N. 8 – 2009 – Memorie//Africa-Romana
Università di Messina
Complessità antropologica della nozione di
confine*
(pubblicato in L’Africa romana. Ai confini dell’Impero: contatti, scambi
conflitti. Atti del XV convegno di
studio. Tozeur, 11-15 dicembre 2002, a cura di M. Khanoussi, P. Ruggeri, C.
Vismara, Roma, Carocci editore, 2004, I, pp. 211-238)
Non potevo non iniziare abbandonandomi al
fascino e alla suggestione di un classico in questa “età
dell’indiscrezione” così felicemente evocata da Maurizio
Bettini. Il mio vuole essere solo un tentativo di estrapolare, pur tra le
difficoltà dell’approssimativa terminologia greca o latina, la
visione che avevano i Romani nella percezione di quello strano spazio che si
trova tra le cose, che mettendo in contatto separa, o, forse, separando mette
in contatto persone, culture, identità, spazi tra loro differenti. «La
frontière n’est pas seulement ce qui sépare, elle est aussi
ce qui unit, elle doit être perméable, mais
contrôlée »[2]. Lo spazio di confine, quindi, ma anche [p.
212] il confine come spazio, dove le identità che si incontrano sono
allo stesso modo costitutive e rappresentative e dove ogni identità
esiste proprio in quanto confermata dalle altre, al di là delle
convenzioni e dei preconcetti. E una volta che il confine si fa spazio di
confine, non può più pensarsi come realtà omogenea,
perché ciò ne sacrificherebbe la sua enorme ricchezza[3].
Da qui il tentativo di cogliere nell’uomo romano uno sguardo più
allargato, in grado di comprendere aspetti diversi, anche se molto lontani tra loro,
come parti di una sola complessità. Il confine, dunque, come un luogo
dotato di una sua dimensione con le sue storie e i suoi abitanti. Il confine
come costruzione culturale, come fantasia degli uomini, ridicolo popolo di
formiche per dirla con Seneca, il quale mostra come i Romani avessero
un’idea cartografica affine a quella nostra di “confini
naturali”, difficili da stabilire e da conservare. Le barriere naturali,
infatti, possono essere violate, svolgono sì un ruolo di limite, ma
quando qualcuno le attraversa esse si trasformano e diventano luoghi di
incontro, di commercio, zone intermedie. Se è vero, infatti, che il
deserto separa violentemente gli spazi fertili che si trovano ai suoi margini,
ciò non impedisce che al suo interno si possa vivere. Il nomade, ad
esempio, vive la sua frontiera naturale. Così quella che ai margini
viene vissuta come una barriera, può rivelarsi al suo interno come uno
spazio nuovo, “trasnazionale”. Il Sahara costituiva a Sud una valida cintura vuota di difesa, una
distesa inospitale e torrida attraversata da alcune piste carovaniere lungo le
quali i nomadi del deserto
filtravano i prodotti dell’Africa nera (Congo, Sudan): avorio,
forse schiavi, leopardi, leoni, rinoceronti. In realtà quando ci si
accosta ad un luogo di frontiera si ha la sensazione di un mondo estremamente
ricco, vario, dove i costumi, i miti, le rappresentazioni, si mescolano
continuamente. Più che lo scontro è il contatto che balza fuori[4].
E la zona sahariana rappresenta uno dei luoghi di contatto culturale e di
sincretismo tra i più vari. Si incontrano qui, infatti, le culture di
origine camitica anteriori alla conquista romana e le culture della savana,
estreme propaggini settentrionali dell’Africa nera. Si tratta di un mondo
insieme isolato ed ecletticamente composito, dove tutto si confonde e si [p.
213] mescola. Tende così il confine a divenire sempre più una
striscia in cui non è possibile distinguere ciò che appartiene al
suo interno e ciò che sta al suo esterno. I suoi bordi non sono mai
netti, né definibili, né impermeabili. Può essere
completamente visibile solo mediante la presenza di segni che lo individuino:
cippi, pietre di confine, horoi, termini, ma anche alberi, elementi del
paesaggio, architetture…Ad esempio una località che costituiva un punto di riferimento fondamentale
come confine lungo la costa libica nell’antichità era quella dei Filai@nou bwmoi@. Per questa loro funzione le are dei fratelli
Fileni sono ricordate da molti autori antichi, siano esse state un semplice
luogo di geografia mitica, come ad esempio le Colonne d’Ercole, oppure un
centro ben preciso, in cui sorgevano realmente degli altari come segni di
confine. In Sallustio la breve descrizione storico-geografica della zona
attorno a Leptis offre lo spunto per il racconto della leggenda dei Fileni, le
cui Are erano poste al confine di tale regione[5].
L’analogia fra gli altari dei Fileni e le Colonne d’Ercole viene
sviluppata in particolare in un capitolo di Strabone[6],
partendo dall’osservazione di una pratica culturale comune nel mondo
antico, ovvero quella di marcare i confini collocando in luoghi ben visibili
delle colonne, ad esempio la stuli@v a forma di
torre sullo stretto di Messina, delle stele o degli altari come quelli dei
Fileni posti nella regione sirtica. Plinio conferma quanto detto già da
Strabone: le Philænorum arae si trovavano
nel punto più interno della Sirte. Nel luogo non erano visibili veri e
propri altari, ma solo cumuli di sabbia: in intimo sinu fuit ora Lotophagon,
quos quidam Machroas [p.
214] dixere ad Philænorum aras; ex arena sunt hae[7]. Tolomeo ci dà poi quella che
è forse una delle descrizioni scientificamente più accurate della
costa africana, grazie al nuovo sistema geodetico che fa uso dei gradi di
longitudine e latitudine per individuare ogni punto, anziché registrare
solo le distanze in stadi tra località contigue, come avveniva
solitamente nei peripli. Non vi sono comunque variazioni significative riguardo
alla collocazione delle are dei Fileni nel muco@v della Sirte[8].
Per il resto troviamo ribadito il ruolo di confine, da intendersi ormai come
confine fra le province romane d’Africa e di Cirenaica.
[p. 215] Comunque nulla toglie che un
confine potesse esistere indipendentemente dalla presenza dei segni stessi. Il
segno di confine dichiarava palesemente che qualcuno avesse occupato uno spazio
e vantasse dei diritti su di esso, stabilizzandolo, sottraendolo alla
provvisorietà. Si avrebbe, insomma, così il passaggio dello
spazio dall’ambito della natura all’ambito della cultura. È
questo il motivo per cui molti degli elementi che segnavano i confini di un
territorio erano pietre[10].
Il culto delle pietre è, infatti,
notoriamente una delle forme più elementari del sacro, attestato
ad esempio in Africa fin dall’età preistorica. «La
litholâtrie n’est pas à proprement parler l’adoration
des pierres, mais la reconnaissance du caractère sacré de
certaines pierres, la pierre n’est donc que la raprésentation
concrète du sacré qui l’habite»[11].
Non a caso Hermes è la
divinità del confine in ricordo della sua lapidazione. A Roma la pietra
era considerata segno di Giove. In varie culture, comunque, le pietre e i segni
di confine in genere, in quanto mezzi magici per la stabilizzazione dello
spazio, hanno spesso un valore magico e anche a Roma i termini erano circondati da un alone di sacralità. Con lo
spazio l’uomo antico, infatti, stabiliva un rapporto che era di
conoscenza geografica, di utilità politica, di difesa militare, ma era
anche religioso. Interessante a tal proposito la vicenda di Cippus[12],
eroe eponimo del segno di confine detto cippus,
che efficacemente sottolinea come un cippus
possa solo allontanarsi dal centro della romanità, per estendere sempre
di più il dominio di Roma in tutto il mondo[13].
Con l’idea di confine si connette quella di terra ultima, posta al limite
dell’ecumene, ai confini del mondo. Quest’idea ha una particolare
esplicitazione nella tensione fra il raggiungimento di confini ben definiti e
l’aspirazione a un dominio universale, quale si può cogliere nelle
Res Gestae di Augusto: Rerum gestarum divi Augusti, quibus orbem
terrarum imperio populi Romani subiecit.
