N. 8 – 2009 –
Memorie//XXIX-Roma-Terza-Roma
Istituto italiano di Scienze Umane
Firenze
L’IMPERO E gli IMPERI
Il termine “impero” è
ormai entrato nel lessico storico, antropologico, giuridico e politologico nei
sensi di “suprema autorità”, “massimo potere”,
“predominio”, “supremazia riconosciuta”: il che,
associato ai malintesi generati dall’abuso della parola
“imperialismo”, che lessicalmente le è affine ed
etimologicamente ne è derivata ma che semanticamente ne è
lontana, non manca di generare equivoci e confusioni.
Ad evitar il loro perpetuarsi, è
opportuno sottolineare come, di per sé, la parola “impero”
designa un complesso di significati e di valori storici che vanno riferiti
essenzialmente ed esclusivamente, su un corretto piano storico,
all’impero romano; e che soltanto in senso analogico per un verso,
comparatico per un altro, e quindi con tutta la cautela che ciò
comporta, può essere usata a indicare altre esperienze storiche, le
quali dovranno volta per volta venir identificate nella loro
peculiarità.
La prima cosa da fare, parlando del
concetto d’Impero e delle varie forme politico-istituzionali di governo
che si sono servite di questo nome o che così sono state definite,
è quindi procedere a un’accurata distinzione tra quel che la
parola designa e le cose che, mediante essa, sono state nel tempo con tale nome
designate[1].
La parola latina imperium – al di là del suo originario e ristretto
significato politico, giuridico e militare – è stata utilizzata,
dall’antichità romana in poi, per indicare l’esercizio di
poteri sovrani concepito in funzione del bonum
commune, in una prospettiva di universalità e di ordine pacifico
valido per l’intero genere umano e per il suo generale vantaggio[2].
Secondo un celebre passo dell’Eneide,
missione specifica e quindi funzione propria del popolo romano sono quelle di regere imperio populos...paci imponere mores[3]:
ancora nel grande poema di Virgilio,
Tornando al modello romano, appare
legittimo intendere a parere di Seneca la pax
Romana come potenzialmente estesa – e pertanto legittimamente
estensibile - all’intero orbe terraqueo, al quale l’impero è
in grado di assicurare la pace[6].
Con
La cristianizzazione dell’impero,
giuridicamente formalizzata da Teodosio I alla fine del IV secolo,
comportò un profondo ripensamento del rapporto tra Imperium e pax, quindi
tra l’identità del cives
Romanus e quella del Christi fidelis.
Agostino, nel De Civitate Dei,
riprendeva l’assunto virgiliano in un passo che sarebbe poi stato guida
al Dante del Convivio e del De Monarchia[8].
Nel 441 il vescovo di Roma Leone, cioè papa san Leone I Magno, proponeva
una ridefinizione della pax Romana come
perfettamente identificabile con la pax
christiana: il che comportava un nuovo senso da conferire alla convergenza
tra pax e imperium, fondata non più sulla forza delle armi,
bensì sull’accettazione pacifica dell’auctoritas imperiale da parte di tutti i fedeli da una parte e
sulla generale e capillare diffusione della fede entro i confini della res publica dall’altra.
Il rapporto fra pace e buon governo,
destinato a divenir fondamentale anche nel mondo medievale, moderno e
contemporaneo e a tradursi, nei documenti imperiali, nell’onniprensente e
inscindibile binomio iustitia et pax –
sempre rigorosamente in quest’ordine di precedenza -, era già
stato miticamente postulato da Esiodo, che faceva Eirene,
Dal concetto d’impero, e dalla storia
dell’impero romano, si avviò fin dall’antichità una
costante tendenza a definire “imperi” tutte le organizzazioni
politico-territoriali di grande ampiezza, caratterizzate dal dominio di un solo
sovrano universalmente riconosciuto come tale – o comunque di un soggetto
politico dalle caratteristiche sostanzialmente statuali - su una
pluralità d’istituzioni pubbliche e di popoli. E’
profondamente etnocentrica e cronocentrica – incentrata
com’è sul modello della storia romana – l’attitudine,
ormai diffusa, a definire “imperi” le grandi civiltà
antiche, moderne e contemporanee caratterizzate appunto da un vertice che eserciti
un’ auctoritas universalmente
riconosciuta (alla quale può però corrispondere una
pluralità di di potestates) su
un’insieme di comunità di sudditi tra loro eterogenee; e di ogni
impero la storia stabilisce e circoscrive volta per volta i caratteri di centralizzazione
e di livellamento o, al contrario, di rispetto e di mantenimento delle
diversità, delle specificità, addirittura dei privilegi accordati
o delle libertà conseguite “dal basso”. Siamo quindi soliti
parlare ordinariamente, con disinvoltura, di “imperi” egizio,
assiro-babilonese, persiano, alessandrino, variamente considerati come
precedenti e in qualche misura altresì modelli e antenati
dell’impero romano (che si è perpetuato, non dimentichiamolo,
nell’esperienza che ordinariamente noi chiamiamo
“bizantina”), mentre da esso sono in vario modo derivati, o ad esso
si sono ispirati, o ad esso comunque collegati in tempi diversi il cosiddetto
“impero romano-germanico”, quello etiope, quello russo; e, per
“analogia imperfetta”, consideriamo altresì esperienze
imperiali quelle in differenti periodi configuratesi nel mondo centroasiatico
(l’impero tartaro” e la relativa pax mongolica), nell’India moghul, in Cina, in Giappone, nell’America
precolombiana. Ma siamo altresì abituati a denominar
“imperi”, anche quelli “coloniali” (come i possessi
disseminati delle repubbliche marinare italiche tra XI e XV secolo,
addentratisi nel caso di Venezia fin alla fine del XVIII; o ancora gli imperi
spagnolo, portoghese, olandese).
Se consideriamo la parola
“impero” in un senso più largo e inclusivo, in effetti,
possiamo definire tali i sistemi fondati e gestiti dalle molte
città-stato e nazioni che dal XII secolo si sono mosse alla conquista
del resto del mondo, frattanto battendosi per conseguire l’egemonia le
une sulle altre. Un buon esempio di questi “imperi imperfetti”[9]
è fornito dalle “città marinare” medievali italiane
quali Pisa, Genova, Venezia, che per un paio di secoli, tra il XII e il XIV,
dominarono il Mediterraneo. Esse rappresentano un ottimo esempio del modo in
cui i commerci e le conquiste si completassero a vicenda: costruirono le loro
prime fortune attraverso il commercio accompagnato e alternato alla guerra
corsara, quindi stabilirono le loro colonie dov’era loro più
utile, nel Tirreno e in Adriatico, e attraverso il loro fondamentale appoggio a
quella bislacca impresa che di solito definiamo “prima crociata” e
al regno franco di Gerusalemme che ne scaturì si aggiudicarono
importanti privilegi in aree strategiche del Mediterraneo orientale, mentre Pisa
e Genova si disputavano anche l’egemonia in quello occidentale. Non
detenevano certo tutte le caratteristiche di un vero e proprio impero, ma in
cambio possedevano un vantaggio unico per quel tempo su tutto il resto del
mondo circummediterraneo: avevano flotte in grado di competere con quelle
bizantine e musulmane.
Il sistema di colonie che soprattutto
Genova stabilì nel Mar Nero rappresentò – mentre, nel
Trecento, Pisa e Venezia entravano in crisi a causa del crescere della
talassocrazia catalana –un passo avanti in quel tipo di politica: ma
l’ “impero” genovese entrò in crisi in rapporto con il
crescer dell’importanza di un altro, quello tartaro dell’Orda
d’Oro. C’è da chiedersi, non troppo lontano da
“tentazioni” ucroniche, come sarebbero andate le cose se Genova e
l’Orda d’Oro avessero trovato un equilibrio o stipulato
un’alleanza[10].
Tuttavia, come Roberto Sabatino Lopez ha notato con forza e finezza, la
“modernità” dell’esperienza e dell’esperimento
genovesi consiste nel modo nel quale le forze interne alla città –
che possiamo identificare con le famiglie, i clans, le corporazioni, le lobbies
– seppero introdurre i loro privati interessi nel vivo della gestione
pubblica della politica, sino a svuotar quasi di senso la natura pubblica del
potere della repubblica guadagnandone il completo controllo. La repubblica di
Genova, com’è ben esemplificato nelle vicende delle
“compagne” medievali e poi del Banco di san Giorgio, costituisce un
buon esempio di come un governo possa divenire quel che il vecchio Karl Marx ha
definito un “comitato d’affari”. Si tratta peraltro di un
fenomeno ricorrente nella storia delle società umane. Era già
accaduto a Roma, nelle vicende di alcune grandi famiglie senatoriali del I sec.
a.C.: e l’impero romano è figlio appunto anche di questo processo
di privatizzazione e d’appropriazione del potere pubblico. Tuttavia,
ciò è alquanto differente da come ad esempio la repubblica di
Venezia o quella delle Province Unite costruirono i loro rispettivi imperi, dal
momento che i loro governi – per quanto fondati su una complessa rete di
interessi e di differenze e conflitti di tipo finanziario, culturale e politico
– non sopttoposero mai del tutto la loro natura pubbliva agli interessi
privati delle loro oligarchie interne, che pur gestivano si può dire in
modo esclusivo il potere.
