N. 8 – 2009 –
Memorie//XXIX-Roma-Terza-Roma
Giornalista, Roma
LA “REPUBBLICA DI FIRENZE” SECONDO LA PIRA[1]
Ho iniziato la
professione giornalistica verso la fine degli anni '50 come capo della
redazione fiorentina del settimanale "il Borghese", che non era
tenero con La Pira. Tra i miei compiti, da Firenze, c'era anche quello di
seguirne le iniziative per criticarle. Consegna cui ho finito col venir meno.
La sola volta che mi fu cestinato un articolo riguardava La Pira e verteva grosso
modo sul tema ora assegnatomi dal prof. Catalano: la Repubblica fiorentina di
La Pira.
Di La Pira
conservo nel portafoglio l'immagine diffusa per il processo di canonizzazione,
accanto a quella di Padre Pio e di Fra Ginepro da Pompeiana, cappuccino e
cappellano militare mio amico, che confessò Mussolini nel dicembre '43.
E' possibile che i motivi della mia ammirazione per il Sindaco Santo divergano
da quelli dei suoi più vicini sostenitori, ma mi auguro non dispiaccia
la possibilità d'apprezzarlo da diversi punti di vista.
Dominante nella
mia vita è un'idea di grandezza italiana e mi è parso che Giorgio
La Pira l'abbia servita attraverso le iniziative di politica estera per la pace
nel Mediterraneo e nel mondo, promosse da un’ideale
Repubblica di Firenze, concepita senza modestia - in un'Italia ridimensionata
dalla sconfitta - come guida del genere umano messo a rischio di sopravvivenza
nei potenziali conflitti dell'era atomica.
Anche Enrico
Mattei, realizzatore con l'Eni della principale multinazionale italiana,
serviva idee di grandezza nazionale. Da La Pira venne ispirato non solo nel
rilevare a Firenze il Pignone, ma anche nell'innovativa politica petrolifera
avviata cointeressando, in dura competizione con le sette sorelle
anglo-americano-olandesi, i paesi in prevalenza islamici ove gli idrocarburi
venivano estratti. La Pira vantava d'avergli fatto conoscere Nasser, Bourguiba,
il re del Marocco, «con tutti i benefici che ne sono derivati per il
nostro settore energetico... qui da Firenze, con una lettera e un francobollo,
faccio quello che a Roma non si sognano neppure»[2].
La Pira fu tra i
primi a capire l'importanza del Terzo Mondo, dell'Islam rinascente, del dialogo
tra Occidente ed Oriente perché confidando che Dio sarebbe stato alla
lunga più forte di loro non temeva gli incontri coi comunisti, ma
comprese anche il ruolo al tempo stesso tradizionale e moderno del riformatore
De Gaulle, che da noi l'incultura e la malafede partitocratica degli anni '50 e
'60 demonizzava come un militare golpista e liberticida.
Avendo
subíto insieme a Randolfo Pacciardi accuse dello stesso genere per le
proposte presidenzialiste di Nuova Repubblica, riporterò le parole del
grande scrittore cattolico François Mauriac: «Je crois avec Péguy qu'une nation existe à la face du
Père, avec sa vocation, avec ses crimes. Et je crois [u.] que De Gaulle, à ce
moment du massacre algérien qui dure depuis cinq ans et qui
succède à tant d'autres, représente pour la France une
grâce. Peut-être une dernière grâce. C'est
l'idée qu'en a un homme politique étranger, qui est aussi un
homme de prière, un contemplait. Pourquoi ne pas le nommer? Il s'appelle La Pira»[3].
A sua volta Piero
Ottone in una biografia di Fanfani racconta: «L'11 febbraio [1958], festa
di Lourdes, La Pira aveva portato i coniugi Fanfani nel famoso santuario, in
pellegrinaggio. Incontrarono poi il cardinale di Lione; a Parigi discussero con
Mendès-France, al quale La Pira consigliò di entrare nel governo
di De Gaulle non appena il generale, come egli riteneva inevitabile, fosse stato
richiamato dal ritiro di Colombey-Ies-deux-Eglises. La Pira scrisse anche a De
Gaulle una lettera contenente proposte per la pacificazione mediterranea: si
ignorano le reazioni del generale»[4].