Il confine materiale rappresenta senza
dubbio la realizzazione più semplice, per così dire fisica, del
margine. Tuttavia confermare uno spazio, segnarlo, non vuol dire
necessariamente chiuderlo, impedirne l’accesso agli altri. Non bisogna
dimenticare che un confine [p. 216] esiste solo in funzione di un centro e
spesso questo è stabilito in maniera molto più precisa e ha
un’importanza maggiore dei segni che delimitano i suoi margini
così sfumati. È uno spazio che insiste « sur
des forces, des dynamiques, sur l’attraction d’une “place
centrale”, ou la diffusion d’objets matériels et
culturels »[14].
Un confine non garantisce la
sua totale impermeabilità, anzi tutt’altro. Il limes[15]
romano è proprio la prova di una frontiera fortemente permeabile che non
impediva migrazioni, commerci, esplorazioni, scambi tra civiltà
differenti, pur essendo allo stesso tempo un luogo di equilibri difficili. Si
presentava come un dispositivo permeabile: non precludeva, bensì
consentiva le pacifiche migrazioni di nomadi nel deserto, l’andirivieni
di carovane, di popolazioni clienti dello Stato romano e di commercianti e
l’uscita di truppe per effettuare sortite contro predoni e belligeranti
ed esplorazioni nel territorio barbarico[16].
Ciò che, infatti, non deve sfuggire è la sua essenza
bidimensionale, poiché esso implica sempre una certa ampiezza pur nel
suo maggiore sviluppo longitudinale. In altre parole a fondamento di ogni possibile
significato di limes sta sempre
quello di striscia o fascia condotta trasversalmente in uno spazio[17].
«Loin
d’être une barrière hermétique entre le tell et la
steppe ou bien la montagne et le prédésert», era piuttosto
un mezzo di controllo, «de régulation des déplacements et
des échanges par lesquels [p. 217] s’exprimait cette
nécessaire symbiose entre régions d’économies
complémentaires»[18].
J.-M.Carrié ha
sottolineato proprio la tendenza dominante negli ultimi studi
«d’assouplir, de détendre, d’humaniser
l’inflexible “muraille” dont la tradition historiographique
moderne s’était plu à entourer les provinces»[19].
E ancora un confine può
essere in tempi diversi simbolo di una chiusura, ma anche di un’apertura;
può significare l’inclusione o l’esclusione. Concetti quali
«frontier of inclusion» versus
«frontier of exclusion» compaiono negli studi inglesi a partire da
O. Lattimore[20],
schemi che, comunque, non avrebbero escluso dei fenomeni parziali d’
«assimilation transfrontalière». Trousset ha posto il
problema su basi climatiche, ecologiche e antropologiche precise. Il limes africano in particolare è
per lui una zona di confine avente un valore di frontiera, calcolata a sua
volta su una frontiera geografica quasi ideale, frontiera culturale, o
piuttosto zona di contatto tra un mondo sedentario o in gran parte
sedentarizzato e romanizzato e un mondo berbero nomade che sfuggiva al
controllo diretto di Roma. Proprio l’aspetto conflittuale delle relazioni
tra indigeni delle montagne o degli altipiani e quelli del deserto, cioè
di popolazioni ugualmente ma diversamente seminomadi, in rivalità per
l’utilizzazione dell’acqua e delle risorse, potrebbe, secondo
Trousset, spiegare la penetrazione in profondità del dispositivo
militare romano. La posizione del limes
corrispondeva, dunque, ad un limite climatico, ma anche a un equilibrio di
forze.[21]
Whittaker ha puntualizzato, invece, come per la presunzione dei Romani che il
loro potere superasse le linee formali del territorio amministrato, per la loro
ostinata convinzione di un Impero che dominasse universalmente, di un Impero
senza limiti, la realtà delle frontiere resti una questione complicata.
Il controllo politico oltre il confine amministrativo, esercitato attraverso la
diretta occupazione militare o tramite alleanze, può spiegare
perché i limites venissero a
significare una zona di frontiera oltre che una linea di frontiera. Una
frontiera, insomma, che stimolava l’attività [p. 218] produttiva,
gli scambi, in una relazione osmotica che avrebbe portato alla creazione di quelle
che Whittaker definisce «buffer-zones», zone che potevano
raggiungere una profondità di 200 km[22]. Viceversa Fulford ritiene che le frontiere
costituivano un limite esterno di un mondo «self-contained», e che
la frontiera di Roma era più una barriera che una membrana
semi-permeabile[23].
René
Rebuffat ha sentito l’esigenza di “riaprire” l’Impero
sull’universo situato «au-delà de ses forteresses», e
ne conclude che in Africa «il faut totalement renoncer à
l’idée qu’une barrière ait été
érigée, au delà de laquelle ne se serait trouvé
qu’un monde inconnu et hostile. Au-delà des défenses fixes,
l’armée contrôlait un vaste glacis. Au-delà de ce
glacis, elle possédait encore cette sorte de défense
avancée et non négligeable que constitue le renseignement[24]».
M. Euzennat presenta il limes come un dispositivo strategico e
non come una linea di difesa continua[25].
Il campo di Souk-el-Arba, le città di Sala e di Volubilis
costituivano dell’ «îles de romanité au milieu de la
mer des tribus indigènes»[26].
«La
frontière n’est pas une barrière, elle génère
un espace transitoire». Si crea una zona « relativement
homogène s’étendant de part et d’autre du limes »[27]. Astratta, virtuale, irriducibile a una rappresentazione visiva, la
frontiera dovrebbe soprattutto essere il limite della potestas romana, idea questa del limite così difficile da
ammettere, al punto da far coincidere le frontiere romane con quelle del mondo.
Si trova in Appiano una
rappresentazione di questo immaginario geografico, quando lo storico convince i
suoi lettori dell’esiguità del mondo situato al di là delle
frontiere romane[28].
Il susseguirsi delle cerimonie trionfali, il cosmopolitismo dell’Urbs, l’approssimativo sapere [p.
219] geografico, avevano finito col persuadere l’opinione romana del
compimento di quella profezia, data da Giove a Venere, che abbracciava lo
spazio ed il tempo, Romanis […] imperium sine fine dedi[29].
«En
théorie le pouvoir de Rome ne connaît aucune limite. En effet il
repose sur l’imperium: ce
dernier, assurément conféré par le peuple, n’en est
pas moins de nature divine; ce pouvoir, comme les dieux, ne connaît pas
de limites, juridiques, morales ou religieuses. Dans ces conditions, le destin
de Rome est d’étendre sa domination, sans cesse»[30].
E ciò che vuol dire
Virgilio in un verso celebre: tu regere
imperio populos, Romane, memento[31].
Non esiste alcun limite, dunque, all’imperialismo di Roma se non quello
imposto dalla pratica, o dagli interessi economici, o dal numero degli
effettivi. Così l’imperium di
Roma «sans limites en théorie, n’avait de limites que dans
les faits»[32].
In effetti bisogna
distinguere, come sottolinea Ch. Hamdoune, tra fines Imperii, concetto giuridico, e limes, suo supporto spaziale legato a fattori geografici
determinanti realtà amministrative e militari. Bisogna ancora
distinguere tra le frontiere teoriche di una provincia e il territorio
amministrato realmente dai Romani[33].
Non si può passare sotto silenzio
che il confine sia uno strumento di interazione e di scambio tra mondi diversi,
mettendo in scena le diverse forme dell’alterità, tanto da poter
portare a costruire a cavallo di esso una nuova identità, che prende e
lascia qualcosa di entrambi i versanti. Se scavalcando il confine i singoli
individui possono tradire le permanenze di braudeliana memoria, viceversa le
civiltà continuano a vivere di vita propria, aggrappate ad alcuni punti
fissi, poiché ci sono limiti culturali, spazi culturali di straordinaria
perennità: nulla vi possono tutte le mescolanze del mondo[34],
anche se l’identità sostanzialmente è conseguenza di
un’interazione e non di una separazione. Naturalmente la presenza di un
confine è la condizione che trasforma qualcuno in straniero. Ed ecco
emergere la mentalità romana nei confronti dell’alterità,
[p. 220] l’urgenza interpretativa che alcuni autori mostrano di avvertire
in modo così acuto in merito al problema dell’altro. Varcare la
frontiera significava in particolare per loro inoltrarsi in un territorio fatto
di terre aspre, dure, difficili, abitato da mostri pericolosi contro cui dover
combattere. Non c’è dubbio, infatti, che la presa di coscienza
dello straniero e del diverso e il modo di atteggiarsi di fronte ad esso
è in ogni epoca un aspetto e una componente essenziale
dell’opinione pubblica. Quando compare all’orizzonte del
“nostro” mondo, lo straniero è un essere incomprensibile.
