N. 8 – 2009 – Memorie//Africa-Romana
Università di Messina
Produzioni
e flussi commerciali fra
l’Africa
e la Sicilia in età imperiale
e
tardoantica
(pubblicato in L’Africa romana. Le ricchezze dell’Africa. Risorse,
produzioni, scambi. Atti del XVII convegno di studio. Sevilla, 14-17 dicembre 2006, a cura di J.
González, P. Ruggeri, C. Vismara, R. Zucca, Roma, Carocci editore, 2008,
II, pp. 1517-1525)
La centralità mediterranea della Sicilia, sulla quale
giustamente si è più volte insistito negli studi recenti[1],
centralità che dura fino all’età vandalica[2],
ha fatto sì che Sicilia e Africa, poste l’una di fronte
all’altra nel Mare nostrum,
fossero da sempre legate da interscambi culturali e commerciali[3].
Come ha rilevato D. Vera[4],
«si può dire che Sicilia e Africa coprano ruoli sostanzialmente
diversi, ma complementari e interdipendenti» nei riguardi di Roma. Per il
tramite della Sicilia, si era stabilito un profondo nesso, ben evidenziato da
M. Mazza[5],
«costruito dalla grande aristocrazia romano-siciliana», fra Roma,
Sicilia e Africa settentrionale[6].
[p. 1518] L’Africa era, com’è noto, dal i secolo alla metà del v, la principale fornitrice di Roma in
campo frumentario, mentre in Sicilia prosperava il commercio libero del grano[7].
La Sicilia, anch’essa tradizionalmente produttrice di grano e a lungo
fornitrice di Roma, presenta una notevole crescita economica soprattutto fra il
iv secolo e la prima metà
del v[8].
L’estensione della cultura frumentaria in Sicilia si ha soprattutto in
seguito alla fondazione di Costantinopoli, avvenimento che determina lo
smistamento del grano egiziano verso questa città[9].
La Sicilia però non era solo produttrice di grano, derrata che non ha
nessun ruolo nei rapporti fra Sicilia a Africa, ma anche di merci di vario
tipo, come dimostrano i continui ritrovamenti archeologici. Molti di questi
prodotti venivano esportati verso l’Africa.
Assai utili per documentare i legami fra
Sicilia e Africa sono i dati che si ricavano dalla ricerca epigrafica. Infatti,
i documenti epigrafici conservano la testimonianza di diverse famiglie
interessate ai traffici commerciali fra le due province. Tali dati sono stati
studiati soprattutto dalla Bivona[10].
Si tratta di testimonianze relative alle gentes
di Sicilia in rapporto con quelle omonime dell’Africa[11].
È [p. 1519] questo in particolare il caso della gens Cestia e della gens Grania, attestate a Thermae e molto diffuse in varie zone
della costa africana (Numidia, Mauretania, Proconsolare), le cui fortune si
erano formate con il commercio del vino e del grano. Ancora, la gens Maesia, nota in Sicilia da numerose
iscrizioni, poco attestata in altre province, ma abbondantemente in Africa[12],
segno dei frequenti rapporti commerciali fra l’Africa e la Sicilia
occidentale. E inoltre la gens Cassia.
Un personaggio di tale gens, noto da
un’iscrizione di Mazzara[13],
L. Cassius Manilianus, e attestato
anche a Furnos nella Proconsolare,
sembra originario di Lilibeo. Sebbene la gens
Cassia sia poco nota in Sicilia, tuttavia in alcune tegulae sulfuris agrigentine è attestata l’officina Cassiana, certamente da collegare con la suddetta gens; tale officina è associata alla famiglia degli Annii, che aveva il monopolio
nell’estrazione dello zolfo. La famiglia dei Cassii Manilii, originaria della Proconsularis, con tutta probabilità si era trasferita in
Sicilia perché anch’essa interessata all’estrazione dello
zolfo, una delle materie prime che venivano esportate in Africa.
Oltre allo zolfo, la Sicilia dovette esportare verso
l’Africa sale[14],
legname[15],
allume delle Isole Eolie[16],
probabilmente zafferano[17],
miele, cuoio, delle cui esportazioni non rimangono però tracce
materiali, tessuti, la cui produzione ed esportazione sono [p. 1520]
testimoniate dai piombi mercantili[18],
ceramica Campana C, un tipo di ceramica di colore grigio all’esterno,
coperta da una patina di vernice nera, la cui esportazione è confermata
da ritrovamenti, oltre che in altre province, anche in Africa[19].
