 a.C., in un
momento estremamente difficile per Roma, anche sotto l’aspetto religioso.
Ancora sotto l’effetto della disfatta di Canne, e sotto la minaccia di
Annibale, la Città era caduta preda di sacrificuli ac vates che, come nota Livio (25.1.8), avevano carpito
le mentes dei cittadini, provocando
un dilagare di riti superstiziosi. Livio aggiunge (25.5.2-4) che il giovane Licinius non aveva fino a quel tempo
rivestito alcuna carica curule (cosa assai rara in un personaggio eletto pontifex maximus) e che in quell’ingens certamen era prevalso su altri due concorrenti ben più
accreditati (Q. Fulvius Flaccus e T. Manlius Torquatus, già famosi
per due consolati e per la censura). Cosa avrebbe determinato la sua elezione
(giacché quello di Licinius
costituisce il primo caso certo di elezione comiziale - sia pure dalla minor pars populi - di un pontifex maximus?[10]
In altro passo (30.1.5), Livio lo definisce iuris
pontificii peritissimus: all’assunzione della carica, era pontefice
da almeno sei anni. Può dunque ritenersi che la scelta privilegiasse un
candidato in grado di dedicarsi con speciale cura al suo ufficio sacerdotale,
data l’esperienza acquisita come pontifex,
l’alto lignaggio e la grave emergenza anche religiosa. La lunga durata
nella carica di pontifex maximus (ventinove anni: Licinius morì nel 183 a.C.),
oltre alle benemerenze acquisite nel tempo come censore e console, fanno di lui
un personaggio eminente della sua epoca; la sua laudatio, riassunta da Livio (30.1 ss.), lo conferma.
Certo, Licinius
fu uomo del suo tempo anche quanto alle passioni politiche. Q. Fabius Pictor, il suo antagonista
nella vicenda del 189, era quasi certamente figlio del primo annalista
letterario di Roma[11],
a sua volta senatore e portavoce del Cunctator[12].
E’ opinione concorde degli studiosi[13]
che le “Parteien” di appartenenza dei due personaggi si
contrapponessero in senato. Licinius
era orientato verso il partito “scipionico”, che annoverava anche Aemilii[14],
Acilii Glabriones, Minucii, Laelii, Pomponii. Il
partito antiscipionico registrava i Fabii
(il Cunctator anzitutto), i Valerii, i Manlii, i Sempronii, i Fulvii, oltre all’apporto decisivo
di Catone Censore[15].
Proprio nel 189 a.C. sarebbe stata condotta dal partito antiscipionico
un’azione vincente in sede di attribuzione delle cariche, con i consoli e
almeno tre su sei pretori riconducibili all’area fabio-catoniana: fra
questi, Q. Fabius Pictor[16].
Tuttavia, se questo può giustificare l’asprezza del confronto fra Licinius e Fabius, non ne spiega le motivazioni profonde. Certamente Licinio
era credibile quando emanava il suo divieto, dal momento che nel 205, eletto
console assieme a Scipione (il futuro Africano), aveva desistito dalla
competizione per l’assegnazione della Sicilia quia sacrorum cura pontificem maximum in Italia retinebat (Liv.
28.38.12; cfr. 28.44.11): ossia per lo stesso motivo per cui, nel 189, si
oppone al sacerdote di Quirinus che
ambisce a ottenere la Sardegna come praetor.
Va anche osservato che il comportamento di Licinius non è isolato. Livio
stesso, quando riferisce il contrasto con Fabius,
richiama un precedente conservato dalla tradizione (patrum memoria) e riferito a L.
Caecilius Metellus, che era stato pontefice massimo dal 243 al 221 a.C. Nel
242 egli aveva proibito al console A.
Postumius Albinus di partire assieme al collega C. Lutatius Catulus per assumere il comando della flotta in
Sicilia, dal momento che Postumius rivestiva anche la carica di flamen
Martialis[17].
Sono significative le parole con cui Valerio Massimo spiega il contrasto:
“Non sembrava che Postumius
potesse affidarsi al certame di Marte con sicurezza, se fossero state da lui
trascurate le cerimonie sacre in onore di Marte” (1.1.2: quod tuto se Postumius Martio certamini
commissurus non videbatur caerimoniis Martis desertis). In altri termini,
l’omissione dei riti affidati a Postumius in quanto flamen
Martialis e riguardanti il dio della “funzione guerriera”[18],
avrebbe potuto provocare l’ira del dio e revocare la sua protezione in
caso di guerra combattuta da Postumius
in quanto console (e, per conseguenza, danneggiare l’esito della guerra
in generale). Per questa ragione religioni
summum imperium cessit (Val. Max., ibid.);
e, secondo quanto asserito da Tacito per un caso analogo (Ann. 3.71.2-3), il prevalere della religio avrebbe avuto effetto direttamente per decretum del pontefice massimo, senza far ricorso
all’arbitrato del populus[19].