In due distinti casi, poi, un “impero
coloniale” ha costituito la base storica per la proclamazione di un vero
e proprio “impero istituzionale”, caratterizzato
dall’instaurazione di un sovrano. Così l’ “impero
delle Indie” detenuto da Vittoria regina d’Inghilterra che ne cinse
la corona nel 1877 e che fu da allora regina
et imperatrix: va da sé che forte era stata la tentazione, specie
negli ambienti aristocratici e militari britannici più strettamente
collegati all’esperienza del potere sul subcontinente indiano e al tempo
stesso convinti dell’intima superiorità inglese (e
“bianca”) ma perdutamente innamorati delle tradizioni e della
cultura indiane, d’indurre la loro regina a rivendicare sic et simpliciter l’eredità
“imperiale” dei Gran Moghul; prevalse tuttavia il buon senso, e
Vittoria divenne imperatrice d’una nuova realtà politica indiana
nella quale maharaja e raja venivano a formare un organismo
istituzionalmente paragonabile e cerimonialmente alquanto simile alla Camera
dei Lords. Tale modello fu poi piuttosto impudicamente plagiato –
nonostante provenisse dalla “perfida Albione” – del
più tardo, ristretto ed effimero “impero d’Etiopia”
fondato nel 1936 alla fine della seconda guerra italo-etiopica, nel quale Vittorio
Emanuele III, “re imperatore”, guardandosi bene dal pretender di
appropriarsi in qualche modo dell’antica corona dei negus neghesti, adottava insegne appositamente concepite per
un’istituzione imperiale nuova rispetto all’antico impero del Leone
di Giuda, nella quale i ras venivano
ad assumere un ruolo simile a quello dei maharaja
e dei raja nell’impero
dell’India.
Vanno altresì ricordate esperienze
imperiali, o tali dalla storiografia occidentale definite, ciascuna delle quali
può esser considerata istituzionalmente e geneticamente sui generis: come quella turco-ottomana
che adottò per il sultano il titolo imperiale di conio persiano di padishah e che almeno dai tempi di
Solimano il Magnifico, vale a dire dal pieno Cinquecento, pretese di atteggiarsi
ad erede dell’impero bizantino (e difatti il mondo musulmano conosce il
sultano Solimano come al-Kanuni, il
restauratore del Canon giustinianeo);
e quella persiana moderna safawide e qajar, fondata sull’attesa sciita
della rivelazione dell’ “Imam nascosto” ma al tempo stesso
sulla pretesa di rivendicazione delle esperienze achemenide, arsacide e
sasanide (mentre, a partire dagli Anni Venti del secolo scorso, l’impero
iraniano di Reza Shah e poi di suo figlio Mohammed Reza Pahlevi si sarebbe orientato
su un “uso della storia” d’impronta decisamente
neoachemenide).
Un ruolo speciale all’interno di
questa problematica spetta tuttavia alla filiazione romano-imperiale
dell’impero rivendicato, sotto il titolo di czar (Caesar) da Vassili IV, granprincipe di Mosca e di Novgorod,
figlio si Ivan III il Grande e di Sofia a sua volta figlia di Tommaso
Paleologo. Sul piano istituzionale, la rivendicazione del titolo di Caesar da
parte dei granprincipi di Mosca era legittima risalendo al loro riconoscimento
in quanto tali da parte dei basileis di
Costantinopoli, che detenevano il diritto di fregiarsi del titolo di Augusti
secondo la legislazione dioclezianea. Sul piano dinastico, Vassili discendeva
dalla dinastia imperiale per parte di madre. Ciò consentì a sua
figlio Ivan IV il Terribile, succedutogli nel 1533 come czar di Russia, di rivendicare nel 1547 il titolo di czar e autocrate di tutte le Russie, con
il quale venne appunto incoronato. L’impero czarista, durato dal 1547 al
1917, appare caratterizzato da una legittimità non incontestabile
né assoluta, comunque rivendicabile in quanto dinasticamente collegato
per via di discendenza femminile all’ultima legittima dinastia imperiale
romana d’Oriente e in quanto istituzionalmente collegato al titolo
cesareo legittimamente concesso dai basileis
Augusti. In questo senso Mosca è erede della Nea Rome, cioè di Costantinopoli, e può proporsi come
“Terza Roma” legittimata altresì, secondo la tradizione
inaugurata dalle leggi di Graziano e di Teodosio nel IV secolo, della fedeltà
al credo cristiano: come dice Agostino, infatti, Romanum imperium, quod Deo propitio christianum est[11]. L’eredità rivendicata in
forza della conquista con la forza, sostenuta dai sultani ottomani, non
può eviudentemente venir accolta in linea di legittimità
giuridica nell’àmbito di quel sistema di leggi e di valori sui
quali appunto l’impero dal IV secolo si fonda, e che risale
all’età augustea senza soluzione di continuità.
Nell’Europa occidentale, dopo quella
che Arnaldo Momigliano ha chiamato la “caduta senza rumore” della pars Occidentis dell’impero romano
uscita dalla riforma amministrativa teodosiana, una neofondazione imperiale dai
caratteri alquanto ambigui, ma che senza dubbio si rifaceva al modello romano
“d’Occidente” e ne rivendicava l’eredità, si
ebbe prima con l’impero carolingio del IX secolo e poi con quello
romano-germanico avviato nel secolo successivo: nati entrambi dalla
volontà di emulazione rispetto all’impero romano-orientale
(cioè, come s’usa dire, “bizantino”) ma anche dal bisogno
della curia episcopale romana, intanto affermatasi come egemone tra le Chiese
d’Occidente, d’affrancarsi anche formalmente dalla tutela dei basileis di Costantinopoli.
L’impero romano-germanico si sviluppò più tardi –
nonostante il tentativo di rifondazione giuridica giustinianea portato avanti a
metà del XII secolo da Federico I di Hohenstaufen e dai suoi giuristi
bolognesi – in modo complesso, passando da un assetto elettivo a uno
sostanzialmente ereditario (che tuttavia dell’elettività manteneva
alcune forme) e caratterizzandosi poi come quell’insieme di territori
retti a principato o a repubblica che Samuel Pufendorf avrebbe definito mirabile monstrum e a proposito del
quale gli allegri studenti riuniti nella cantina di Auerbach descritti
nell’Urfaust potevano chiedersi
come facesse a star ancora in piedi. Un impero straordinariamente fragile e
vago sul piano della potestas eppur
duraturo e profondamente radicato su quello dell’auctoritas, della tradizione e della memoria.
Ai primi dell’Ottocento questo
augusto e venerabile fantasma imperiale infastidiva la nuova realtà
imperiale scaturita dalla Rivoluzione francese e dal modello storico augusteo:
quella di Napoleone I, empereur de
A questa pluralità di casi,
d’istituzioni, di situazioni, di formule liturgiche, di apparati
cerimoniali, è stata affidata comunque nel tempo al funzione di
tramandare, di continuo rinnovandolo e mutandone senso e aspetto, il nomen Imperii e il fascino che ancor
oggi lo circonda e che è facile verificare nel continuo ricorrere del
termine “impero” nelle circostanze e nei contesti più varii,
dal mondo della finanza a quello della produzione e dell’immaginario.
“Impero irresistibile” è stato definito
“l’impero del mercato” americano in un recente libro di
Victoria De Grazia, che naturalmente riprende provocatoriamente il tema della
definibilità della superpotenza statunitense come “impero”[14].