Ma la merce maggiormente esportata era il vino[20],
oggetto di intensa attività commerciale, testimoniata soprattutto in
età imperiale e tardoantica. A Cartagine sono state ritrovate diverse
anfore contenenti vini siciliani molto pregiati[21].
L’esportazione di vino dalla Sicilia potrebbe risalire alla tarda
repubblica; essa, in ogni caso, continuò fino all’età
tardoantica, come attesta la diffusione di un tipo di contenitore, che per
molto tempo era stato attribuito all’area orientale[22],
e che sembra invece essere di produzione magnogreca[23].
Si tratta delle anfore di tipo Keay lii,
che, ampiamente attestate in Sicilia e Calabria, sono diffuse in tutta
l’area mediterranea, e sono presenti, come si è detto, a
Cartagine, a testimonianza di esportazioni vinarie della Sicilia verso
l’Africa[24].
Questa delle Keay lii è
una preziosa testimonianza delle esportazioni di vino siciliano in età
tardoantica. Ma tali esportazioni, come si è accennato, dovevano essere
abituali per la Sicilia a partire dall’età ellenistica, per tutta
l’età repubblicana e imperiale. Fra i più noti vini
siciliani erano il Tauromenitanum e il
Mamertinum. I contenitori erano in un
primo momento le anfore greco-italiche, la cui origine siciliana è ormai
riconosciuta, sostituite poi dalle Dressel 1 e dalle Dressel 2-4 e 6, e in
seguito, come si è detto, dalle Keay lii.
Nei commerci marittimi fra la Sicilia e l’Africa, un
posto considerevole [p. 1521] spetta a Pantelleria, l’antica Cossyra, che, per la sua posizione
costituiva un ’ponte’ nel Canale di Sicilia, un punto nevralgico
nel collegamento fra la Sicilia e Cartagine[25],
così come lo era Caucana nella Sicilia sud-orientale[26].
Tale posizione favoriva, naturalmente, gli scambi commerciali. Importanti erano
nell’isola, com’è noto, le officine ceramiche, a cui, negli
ultimi tempi, si sta riservando maggiore attenzione, produttrici, fra il i e il vi secolo, di oggetti di uso comune (scodelle, piatti,
pentole), particolarmente resistenti al fuoco, attestati, oltre che in Sicilia,
a Leptis, a Djerba e in tutta la
costa africana, da Sabratha a
Cartagine[27].
A tale Pantellerian Ware è stato dato particolare rilievo in alcune
relazioni del xiv Convegno
sull’Africa romana, alle quali rinvio[28].
Recentemente questo tipo di ceramica è stato ritrovato nel relitto di
Scauri, messo in luce in una campagna di scavi effettuati dalla Soprintendenza
di Trapani[29].
Il relitto, databile al iv
secolo, contiene per la maggior parte tre tipologie di oggetti: pentole
cilindriche a fondo arrotondato e lati convessi, scodelle troncoconiche con
base piatta e orlo rivoltato, e coperchi con presa a disco; sono presenti,
anche se in misura minore, anfore del tipo Late Roman 2 ed africane grandi
nonché alcuni frammenti di piatti in ceramica sigillata africana D. La
presenza di quest’ultimo tipo di ceramica potrebbe indicare – anche
se, per il momento si tratta solo di ipotesi – un porto di partenza
africano, uno scalo a Pantelleria, per caricare la Pantellerian Ware, e un
probabile proseguimento verso la Sicilia[30].
Com’è stato osservato[31],
«il relitto rafforza la visione del vivace dinamismo che sottende alla
diffusione di questa ceramica nel [p. 1522] Mediterraneo» e in
particolare lungo la rotta Sicilia-PantelleriaAfrica. Da Pantelleria era
esportata verso l’Africa anche la pietra vulcanica; basalto di Cossyra è attestato a Thuburbo Maius e lungo la costa della Tunisia da Utica a Thapsos[32].
In direzione inversa, dall’Africa verso la Sicilia le
attestazioni appaiono più abbondanti. L’Africa, com’è
noto, cominciò ad esportare una gran quantità di prodotti
agricoli, in particolare grano e olio, a partire dal i secolo; contemporaneamente, riuscì ad inserire nei
mercati i suoi prodotti artigianali, come le ceramiche[33].