Talora si stenta persino a riconoscergli la caratteristica stessa di uomo. Il
suo volto, i suoi capelli, la sua taglia, fuoriescono (per eccesso o per
difetto) dalla misura che “noi” riteniamo sia quella giusta[35].
Numquid
et labra possumus tumore taeterrimo implere?[36]
L’etiope, in particolar modo,
è irrimediabilmente diverso, quel taeterrimus
apre una finestra, sottile ma profondissima, sul modo in cui Gitone vede il
volto dell’altro. La “somatic norm image” che Gitone
condivide, coniata sui tratti somatici del suo mondo, gli impone di giudicare
orrenda la forma delle labbra che caratterizza l’Etiope. In questa
prospettiva lo straniero non solo è diverso, brutto, o più
grande, ma è soprattutto un enigma, non comunica, parla una lingua che
non si conosce. La sua figura comunque non sta ferma, ma è una fonte
irrinunciabile di alimentazione di quell’organismo che è la
società[37].
Tanto Tolomeo, quanto Plinio il Vecchio
vedevano i confini come una successione di nomi di popoli, disposti in
profondità al di fuori della zona controllata direttamente da Roma. Si
tratta di una rappresentazione del limes
fatta da fonti letterarie, scaturita essenzialmente dall’idea che nasce
nella parte centrale, di popoli collocati sulla carta, le cui intenzioni, i cui
movimenti, i cui rapporti con i Romani sono stati modificati dalla
trasmissione. Possiamo tentare di tracciare delle vie di comprensione tra la
rappresentazione delle frontiere romane e la realtà. Si tratta della
rappresentazione di spazi e popoli sconosciuti. Per gli scrittori latini sembra
che [p. 221] la stessa natura fisica delle zone al di là delle frontiere
sia differente rispetto a quella dell’Impero. Del resto la
rappresentazione dei confini terrestri poggiava sulle strade di antichi miti
geografici. Da Erodoto ad Aristotele, da Strabone a Sallustio gli abitanti
delle regioni periferiche finiscono per essere irretiti negli intenti
descrittivi degli autori in quello stato di natura, in quel primitivismo, che
può essere concepito in termini positivi o negativi, ma che è
comunque nettamente opposto al regno della cultura, nonostante vi sia
già l’intuizione del relativismo culturale, del concetto di
cultura oltre i confini geografici e storici dell’osservatore. Tuttavia
l’immagine dell’altro finisce per essere irrimediabilmente
investita dall’angolazione ideologica dello sguardo osservante, investita
e al tempo stesso irretita entro le anse ideologiche che motivano le spinte
conoscitive, che disciplinano l’esercizio di una conoscenza
dell’altro mai neutra, mai avulsa da ragioni storiche complesse. Che tali
testi siano godibili dal punto di vista antropico è indubbio. Essi
diventano decodificabili proprio se piegati alle categorie interpretative
dell’etnografia, anche se talvolta restano inviluppati nella
sterilità delle generalizzazioni o filtrano le esperienze storiche
attraverso le strutture dell’immaginario collettivo. Si pensi alla
descrizione dell’Africa come terra estrema, arida, sterile, in ultima
istanza periferica, rispetto ad un centro ideale florido e boscoso coincidente
con la laus Italia; il tutto in
coerenza con la teoria del determinismo ambientale, che da Ippocrate,
attraverso Aristotele e Posidonio, giunge a Roma. Del resto l’etnografia
antica non può ovviamente seguire le acquisizioni metodologiche
contemporanee, che prescrivono la ricerca sul campo e l’eliminazione dei
pregiudizi. Non potendo visitare essi stessi le regioni inaccessibili, storici
e geografi raccoglievano su di esse informazioni di seconda mano, con un largo
margine di errore e di notizie favolose[38].
Terra incognita il grande deserto non ebbe neppure un nome, se non quello di
Libia interna, espressione geografica molto vaga che abbracciava tanto i
territori al di là dell’Africa del Nord, quanto l’Etiopia
interna, zona ancora più a sud.
Analogia, determinismo ambientale, tipologia delle forme culturali,
etimologia erano i paradigmi su cui si fondava il sapere etnografico nel mondo
antico. Erodoto, il “padre dell’antropologia”, a proposito
delle popolazioni libiche più lontane aveva finito per ripetere i
pregiudizi dei suoi informatori, ma comunque [p. 222] resta a lui il merito di
aver esteso la sua ricerca con indagini ed osservazioni personali anche nella meso@gaia.
Nella Libia delle belve feroci (qhriw@dhv), oltre la regione delle fiere si stende un
ciglione sabbioso che si protende da Tebe alle Colonne d’Ercole. In
questo ciglione, a circa dieci giorni di cammino l’uno
dall’altro, si trovano sopra
delle alture blocchi di sale. Sulla cima di ogni collina zampilla prepotente
una polla d’acqua fresca e dolce ed intorno ad essa abitano degli uomini,
che sono gli ultimi nella direzione del deserto (eèrh@mh), a sud della regione delle fiere[39].
Tra le sue righe troviamo i Nasamoni che
vanno al di là delle solitudini di sabbia e scoprono nel paese degli uomini con la
pelle nera un grande fiume pieno di coccodrilli, il Nilo[40].
I Garamanti che distendono terra sul sale per gettarvi la semente e cacciano su
carri a quattro cavalli i Trogloditi, i quali mangiano serpenti, lucertole ed
emettono strida come i pipistrelli[41].
Gli Ataranti che hanno la caratteristica di non avere nomi propri di persona,
ma solo quello collettivo di popolo[42],
gli Atlanti vegetariani e nelle regioni più interne, addirittura, i
«senza testa» che hanno gli occhi sul petto, gli uomini selvaggi e
le donne selvagge[43].
Al di là di questo ciglione, verso mezzogiorno, il paese è
deserto, senz’acqua, senza animali, senza pioggia, senza piante.
Paesaggi pittoreschi, uomini selvaggi, Aièqi@opev
Trwglodu@tai içppwn taxu@teroi, coccodrilli ed ippopotami, abbondano nel Periplo di Annone che,
comunque, fornisce due indicazioni geografiche importanti, l’isola di
Cerne e il grande vulcano detto “Carro degli dei”, qew^n
oòchma, ultima tappa dell’itinerario di
Annone sulle coste africane[44].
All’isola di Cerne, eòxw tw^n èEraklei@wn Sthlw^n, fa riferimento anche Palaiphatos,
definendo oié de# Kernai^oi ge@nov Aièqi@opev[45].
Con i romani la situazione si evolve. Si
avverte un’attenzione sempre crescente per l’Africa dei berberi,
nome-spia della traccia lasciata da Roma sugli indigeni, che si autodefiniscono
«Imazighem», [p. 223] cioè «uomini liberi»[46].
E ciò sia per la graduale penetrazione romana nella meso@gaia, che contribuisce ad alimentare la
curiosità per quella regione piena di stranezze zoologiche e botaniche,
sia per i più intensi scambi culturali e politici. Dopo essersi
stanziati nell’Africa mediterranea, i conquistatori non tardarono a
prendere essi stessi contatto con le regioni limitrofe. Eppure ancora Sallustio
premettendo che sed quae loca et nationes
ob calorem aut asperitatem item solitudines minus frequentata sunt, de eius
facile conpertum narraverim[47], fa leva su alcuni elementi
dell’immaginario collettivo in grado di provocare nei lettori una sensazione
di paura. Inquadra i popoli dell’Africa in una casella pericolosa, quella
di un popolo che vive nella zona meridionale a clima secco, quindi lo definisce
genus hominum salubri corpore, velox,
patiens laborum…nam morbus haud saepe quemquam superat [48].