La necessità o comunque la
volontà programmatica di coordinare e razionalizzare le differenti
realtà territoriali costituenti il dominio di una potenza, a partire dai
possessi coloniali, venne tradotta negli Anni Settanta del XIX secolo dal
Disraeli nella formula imperial
federation, che avrebbe dato luogo alla formulazione di un concetto nuovo,
l’imperialismo, attorno al quale si è andata formando come
sappiamo una vasta problematica. Esauritasi o comunque almeno in parte
storicizzatasi la polemica sugli “imperialismi” classici, antichi e
moderni[15],
un’altra se n’è andata avviando, negli ultimi decenni, a
proposito della presenza nel mondo della superpotenza americana: tale polemica
è divenuta più forte a partire dall’ultimo decennio del
secolo scorso, in coincidenza con il crollo dell’Unione Sovietica e
quindi del sistema di egemonia mondiale diarchico fondato con
Prima di affrontare con qualche dettaglio
in più la questione statunitense, cerchiamo quindi di avviarci a una
definizione accettabile d’impero. Abbiamo visto che nella società
romana antica il concetto d’imperium
era utilizzato per indicare un potere supremo in grado di mantenere uno
stato di pacifico ordine in tutto il genere umano. Il modello storico romano
è imprescindibile quando si voglia definire, in senso generale ma con
una qualche concreta aderenza a fatti e istituzioni in qualche modo
paradigmatici, un concetto del quale forse si abusa nel comune parlar politico
e massmediale.
«Il termine ‘impero’ e
gli aggettivi da esso derivati, ‘imperiale’ e soprattutto
‘imperialistico’, hanno acquisito oggi un significato peggiorativo,
viste le associazioni negative dei contenuti politici, verificatesi negli
ultimi tempi. Ciononostante il termine ‘impero’ rimane utile non
soltanto perché esprime un’epoca, ma anche perché nel
linguaggio della scienza continua ad indicare con alcuni aggettivi i fenomeni
che distinguono certi organismi statali: le grandi superfici, i popoli
multietnici, l’espansione politica, la formazione della consapevolezza
culturale e statale della classe dominante e così via»[16].
Alla luce di quanto si è finora
detto potremmo provvisoriamente concludere che, per quanto la parola sia
diventata d’uso molto comune per indicare in genere un potere sterminato
su qualcosa o qualcuno, per propriamente parlare d’impero sarebbero
necessarie cinque condizioni:
1.
l’autocoscienza
diffusa e legittimata, da parte di chi ne costituisce il centro e il vertice,
d’una missione universalistica (tu
regere populos imperio Romane memento) obiettivo della quale è i
lmantenimento d’una pace garantita dalla giustizia: ciò costituisce
la base etica di qualunque cultura imperiale, e di solito si collega a valori
di tipo religioso-sacrale; si può dire – per quanto la distinzione
sia in termini concreti difficile – che la consapevolezza del carattere
universale dell’impero e della sua specifica
“sacralità” distingua la Weltanschauung
autenticamente imperiale da quella più propriamente imperialistica,
che in un sistema di potenze collegate fra loro mira anzitutto e soprattutto
agli interessi di quella dominante;
2.
l’autoconsiderazione,
da parte di quel centro, di se stesso quale detentore di plenitudo potestatis: quindi
conditor legis, fons legum e legibus solutus, cioè superiorem non recognoscens;
3.
una
forza militare adeguata a sostenere quell’autocoscienza e
quell’autoconsiderazione;
4.
la
capacità di concepire un sistema di relazioni diversificate, pensate
sulla base di criteri che variano secondo le aree storiche, la pluralità
delle istituzioni con le quali l’autorità definita o
autodefinitasi “imperiale” si confronta, le regioni geografiche e
le concrete circostanze che volta per volta si presentano;
5.
la
capacità di selezionare élites
in grado di governare l’impero scelte tra i cittadini del centro
dominante o dai paesi sottomessi, ma in entrambi i casi fedelmente e
consapevolmente compartecipi della Weltanschauung
imperiale.
E’ piuttosto arduo rinvenire, nella
concreta fenomenologia storica, dei casi che si attaglino sul serio a questi
modelli, e che lo facciano a lungo. Non discuteremo in questa sede se e fino a
che punto il sistema monarchico dell’Egitto faraonico, o quello di
Alessandro Magno, o gli imperi achemenide, arsacide o sasanide
dell’antica Persia, o quello tribale mongolo genghizkhanide, o quello
cinese del periodo soprattutto del periodo Han, o quello turco ottomano, o
quello czarista dei granprincipi moscoviti e quindi dei Romanov, o quello
etiope, o quello neo-persiano dei Pahlavi, possedessero questi cinque
requisiti. Tanto meno c’impantaneremo in discussioni riguardanti maya,
aztechi o incas, che oltretutto dovremmo condurre penosamente di terza o di
quarta mano. Limitiamoci alla storia “del nostro Occidente”, come
si usa dire: nella quale non sarebbe obiettivamente lecito includere quello che
resta tuttavia il modello, l’impero romano, esperienza
mediterraneocentrica tanto importante anche nelle tradizioni bizantina,
persiana, russa, ottomana ed etiope, ma tuttavia divenuta profondamente
paradigmatica nel mondo occidentale. Tuttavia, nella storia
“occidentale” propriamente detta – nella quel si è
parlato anche di “imperi” veneziano, portoghese, olandese e via
dicendo, sembra che soltanto due casi possano sul serio esser definiti, in
senso proprio sotto i profili storico, istituzionale, militare e politico (e
considerando, appunto, il modello romano come “unità di misura”),
imperi: il Commonwealth britannico e
la monarchia asburgica spagnola,
Questi due casi si sono distinti, in tempi,
circostanze e contesti diversi, e naturalmente con molte eccezioni, anche per
ragioni che andrebbero (e peraltro sono stati in molti casi di opere storiche)
eseminate anche a livello psicoantropologico: la capacità di formar élites capaci di guardar oltre ai
loro interessi individuali, familiari, di gruppo e di “casta” e di
mantenere una ferma lealtà nei confronti del potere centrale dal quale
dipendevano. In altri termini, ci furono molte “suocere
dell’impero” sia nel caso inglese (si può dire fino al XX
secolo) , sia in quello spagnolo (almeno fino alle paci di Westfalia e dei
Pirenei, in pieno Seicento). Se le “suocere dell’impero”
spagnolo avessero retto ai traumi sette-ottocenteschi, la storia del continente
americano avrebbe potuto essere molto differente. C’è da chiedersi
peraltro se la condizione di “mediocrità” propria per
esempio delle élites dell’
“impero” olandese, ch’era funzionale al carattere di esso ma
che alla lunga ne determinò la decadenza, non potrebb’essere
riscontrata anche in altri casi[19].
C’è ad esempio da chiedersi che cosa sia accaduto nella colonie
portoghesi, dal Brasile al Sudafrica al Sudest asiatico, nonostante la profonda
e robusta cultura imperiale che si riscontra a livello culturale ininterrotta,
dalle Lusiadas fino al sebastianismo
di Fernam Pessoa. Il modello olandese, ch’è stato ben studiato,
meriterebbe forse di esser messo in confronto con i casi
“imperiali” portoghese e anche francese per spiegarne la
labilità rispetto a quelli inglese e spagnolo.
In tutti i casi che non siano questi ultimi
dunque, al livello di lessico istituzionale, sarà ovviamente legittimo
sul piano formale definire come “impero” qualunque stato che tale
si sia autodefinito: compresa in certi periodi del medioevo la monarchia castigliana, che con l’assunzione di tale
termine intendeva sottolineare la sua autocefalia giuridica rispetto alle
pretese ecumeniche romano-germaniche sostenute dal diritto romano. Ma dal punto
di vista sostanziale, sotto il profilo storico-sociologico, opportuno sarebbe
intendere la parola “impero” come sempre inclusa tra virgolette,
specie nei casi di quelli che definiamo “imperi coloniali” o
“egemonico-nazionali”, caratterizzati dal controllo di una potenza
dominante. Vale la pena di aggiungere, richiamando i due imperi “occidentali”
britannico e spagnolo, che siamo in entrambi i casi dinanzi a processi
d’integrazione tra il possesso di terre emerse e il controllo degli
oceani. Siamo in altri termini di fronte appunto a quel dato che Schmitt, in
polemica con Jünger, ha definito caratteristico dell’Occidente,
l’insieme terra-mare contrapposto al potere esteso sulla massa
continentale. Gli imperi occidentali sono sempre Leviathan,
E’ dunque possibile metter da canto
il Primo e il Secondo Impero francesi, pur senza contestare la loro formale
denominazione che del resto era internazionalmente accettata, ma che si
proponeva su un piano differente da quello all’interno del quale possono
valere le cinque regole da noi enunziate; astrarre altresì dagli altri
“modelli istituzionalmente imperiali” ottocenteschi – come
quelli latinoamericani del Brasile dei Braganza e dell’effimero Messico
asburgico –; e porre semmai il caso degli Stati Uniti dopo il 1945, e
ancor più dopo il 1991, accanto ai venerabili modelli del Commonwealth e della Monarquía, come terzo autentico
caso imperiale occidentale, terzo Leviathan della storia moderno-contemporanea?