Questo processo si intensificò nei secoli ii e iii e
particolarmente nel tardo impero. Soprattutto l’olio divenne il prodotto
di punta dell’economia africana[34].
A partire dalla media età imperiale l’olio e il garum provenienti dalle province
africane soppiantarono progressivamente quelli della penisola iberica[35].
Inoltre, riscossero molto successo in
Sicilia le lucerne prodotte dagli ateliers africani. Fra le merci esportate
dall’Africa in Sicilia, infatti, erano in primo luogo le lucerne della
Proconsolare[36],
che, com’è stato osservato, a partire dal ii secolo, ebbe il predominio in tutti i campi del commercio
in ambito mediterraneo[37].
La percentuale maggiore delle lucerne rinvenute in Sicilia, il 27,08%, riguarda
forme che, dal II secolo, sono prodotte da officine africane, come sembra
dedursi dalle firme riconosciute; fra il ii
e il iii secolo si ha [p. 1523]
un 4,34% di lucerne con becco a cuore in ceramica comune, ma anche in terra sigillata
A, proveniente da officine della Tunisia centrale; fra iii e v secolo
prevalgono altri tipi di lucerne dal becco arrotondato, quelle africane di
forma viii e soprattutto quelle
tripolitane. Il momento di maggiore importazione di lucerne si ha fra v e vii
secolo con la forma x, la
africana classica[38].
Tali lucerne, come anche le tegole, riportano delle scritte; interessante
appare soprattutto un gruppo di lucerne rinvenuto a Marsala, che presentano
firme particolarmente diffuse nell’Africa settentrionale. Così
nelle tegole della Sicilia occidentale appare il nome di Quoddeusvult, riconducibile all’area africana; inoltre
è notevole la presenza in Sicilia di una tegola col nome di L. Minicius Natalis, personaggio che
aveva possedimenti in Africa[39].
Considerevole è pure l’importazione dall’Africa in Sicilia
di ceramiche fini da mensa. Per i primi tre secoli dell’impero abbondante
appare l’importazione di terra sigillata A; nel iv-v secolo prevale la terra sigillata D, seguita da forme
più tarde della terra sigillata C. I centri di produzione della terra
sigillata D si trovano principalmente nella Tunisia settentrionale, nella valle
del Bagradas (a Thuburbo Minus, ad Uthina, a Pheradi Maius); ma anche nella Tunisia centrale, che ha invece
l’esclusiva della terra sigillata C. Nella Tunisia centrale e meridionale
erano ubicate le officine della terra sigillata A e D[40].
Per quanto riguarda le ceramiche comuni da mensa, esse appaiono in parte
importate dall’Africa, in parte prodotte localmente in Sicilia con le stesse
caratteristiche tipologiche[41].
I centri di produzione sono localizzabili in Mauretania e soprattutto in
Proconsolare; le botteghe si concentravano nella Tunisia settentrionale, in
aree costiere, vicino ai porti più importanti[42].
Un’interessante testimonianza dell’importazione di merci africane
di questo tipo viene da una recente scoperta a Lipari: si tratta di un vaso,
databile al ii secolo, in
sigillata chiara A, una raffinata produzione tunisina, del tipo Hayes ii, indizio, fra l’altro, del
tenore di vita piuttosto elevato di cui godeva la classe agiata
dell’isola[43].
[p. 1524] Segno del benessere raggiunto dalla Sicilia sono
anche le grandi produzioni musive, che ne ornavano le ville; ed è cosa
nota la forte influenza delle maestranze africane nell’esecuzione dei
mosaici nelle ville siciliane a partire dal ii
secolo[44].