E ancora aggiunge ad hoc malefici generis
pluruma animalia[49].
Strabone, a sua volta, confessa,
tranquillamente, di non sapere molto di ciò che si trova al di là
dell’oasi d’Ammone e della regione d’Augila, le@gomen
eèx eièkasmou^ dia# to# aèpro@siton[50]. Troviamo in profondità Getuli, dei
popoli libici il più grande[51],
Pharusi e Nigritae[52],
che usano carri falcati e alcuni vivono come i Trogloditi scavando abitazioni
nella terra, i Lotofagi[53],
che abitano la zona aònudron e
mangiano solo il fiore del loto, Masaisulii
e Karchedonii, vittime spesso di
pestilenze dovute alle cavallette delle paludi[54],
Nasamoni, Psilli, alcuni Getuli, Garamanti, Marmaridi[55],
che indossano un mantello con largo bordo, Etiopi Hesperii in una zona di serpenti, leoni ed elefanti. Diodoro Siculo
si sofferma nel III libro della sua Biblioteca
su Etiopi, Libici ed Atlantidi. Sugli Etiopi occidentali ci fornisce davvero
una dovizia di particolari affascinanti [p. 224] dal punto di vista antropico,
particolari che lo storico dice di aver appreso durante un suo viaggio in
Egitto. Dalla carnagione scura, me@lanev, dai nasi larghi, toi^v iède@aiv simoi@, e dai capelli ricci, toi^v tricw@masin ouùloi, dalla voce squillante, fwnh#n
oèxei^an, appaiono
simili a delle bestie feroci…armano persino le donne. Si nutrono di
carne, latte e formaggio. Inviano imprecazioni al sole, si disfanno dei corpi
dei loro morti gettandoli nel fiume. È la zona delle bestie selvagge,
pachidermi e serpenti di incredibili dimensioni[56].
Nasamoni, Auschisei, Marmaridai, Macei sono definite, invece, popolazioni
libiche. I primi possiedono terra capace di produrre raccolti, mentre gli altri
sono nomadi. Ambedue questi gruppi hanno dei sovrani, e ciò porta
all’intuizione di una regalità clanica, mentre il terzo gruppo non
obbedisce ad alcun re e non conosce la giustizia, compie azioni di
brigantaggio, attaccando all’improvviso dal deserto e copre il corpo con
pelli di capra[57].
Quanto agli Atlantidi sono ritenuti molto superiori per la loro devozione agli
dei e nell’umanità mostrata nei rapporti con gli stranieri.
Affermavano che gli dei fossero nati da loro[58],
racconto che ben si accorda con quanto detto da Omero per bocca di Era:
«Infatti io vado a vedere i confini della terra bellissima, / Oceano, la
corte degli dei e Teti divina, loro madre»[59].
Sulla scia di queste credenze Plinio, nei
libri V-VII della Naturalis Historia,
collocherà alla periferia del mondo, e in particolare all’interno
dell’Africa, una serie impressionante di esseri mostruosi:
Interiore ambitu Africae ad
meridiem versus superque Gaetulos, intervenientibus desertis, primi omnium
Libyes Aegyptii, deinde Leucoe Aethiopes habitant. Super eos Aethiopum gentes
Nigritae, Gymnetes Pharusii, Perorsi…ab his omnibus vastae solitudines
orientem versus usque ad Garamantas
che non si sposano, ma passano da una donna
all’altra, Augilasque, che
venerano solo gli spiriti infernali,
et Trogeodytas, che scavano
caverne, si cibano di serpenti e squittiscono, Tarraelios (Etiopi menzionati solo da Plinio), Oecalicas, Atlantas, che non hanno nomi propri e mandano
imprecazioni al sole, eosque iuxta
Aegipanas [p. 225] semiferos et
Blemmyas, che non hanno la testa, ma bocca e occhi sul petto et Gamphasantas, nudi, incapaci di
combattere e privi di contatti umani, et
Satyros et Himantopodas loripedes.[60] Nigritae, Pharusii (entrambi
popoli arcieri facenti parte degli Etiopi occidentali), Canarii (abitanti delle foreste vicine al Ger), Autololes (popolo
considerato molto potente da Plinio, attraverso il loro territorio, infatti,
passava l’itinerario per l’Atlante), Cisori (sembra vivessero
nel Fezzan), Cispii (abitanti dell’Atlante sud-marocchino) Darae (abitanti sul Darat),
Daratitae (abitanti sulle rive del
Darat) Isbeli ( abitanti del grande Erg Occidentale), Longopori (tra Ouargla e Touggourt),
Masati (abitanti delle rive del
Massa), Usibalchi (abitanti
del grande Erg occidentale)[61]. Reliqua deserta, dein fabulosa: ad
occidentem […]Hesperii, Perorsi[62].
Non diversamente Pomponio Mela:
ultra
Nigritae sunt et Pharusii usque ad Aethiopas. […] At super ea Libyes
Aegyptii sunt et Leucoaethiopes et natio frequens multiplexque Gaetuli […] Ab oriente Garamantas, apud Garamantas armenta sunt eaque obliqua
cervice pascuntur. Post Augilas,
manes tantum deos putant, et Troglodytas […] strident , et ultimos ad
occasum Atlantas, solem exsecrantur. Intra, si credere libet, vix iam homines
magisque semiferi Aegipanes et Blemyes, capita absunt, vultus in pectore, et
Gamphasantes, nudi armorumque ignari, et Satyri, praeter effigiem nihil umani,
sine tectis ac sedibus[63].
Da tutto
ciò emerge come per gli antichi fosse difficile discernere la
verità dalla favola, illis
perangusta erat via qua ad investigandas terras remotissimas[64].
I romani, diceva
Albertini, hanno commesso «la
faute de ne pas s’avancer assez loin en Afrique», ma poi aggiungeva
che le ricerche sul limes e sul Fossatum Africae, hanno
dimostrato che «l’expansion romaine vers le Sud a été
plus rapide et plus importante qu’on le croyait jusqu’ici»[65].
[p. 226] Comunque sarebbe estremamente interessante sapere se la conoscenza, il
controllo e la penetrazione della zona
superasse o meno le linee
tracciate normalmente sulle carte.
Dopo
l’impresa dei giovani Nasamoni di cui ci parla Erodoto[66],
dopo il “recordman” Magone di Cartagine che a quanto ci racconta Ateneo[67]
attraversò per tre volte le grandi sabbie mangiando delle farine e senza
bere mai acqua,[68]
bisogna attendere il 19 a.C. per registrare un’iniziativa romana
importante in direzione del Sahara. Si tratta del trionfo ottenuto dal console
Cornelio Balbo[69] sull’indisciplinato
regno dei Garamanti del Fezzan. La presa della capitale dei Garamanti fu la
vera ricompensa e allo stesso tempo la fine di un’impresa di tre o
quattro mesi, così audace per quel tempo, clarissimumque Garama,
caput Garamantum, omnia armis Romanis superata et a Cornelio Balbo triumphata
[…] ipsum in triumpho praeter Cidamum et Garamam omnium aliarum gentium
urbiumque nomina ac simulacra duxisse[70].
Al di là di alcuni toponimi facilmente identificabili come Rhapsa,
Cidamus o Garama, l’elenco delle vittorie romane ne
contiene molti altri che si prestano ad equivoci e che ricordano, comunque,
località dell’attuale Sahara, cosa che viene talvolta considerata
come una prova sufficiente dell’arrivo dei Romani fino al Niger.