Per quanto oggi buona parte
dell’opinione pubblica statunitense rifiuti per il suo paese e la sua
storia la qualifica di “imperialista”, avvertita come negativa in
quanto storicamente collegata con un impero specifico, quello britannico, dal
quale e contro il quale i coloni del 1774 si erano ribellati, stiamo per contro
assistendo sia a una crescente e in qualche caso orgogliosa accettazione
dell’analogia tra impero romano e “impero” statunitense da
parte di esponenti tanto del conservatorismo classico quanto del pensiero
neoconservatore, sia all’affermarsi di una nuova tesi a prevalente
carattere etico, secondo la quale la forza militare degli Stati Uniti sarebbe
tesa all’affermazione dell’ «imperialismo dei diritti
umani»[23].
In altri termini, si sta sviluppando un “sistema imperiale” che di
per sé è ragppresentato dall’equilibrio internazionale, ma
all’interno del quale i governi degli Stati Uniti gestirebbero –
con piena sovranità - una forza militare garante di cause umanitarie:
così ad esempio nel 2003 il “Wall Street Journal” ha potuto
sostenere che la campagna navale britannica condotta a metà Ottocento
per stroncare definitivamente la tratta degli schiavi potrebbe costituire il
modello (e il precedente?) etico e giuridico per un’azione militare tesa
ai giorni nostri a impedire la proliferazione delle armi nucleari[24].
D’altra parte però anche i più rigorosi
nell’esorcizzare l’idea di un’America “imperiale”
debbono far i conti col tema – caratteristicamente imperiale –
della “conquista del mondo”. E’ stata appunto Victoria de
Grazia a partire da un’espressione del presidente Wilson, «lotta
per la conquista del mondo con mezzi pacifici», per coniare la
definizione di Impero del Mercato,
del quale essa sottolinea la «natura sostanzialmente non militare»[25].
Al riguardo si possono già proporre
alcune osservazioni. Dato il carattere universale della Constitutio Antoniniana , grazie alla quale l’Urbs e l’Orbs venivano in effetti a coincidere – e lo si vede bene
dall’origine degli imperatori dei secoli III-V: iberici, illirici, traci,
africani, siro-arabi e così via –, un’analogia possibile
rispetto all’impero romano si potrebbe proporre piuttosto riferendosi
alle Nazioni Unite. Ma in questo senso lo scoglio è che, mentre le
Nazioni Unite sono almeno formalmente il risultato di una convergenza di
governi e di volontà sovrane che concordemente accettano di
reciprocamente limitare la loro sovranità (dal che – sempre in
teoria – dovrebbe scaturire un equilibrio mondiale), nell’impero
romano in realtà tale equilibrio fu imposto e garantito fondamentalmente
da un solo popolo (o comunque dall’impegno della classe dirigente di
esso) che, dopo aver militarmente assoggettato l’ecumène (o almeno
quella circummediterranea), estese ad essa i propri diritti e in qualche modo
la propria identità. Ora, se impero romano e ONU non sono paragonabili
perché a questa manca l’elemento propulsivo unitario ch’era
caratteristico di quello, impero romano e “impero” statunitense non
lo sono perché l’espandersi della potenza statunitense non
è mai stata accompagnata (salvo il caso delle Hawaii, annesso nel 1989
come State dell’Unione) a un
espandersi del diritto di cittadinanza della potenza egemone su quelle a vario
titolo subordinate, né alla dichiarata sovranità della prima su
nessuna delle seconde. Ciò ha dato modo a molti politici e storici
statunitensi di sostenere che gli USA non si possono definire un impero: non lo
sono se si pensa a quelli di modello “ecumenico”, quale il romano
almeno dopo il 212; ma nemmeno se ci si riferisce a quelli di modello
“coloniale” (dalle città marinare italiane dei secoli
XI-XVIII ai differenti imperi spagnolo, portoghese, olandese, inglese e
francese, dove lo statuto delle colonie era quello di sudditanza alla
madrepatria e dove talvolta – come nei casi inglesi, francese e per un
breve periodo, rispetto alla Libia, anche italiano – alcuni
“territori d’oltremare” vennero integrati come parte del territorio
metropolitano). Qui le analogie tra mondo antico e mondo contemporaneo
divengono pericolose e imbarazzanti: l’ONU somiglia molto al regime della
koinè eirene tra le poleis greche, stipulato per la prima
volta nel 386 a.C. e fallito proprio perché non sorretto da alcuna
potenza egemone, bensì risultato dell’unione paritaria di molte
debolezze, tutte abbastanza in malafede, che non ressero all’urto della
superpotenza macedone. D’altronde però, se vogliamo istituire
confronti plausibili, si deve dire che l’impero statunitense contemporaneo
sembra semmai simile al sistema ateniese della “polis tiranna”, ch’era promotrice e protagonista di
alleanze in principio paritarie ma che si evolvevano come rapporti sempre
più squilibrati fra la città dominante e le alleate, nella
pratica suddite per quanto non formalmente tali. Un analogo sistema si
affermò nel caso della repubblica fiorentina tra XIV e XV secolo, nel
rapporto tra la “Dominante” e gli altri centri della regione.
Durante la “guerra fredda”, USA e URSS avevano messo in pratica due
sistemi, paralleli e speculari per quanto ricchi di variabili, di questo tipo:
nei quali – all’interno dell’area d’influenza di
ciascuna di esse – era impossibile per gli stati-satelliti mutar regime.
Dopo la fine dell’Unione Sovietica, tale sistema si è diffuso in
tutto il mondo componendosi con una difficile convivenza con il sistema
dell’ONU, e naturalmente configurandosi come una sorta di “egemonia
monopolare imperfetta”, dal momento che da essa sfuggono si può
dire totalmente la Cina e per ora l’Iran, e in modo parziale Russia e
India (mentre diplomazia e politica statunitensi fanno il possibile per evitare
che anche l’Europa, portando avanti il suo programma unitario, finisca in
qualche modo per accostarsi nei loro confronti al modello di semindipendenza
russa o indiana). D’altronde, che quello statunitense sia definibile come
un “impero” (le virgolette fanno aprte della definizione) dotato di
tratti coloniali in qualche modo riconducibili al modello coloniale
“classico”[26],
al di là dell’assenza di un’analogia formale (gli USA non
hanno né colonie né protettorati istituzionalmente definibili
come tali sotto il profilo formale)[27],
lo si verifica nel costante sostegno fornito dai suoi governi alla dimensione
del national interest e al non meno
costante rifiuto di accettare da parte della comunità internazionale un
trattamento paritario rispetto agli altri paesi (per esempio il rifiuto
dell’accettazione del principio secondo il quale i soldati statunitensi
possano esser giudicati da un tribunale internazionale o comunque da tribunali
diversi da quelli del loro paese, come accade invece per tutti gli altri stati
del mondo).
A questo punto, bisogna riconoscere che il
concetto di “impero” (o solo l’immagine di esso, dal momento
che la sua concettualizzazione risulta così problematica e l’uso
del termine appare in molti osservatori così vago e disancorato da una
problematica storica e giuridica seria?) può anche continuar a venir
usato, quanto meno – appunto – tra virgolette: ma che la sostanza
del problema sembrerebbe ricondurre a un tema oggi forse desueto, quello
suscitato negli Anni Ottanta «da alcuni teorici neorealisti delle
relazioni internazionali (Gilpin, Waltz, Kaohane)» che, «discutendo
della nozione di ‘impero’, la contrappongono a quella di
‘egemonia’, e tra i due concetti»[28]
«optano decisamente per il secondo. Keohane, in particolare, ha elaborato
con notevole successo la nozione di egemonic
stability, che assume il primato di una o più grandi potenze come
fattore di stabilizzazione delle relazioni internazionali e concepisce questo
primato in termini molto lontani dall’idea di una conflittualità
espansionistica permanente, secondo il modulo imperiale classico»[29].
Criticando con rigore la tesi di Hardt e Negri, Mario Telò ha peraltro
suggerito di liberarsi altresì dei vincoli del concetto gramsciano di
“egemonia” per utilizzare piuttosto quello di
“supremazia” statunitense. Secondo il Telò,
l’“egemonia” avrebbe caratterizzato il ruolo degli USA nel
trentennio circa successivo alla seconda guerra mondiale (un’area
cronologica, questa, che andrebbe forse ampliata all’intera parabola
della diarchia mondiale sovietico-statunitense e delle “guerra
fredda”, poi avviata al “dialogo” parallelo al
“disgelo”), per essere poi sostituita, nel XXI secolo (ma
già dagli Anni Novanta?), dalla “supremazia” statunitense:
la differenza tra i due concetti non è puramente lessicale, in quanto,
mentre l’“egemonia”, ancora in termini gramsciani, «era
una forma di consenso ‘corazzato’ dal dominio militare ed
economico», la «“supremazia” è priva
dell’elemento del consenso»[30].