Postumius subì una grave
limitazione del suo prestigio politico, dal momento che fu il solo Lutatius Catulus a comandare la flotta
che sconfisse i Cartaginesi presso le isole Egadi e a riportare il trionfo.
Allo stesso titolo, nel 189 a.C., Fabius
Pictor perse l’opportunità di esercitare l’imperium militiae, giacché religio
ad postremum vicit (Liv. 37.51.4).
La tradizione registra un secondo episodio,
nel quale fu coinvolto L. Caecilius
Metellus, che può avere attinenza con l’argomento qui
considerato. L’anno successivo al contrasto con Postumius, egli sarebbe stato protagonista di un gesto eroico. Nel
241 a.C. un incendio si sviluppò all’interno del tempio di Vesta:
il pontefice massimo si gettò fra le fiamme e riuscì a salvare il
Palladium riportando però, a
causa del fuoco, la perdita della vista[20].
Questa, la vulgata dell’episodio, che presenta delle varianti[21]
e la cui attendibilità storica è tutt’altro che certa
(già in antico si disputava circa la possibilità che un pontifex maximus continuasse a
esercitare le sue funzioni nonostante la cecità; è perfino
discutibile che nel 241 il Palladium
fosse già realmente conservato nel tempio di Vesta)[22].
Resta il fatto che la costruzione dell’episodio è di per sé
significativa: sia perché rappresenta un caso di affabulazione
(riattualizzazione storica di un mito gentilizio delle origini)[23]
in un’epoca già incline alla razionalizzazione delle res gestae[24];
sia perché questa affabulazione coinvolge un pontefice massimo, ossia il
maggior responsabile, ai suoi tempi, dell’elaborazione
“cronachistica” della Città; sia perché illustra, con
colori drammatici, la funzione di controllo sulla tutela e la garanzia delle
istituzioni della res publica. Il Palladium infatti era una statua di
Athena-Minerva (probabilmente lignea) “che poteva chiudere gli occhi e
agitare la lancia, e della quale, proprio per il suo valore magico, molte
città antiche pretendevano di possedere l’unico originale
autentico”[25].
Per queste caratteristiche, Roma
privilegiava la versione “troiana” riguardante il Palladium (il cui originale sarebbe
stato portato a Roma dallo stesso Enea) e considerava la statua come il
più importante pignus imperii,
proprio per questo conservato, insieme con altri pignora (scettro di Priamo, velo di Iliona) nel penus interior dell’aedes di Vesta[26].
Salvare il Palladium dalle fiamme
significava conservare a Roma le garanzie dell’esercizio dell’imperium, qui inteso soprattutto come
estensione territoriale, anche se limitata, per l’epoca, all’Italia[27].
Il fatto che, secondo una versione, Metello avrebbe perso la vista non per il
fuoco ma per aver violato la proibizione di vedere il Palladium (vista consentita alla sola virgo Vestalis maxima) non attenua, anzi accresce, il valore del
gesto: l’atto di hybris venendo
compiuto dal pontefice massimo pro rei
publicae salute e potendosi perciò considerare meno grave della
responsabilità di perdere il pignus
nostrae salutis atque imperii[28].
La severità e lo scrupolo mostrati
da Cecilio Metello e da Licinio Crasso in questi come in altri episodi che
contrassegnarono il loro lungo pontificato massimo[29],
non sono occasionali e si ricollegano ad una caratteristica comune, che ci
aiuta a comprendere le motivazioni profonde della loro azione: assieme a Tiberius Coruncanius (pontifex maximus dal 254 al 243 a.C.),
essi sono i primi pontefici massimi plebei, eletti a poca distanza dal
plebiscito Ogulnio (300 a.C.) che sancì l’accesso della plebe al
pontificato e all’augurato. Il già gravoso impegno di un
pontificato massimo comportava per loro un ulteriore gravame: dimostrare che
con l’ammissione dei plebei alla più alta responsabilità
sacerdotale, non si introduceva una nova
religio. E’ probabile che quanto rileva Tacito (Ann. 3.58.2), circa la facoltà dei pontefici di sostituire
il flamen Dialis nelle sue incombenze
rituali per malattia o per (diversa) funzione pubblica (valitudine aut munere publico) costituisse prassi risalente alla
repubblica[30],
a maggior ragione applicabile anche ai flamini di Marte e di Quirino.
Ciò, tra l’altro, spiegherebbe il silentium delle fonti riguardo a sanzioni comminate a flamines maiores nelle stesse condizioni
da parte di pontefici massimi patrizi[31].