Più
eloquenti ancora sembrano le relazioni che implicano importanti incursioni
romane all’interno del continente africano. Marino di Tiro e Claudio
Tolomeo, la cui documentazione sull’Africa risale agli anni tra il 110 ed
il 120 d.C., raccontano che il governatore Settimio Flacco «era partito
per una campagna dalla base di Libia e coprì la distanza fra il paese
dei Garamanti e quello degli Etiopi in tre mesi di cammino in direzione sud;
mentre da un’altra parte Giulio Materno, giunto da Leptis Magna e
partito da Garama insieme al re dei Garamanti, che marciava contro gli
Etiopi, giunse [p. 227] in quattro mesi, dirigendosi sempre verso
sud, ad Agisymba, terra etiope dove abbondano i rinoceronti
bicorni»[71],
paese che non si può identificare con sicurezza, ma che è esempio
di una possibilità di conoscenza dell’Africa interna. Nella sua
etnografia astrologica del mondo abitato, Tolomeo, specialista del ko@smov, ovvero di quel
«composé harmonieux de la terre et du ciel, des hommes et des
astres», che è l’universo, tenta l’impresa di disegnare
un’immagine d’insieme della terra abitata[72].
L’ultimo
quadrante comprende il territorio conosciuto con il termine di Libia: le
regioni che abbracciano Numidia, Cartagine, Africa, Fazania, Nasamonite,
Garamantica, Mauritania, Getulia, Metagonite, situate a sud-ovest
dell’intera ecumene, sono affini al trigono sud-occidentale di Cancro,
Scorpione e Pesci e di conseguenza sono presiedute da Marte e Venere in aspetto
occidentale. Per tale configurazione planetaria questi territori sono retti per
la maggior parte, da un uomo e da una donna, nati dalla stessa madre;
l’uomo governa sugli uomini e la donna sulle donne[73]
Gli abitanti di
Metagonide, Mauritania e Getulia, per l’affinità con lo Scorpione
e con Marte, sono più feroci, [qhriwde@steroi], assai combattivi
[macimw@tatoi], carnivori [krewfa@goi], molto temerari [sfo@dra
réiyoki@ndunoi], sprezzanti della vita tanto da non risparmiarsi
neppure loro [katafronhtikoi# tou^ zh^n]. I popoli di
Fazania, Nasamonite e Garamantica, per l’affinità coi Pesci e con
Giove, sono liberi [eèleu@qeroi], semplici nei
costumi [aéploi^
toi^v hòqesi], lavoratori [filergoi#], intelligenti [euègnw@monev], limpidi [kaqa@rioi] e per lo più indipendenti [aènupo@taktoi]; essi venerano Giove come Ammone[74].
Questo passo
mette in luce le conoscenze geografiche di Tolomeo sull’Africa, che
sembrano molto ampie e che vengono esposte con un sistema matematico in cui
longitudine e latitudine provano più o meno l’autenticità
dei luoghi citati. Centinaia di nomi di montagne, fiumi, tribù e città
compongono la sua carta dell’interno dell’Africa e, con
l’appoggio delle somiglianze fonetiche, hanno prodotto
un’impressione tale che si è creduto di avere la prova che i
Romani possedessero una conoscenza perfetta delle regioni tropicali
dell’Africa e, in particolare, del Niger e del Ciad. Nella sua Geografia,
[p. 229] troviamo il catalogo più ricco delle
tribù africane che ci sia giunto dal mondo classico, e insieme le
indicazioni geografiche più utili. In effetti non sappiamo niente dei
legami d’origine o d’interesse che dovevano legare più
strettamente alcune tribù rispetto ad altre. Un etnico, poi, è
suscettibile di designare tanto degli insiemi etno-politici vasti e più
o meno vaghi, quanto delle entità tribali molto più delimitate.
Il suo catalogo inizia con ta# me@gista
eòqnh katane@metai th#n Libu@hn: to# tw^n Garama@ntwn, ai quali assegna una vasta regione della Libia
interna tra il fiume Bagrada ed il lago Nouba,
to# tw^n Melanogaitou@lwn, che abitano ad est dei Garamanti dal monte
Oursagala a Sagapola (sembra popolino gli Altipiani e l’Atlante
sahariano), to# tw^n Purèréai@wn
Aièqio@pwn, to# tw^n Nigritw^n Aièqio@pwn, a nord del Niger, to#
tw^n Daradw^n, che abitano alla foce del fiume di cui
portano il nome, to# tw^n
Pero@rswn, tra il mare e il vulcano detto
“Carro degli dei”, to# tw^n èOdraggidw^n
Aièqio@pwn, tra il monte Kaphas e il monte Thala, to# tw^n Mima@kwn, sotto il monte
Thala, to# tw^n Noubw^n, to# tw^n Lerbikkw^n[75]. Naturalmente
Tolomeo ci dà solo delle coordinate geografiche, dei confini naturali
delimitanti queste che il geografo definisce come tribù più
importanti.
Continua, poi,
con eèla@ssona eòqnh,
aç kate@cousi ta# eèpi# qala@sshj meta# th#n Gaitouli@an : Autolatae,
menzionati anche da Plinio (V,
17) come popolo molto potente, Sirangae,
Mausolei, Malkoae, Mandori, Sophoukaei, Leukaethiopes,
che ricorrono in Plinio (V, 43) e Mela (I, 23), Pharusii, Lunxamatae,
Samamukii, Salati, Daphnitae, Zamatii, Arokkae,
Keniani, Souboupores, Makkoi, Daukhitae, Makkhourebi,
Soloentii, Anatikoli, Stakheirae, Orpheis, Taroualtae,
Aphrikerones, Akaemae, Gongalae, Nanosbeis, Nabathrae,
Alitambi, Mandrali, Thalae, Dolopes Astakouri, Asarakae,
Dermoneis, Aganginae, Xulikkeis, Oechalices. Questo
catalogo che potrebbe apparire una mera ostentazione di erudizione, è da
intendersi come la spia di conoscenze più precise e, soprattutto, di una
percezione dei rapporti spaziali più vicina al vero. Il
linguaggio dei rapporti spaziali è, infatti, fondamentale per
l’organizzazione della cultura, e all’interno di tale linguaggio un
ruolo cruciale spetta al concetto di frontiera, la linea che divide lo spazio
della cultura dallo spazio esterno, lo spazio della natura o degli altri.
Emerge chiaramente, soprattutto nelle opere precedenti a quella del geografo
alessandrino, la traccia [p. 230] di un modello di rappresentazione dello
spazio che è diverso da quello moderno, geometrico e cartografico, ed
è il modello definito «spazio odologico», riprendendo un
termine dello psicologo Lewin[76].
Si tratta, cioè, della rappresentazione dello spazio nella prospettiva
di chi deve compiere un cammino, come una successione di punti da percorrere.
Il disporre i toponimi lungo una linea, scandita da espressioni come primum, ac deinceps, deinde, post, o eéxh^v o eèfexh^v è tipico delle descrizioni dei
geografi antichi. Le conseguenti imprecisioni, comunque, devono essere
perdonate se teniamo presente la mentalità anti-cartografica propria
degli storici antichi. Così il ricorso all’immagine cartografica,
che aiuti a fissare i toponimi, non era il modo di procedere degli storici
antichi, per i quali la descrizione verbale era considerata più nobile e
attendibile. I vari excursus fungono
da condensatori e organizzatori di un sistema logico che comprende varie
eziologie, etimologie e concezioni antropologiche che sono d’ausilio per
ricavare un’idea precisa delle caratteristiche dei popoli
dell’Africa interna. Si possono rinvenire una serie di aspetti della
mentalità antica per molti versi lontani dal nostro modo di concepire la
materia etnografica, ma che sottintendono, comunque, una sequela di
ragionamenti preziosi per ricostruire la riflessione degli antichi sulla
diversità umana.
L’ipotesi
di Ch.Courtois[77]
di un importante popolamento tribale delle montagne sembra, seguendo le orme di
J. Desanges[78],
fortemente giustificata, grazie alla fotografia aerea, che ha permesso di
vedere settori interni del limes, e grazie alla
storia delle grandi insurrezioni del III e IV secolo[79].