La critica del Telò mira a colpire il concetto di “impero
deterritorializzato”, quindi di dominio “despazializzato”
dell’ “impero” statunitense, e giunge in quest’ottica a
sostenere che non sia paradossale parlare semmai, nello specifico caso di esso,
di “sovranismo”: difatti «è vero che gli USA si
avvalgono di funzioni transnazionali e funzioni deterritorializzate, ma sulla
salda base di un potere politico nazionale, capace ancora di conciliare, quasi
‘schmittianamente’ in momenti e questioni d’eccezione,
l’interesse nazionale con l’azione internazionale, riorganizzando
spazi geopolitici»[31].
Ora, si può anche parlar di “supremazia” anziché di
“egemonia”: ma l’elemento del “consenso
corazzato”, assente nel primo caso mentre era presente nel secondo, resta
alquanto ambiguo se non inquietante. Era un “consenso” obbligato
dalla pressione militare ed economica (e anche politica), quello di cui
godevano le potenze appunto “egemoni” durante la “guerra
fredda” e comunque al tempo della diarchia magari
“imperfetta”[32]
esercitata sul mondo, mentre le condizioni di obbligatorietà si
sarebbero modificate dalla fine del XX secolo? Oppure è invece, in senso
assoluto, divenuto superfluo il consenso delle nazioni e dei popoli oggetto
della supremazia statunitense attuale, dal momento che gli strumenti di
creazione e di organizzazione del consenso sono ormai saldamente nelle mani
delle élites in vario modo e a
vario livello coinvolte e cointeressate nella gestione d’un mondo
globalizzato in funzione appunto di quella “supremazia” e dei
centri e lobbies che tale gestione
“egemonizzano”, nel senso – ebbene, sì… - ancora
veterogramsciano di tale verbo? E il “sovranismo” capace di
«conciliare…l’interesse nazionale con l’azione
internazionale» non si traduce forse in una politica internazionale
condotta sempre, comunque ed esclusivamente in effettiva e coincreta direzione
dell’ “interesse nazionale”, secondo i cànoni storici
dell’imperialismo così com’è stato definito nel XIX
secolo, sia pure con tutte le polemiche che ne hanno accompagnato la
definizione? Si tratterà semmai, nel nostro specifico caso, di
considerare se, in che senso e fino a che punto ormai quelli difesi
dall’azione politica statunitense tra l’ultimo decennio del XX
secolo ed oggi, cioè dal momento nel quale gli USA si sono trovati a
esercitare il ruolo di superpotenza mondiale unica, fossero
“nazionali”, in un tempo nel quale lo scollamento tra élites e
“multitudini” – tanto per usare un termine che Hardt e
Schmitt hanno immesso in un lessico politico ormai refrattario a utilizzare il
desueto concetto di “masse” – appare evidente, in modi e
forme diversi, in tutti i paesi del mondo, mentre la ricchezza si va sempre
più concentrando nelle mani di pochi soggetti i quali, nella gestione di
essa, appaiono d’altro canto sempre meno legati a una realtà
“nazionale”, anche negli Stati Uniti. In altri termini: in tempi
nei quali l’appello di Marx ed Engels, «Proletari di tutto il
mondo, unitevi!», appare pateticamente (o, se si preferisce,
tragicamente) dépassé,
mentre al contrario sembrano sempre più uniti – per quanto
attraversati da rivalità, discordie e contraddizioni – i gruppi
imprenditoriali e i centri decisionali nei campi produttivo, economico e
finanziario (insomma, l’appello marxengelsiano è stato accolto non
già dai “proletari”, bensì dai
“padroni”), che cosa significa concretamente parlar ancora di
“interessi nazionali”? In che senso le aggressioni
all’Afghanistan e all’Iraq, certo funzionali – anche se non
è detto che si rivelino, alla lunga, vantaggiose neppure per loro
– alla politica della Unocal o della Halliburton, giovano anche alla white trash che popola gli slums di Detroit? Ma non avrebbe
anch’essa, questa miserabile white
trash insieme con altre forme di racaille
(tanto per usar una parola cara ai fiancheggiatori europei del
“sovranismo” statunitense), diritto a una fettina dell’
“interesse nazionale” statunitense? E che cosa c’entrano, con
tale interesse, i molti partners non-statunitensi
delle corporations americane?
Insomma: secondo molti, lo scopo della
presenza egemonica statunitense nel mondo è al tempo stesso quello di
garantire quel ch’è stato definito “imperialismo dei diritti
umani” (che farebbe dell’esercito degli USA il “poliziotto
internazionale”, e del governo degli USA il “Ministero
dell’Interni del mondo unito”) e di sostenere i national interests. Ci si trova dunque
dinanzi alla pretesa di una costante identificazione degli human rights con i national
interests. Un’identificazione possibile solo se ci si pone in
un’ottica teologico-provvidenzialistica della storia. Tale
identificazione, ancora almeno formalmente libera dalla necessità
d’una giustificazione, era chiaramente proposta da un autorevole
cittadino americano alle Nazioni Unite fino dal settembra del 1994,
allorché il grande David Rockefeller dichiarava esplicitamente, in un
discorso tenuto al Business Council
dell’ONU nel quale si sottolineava l’importanza della congiuntura
aperta con la fine della diarchia sovietico-statunitense:
«L’attuale apertura d’opportunità, attraverso la quale
si può costruire un mondo veramente pacifico e interdipendente, non
rimarrà aperta per lungo tempo. Siamo alla vigilia d’una
trasformazione globale. Tutto quello che ci serve è la giusta crisi
maggiore e le nazioni accetteranno il Nuovo Ordine Mondiale»[33].
Di questo Nuovo Ordine Mondiale gli Stati
Uniti non sono – in quanto entità statuale pubblica – i
diretti detentori e gestori in linea istituzionale e giuridica: la loro forza
militare ne è, semmai, la garante[34].
Ma allora, ammesso (e non proprio concesso) che tutto ciò sia lecito e
accettabile al di là della costrizione che deriva dai concreti ed
effettivi rapporti di forza, il punto diviene un altro: sono in grado di
esserlo? E’ proprio sotto il profilo militare che gli USA si trovano in
effetti a dover affrontare di nuovo il problema caratteristico degli imperi
coloniali. Non ci si può fidare dell’esercito di leva, che a lungo
andare non sopporta di dover sostenere guerre in paesi lontani delle quali non
comprende né la giustificazione, né il bisogno; ci si è
adattati a rivolgersi alla National Guard,
ma c’è da chiedersi se i cittadini-soldati, i “soldati del
week-end”, siano adatti a un impegno costante e continuativo come quello
che potrebbe configurarsi ancora a lungo in Iraq e in Afghanistan; in un modo o
nell’altro, si deve pertanto ricorrere ai costosi contractors, ai mercenari, oppure organizzare formazioni militari
coloniali fatte d’indigeni ( che ricordano da vicino i gurka, i sepoys, gli “ascari” e via discorrendo, con tutti i
rischi e i limiti in quei casi noti). Dopo che l’esercito dell’Iraq
saddamista fu dissolto, nel 2003, il “governatore” Paul Bremer non
trovò di meglio che auspicarne una sua rapida rinascita nel duplice
obiettivo di ristabilire l’ordine e di ridurre la disoccupazione nel
paese. La situazione somiglia abbastanza da vicino a quella maturata in India
dopo lo scioglimento delle milizie armate della Compagnia delle Indie: senza
l’Indian Army, l’impero britannico avrebbe cronicamente sofferto di
una mancanza di forze militari. Per questo Lord Salisbury poté
affermare che l’India era «an English barrack in the Oriental Sea
from which we may draw any number of troops without paying for them»[35].
L’alternativa, per gli
Stati Uniti, è ricorrere per rinforzi all’ONU o alla NATO: anche
da qui la necessità di smantellare di fatto la prima senza riformarla
(una riforma darebbe alle istituzioni internazionali forza e autorevolezza
nuove) bensì sostituendola con “coalizioni” organizzate
volta per volta secondo la necessità e di mantener costantemente e
rigorosamente egemonizzata la seconda.