Nell’Adelstaat, a parte la “solidarietà di ceto”, non
sussisteva rischio di compromissione dell’assetto
religioso-istituzionale, che invece poteva presentarsi dopo la parificazione
degli ordines. Inoltre, al tempo di
Cecilio Metello, ed ancor più di Licinio Crasso, si manifestano il metus hostilis e la luxuria peregrina legati alle guerre contro Cartagine ed ai bottini
di guerra. Di qui la particolare severità nel richiamo al rispetto dei
ruoli religiosi, che coinvolgeva anche i sacerdozi rimasti accessibili ai soli
patrizi (quali, ad es., i tre flamines
maiores)[32].
In definitiva, i rigidi comportamenti di questi pontefici massimi plebei non
sembrano dettati tanto (o soltanto) da inimicizie politiche, quanto soprattutto
da un’esigenza di legittimazione in vista della preservazione della pax deorum. Si noterà in
proposito, che gli interventi di Cecilio Metello e di Licinio Crasso sono
sempre preventivi, mirano cioè a evitare che si creino condizioni atte a
provocare l’ira degli dei[33]:
ciò, anche se la res publica disponeva
dell’importante collegio sacerdotale dei viri sacris faciundis, preposto a indicare, a posteriori, le
riparazioni rituali conseguenti al disfavore divino. Si tratta, senza dubbio,
del più restrittivo ricorso alla potestas
di cui disponesse il pontifex maximus:
ma va anche considerato che in tutte le circostanze in cui si crea, in questo
periodo, un conflitto fra autorità del pontifex maximus e imperium,
il senato o il popolo danno sempre ragione alla religio. Anche se, dunque, il pontefice massimo non disponeva
dell’imperium in senso tecnico,
disponeva tuttavia di una peculiare potestas[34],
grazie alla quale poteva di fatto limitare o impedire l’imperium militiae e, comunque, garantirne religiosamente l’esercizio
attraverso la preservazione dei pignora
imperii. Inoltre, come si è visto nel caso del rifiuto di Licinio
Crasso di competere per l’assegnazione della Sicilia in quanto console,
il pontefice massimo, in assenza di un’autorità religiosa a lui
superiore (sempre restando nell’ambito umano), poteva auto-imporsi una
restrizione - di ordine religioso - di un suo diritto di esercitare, in quanto
magistrato, l’imperium militiae. Senza dubbio, col tempo, si
verifica un addolcimento delle norme riguardanti il flaminato maggiore[35].
Col venir meno delle condizioni di emergenza che lo avevano determinato, si
attenuò il rigorismo mostrato dai pontefici massimi plebei durante le
guerre puniche. Una prova di ciò può ricavarsi dal diverso
comportamento adottato da P. Licinius
Crassus Dives Mucianus, pontifex maximus
plebeo dal 132 al 130 a.C. Nel 130 egli proibì al console eletto, L. Valerius Flaccus, di competere per
l’assegnazione dell’Asia per combattere la guerra contro
Aristonico: Valerius infatti era
anche flamen Martialis. Anche in
questa occasione, il iudicium populi
si pronunciò a favore del pontifex
maximus. Senonché stavolta Licinius
Mucianus agiva nel suo proprio interesse. Essendo stato eletto console per
quell’anno assieme a Valerius
Flaccus, egli ottenne l’assegnazione della provincia Asia grazie all’esclusione
del concorrente determinata da una sua iniziativa. In questo modo, di fatto,
egli subordinava la potestas
pontificale all’imperium
consolare dal momento che, per esercitare il comando militare, trascurò
l’obbligo religioso di non allontanarsi dall’Italia. La perioca di
Livio che riferisce l’episodio (Liv. Per. 59), sottolinea la
novità del gesto (quod numquam
antea factum erat) ed aggiunge che, quasi per conseguenza fatale della sua
empietà, Licinius Muciianus extra
Italiam proiectus proelio victus et occisus est. In questo caso, la
gerarchia dei valori risulta capovolta. Al di sopra della pietas erga deos si pone l’amicitia politica. Licinius
Mucianus apparteneva infatti al partito graccano e contrastava Valerius Flaccus, legato invece al gruppo
di Scipione Emiliano[36].
Il prestigio della religio veniva
piegato ad interessi personali: e mentre, pochi anni dopo, si diede il caso di
un proconsole il cui imperium venne abrogatum per viltà[37],
nessun provvedimento venne preso per l’empietà del pontifex maximus. Ma, almeno nel caso di
Licinius dove non giunsero gli uomini provvide il destino a punire una
grave trasgressione dei doveri sacerdotali.
[3] F. Vallocchia,
Collegi sacerdotali ed assemblee popolari
nella repubblica romana, Torino 2008, 68 ss.