In realtà le reazioni del generale, chiamato di lì a poco al
potere, si sono viste nei fatti con la pace e la decolonizzazione conclusa in
Algeria, l'apertura verso il mondo arabo e i paesi emergenti, la suggestiva
proposta di un'Europa riallargata «dall'Atlantico agli Urali», ma
non al di là della Manica ove l'Inghilterra pareva troppo legata agli
Stati Uniti. Sul piano istituzionale la riforma gollista ha funzionato,
garantendo il ricambio democratico coi socialisti e le libertà, tanto
che nessuna forza politica seria manifestò più nostalgie
restauratrici del marasma in cui era sprofondata la Quarta repubblica.
Credo che la
Repubblica di La Pira, così magniloquente e fastosa nel colloquiare coi
re, gli statisti, i potenti del Mediterraneo, ma anche di tutta la Terra - e
del Cielo, giacché il Sindaco Santo scriveva al Papa - sia per alcuni
versi associabile nell'immaginario con d'Annunzio a Fiume, la
"città di vita" occupata da un poeta. Un gruppo d'ammiratori
di d'Annunzio accorsi a Fiume da varie parti del mondo ne presero in carico la
politica estera. Tra questi lo scrittore belga Léon Kochnitzky, ebreo
convertito al cattolicesimo; lo scrittore americano Henry Furst, anch'egli
cattolico per scelta di conversione; lo spericolato aviatore d'origine svizzera
Guido Keller, che nel novembre 1920 getterà in volo un pitale su
Montecitorio, ma anche una rosa bianca sul Vaticano con dedica “a Frate
Francesco”; il produttore cinematografico Ludovico Toeplitz de Grand Ry,
figlio del presidente della Banca Commerciale Italiana d'origine
ebraico-polacca; a cui andrebbe aggiunto un altro grande patriota italiano
d'origine ebraica, l'imprenditore siderurgico Oscar Sinigaglia, collettore di
fondi per l'impresa fiumana. Cercarono dei contatti, come scriverà
Toeplitz, «con tutti i malcontenti
nei vari paesi del mondo»:
dallo scrittore antibellicista francese Barbusse al ministro degli esteri
sovietico Cicerin, all’egiziano Zagloul Pascià capo del partito
dei Fellah, a Kemal Pascià capo dei Giovani Turchi, al presidente del
parlamento irlandese. L'impresa fiumana, ha ricordato Claudia Salaris[5],
è stata recentemente paragonata dall'americano Hakim Bey in TAZ - Zone temporaneamente autonome, un
classico del pensiero ribellistico-libertario e cyberpunk, all'insurrezione
sessantottina a Parigi. A Fiume l'Ufficio Esteri tentò di promuovere una
Lega volta, secondo Kochnitzky, a «raggruppare
in un fascio compatto le forze di tutti gli oppressi della terra: popoli,
nazioni, razze, e con questo mezzo combattere
e vincere gli organismi sopraffattori ed imperialisti, i quali (come l'Impero
britannico per esempio) mirano ad assoggettare alla loro onnipotenza
finanziaria i più sacri sentimenti degli uomini: fede, amor patrio,
dignità individuale e sociale».
Può
interessare, per analogie oggi trasferibili dalla City di Londra a Wall Street,
un appello del 1920 in cui il comando di Fiume constatava «che la pseudo-Società delle Nazioni
in realtà altro non è fuorché
uno strumento del quale l'Impero Britannico e gli altri stati capitalisti
pretendono valersi ad assicurar più pienamente l'egemonia loro sul mondo;
che la pseudo-Società delle Nazioni rappresenta virtualmente un
conglomerato, senza forza propria, d'interessi strategici, bancari o coloniali».
L'appello dei legionari fiumani era rivolto ad Albania, Croazia, Montenegro,
irredenti tedeschi soggetti alla Polonia, Catalani, Maltesi, Gibilterra,
Irlanda, Fiamminghi, e poi Islam, Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto,
Siria, Palestina, Mesopotamia, India, Persia, Afghanistan, razze oppresse
(Cinesi in California, Negri d'America), problema israelitico, Paesi lesi
ingiustamente dalla Conferenza di Versailles. Non è una anticipazione
del Colloquio Mediterraneo aperto da La Pira a Firenze il 4 ottobre 1958?
Ci sono altri
tratti di somiglianza tra la poetica occupazione di Fiume e la Repubblica di La
Pira nella Laude della povertà di d'Annunzio, che amava assumere
atteggiamenti da terziario francescano, «per il Natale fiumano del 1919». Il poeta notava: «Nel fare un'offerta ai poveri di Fiume non
ci si può difendere da un senso di timidezza che sembra quasi vergogna.