D’altronde, quel che sembra mancare
all’ “impero americano” per esser veramente tale, in senso
“universalistico” o in senso “colonialistico”, è
una strategia positiva generale: gli USA non intendono né conquistare
direttamente e politicamente il mondo (altra cosa è la prospettiva
wilsoniana indicata dalla de Grazia), né assumersi direttamente
l’incarico di proteggere direttamente il genere umano. Essi si limitano a
cercar di regolare il disordine del mondo attraverso coalizioni di circostanza,
al di fuori del diritto internazionale; essi praticano sistematicamente la
repressione dei sintomi di disagio e di disperazione o il perseguimento dei
crimini terroristici, senza affrontare il tema delle cause profonde di tale
disagio, di tale disperazione, e tanto meno proponendone una terapia.
Ciò avviene perché in realtà i governi statunitensi sono
espressione d’una classe politica in parte “comitato
d’affari” delle imprese multinazionali, in parte espressione
diretta di esse e dei loro interessi: la conduzione aziendalista del mondo
degrada gli eserciti al rango di organizzazioni di vigilantes privati che si occupano solo di tutelare l’ordine
e i diritti delle imprese che li hanno ingaggiati e impedisce il progredire di
forme di più profonda giustizia, le sole che potrebbero far progredire
quella “pace nell’ordine”
ch’era condizione fin dall’antichità indispensabile
perché un impero potesse dirsi legittimo. Siamo di fronte a quel ch’è
stato definito “il caos imperiale”[36].
In tale prospettiva, si può dire che
centro e protagonista dell’impero siano non già gli USA con il
loro governo, il loro esercito e i loro interessi, bensì una nuova e
complessa entità sovranazionale, internazionale e anazionale, un
“impero” senza confini e senza limiti, senza centro e senza
periferia, guidato da una élite internazionale
di gruppi imprenditoriali e finanziari. Come sosteneva Polibio, l’impero
è sintesi delle tre forme fondamentali di governo (monarchia,
aristocrazia e democrazia): se accettiamo questo schema, nell’impero del
nuovo millennio la monarchia è costituita dal monopolio della forza
militare detenuto direttamente e indirettamente dagli USA e di quella politica
garantito dagli organismi come Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale
che regolano il flusso del danaro; l’aristocrazia dalle grandi
multinazionali che controllano produzione, distribuzione, prezzi, salari e
consumi; e infine la democrazia dai rappresentanti del potere politico degli
stati rappresentati da e nell’ONU[37]
nonché dai rappresentanti delle Organizzazioni Non Governative, che
controllano i governati e ne assicurano la funzionalità rispetto alla
gestione del potere così organizzato[38].
Non si può quindi affermare con
leggerezza che gli Stati Uniti d’America siano a capo di un
“impero”, o un “impero” essi stessi. Il popolo
statunitense, a differenza del senatus
populusque Romanus, non si è mai esplicitamente proclamato
depositario di un potere che, originariamente ristretto al territorio degli
U.S.A., si sia col tempo trasformato non solo in mondiale ma – e questo
è davvero un punto sul quale il giudizio da formulare sarebbe complesso
– universalistico. Tuttavia, secondo lo schema che abbiamo mutuato da Polibio,
il potere ufficiale degli Stati Uniti presidia almeno formalmente gran parte
della prima tra le forme di governo nell’impero sintetizzate, la
monarchia, col suo controllo sulle armi; ma i suoi ceti dirigenti ed emergenti,
i suoi “cittadini eccellenti”, si ritrovano puntualmente a
presidiare anche le altre due, l’aristocratica oggi rappresentata dalle élites e la democratica incarnata
nelle masse. Resterebbe da capire appieno fino e che punto l’aristocrazia
di quei cittadini dotati di speciali mezzi di potere politico, economico,
finanziario, tecnologico, culturale e massmediale abbia occupato e privatizzato
– “allodializzato”, si sarebbe detto nel medioevo – i
pubblici poteri statunitensi.
Si può dunque affermare che, con gli
Stati Uniti d’America, ci si trova dinanzi a una grande potenza egemonica
che si pone al di sopra di qualunque altra potenza o formazione statale; che
detiene – unica ormai al mondo – la plenitudo potestatis;
che è la sola a esercitare
la sovranità illimitata (che dai trattati di Westfalia in poi era
considerata sul piano dello ius publicum
Europeaeum condizione irrinunziabile per qualunque stato) in un mondo di
sovranità limitate; che ritiene se stessa nella pratica (e giunge magari
a pretendere dai suoi partners in qualche modo anche un riconoscimento
giuridico-formale di ciò ) tanto fons iuris quanto conditrix
legis e pertanto legibus soluta: mentre tutti gli altri stati, popoli e
nazioni, raccolti in qualunque forma di sodalizio sovrastatale e
sopranazionale, collegialmente uniti in qualunque tipo d’istituzione
rappresentativa dotata di qualunque livello di autorità deliberante,
possano a loro volta ambire solo a una sovranità limitata e guardare ad
essa come la coordinatrice e l’armonizzatrice suprema?
Ma, se non saranno capaci di risolvere sul serio
il contrasto tra human rights e national interests, se gli interessi
della loro Urbs non coincideranno
davvero con quelli dell’intero Orbs
, gli Stati Uniti d’America resteranno solo un Leviatano che impone al
mondo e sul mondo non solo la sua autorità e il suo potere appoggiati
alla sua forza militare e alla sua moneta, ma anche il suo arbitrio, i suoi
interessi, il suo modo di vivere e di pensare, il livellatore “pensiero
unico” del quale esso è portatore e che appiattisce e annulla le
diversità esportando il suo way of
life senza ormai produrne più neppure le merci, che vengono prodotte
altrove.
A meno di non concluderne che sono
anch’ essi governati da un’élite sempre meno
espressione – non solo sostanziale, ma anche formale: vista la sempre maggiore
frequenza di processi decisionali sottratti a qualunque forma di controllo
elettorale e di verifica pubblica - di una volontà
“collettiva” o comunque “generale”, e sempre più
collegata a sua volta ad altre similari élites sparse per tutto
il mondo, ma concentrate comunque fra Stati Uniti, Canada, Europa, Giappone e
Australia[39]:
costituite nella loro totalità, o quanto meno in gran parte, di CEO
(Chief Executive Officers)[40],
alcuni dei quali vengono introdotti nelle istituzioni dei vari stati attraverso
meccanismi elettorali democratici certo – nel senso che oggi si dà
a questo termine -, e magari formalmente corretti, salva la riserva di finir
con lo svolgersi (non è detto sempre del tutto consapevolmente) il ruolo
di componenti di “comitati d’affari”, mentre altri lavorano
direttamente inseriti in imprese a carattere multinazionali gli interessi delle
quali – intendiamoci – sono ben lungi dall’essere comunque in
coerente e costante accordo reciproco[41].
Non c’è insomma posto per
ipotesi di Complotto Universale o per fantasie dietrologiche di sorta, magari
dissimulate sotto il pretesto di chissà quale ingegnoso paradigma
indiziario. Il Grande Complotto, si può esserne (quasi) certi, non
esiste; non c’è alcuna Tavola (né rotonda, né di
altre forme geometriche) attorno alla quale seggano Superiori Sconosciuti. Ma
disegni e programmi formulati per seguire interessi particolari di lobbies e
di corporations da personaggi e da gruppi che contano al di fuori e al
di sopra della legalità interna e internazionale: questi sì, ce
ne sono parecchi; per quanto si cerchi in tutti i modi al livello di mass media di non farne trapelare
esistenza ed attività di non farne trapelare esistenza ed
attività[42].
E le sedi delle corporations, dei clubs, delle banche, delle imprese, dei
pools in cui essi vengono progettati sono ben fornite di stanze dei
bottoni, di tavoli, di poltrone e di computers, sia pur non immuni dagli
attacchi degli hackers. Il bellum omnium contra omnes che
potrebbe costituire, oggi, l’autentica e più profonda sostanza
della lotta per il potere mondiale ha le sue regole, come sempre: che possono
essere altresì tradite e disattese, come dappertutto.
In altri termini, ci si potrebbe chiedere
quale sia il rapporto fra l’effettivo potere detenuto e gestito, oggi, dal
governo degli Stati Uniti d’America e il processo di globalizzazione. Ma
in questi termini la domanda è mal posta. La vera e fondamentale
questione è un’altra: quali sono le forze reali che sostengono, in
parte controllano e in parte direttamente costituiscono il governo degli Stati
Uniti d’America? Di quale potere sovrano esso è rappresentante, di
quale sovrana volontà esso è l’esecutore, al di là
delle forme giuridiche preposte a legittimarlo? E’ sua la detenzione del
potere “imperiale”? Oppure dietro ad esso come dietro ad altre
forze, attualmente “in presenza” nel mondo, si cela un
“impero invisibile” che in realtà è irresponsabile -
nel senso etimologico del termine: che cioè non è responsabile, non
deve rispondere delle sue azioni perché nessuno è in grado di
chiamarlo a risponderne – dinanzi ai suoi sudditi, che neppure sanno (o,
almeno, non con chiarezza) di esser tali?[43]
O ci troviamo in tutto il mondo, in effetti, out of control, in un caos
ingovernabile per quanto i suoi effetti deleteri non siano ancor emersi, come
sosteneva in anni non sospettabili Zbigniew Brzezinski[44],
e il mondo sta volando in frantumi?