Lo stesso Tolomeo enumera varie montagne nella sua lista di tribù, tra
le quali qualcuna addirittura porta un nome derivato proprio da una montagna,
ad esempio Mando@roi, Taroua@ltai, èAroua@ltev. Per non
parlare poi dell’Atlante! Lo studio delle duplicazioni di etnici in
Tolomeo mette in evidenza l’importanza della regione del Djérid e
della Djeffara come «porta del deserto»[80],
definizione questa che ci trasferisce indietro nel mondo dei miti, per
comprendere meglio le rappresentazioni [p. 231] della
realtà complessa dei confini e cogliere in esse l’importanza delle
porte, ad esempio le Porte degli Inferi, che segnano l’ingresso nel mondo
dell’al di là visto come un «monde à
frontière»[81]. Parecchie tribù menzionate in
Africa sono nuovamente segnalate dal geografo alessandrino nella Libia interna,
e anche se bisogna tener conto della tendenza dei geografi antichi a proiettare
il noto nell’ignoto, è probabile che dei nomadi circolassero tra
il Rirh ed il Fezzan da una parte ed il Sud-Tunisino e
Quanto alle
«îlots montagneux, Ouarsenis, Dahra, Zaccar, Atlas Mitidjien,
Titteri, Djurdjura, Bibans, Hodna e Babors», le tribù vivono come
«en riserve», sotto il comando
di capi che ricevono i titoli romani di praefectus o di princeps
e ai quali l’imperatore «fait déférer les insignes de
leur dignité»: scettro d’argento dorato, corona, mantello
bianco, tunica bianca, scarpe dorate…Così «si
Per dirla col
Momigliano «la continuità etnografica in Africa è anche
continuità storica, nonostante la dominazione romana […]
l’ordinamento tribale si è conservato fino ad oggi ed è
stato il vero mediatore di questa continuità»[85].
Al carattere
troppo modesto della penetrazione romana nel Sahara, sembra rispondere
«la nature assez mesurée de l’avancée des Sahariens
orientaux» in quella che fu l’Africa romana[86].
Tenendo conto delle lacune della documentazione, si può solo tentare di
fare un «fil de jour», per riprendere un immagine di Valery, in
quel mondo oscuro.
Purtroppo i testi si fermano
all’inizio del II secolo d.C., comunque abbiamo prove archeologiche che,
nel III e IV secolo, oggetti di origine romana penetrarono molto all’interno
nel deserto. L’interesse del mondo romano per la zona desertica e le
regioni limitrofe, storicamente provato dai viaggi di Flacco e Materno,
è documentato archeologicamente dal mausoleo di Germa, il monumento di
tipo romano più meridionale nell’interno dell’Africa. Sorge
isolato nel deserto con la sua aggraziata classica dignità, simbolo
forse di una simbiosi: tomba di un Romano domiciliato nel Fezzan, o di un
abitante del Fezzan che ha adottato costumi romani?
Sembra, infatti, che i Garamanti, dall’avventura
di Materno alla fine dell’occupazione di Bu Njem circa, abbiano vissuto
in pacifica simbiosi con la dominazione romana. «Si le mot de protectorat est ici peut-être
risqué», si potrebbe postulare che gli itinerari conducenti a
Germa potessero essere percorsi in tutta sicurezza[87].
È normale che prodotti romani si trovassero sulle vie degli itinerari
carovanieri del Sahara: lampade romane, oggetti di vetro o di terracotta e addirittura ossidiana, presenza molto
interessante, poiché essa sembra avere la sua origine più
prossima nelle isole del Mediterraneo, Pantelleria, Lipari e Santorino.
Singolare appare poi l’esistenza di due tombe a cremazione in una regione
dove di solito [p. 233] era praticata l’inumazione, estremamente significativa
se si considera la loro vicinanza al mausoleo. Avremmo, insomma, la
testimonianza di una penetrazione abbastanza profonda di visitatori provenienti
dal mondo romano[88].
I risultati di queste esplorazioni lontane ebbero riflessi in Roma stessa,
sulla vita quotidiana, sulla cucina, sulla cura pubblica e privata della
salute, sull’immaginazione dei poeti[89].
Peraltro i numerosi mosaici trovati nelle
ville romane della costa mediterranea attesterebbero scambi - come ad esempio penne di struzzo, fiere per i giochi del circo
e schiavi negri provenienti dal cuore dell’Africa, per allietare
l’esistenza dei signori di Roma -, tra le genti del deserto e le
popolazioni frontaliere dell’Impero, che fecero in questo caso da
intermediari tra il mondo civile e quello
definito primitivo[90].
La cattura degli animali selvatici dovette essere la principale fonte di
guadagno di questi territori, come sembrano confermare indicazioni statistiche
eloquenti: per l’inaugurazione dell’anfiteatro Flavio a Roma furono
usate nei combattimenti novemila fiere. La maggior parte erano Libicae o Africanae. Anche l’avorio doveva avere un posto importante
nel commercio trans-sahariano. I
rilievi di Ghirza ci mostrano delle
carovane di cammelli sia cariche sia senza carico. Sulle lunghe strade
del deserto parecchie spezie giungevano dall’Oriente o dall’Africa
sudorientale: cumino, balsamo, zenzero, cassia, cinnamomo, mirra, incenso[91].
Il mausoleo di Bir as-Shawi per lo stile e
la scelta dei suoi rilievi è già imparentato con quello che
conosciamo nel resto della Tripolitania interiore e a Ghirza: ritratti di
nobili locali, gusto per le corse di cavalli, rappresentazione di frutti, uva
in particolare. I templi conosciuti sono quelli di Bu Njem, dedicati a Mars Annaphar, Iuppiter Hammon[92],
Vanammon e a due divinità
sconosciute. È probabile che Iuppiter
Hammon proteggesse tutte le grandi tappe carovaniere, culto comune ai Maci
e ai Garamanti[93].
[p. 234] Nel Peri# tw^n kaq’ oçla
kli@mata iédiwma@twn
Tolomeo
sottolinea come le differenti caratteristiche dei popoli su interi paralleli e
interi angoli dipendano dalla loro posizione rispetto all’eclittica e al
sole:
così
i popoli che vivono sotto i paralleli più meridionali, cioè tra
l’equatore e il tropico estivo, hanno il sole allo zenit e ne sono
riarsi: di conseguenza hanno pelle scura, capelli lanosi e crespi, figura
contratta e il corpo prosciugato dal sole, natura ardente e indole per lo più selvaggia […] con
termine generale vengono chiamati Etiopi[94].
Indubbiamente
dall’epoca di Erodoto all’epoca di Strabone, nel nord del Sahara vi
erano già popolazioni bianche o meticce, armate d’arco come gli
Etiopi, che conducevano con destrezza carri da guerra. Tolomeo cita nella Libia
interna delle popolazioni dette Etiopi, e altre di cui non ci dice niente.
Sarebbe, quindi, assurdo tradurre Etiopi con negri. Si trattava di «facce
bruciate», che non dovevano avere degli stetti rapporti antropologici con
i popoli attuali dell’Africa occidentale. Tra Libici ed Etiopi, inoltre,
vi erano delle tribù come i Pharusii, i Garamanti, i Nigritae,
che tanto la tradizione letteraria, quanto gli studi antropologici fanno
apparire come intermedie.
L’esistenza di «facce
bruciate», ab ore perusto, sui margini sahariani dell’Africa
del Nord, e spesso in una posizione geografica più settentrionale
ancora, è ben attestata dalle fonti letterarie antiche[95].
Le scoperte archeologiche e antropologiche provano la validità globale
di tali testimonianze. Le popolazioni melanoderme, gli Etiopi, per riprendere
l’espressione antica, hanno occupato le regioni sahariane e
l’evoluzione più sicura è un lento accrescimento di alcuni
gruppi leucodermi, di cui l’origine esterna non è messa in dubbio.
Si opta in favore di
un’ origine strettamente autoctona degli Haratini discendenti da Etiopi «plus ou moins métissés
au cours des derniers millénaires avec des éléments blancs
méditerranéens dans le nord et le centre du Sahara, avec des
Négroïdes soudanais dans la partie méridionale et
occidentale»[96].