I poveri di Fiume non sono i prediletti di Santo Francesco? Come il
Seràfico, essi hanno dato alla povertà l'aspetto raggiante della
magnificenza». D'Annunzio ricordava che i poveri di Fiume si erano
tolto il pane di bocca per sfamare i prigionieri italiani dopo Caporetto e
osservava: «Come per il Santo di Assisi, per i poverelli
di Fiume ci fu sempre qualcuno più povero di loro. E ciascuno merita in
premio il cordiglio francescano, e quel Paradiso
dove chi non ha niente ha tutto».
Per così
concludere: «Come si può
dunque senza tremito offrire a questi ricchi sorridenti? L'altro giorno uno di
loro voleva baciarmi la mano; e, come io mi difendevo, egli cadde in ginocchio.
Allora anch’io me gli misi in ginocchio davanti; e rimanemmo così
un poco, a faccia a faccia, come quei donatori nelle vecchie tavole d'altare. Io ero da meno. E perciò non volli rialzarmi se non dopo di
lui. Così oggi chiedo perdono ai poveri di Fiume. Non offro il denaro,
che è scarso e vile.
Offro il mio amore che s'inginocchia».
Ci sono doti di
sublime istrione nel poeta che si lasciò divorare dalla
sensualità, mentre il Sindaco Santo se ne difendeva. Ma la predilezione
della povertà poteva assumere anche in La Pira, per svolgere compiti
edificanti, aspetti spettacolari. Fanfani in un libro su Giorgio La Pira[6],
ricorda che proprio dalla messa dei poveri di Firenze La Pira faceva partire
messaggi indirizzati a papi, governanti, amministratori, così collegando
direttamente i più umili coi più influenti. L'associazione
dannunziana tra povertà, carità e magnificenza si ripeteva in La
Pira, che donava ai poveri l'intero stipendio di professore di diritto romano,
ma vivendo la sua indigenza tra il convento di San Marco, con celle affrescate
dal Beato Angelico, e lo scenario fastoso di Palazzo Vecchio, ove accoglieva
gli ospiti nel Salone dei Cinquecento con squilli di trombe d'argento suonate
da valletti comunali in costumi rinascimentali. Si può anche accostare
la ricorrente invocazione Spes contra
spem di La Pira a quella altrettanto frequente nel periodo fiumano in
d'Annunzio: Si Spiritus pro nobis qui contra nos?
Il confronto fra
d'Annunzio a Fiume e La Pira a Firenze, non può d'altra parte ignorare
la giovanile attrazione di La Pira per d'Annunzio, ritiratosi dopo Fiume al
Vittoriale, a Gardone, oltre che per il futurismo e il primo fascismo. Ne
testimoniano le Lettere a Salvatore
Pugliatti curate da Francesco Mercadante per le Edizioni Studium nel 1980.
Particolarmente significativo è inoltre l'appunto Mosca e Roma, dove Mosca è rappresentata con Lenin
dell'epocale esperimento bolscevico e Roma da un Mussolini che secondo La Pira
avrebbe dovuto echeggiare d'Annunzio. In Mosca e Roma La Pira prese le distanze
da Mussolini, subito dopo l'intervento del 16 novembre 1922 nell’“aula
sorda e grigia” di Montecitorio, trovandolo deludente perché non
rispecchiava l'idea dannunziana di grandezza italiana. Vi rimproverò a
Mussolini: «pensavamo che voi
provenivate dalla clausura di Gardone, dall'intimo della significazione romana:
credevamo che fosse per restaurarsi la romanità potente in confronto di
Mosca potente. Bisogna essere un Lenin all'altro polo: il grande, l'immortale
giungimento era il porre il dissidio del mondo con tutta nettezza, era il dire
la parola nostra, di noi che oltre essere italiani siamo i portatori di un
pensiero molto grande. E questo non poteva essere fatto che in Italia,
perché Roma è in Italia. Mussolini poteva farlo se avesse
guardato da tale altezza».
Bisogna tenere
ovviamente conto che sono appunti d'un diciottenne e che l'anno dopo anche
l'infatuazione dannunziana verrà superata. Ma rimarrà persistente
l'idea di missione incarnata nelle città storiche. Tra queste, accanto a
Roma cattolica e Mosca, cui ha continuato a attribuire profondi significati, a
Gerusalemme, sede delle tre rissose famiglie d'Abramo, Firenze è stata
la base della sua azione di pace, la città che gli si è data,
l'ha assecondato, che lo ha addirittura dotato di un suo quotidiano, che si
è trasformata per lui in motore di politica estera più attivo della
Capitale e ne ha persino ricavato vantaggi, perché essere generosi di
solito è più conveniente che essere gretti.