Ma per avere un’idea più completa delle
dimensioni del commercio fra l’Africa e la Sicilia non si può non
tener conto dei dati provenienti dall’archeologia subacquea. Molte sono
infatti le attestazioni di merci africane nei relitti rinvenuti nei mari della
Sicilia, anche se, naturalmente, bisogna tener conto che non tutte le navi
avevano come destinazione la Sicilia. Ricordiamo i principali relitti che
attestano la presenza di merci africane nei mari di Sicilia: il relitto
Plemmirio B, nei pressi di Siracusa, databile al 200 d.C., che contiene
materiale ceramico ed anforico, proveniente dalla Tunisia e da altre province
africane[45];
il relitto di Camarina A, databile al 175-200, con un carico di anfore di tipo
Africana i, contenenti vino e
salsa di pesce dalla Proconsolare, insieme a due colonne e blocchi di marmo
giallo dalle miniere di Chemtou[46];
il relitto individuato ad Ustica in occasione delle indagini per il noto
disastro aereo, a 3.200 m. di profondità, con un carico di anfore
africane databili al iii secolo[47];
il relitto di Lampedusa, databile al 300-350, con un carico di anfore, molte
delle quali del tipo Africana ii[48];
il relitto di Seccagrande, nei pressi dell’antica Heraclea Minoa, nel [p. 1525] quale sono stati rinvenuti oggetti
ceramici di pregevole fattura, fra cui un frammento di sigillata nordafricana.
Proprio questo frammento, appartenente ad un piatto, presenta un Bacco ottenuto
con l’impressione di un punzone; la stessa figura, sovrapponibile,
è conservata nel Museo del Bardo e risale al v secolo d.C.[49].
Ancora: molti relitti nei pressi di Marsiglia attestano il commercio di
prodotti nord-africani (anfore cilindriche per salagioni e olio, sigillata
chiara D)[50],
che probabilmente giungevano in Narbonese dopo aver costeggiato la Sicilia e
seguito la rotta attraverso le Bocche di Bonifacio. É stato peraltro
osservato che gli stessi prodotti africani commercializzati in Sicilia sono
attestati anche in Sardegna[51].
Di tali importazioni è traccia non solo nei ritrovamenti in situ, ma anche nei relitti lungo la
coste o nei mari prospicienti le due isole. Ulteriore testimonianza del
commercio di transito dall’Africa verso Roma è un relitto,
rinvenuto a grande profondità nello Stretto di Sicilia, denominato
«Isis», databile, grazie ad una moneta di Costanzo, alla
metà del iv secolo; la
nave, di dimensioni piuttosto ridotte, trasportava olio e salsa di pesce[52].
Da quanto si è detto emerge la notevole
vivacità degli scambi interregionali tra Africa e Sicilia, le quali,
oltre a commerciare molto intensamente fra loro, erano anche coinvolte nei
flussi dei traffici che dalle province portavano a Roma. Le testimonianze
fornite dall’archeologia subacquea nei mari intorno alla Sicilia provano,
molto di più che non le fonti storiografiche, l’esistenza di un
considerevole commercio di transito che dovette interessare l’isola,
relativo a merci che in massima parte provenivano dall’Africa. E si
trattava di merci, quali il grano, l’olio, il garum, le ceramiche, i marmi, di indubbia importanza sia per quanto
riguarda le importazioni dirette tra Africa e Sicilia, sia per quanto riguarda
gli approvvigionamenti di Roma.
[1] Cfr., fra gli altri, L. Cracco Ruggini, La Sicilia tra Roma e Bisanzio, in Aa. Vv., Storia della
Sicilia, iii, Napoli 1980,
pp. 3-96, in partic. pp. 7 ss.; Ead., Sicilia iii/iv
secolo: il volto della non città tra iii e iv secolo
d.C., in Città e contado,
«Kokalos», 28-29, 1982-83, pp. 477-515, in partic. pp. 479 ss.; M. Mazza, Economia e società nella Sicilia romana,
«Kokalos», 26-27, 1980-81, pp. 292-353, in partic. pp. 296; Id., La Sicilia fra Tardo-antico e Altomedioevo, in La Sicilia rupestre nel contesto delle civiltà mediterranee,
Atti Sesto Convegno Internazionale di studio sulla civiltà rupestre
medievale nel Mezzogiorno d’Italia (Catania-Pantalica-Ispica, 7-12 sett.
1981), Galatina 1986, pp. 43-84, in partic. pp. 46 ss.; pp. 71 ss.; Id., L’economia siciliana tra Impero e Tardoimpero, in Aa. Vv., Contributi per una storia economica della Sicilia, Palermo 1987,
pp. 15-62, in partic. pp. 47 ss.
[2] M. Mazza,
I Vandali, la Sicilia e il Mediterraneo
nella Tarda Antichità, «Kokalos», 43-44, 1997-98, pp.