Da tanto tempo si sottolinea
il carattere apparentemente assurdo di alcune categorie etniche citate da
Tolomeo, come i Melanogetuli ed i Leukaethiopes - «bonnet blanc et
[p. 235] blanc bonnet»?[97]-
esempi della realtà particolarmente complessa del Sahara settentrionale.
In effetti i Melanogetuli sono
collocati dal geografo alessandrino ad ovest dei Garamanti, detti un po’
neri come tutti gli abitanti della Triakontaschene,
regione nilotica a sud del tropico del Cancro, e al Nord di tutto un insieme di
popoli etiopici, Girei, Nigritae, Daradae. Quanto ai Leukoaethiopes,
questi non sono separati dai Perorsi
che dalla pu@rron pedi@on.
Sembra probabile che queste popolazioni del pre-deserto siano da ritenere
etnicamente intermedie tra i Libici e gli Etiopi. Molto più inquietante
è l’assimilazione della bordura meridionale della fascia
mediterranea a degli Etiopi, cioè a dei negri, secondo i parametri degli
antichi: una scala cromatica il cui valore relativo traduce la percezione di un
alessandrino erudito sotto l’Impero romano. Purtroppo, come afferma
Desanges[98],
non è facile stabilire dei criteri incontestabili di
«négritude» in presenza di resti ossei. Rimane da scoprire
se la tendenza a rappresentare alcuni grandi insiemi di popolazioni
dell’Africa del Nord antica come particolarmente scuri, tanto più
se questi vivono «à la lisière du limes» romano, non ammetta una spiegazione di carattere
psicologico. Sappiamo con quanta convinzione F. M. Snowden[99]
ha affermato che l’antichità non abbia conosciuto dei pregiudizi a proposito
delle popolazioni negre. I popoli etiopici erano ritenuti barbari, ma non
più dei Sarmati o dei Numidi[100].
Allo stesso modo L. A. Thompson[101]
ha dimostrato come i negri non fossero vittime di alcun pregiudizio razziale
all’epoca romana, ammettendo, comunque, la possibilità di un
pregiudizio di tipo sociale e culturale. A tal proposito sono abbastanza
eloquenti due testimonianze dell’alto Impero:
[p. 236] Loripedem rectus derideat, aethiopem albus;
quis
tulerit Graccos de sedizione quaerentes?[103]
Faex
Garamantarum nostrum processit ad axem
Et piceo gaudet corpore verna niger
Quem nisi vox hominem labris emissa sonaret,
Terreret visu horrida larva viros [104]
Gli antichi limitavano l’ampiezza
maggiore del mondo abitato al nord fino alla Maeotis palus o al Tanais,
al sud il limite era l’Etiopia di Meroe. La bruttezza garamantica,
quindi, simboleggia il tipo meridionale più lontano dal tipo nordico. Il
proverbiale adunaton Aièqi@opa
smh@cein è il seme di
una riserva nei confronti dei melanodermi, risalente alla tradizionale
associazione del colore nero con gli omina
di morte[105].
Al termine di questa rassegna di
testimonianze che raggiungono la fine del IV sec. sembra si possa ammettere con Desanges
che «les Libyens “noirs” sont, dans nombre de
cas, des Libyens noircis par les préjugés d’auteurs qui
reflètent très probablement la mentalité d’une
partie au moins de leurs lecteurs. Les hasard et les jeux du langage ont
favorisé cette tendance […] les mots solidifiaient les
préjugés en leur conférant le sceau d’une
adhésion collective…» così i barbari delle frange dell’Africa
romana apparivano come «affectés dans leur carnation d’un
écart», rispetto alla norma antropologica ammessa, cioè la
popolazione bruna mediterranea, e di preferenza [p. 237] italica. Questa differenza si interpreta talvolta
come il segno di una degradazione di tutta la persona. Tenendo conto del fatto
che il colore nero rappresentava una macula,
«noircir» alcune comunità etniche dell’Africa del Nord
è stato spesso un modo «de les exclure moralement de
l’empire»[106].
Excludere significa letteralmente
“chiudere fuori”, tenere lontano, separato. Effettivamente una
delle conseguenze naturali connesse alla costruzione di un confine è
quella di limitare uno spazio, portando qualcuno verso il margine, la
marginalità, che, comunque, non deve essere colta solo in
un’accezione negativa, poiché può divenire un modo per
manifestare la propria identità. Un modo per non stare né dentro,
né fuori, o magari una maniera per entrare in contatto con una cultura,
per viverci in mezzo, rimanendovi, però, allo stesso tempo distanti. In
questo senso il confine può essere allora inteso come una
“sfasatura”, qualcosa che segnala un difetto di corrispondenza o di
congruenza tra le parti, una sorta di incoerenza tra due campi che non sono
misurabili con lo stesso metro[107].
E questo può essere a volte
causa di conflitto, soprattutto quando di fronte si trovano culture
differenti. Parlare di confini significa anche parlare di “recinti”
mentali, culturali, religiosi, ideologici…ed è solo nella
volontà di chi lo costruisce che sta il limite del potere di un
“recinto”, che può farsi personaggio e diventare la
raffigurazione vivente dello scontro tra due modi opposti di stare nel mondo,
di occupare uno spazio. Uno dei compiti del confine è mettere in scena
le diverse forme dell’alterità, provocare continuamente quel non
so che, che ci permette di dire che “noi” non siamo proprio uguali
agli altri, ovvero provocare il malinteso. Se chiudere il confine e occultare
il malinteso, lasciando l’altro fuori dalla “porta”, vuol
dire creare una continua minaccia, allargando, invece, sempre più lo
spazio del confine, avendo l’altro di fronte si può elaborare un
percorso per attraversare il disordine[108].
Ciò richiede l’intuizione del relativismo culturale, la
dilatazione, implicita e inaugurale, del concetto di cultura oltre i confini
geografici e storici dell’osservatore. E i Romani erano sì
ossessionati dalla brama di potere a tal punto che la larga fascia di
controllo, senza una presenza amministrativa, porta ad alcune strane
informazioni presenti nelle curiose liste topografiche [p. 238] che circolavano
nel Tardoimpero (ad esempio nella Cosmographia
di Giulio Onorato
*Un grazie particolare va al Prof.
J.Desanges che con interesse e disponibilità ha letto il mio
manoscritto, dandomi, già dopo il mio intervento tunisino e poi nei
nostri incontri parigini, quella sicurezza che solo un "grande"
può trasmettere a chi timidamente inizia a percorrere i sentieri impervi
della ricerca storico-antropologica. Un grazie ancora alla Fondation Hardt che,
con la sua quiete autunnale e la sua dovizia di classici, ha rappresentato una tappa importante di
questo lavoro.
[1] Sen., nat., I, 9-11 : «Quanto ridicoli sono i
confini delle nazioni: l’Istro non oltrepassino i Daci, la catena
dell’Emo chiuda i Traci, l’Eufrate limiti i Parti, il Danubio
divida Sarmati e Romani, il Reno faccia da freno ai Germani, i Pirenei elevino
le loro cime tra la Gallia e la Spagna, tra l’Egitto e l’Etiopia
vasti e disabitati deserti si estendano […] è questo un correr qua
e là di formiche che si affaticano in angusto spazio […] un punto
nello spazio è quello su cui navigate, guerreggiate, costruite
regni».
[2] Y.Le Bohec, La
“Frontière militaire” de la Numidie, de
Trajan à 238, in A.Rousselle
(éd.), Frontières
terrestres, frontières célestes dans l’Antiquité, Paris
1995, p.120.
[5] Sall.,
Iug., 78-79. Interessantissimo il libro di R.Oniga, Il Confine
conteso. Lettura antropologica di un capitolo sallustiano (Bellum Iugurtinum,
79), Bari 1990, in cui è analizzata la situazione iniziale
costituita dalla mancanza di un confine e dal conseguente stato di
ostilità. «Il primo meccanismo culturale che viene applicato
è lo spostamento del conflitto sul piano agonale, si passa dalla guerra
alla gara, la corsa per il confine, nella quale uno dei due cursori prevale
sull’altro, per valore o per inganno, cosicché il confine non
viene esattamente nel punto mediano. Dietro il sacrificio dei Fileni, seque vitamque suam rei publicae
condonavere: ita vivi obruti (sconfitti nella corsa, i Cartaginesi chiesero
un’altra condizione ai Greci, i quali proposero loro o di essere
seppelliti vivi nel punto in cui rivendicavano i confini della loro terra, o
permettere loro di avanzare) sta un
modello culturale specifico: il sacrificio di fondazione».