E’ evidentemente presto per fornire
una risposta a quesiti del genere. Tuttavia, l’impressione che
l’equilibrio inaugurato alla fine degli Anni Ottanta del secolo scorso,
con la fine della “Guerra Fredda”, sia ormai compromesso e che il
tempo dell’egemonia d’una sola superpotenza mondiale stia volgendo
al suo termine[45],
può non essere ingiustificata se guardiamo all’emergere di altri
soggetti sulla scena internazionale e alla crescente esigenza, da molte parti
manifestata, di ridefinire nuove forme di equilibrio multilaterale.
[1] La fortuna del libro di M.HARDT –A.
NEGRI, Impero. Il nuovo ordine della
globalizzazione, tr.it., Milano 2002, uscito in originale versione inglese
per
[2] Cfr. L. CANFORA – M. SORDI, New York, l’antica Roma e il destino
degli imperi, in Vita e Pensiero, 4, 2005, 72-78.
[5] Cfr. A. STEPHANSON, Il destino manifesto, tr. it.,
Milano 2004; C. MAIER, Among Empires, Harvard MA 2006.
[6] De
providentia, IV, 14. Le due supreme funzioni dell’imperatore secondo
il De Monarchia di Dante, sono quelle
di legislatore universale per le fondamentali materie di generale interesse
comune e quello di giudice inappellabile nelle controversie tra qualunque tipo
di realtà politico-istituzionale. Tali supreme funzioni di legislatore e
di giudice sono garanzia di pace intesa quale massima garanzia di bonum commune, intrinsecamente connessa
con la giustizia (l’imperatore deve garantire iustitia et pax, inscindibili: ma declinabili rigorosamente in
quest’ordine): tali prerogative consentono all’imperatore, che
guida
[7] Il concetto di imperium designava, in Roma antica, il potere dei magistrati
supremi, comprensivo degli aspetti giurisdizionali (civili e penali) e
militari; esso andava distinto dalla potestas,
potere aministrativo delle magistrature minori. Durante il periodo regio,
l’imperium spettava al re, era
illimitato e dotato di carattere sacrale; nella repubblica il popolo, suo
detentore, lo demandava attraverso i comizi curiati ai due consoli, che avevano
facoltà di affidarlo, in eventuali momenti d’emergenza, a un solo dictator. Casi di esercizio
straordinario dell’imperium,
esercitato anche al di fuori della magistratura, si registrano in casi come
quello di Scipione l’Africano, di Pompeo e, sulla base del precedente
pompeiano, di Ottaviano nel 27 a.C. (egli lo mantenne anche dopo la scadenza
del suo consolato, nel 23 a.C.). La “perfezione” dell’autorità
imperiale esercitata da Ottaviano fu raggiunta dal cumulo perpetuo di tribunicia potestas, di Imperium proconsulare maius e, dopo il
12 a.C., del ruolo di pontifex maximus.
In età imperiale, l’imperium
veniva riconosciuto a ogni imperatore al momento dell’ascesa al
trono: la consuetudine trova la sua origine e il suo fondamento
nell’acclamazione imperatoria conferita il 18 marzo del 37 d.C. dal
senato a Caligola (praticamente, un fittizio triumphus).
[9] Se per “impero perfetto”
intendiamo la realtà storica e istituzionale che attua in qualche modo
le cinque condizioni descritte infra.
[10] Fondamentali, al riguardo, le riflessioni
di Nicola Di Cosmo, dell’Institute for Advanced Studies , nella relazione
sul tema Foreign merchants in the Mongol
empire and the “Expansion of Europe” in the Fourtheenth Century,
presentata durante il convegno Empires:
from ancien to contemporary times, tenutosi a New York il 27-28 gennaio
2006 a cura del Department of Italian Studies della New York University e
dell’ Istituto Italiano di Scienze Umane.
[12] In realtà, in seguito al trattato
di Presburgo del 1805 che aveva sancito il distacco dall’impero della
Baviera, del Württemberg, del baden e di altri vari stati minori
germanici, ch’erano andati a costituire
[13] Per gli
imperi occidentali: AA.VV., Les empires
occidentaux de Rome à Berlin, éd. A. Tulard, Paris, PUF, 1997.
[14] V. de GRAZIA, L’impero irresistibile. La società dei consumi americana
alla conquista del mondo, tr.it., Torino 2006: un libro da leggere in
contrappunto con S. PROULX, Il Libro Nero
delle multinazionali americane, tr.it., Roma 2005.
[15] Per cui cfr. W.J. MOMMSEN, Imperialismus-theorien, Göttingen,
Vandenhoeck-Ruprecht, 1977: D. ZOLO, Usi
contemporanei, cit., part., 183-91.
[16] H. FOKCIŃSKI, Polonia
e Turchia crocevia degli imperi tra Sei e Settecento, in AA.VV., L’Europa centro-orientale e il
problema turco tra Sei e Settecento, a cura di G. PLATANIA, Viterbo 1999,
119.
[17] Cfr. H. THOMAS, I fiumi dell’oro. L’ascesa dell’impero spagnolo,
tr.it., Milano 2006. Dopo la pace di Utrecht del 1713,
[18] F. CARDINI – S. VALZANIA, Le radici perdute dell’Europa. Da
Carlo V ai conflitti mondiali, Milano 2006.
[19] Ci riferiamo alla bella relazione di Ann
Laura Stoler, della New School for Sociale Research, , sul tema “A Non-Incompetent Man”:
genealogies of alliance and mediocrity of a Dutch colonial élite,
presentata durante il convegno Empires,
cit.
[20] Tre “imperi” dei quali il
primo è tale anche sul piano della definizione formale; il secondo, pur
mantenendo forme istituzionali repubblicane, si autodenomina letteralmente Reich, autoconsiderarsi anche Drittes in segno di continuità
non già col primo, cristiano e universalistico, bensì col
secondo, nazionale e germanico; quanto al terzo, va rilevato come al suo
interno la funzione internazionalista bolscevica possa in qualche modo
presentarsi come in un certo senso paragonabile all’universalismo.
Peraltro bonapartismo, nazionalsocialismo e comunismo si sono obiettivamente
configurati come “religioni civili”, con una loro “teologia
politica” e un corrispettivo sistema simbolico-liturgico: cioè con
una loro forma peculiare di “sacralità”, che appare
intrinseca al concetto d’impero.
[21] E soprattutto, parrebbe in diretta linea
di collisione con
[22] E’ necessario, crediamo, partire
proprio da Carl Schmitt per chiarire il concetto di “Occidente
moderno”, o meglio, di «concetto contemporaneo di Occidente in
quanto Modernità». A livello di semantica storica, può
comunque essere utile W. FREUND, Modernus
e altre idee nel Medioevo, tr.it. Milano, Medusa, 2001. Ai giorni nostri,
è molto serrato appunto il dibattito sul concetto di Modernità
correlato a quello d’Occidente. Va al riguardo sottolineato con forza che
la nozione moderna di Occidente – un termine che aveva già,
evidentemente, una lunga storia – nasce tra Sette e Ottocento «come
una proiezione dello spazio europeo nella direzione dell’‘emisfero
occidentale’ americano. Sia per Hegel che per Carl Schmitt
l’Occidente tende a identificarsi come il ‘nuovo mondo’ che
incorpora e porta a compimento la modernità europea, che ne
universalizza i valori e le tensioni interne. E’ merito di Carl Schmitt
l’aver tracciato, in Nomos della Terra, la genesi dell’uso
politico globale – atlantico e oceanico – della nozione di
Occidente» (D. ZOLO, recensione, su “Il Manifesto”,
15.10.2004, a G. PRETEROSSI, L’Occidente contro se stesso,
Roma-Bari, Laterza, 2004; il Preterossi è, fra l’altro, fortemente
critico nei confronti della contrapposizione neocon tra la
“vecchia Europa” e l’“altro Occidente” che
sarebbe costituito dalla giovane, forte e bellicosa America). Sul weberiano
legame tra cristianesimo calvinista e nascita del capitalismo, reinterpretato
però come nesso tra cristianesimo, libertà e “successo
occidentale”, è tornato R. STARK, The victory of reason. How
Christianity led to Freedom, capitalism and Western success, New York,
Random House, 2005, in termini che parrebbero rivisitare il
“classico” percorso weberiano ma che in realtà sono
funzionali anche a una certa attualizzazione politica (e come tali sono stati
salutati con entusiamo da ambienti neocon
o ad essi vicini). Si veda, contra, come F. CARDINI e S. VALZANIA, Le
radici perdute dell’Europa. Da Carlo V ai conflitti mondiali, Milano,
Mondadori, 2006, interpretano la discarted image – a dirla appunto
in termini desunti da Clive Staples Lewis – d’uno sviluppo
“medievale” della storia europea, coerente in molti sensi con la
proposta boccacciana quale abbiamo qui delineato, in termini di
“occasione perduta” (anche se, tuttavia, di “modello
possibile”).