107-38, in partic. pp. 108 ss.
[3] Ho in parte affrontato il problema in una
relazione tenuta anni fa al xiv
Convegno sull’Africa romana, cfr. L. De
Salvo, La Sicilia e le province
occidentali in età imperiale e tardoantica, in L’Africa romana xiv,
pp. 1601-16.
[4] D. Vera,
Fra Egitto ed Africa, fra Roma e Costantinopoli, fra annona e commercio: la
Sicilia nel Mediterraneo tardoantico, «Kokalos», 43-44, cit.,
p. 37.
[6] Il nesso profondo fra Sicilia e Africa
è stato più volte sottolineato, cfr., ad es., Sicilia ed Africa, Atti del iii Convegno Internazionale di Studi
sulla Sicilia antica (Palermo-Tunisi 1972), «Kokalos», 18-19,
1972-73, in partic. il contributo di G. Ch.
Picard, Rapports de la Sicile et de l’Afrique pendant l’empire
romain, pp. 108-19; cfr. anche G. Salmeri,
Sui rapporti tra Sicilia e Africa in
età romana repubblicana e imperiale , in L’Africa romana iii,
pp. 397-412.
[7] Vera,
Fra Egitto ed Africa, cit.,
pp. 37 ss. La Sicilia riprende il ruolo annonario dopo il 429, al momento del
passaggio in Africa dei Vandali di Genserico, mentre l’Africa ne esce nel
455.
[8] Cfr. R. M. Bonacasa Carra, Ceramiche
di produzione locale e ceramiche d’importazione nella Sicilia tardoantica,
«Kokalos», 43-44, cit., p. 380 e n. 10.
[9] Vera,
Fra Egitto ed Africa, cit., p.
56, cfr. p. 59 e Id., Aristocrazia romana ed economie provinciali
nell’Italia tardoantica: il caso siciliano, «QC», 10,
1989, p. 160 ss.
[10] L. Bivona,
Appunti di onomastica termitana, in Scritti sul mondo antico in memoria di F.
Grosso, a cura di L. Gasperini,
Roma 1981, pp. 39-53, in partic. pp. 46 ss.; Ead.,
La gens Cassia fra Africa e
Sicilia, in L’Africa romana iv, pp. 489-92; Ead., Un nuovo quaestor p(rovinciae) S(iciliae) e curator R. P. a Lilibeo: L.
Cassius Manilius c. v., «Kokalos», 33, 1987, pp. 11-23; Ead., Africa e Sicilia: prospettive di ricerca nel campo dell’epigrafia,
in Magna Grecia e Sicilia. Stato degli
studi e prospettive di ricerca, a cura di M. Barra Bagnasco, E. De
Miro, A. Pinzone
(Pelorias, 4), Messina 1999, pp. 439-45; Ead.,
Ancora sui Cestii d’Africa,
in L’Africa romana iii, pp. 97-100.
[11] Interessanti i rapporti fra le gentes di Sicilia e quelle omonime
dell’Africa soprattutto per la menzione della tribù, che in
Sicilia e Africa appare uguale, mentre è diversa in altre zone
dell’Italia e delle province, cfr. Bivona,
Africa e Sicilia, cit., p. 440.
[12] L. Bivona,
Note sulla gens Maesia nella Sicilia
occidentale, in Fili@av Ca@rin, Miscellanea di studi classici in onore di E.
Manni, vol. i, Roma 1980, pp.
233-42.
[14] Il sale era prodotto nelle due
varietà di minerale e marino. Della prima varietà esistevano
almeno due miniere, una nei pressi di Agrigento e una vicino a Centuripe (Plin., nat., 31, 85 e 86). Dovevano esserci numerosi stabilimenti anche di
sale marino, tra cui quello di Gela, quello di Pachino e quello del lago Cocainus, forse vicino ad Agrigento (Plin., nat., 31, 86, per Gela; Sol.,
5, 18, per Pachino; Plin., nat., 31, 73, per Agrigento).