[6] Strab., III, 5, 3 e ancora in XVII, 3, 20,
in cui nella dettagliata descrizione della costa sirtica si apprende la
circostanza che sotto il regno di un Tolomeo non specificato vi fu uno
spostamento del confine verso ovest.
[9] C.Jacob, Carte
greche, in F. Prontera (a
cura di), Geografia e geografi nel mondo
antico: guida storica e critica, Roma, 1983, pp.49-67; Id., Dionisio d’Alessandria, il “noos” delle Muse e lo
sguardo aereo sull’ecumene, in F.Baratta,
F.Mariani (a cura di), Mondo
classico. Percorsi possibili, Ravenna 1985, pp.83-107.
[14] Ph. Leveau, Le limes
d’Afrique à l’épreuve de nouveaux concepts (apport du
point de vue systémique à la notion de limite et de
frontière), in Rousselle (éd.), Frontières, cit, p. 65
[15] Limes,
itis: sentiero, confine, limite. Collegato con la radice indeuropea *lei-
(piegare), significa, connesso con limus, trasversale e ci porta alla
pratica etrusco-romana della limitatio,
che sta alla radice dell’organizzazione giuridico-sacrale dello spazio
romano, iscritto in un reticolato ortogonale. Limes, sentiero e via, prima che confine, diventa il nome della frontiera
aperta, rete viaria che consente gli spostamenti delle truppe e dei
rifornimenti e non muraglia difensiva continuata, che difende, durante
l’Impero, il territorio romano dalle pressioni barbariche. Cfr. A.
Ernout- A.Meillet, Dictionnaire
étymologique de la langue latine, Paris 1959, p.359 ; C.Milani, Il “confine”: note linguistiche, in M. Sordi (a cura di), Il confine nel mondo classico, (CISA
13), Milano1987, pp. 3-12. Interessante poi B. Isaac, The meaning
of the terms Limes and Limitanei, «JRS», 78, 1988, pp.125-47.
[16] P.Trousset, Signification d’une frontière:
nomades et sedentaires dans la zone du limes d’Afrique,
«BAR», Int. Ser., 71 (III), Oxford 1980, pp. 931-40.
[17] Cfr. DE, s.v. Limes [G.
Forni], IV, 1959, pp. 1076 ss.
; Denominazioni proprie e improprie dei limites delle province, in Actes du IX Congrès intern.
d’ Études sur les Frontières romaines, Mamaia 1972,
Bucarest 1974, pp. 285-289; G. Forni, Limes: nozioni e nomenclature, in Sordi
(a cura di), Il Confine, cit.,
pp.272-294.
[19] J.-M.Carrié, 1993:
ouverture des frontières romaines ?, in Rousselle (éd.), Frontières, cit., p.31.
[21] P.Trousset, Recherches sur le limes Tripolitanus du
Chott El-Djerid à la frontière tuniso-libyenne, Paris 1974,
p. 19
[22] C.R.Whittaker, Supplyng the System: Frontiers and beyond, in J.C. Barnet et al. (eds.), Barbarians and Romans in North West Europe, «BAR» Int.
Ser., 471, Oxford 1989, p.66.
[23] M.Fulford, Roman
and Barbarian: the Economy of Roman Frontier Systems, in Barbarians and Romans,
cit., p. 90.
[25] M.Euzennat, La frontière
romaine d’Afrique, «CRAI», 1990, pp.565-80; Id.,
Les recherches sur la frontière romaine d’Afrique(1974-1976),
in Limes. Akten des II. Internationalen Limeskongresses,
Székesfehérvar 1976, Budapest 1977.
[33] Ch. Hamdoune, Frontières
théoriques et réalité administrative: le cas de la
Maurétanie Tingitane, in Rousselle (éd.), Frontières, cit., p. 237.
[34] F.
Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo
nell’età di Filippo II, Torino 1986, vol. II, pp. 814-5.
[46] M.Rachet, Rome et les Berbères, un
problème militaire d’Auguste à Dioclétien,
Bruxelles, 1970, p.18.
[47] Sall., Iug., 17, 2
[51]Strab., 3, 2; Cfr. A. Luisi, Getuli, dei
popoli libici il più grande, in M.
Sordi (a cura di), Autocoscienza e
Rappresentazione dei popoli nell’antichità, (CISA, 18), Milano
1992, pp.145-151.
[64] R.Schilling,
Quae de Africa interiore deque Afrorum moribus rettulerint scriptores
Romani, in Africa et Roma, Acta omium gentium ac nationum conventus
latinis litteris lingua eque fovendis (1974), Roma 1979, p. 114
[68] M.Baistrocchi,
Penetrazione romana nel Sahara, in L’Africa Romana V, p.193. (Senz’acqua non può essere andato molto lontano,
perché, come sottolinea Baistrocchi, per sopravvivere al fenomeno della
disidratazione nel deserto l’uomo ha bisogno almeno di quattro litri
d’acqua giornalieri in inverno del doppio in estate. Quanto al cibo
è probabile che il viaggiatore si sia nutrito di polvere di datteri e di
altri frutti secchi mescolati a formaggio di capra, una mistura ad alto
potenziale nutritivo, ancora oggi utilizzata dai nomadi tuaregh, quando sono in
viaggio).
[72] G. Aujac, Claude
Ptolémée, astronome, astrologue, géographe. Connaissance
et représentation du monde habité, Paris 1993, p.7-8.
[76] K.Lewin, Der Richtungsbegriff in der Psychologie. Der
spezielle und allgemeine Hodologische Raum, in «Psychologische Forschungen»
19, 1934, pp. 249-299.
[78] J. Desanges, Catalogue des tribus africaines de
l’Antiquité classique à l’ouest du Nil, Dakar 1962,
p.II.
[81] Rousselle (éd.), Frontières, cit., p. 13.
[82] Plin., nat., VI, 26
[83] Desanges, Catalogue, cit., pp. 17-8.
[84] Ivi.,
p. 20.
[85] A.
Momigliano, I regni indigeni dell’Africa Romana, in L’Africa Romana, Milano 1935, p. 87.
[98] Ivi, p. 232 ; cfr. M.Chabeuf, À propos de l’homme de Grimaldi: mélanodermes,
nègres et négroïdes, in G.Camps, G.Oliver (éds.), L’Homme de Cro-Magnon: anhtropologie
et archéologie, Paris 1970, pp. 93-7.
[100] Y. A. Dauge, Le
Barbare. Recherches sur la conception romaine de la barbarie et de la
civilisation, Bruxelles 1981, p.477.
[104] Cfr. Anth. Lat., n. 183, pp. 155-6 hrsg. von F. Bücheler, A.Riese, E.Lommatzch,
I, I, Leipzig 1984.
[105] L.Cracco
Ruggini, Il negro buono e il negro malvagio nel mondo classico, in
M. Sordi (a cura di), Conoscenze etniche e rapporti di convivenza
nell’antichità, (CISA, 6), Milano 1979, p.113; cfr. Ead., I popoli dell’Africa e dell’Oriente, in Storia di Roma, III, I, Torino 1993, pp.
449-52: questi popoli che abitavano vicino al sole, nel mondo greco e fino al
III sec. d.C., godettero fama di pii, longevi, beati; spesso il colore della
pelle veniva contrapposto «all’anima sbocciante di candidi
fiori». A partire dal III sec. venne meno la loro stilizzazione in
termini di primitiva innocenza. Le più precise conoscenze
etno-geografiche, acquisite mediante viaggi, ne fanno un popolo militarmente
forte e sempre più pericoloso e come tale già compare nel romanzo
di Eliodoro, Le Etiopiche.
[108] Zanini,
Significati del confine, cit., pp.74-105.