Penso al Pignone,
che senza di lui avrebbe chiuso mettendo in difficoltà 1750 famiglie, ed
è invece tuttora un'impresa d'avanguardia anche se consegnata dalla moda
privatizzatrice degli anni '90 a una multinazionale statunitense. Nel 1953,
quando convinse Mattei a rilevare il Pignone, che l'industriale Marinotti aveva
deciso di chiudere, l'iniziativa caritatevole venne appoggiata da Pio XII,
mentre la deplorava don Sturzo come preludio al socialismo di Stato. In
realtà riprendeva, in chiave evangelica e non progressista, la politica
dei salvataggi praticata con l'Iri negli anni Trenta. Dico non progressista,
perché il salvataggio rispondeva più ad attese miracolistiche che non a freddi schemi d'utilitarismo
economicista. Il progressismo mette il progresso contro la tradizione, mentre
per La Pira ne era lo svolgimento.
La concezione
lapiriana della guerra diventata impossibile perché nucleare è in
parte già sorpassata. In mano alle cinque potenze uscite vittoriose
dalla seconda guerra mondiale l'equilibrio del terrore ha garantito tra i
più forti la pace, ma le armi atomiche, quale estrema risorsa dei
terroristi, sono ormai declassate a minaccia dei poveri, del Terzo Mondo,
contro il ricco Occidente. Tuttavia una conversione all'idea della pace si
è radicata nei popoli economicamente e culturalmente avanzati ed ha
assunto, con qualche imbarazzante eccezione nel gruppo anglosassone, le caratteristiche
d'una vera svolta antropologica. Per migliaia d'anni l'espansione territoriale
della Polis o della Nazione fu tra gli obiettivi più qualificanti per i
capi politici. Oggi non più. Credo che il compito di conversione alla
pace abbia concorso al lungo successo politico della
Democrazia Cristiana, mentre la presenza d'un forte partito cattolico non
occorreva più per difendere la Chiesa e i credenti dal prepotere
anticlericale. Giacché l'anticlericalismo aggressivo in Italia è
stato assai più dei liberali nell'800, che non dei comunisti nella
seconda parte del 900. La concezione della pace cristiana parve tanto
più dignitosa e perciò convincente, in quanto si presentava
distinta dall'umiliazione della sconfitta. La Repubblica di Giorgio La Pira ha
assunto in questa svolta funzioni di capitale importanza, proprio per il
protagonismo assegnato a Firenze e all'Italia nella costruzione di pace. Ruolo
dinamico, attivo, a suo modo vincente, che l'Italia deve proseguire anche col
professionale coraggio dei suoi soldati. Perché, pur privo d'ogni
jattanza, La Pira non concepiva la pace come prodotto della vigliaccheria e
rispettava i soldati.
Lo ha ricordato
Pierangelo Catalano con una riflessione per me emozionante sui centurioni nel
saggio Da Roma a Betlemme. Vi citava
una delle ultime lettere di La Pira a Fanfani con la scoperta del libro Il Mistero di Roma del Padre
Redentorista Benedetto D'Orazio ove si osserva: «Dobbiamo dire che i primi germi della fede cristiana, che poi ebbero in
Roma tanto meraviglioso sviluppo, furono posti nel cuore di militari e
funzionari romani residenti nelle province orientali. Ricordo qui il centurione
di Cafarnao, il centurione del Calvario, il centurione Cornelio con i soldati
della coorte italica, il proconsole di Cipro Sergio Paolo, il centurione Giulio
che accompagnò Paolo a Roma, il tribuno Lisia con i legionari del
presidio di Gerusalemme, e il proconsole di Corinto Gallione, che difesero
Paolo...». Tra questi ha una posizione particolare
il centurione di Cafarnao, le cui parole si ripetono nella Messa:
«Signore non sono degno che tu entri nella mia casa, ma dì una
sola parola...». A Cafarnao, nella sinagoga ove è passato
Gesù, le guide israeliane mostrano con una punta di divertito
compiacimento un antico rilievo solare di svastica. Importante è
affermare la necessità della pace senza cadere nelle semplificazioni banali, volgari, insultanti di certe degenerazioni
del pacifismo. Ricordando che sul Cielo dei centurioni vegliava il Dio degli
Eserciti, che solo dopo Hiroshima e il Concilio Vaticano II verrà meno
militarmente tradotto in Dio dell'Universo.