[23] Secondo Dinesh D’Souza
l’America è divenuta un impero, ma per fortuna è «the
most magnanimous imperial power ever» (In praise of an American Empire, in Christian Science Monitor,
26.4.2002. Sulla stessa linea interpretativa il suo What’s so great about America, New York 2003); Sebastian
Mallaby propone un “neo-imperialism” americano come rimedio contro
il caos generato dai tanti “failed states” che infestano il mondo
(cit. in N. FERGUSON, Colossus. The rise and fall of the American Empire,
London-New York 2004, 5).
[24] Interdicting North Korea, in Wall Street Journal,
28.4.2003, 12. La tesi potrebb’essere utilizzata,
attualmente, anche nei confronti del “caso” iraniano: ma è
da notare che, a differenza della Corea del Nord, l’Iran sarebbe è
obiettivamente lontano dal possedere armi nucleari e che le sue pretese, quanto
meno formali, si arrestano al nucleare civile e non partono da alcuna
contestazione del trattato di “non proliferazione”.
[26] Che sembra essersi mostrato con evidenza,
in particolare, nelle due guerre afghana e irachena del 2001 e del 2003, in
realtà ancora in corso mentre stiamo scrivendo, nella primavera del
2007.
[27] Per quanto il caso delle “United
States Virgin Islands” si presenti come un governatorato, Puerto Rico sia
un “Estado Libre” associato agli USA, le isole Midway una
dipendenza amministrata dalla Marina Militare, Guam e le Samoa un
“territorio statunitense non incorporato” retto da un governatore,
le Marianne settentrionali (tranne Guam) un “Commonwealth degli
USA” e varie altre isole del Pacifico siano controllate da enti militari
o civili statunitensi. Le repubbliche panamense e filippina dispongono di
un’indipendenza formale, tuttavia molto limitata nella sostanza. Gli USA
perseguono una politica di controllo di questi territori sulla base di
specifiche esigenze a carattere esclsivamente strategico, il che non consente
un confronto con vere e proprie istituzioni a a carattere coloniale
“classico”. In questo contesto, si pensi al peso anche economico
(ma altresì alle risorse che ad esso sono correlativo) delle basi
statunitensi nel mondo (oltre 120 nella sola Italia, tra USA e NATO; 38 nella
sola isola giapponese di Okinawa; e così via): cfr. C. JOHNSON, Le lacrime dell’impero. L’apparato
militare, industriale, i servizi segreti e la fine del sogno americano,
tr.it., Milano 2005.
[28] F. TEDESCO, L’impero latino, cit., 374, che a sua volta richiama il passo
dell’Autore da noi qui cit. subito infra,
alla nota successiva.
[30] Citiamo ancora dal F. TEDESCO, L’impero latino, cit., 375, al
quale va il merito di aver richiamato, nei termini qui esposti, M. TELÒ,
L’Europa potenza civile,
Roma-Bari 2004, 15-30.
[32] Dopo il XX congresso del PCUS il blocco
socialista si era spaccato, e la Cina era uscita dall’area egemonica
dell’URSS; in seguito sarebbero emersi i “paesi
non-allineati”, il “Terzo” e il “Quarto” mondo…
[33] Cfr. M.
CHOSSUDOVSKY, War and Globalization. The
truth behind september 11, Oakland, Global Outlook Publishing, 2002, 121. In differenti termini, la necessità
di una “giusta crisi maggiore”, con maggior finezza definita
«truly massive and widely perceived direct external threat», era
sancita anche da Z. BRZEZINSKI, La grande
scacchiera, Milano, Longanesi, 1998, 279. Le dichiarazioni di Rockefeller e
di Brzezinski anticipano e preparano autorevolmente, da posizioni diverse, il
celebre assunto contenuto nello studio Rebuilding
America’s defenses: strategy, forces and resources for a New Century,
pubblicato nel settembre del 2000 a cura del Centro di Studi neoconservatore
denominato Project for a New American Century (PNAC) creato nel 1997 da William
Kristol e Gary Schmitt, con l’autorevole presenza di eprsonaggi quali
Wolfowitz, Rumsfeld, Perle, Cheney, Libby, Armitage. Interessante, alla luce
dell’evento dell’11 settembre 2001, rileggere un passaggio di
questo interessantissimo, fondamentale documento: «E’ probabile che
il propecco di trasformazione, anche se introduce elementi rivoluzionari, duri
a lungo, salvo un nuovo evento catastrofico catalizzatore, una nuova Pearl
Harbour» (il testo del documento si può controllare sul sito www.newamericancentury.org/RebuildingAmericasDefenses.pdf
; la citazione è rintracciabile a 51).
[34] Scopo del Nuovo Ordine Mondiale –
scopo “imperiale”, nel senso anche storicamente parlando proprio
del termine – è il mantenimento della pace, quindi la pacifica governance della globalizzazione: fermo
il fatto che «la globalizzazione del mondo non può funzionare se
non si avanza verso una crescente capacità di governo platenaria»
(JACQUES ATTALI, cit. in “Avvenire”, 17.4.2004).
[36] A. JOXE, L’empire du chaos, Paris 2002 ; si veda anche
l’ancor più radicale critica di M. MANN, Inchoerent Empire, London 2003.
[37] A partire dal 2003 e dalle resistenze,
concretizzatesi nell’ONU, contro la politica di aggressione del governo
Bush nei confronti dell’Iraq, il gruppo più estremisticamente neocon dei consiglieri e collaboratori
del presidente Bush ha preso a mettere a punto una politica tendente a svuotare
l’ONU di qualunque residuo potere e a screditarne il ruolo sul piano
morale oltre che a sottolinearne su quello pratico l’impotenza (che esso
stesso contribuiva potentemente a determinare), per delegittimarla
sostituendola nella pratica con un rinovato ruolo di NATO e l’UE: ne è
stata prova l’utilizzazione out of
area di contingenti militari NATO p.es. in Afghanistan. Ma il “nuovo
corso” della NATO era già stato in qualche modo collaudato,
appunto contro la volontà dell’ONU, nel 1999
nell’aggressione alla Serbia, durante la presidenza Klinton.
[41] Su tali questioni, che si modificano di
continuo e che costituiscono un quadro faticoso da aggiornare, cfr. il punto
provvisorio fatto da “La Nouvelle Revue d’Histoire”,
2, sept.-oct.2002, e da “Questions Internationales”, 3,
sept.-oct. 2003.
[42] Giungendo magari a cercar di limitare i
diritti civili – tra cui quello d’informazione e di critica –
nel nome di situazioni d’emergenza e di problemi di sicurezza,
com’è accaduto nell’ottobre del 2001 con il Patriot Act firmato dall’allora
Ministro della giustizia di Bush, John Ashcroft: cfr. l’analisi
durissima, ma puntuale, di G.C. STONE, Perilous
times: free speech in wartime, from the Sedition Act of 1798 to the War on
Terrorism, n.ed., New York 2004.
[43] Cfr. il commento di Michael Chossudovsky (www.globalresearch.ca) al riassunto reso
pubblico dal Pentagono di un documento segreto riguardante il nuovo
orientamento della strategia militare statunitense, nella primavera 2005, molto
importante specie per quel che concerne i rapporti con l’Unione Europea
(che peraltro non è esplicitamente menzionata): tale documento
passò inosservato a suo tempo dalla stampa statunitense, salvo il
“Wall Street Journal” dell’11 marzo 2005. Ci pare che,
al riguardo, sia troppo facile e comodo passar sotto silenzio (magari con la
scusa della ricorrente demonizzazione del suo Autore) le molte e puntuali
argomentazioni di A. de BENOIST, L’impero
del “Bene”, tr.it., Roma 2004.