[15] La Sicilia era ricca di boschi, che, tra
le altre funzioni trattenevano le acque fluviali. Il legname, fra
l’altro, veniva utilizzato nei cantieri navali, cfr. B. Pace, Arte e civiltà nell’Italia antica, Città di
Castello 1958, vol. I, p. 407. Esso veniva esportato sicuramente in Africa,
come dimostra l’antica testimonianza di Cesare, il quale, agli inizi del
46 a.C., inviò litteras in
Siciliam nuntiosque..., ut sibi gratis materiemque cogerent ad arietes, cuius
inopia in Africa esset (Bell. Afr.,
20). Sappiamo che l’esportazione continuò anche in epoca
musulmana, cfr. M. Lombard, Le bois dans la Méditerranée
musulmane, «AnnalesESC», 14, 1959, p. 23.
[17] Lo zafferano era importantissimo
nell’antichità come colorante naturale, cfr. Pace, Arte e civiltà nella Sicilia, cit., p. 408.
[21] V. Scramuzza,
Roman Sicily, in ESAR, ed. by T. Frank,
Baltimore 1937, p. 350 s.; P. Romanelli,
Storia delle province romane
d’Africa, Roma 1959, p. 217 s.
[22] S. J. Keay, Late Roman Amphorae in the Western Mediterranean (BAR Int. Ser.,
136), Oxford 1984, pp. 267 s.
[23] P. Arthur, Some observations on the
economy of Bruttium under the Later Roman Empire, «JRA», 2,
1989, pp. 133-42. La presenza
di fornaci sulla costa orientale della Sicilia, a Naxos, in contrada Mastrociccio e in varie località della
costa calabra (Pellaro-Fiumara di Lume, Lazzàro Vecchio, Marina di S.
Lorenzo) rende indubbia la produzione nell’area dello Stretto di questo
tipo di anfore.
[24] Cfr. L. De
Salvo, Il vino dello Stretto, in
Archeologia del Mediterraneo. Studi in onore di E. De Miro, Roma 2003, pp.
271-3; Ead., Il commercio in età romana e tardoantica, in Lo Stretto di Messina
nell’Antichità, a cura di F. Ghedini,
J. Bonetto, A. R. Ghiotto, F. Rinaldi, Roma 2005, pp. 175 ss.
[26] G. Uggeri,
Itinerari e strade, rotte, porti e scali nella Sicilia tardoantica,
«Kokalos», 43-44, cit., p. 333.
[27] Wilson,
Sicily, cit., pp. 257 ss.; A. Mosca, Cossyra fra Africa e Sicilia. Aspetti della sua economia, in L’Africa romana xii, pp. 1469-78; cfr. anche G. Uggeri, Relazioni tra nord Africa e Sicilia in età vandalica, ibid., p. 1465.
[28] Si tratta degli interventi di A. Monti, S. Massa, R. Baldassarri e S. Fontana, S. Santoro, tutti in L’Africa romana xiv, rispettivamente alle pp.
935-42; 943-52; 953-90; 991-1004; cfr., anche, per tutti i problemi relativi a
questo tipo di ceramica, Pantellerian
Ware. Archeologia subacquea e ceramiche da fuoco a Pantelleria, a cura di
S. Santoro Bianchi, G. Guiducci, S. Tusa,
Palermo 2003.
[29] Cfr. la relazione di S. Tusa alla xiv Rassegna Internazionale di Archeologia subacquea di Naxos
(ottobre 2000).
[30] S. Tusa,
Archeologia subacquea nell’area del
porto di Scauri, in Santoro Bianchi,
Guiducci, Tusa, Pantellerian Ware,
cit., pp. 48-51.
[33] C. Panella,
Le anfore di Cartagine: nuovi elementi
per la ricostruzione dei flussi commerciali nel Mediterraneo in età
imperiale romana, «Opus», 2, 1983, pp. 53-74. È
interessante osservare, come ha fatto D. Vera (Tra Egitto ed Africa, cit., p. 53), che «i centri di
produzione delle ceramiche africane coincidono con le aree olivicole e nel
tardoantico si spostano gradualmente dalle coste verso l’interno della
Proconsolare e della Bizacena insieme agli impianti oleari», cfr. H. Camps-Fabrer, L’olivier et l’huile dans l’Afrique romaine,
Alger 1953; C. Panella, Merci e scambi nel Mediterraneo tardoantico,
in Storia di Roma. L’età
tardoantica, a cura di A. Carandini,
L. Cracco Ruggini, A. Giardina, vol. iii, 2, Torino 1993, p. 628.
[34] Cfr. Vera,
Aristocrazia romana ed economie
provinciali, cit., p. 165; Id.,
Produzioni e flussi commerciali,
cit., p. 71 e n. 154.