[10] F. Vallocchia,
Collegi sacerdotali ed assemblee popolari
nella repubblica romana, cit., 113 n.10.
[13] H.H. Scullard,
Roman Politics 220-150 B.C., Oxford
1951, 136; F. Cassola, I gruppi politici romani nel III secolo a.C.,
cit., 410; J.-C. Richard, Sur quelques grande pontifes
plébéiens, in Latomus, 27, 1968, 786-801, 799; G. Zecchini, Gn. Manlio Vulsone e l’inizio della corruzione a Roma, in CISA, 8, Milano 1982, 162.
[15] F. Cassola,
I gruppi politici romani nel III secolo
a.C., cit., 405 ss.; G. Zecchini,
Gn. Manlio Vulsone e l’inizio della
corruzione a Roma, cit., 160 ss.
[19] Sui decreta
pontificum, v. S. Randazzo, “Collegium pontificum decrevit”.
Note in margine a
CIL X 8259, in Labeo,
50, 2004, 134 ss.
[20] Cic. Pro Scaur. 48; Iuv. 3.139; Schol. in
Iuv. ad loc., 39 Wessner; Ampel. 20.11; Liv. Per. 19.
[22] M. Sordi,
Lavinio, Roma e il Palladio, in CISA, 8, Milano 1982, 74 ss.; E. Montanari, Mito e storia nell’annalistica romana delle origini, Roma
1990, 73 ss.
[23] A. Brelich,
Il mito nella storia di Cecilio Metello,
cit.; G. DumÉzil, La religion romaine archaïque,
cit., 331-332.
[24] E. Montanari,
Mito e storia nell’annalistica
romana delle origini, cit., 56; E. Montanari,
Falsi e veri miti (antichi e moderni) su
Roma, in SMSR, 61, 1995, 441 ss.; E. Montanari,
Categorie e forme nella storia delle religioni,
Milano 2001, 109 e n.26
[27] M. Sordi,
Lavinio, Roma e il Palladio, cit.,
76; secondo l’a., Roma avrebbe definitivamente acquisito il Palladium
in un’epoca compresa tra il 205 e il 150 a.C.; ma il W. Vollgraf, Le Palladium de Rome, in BAB, 1938, 34 ss.,
l’anticipava agl’inizi del III secolo a.C.
[29] Su ciò
J. Bleicken, Kollisionen zwischen Sacrum und Publicum, in Hermes, 85,
l957, 451 ss.; J.-C. Richard, Sur quelques grande pontifes
plébéiens, cit., 788 ss.
[30] Prassi, tra l’altro, applicata
durante la lunga sospensione del flaminato diale, conseguente alla morte di L. Cornelius Merula (87 a.C.); cfr. Tac.
Ann. 3.58.2.
[32] La “severità” dei
pontefici massimi plebei si associa ad un superamento dell’anteriore
tendenza a considerare il ius civile
- e correlativamente il ius sacrum -
come repositum in penetralibus pontificum
(Liv. 9.46.5). Il III secolo a.C. registra vari esempi di adeguamento della
prassi pontificale alle esigenze dello “Stato patrizio-plebeo” (ad
es. i responsa giurisprudenziali espressi
in pubblico da Ti. Coruncanius;
l’elezione - sia pure a numero limitato di tribus - del pontifex maximus;
la risoluzione delle controversie ad opera del populus, etc.); tendenze nelle quali la indubbia potestas del pontifex maximus, pur non derivando dal popolo, si orienta
“verso il popolo” (F. Vallocchia,
Collegi sacerdotali ed assemblee popolari
nella repubblica romana, cit., 84 ss.).
[34] F. Vallocchia,
Collegi sacerdotali ed assemblee popolari
nella repubblica romana, cit., 84 ss. Opportunamente l’a. osserva (87
n.85) come le fonti attestino al pontefice massimo “lo iussus, che è, sicuramente
esplicazione di potestas”. Cfr.
S. Randazzo, “Collegium pontificum decrevit”. Note in margine a CIL X
8259, cit., 139 e n.15, secondo il quale il pontefice massimo avrebbe
esercitato “un’autorità, che, in materie specifiche,
appariva superiore a quella dello stesso magistrato cum imperio” e, in certa misura, “trasversale”
rispetto al “quadro politico-istituzionale arcaico”.
[37] Q.
Servilius Caepio, proconsole in Gallia, nel 105 a.C. si rifiutò di
cooperare col console Cn. Mallius Maximus,
e ciò contribuì a provocare una disastrosa sconfitta contro i
Cimbri e i Teutoni. Sull’abrogatio
imperii (Liv. Per. 67; Ascon. 78 c), v. M. Sordi,
La sacrosanctitas tribunizia e la
sovranità popolare in un discorso di Tiberio Gracco, in CISA, 7, Milano 1981, 129.