[35] M. Denaro,
La distribuzione delle anfore
ellenistico-romane in Sicilia (iii
sec. a.C. iii sec. d.C.),
«Kokalos», 41, 1995, p. 208.
[36] Cfr. L. Anselmino,
Le lucerne tardoantiche: produzione e
cronologia, in Società romana
e impero tardoantico, a cura di A. Giardina,
Roma-Bari 1986, p. 229; C. Pavolini,
La circolazione delle lucerne in terra
sigillata africana, ibid., p.
243.
[37] A. Carandini,
Produzione agricola e produzione ceramica
nell’Africa di età imperiale, «Studi Miscellanei»,
15, 1970, pp. 95-119; Panella, Merci e scambi, cit., pp. 624 ss.
[41] Bonacasa
Carra, Ceramiche di produzione
locale, cit., pp. 388 ss. Sulla importazione di ceramiche africane in
Sicilia, cfr. anche Wilson, Sicily, cit., pp. 254, 258.
[42] Cfr. M. Balzano,
A. Cavilli (a cura di), Ceramica
romana. Guida allo studio, vol. ii,
Roma 1995, pp. 21 ss.
[43] A. Ollà,
Un esemplare di forma Hayes ii a Lipari, in Nuovi studi di archeologia eoliana, a
cura di U. spigo, M. C. Martinelli, Messina 2000, pp. 87-9.
[44] Cfr. A. Di
Vita, La villa di Piazza Armerina
e l’arte musiva in Sicilia, «Kokalos», 18-19, 1972-73,
pp. 251-61; S. Settis, Per l’interpretazione di Piazza
Armerina, «MEFRA», 87, 1975, pp. 873-994; Mazza, Economia e società nella Sicilia romana, cit., p. 347; Wilson, Sicily, cit., pp. 247 ss.; Panella,
Merci e scambi, cit., p. 636 e n.
88.
[45] D. J.
L. Gibbins, A. J. Parker, The Roman Wreck of c. AD 200 at Plemmirio near Syracuse (Sicily):
interim Report, «IJNA», 15, 1986, pp. 267-304; D. J. L. Gibbins, The Roman Wreck of c. AD 200 at Plemmirio near Siracuse (Sicily):
second interim Report, «IJNA», 18, 1989, pp. 1-25; Id., The Roman Wreck of c. AD 200 at Plemmirio near Siracuse (Sicily): Third
Interim Report, «IJNA», 20, 1991, pp. 227-46; A. J. Parker, Ancient shipwrecks of the Mediterranean and the Roman provinces (BAR Int.
Ser., 580), Oxford 1992, nr. 834; R. J. A. Wilson,
Archaeology in Sicily,
«AR», 42, 1995-96, p. 69.
[46] A. J. Parker,
Il relitto romano delle colonne a
Camarina, «Sicilia Archeologica», 30, 1976, pp. 25-9; Id., Ancient shipwrecks, cit., nr. 163; G. Di Stefano, Camarina
1990. Nuove ricerche e recenti scoperte nella baia e nell’avamporto,
in v
Rassegna di archeologia subacquea (Giardini-Naxos, 19-21 ottobre 1990),
Messina 1992, pp. 196-205; Id., Antichi relitti nella baia di Camarina,
Catalogo della mostra archeologica permanente nel museo regionale di Camarina,
Ragusa 1991, p. 9; Wilson, Archaeology in Sicily, cit., p. 71.
[49] D. Macaluso,
Frammenti di storia dal mare di
Seccagrande, «Archeologia Viva», 78, nov.-dic. 1999, pp. 82-5.
[50] L. Long, Un aspect de l’économie antique à travers les
vestiges archéologiques sous-marines recensés autour de Marseille,
in Musée des Docks Romains,
Marseille, s.d., p. 41.
[51] R. J.
A. Wilson, Sardinia and Sicily under the Roman Empire, «Kokalos»,
26-27, 1980-81, pp. 232 ss.
[52] A. M. McCann, J. Freed, Deep water
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Skerki Bank off Northwest Sicily, «JRA», suppl. 13, 1994; cfr.
G. Volpe, Archeologia subacquea e commerci in età tardoantica, in Id. (a cura di), Archeologia
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